martedì 27 luglio 2010

Ultimo fandango a Siviglia: Don Giovanni dal Festival d'Aix-en-Provence

E' trascorso qualche giorno dalla diretta ARTE del Don Giovanni dal Festival d'Art Lyrique d'Aix-en-Provence. Produzione ovviamente prestigiosissima anche e soprattutto nella firma registica, requisito imprescindibile per l'opera e per il pubblico che "contano", oggi come oggi. Una diretta accolta, nel suo divenire e al termine, da imbarazzati silenzi e copiosi fischi della sceltissima platea, che ha replicato, con maggiore foga, il dissenso testimoniato l'anno scorso in occasione dell'Idomeneo, spettacolo parimenti "intelligente".
Anche noi brutti cattivi e ovviamente ignorantissimi del Corriere abbiamo seguito la diretta e avremmo alcune cose da osservare. Per evitare lungaggini, e anche per condividere con altri la "gioia" della rinnovata audiovisione e riflessione su quanto visto e ascoltato, ci siamo divisi i compiti. Cedo quindi la parola alle colleghe C. Marchisio (che ci parlerà del protagonista, del Commendatore e di Zerlina) e Brandt (che si occuperà invece di Leporello, Don Ottavio, Donn'Elvira e Masetto) e ritornerò in chiusura per dire due parole su Donn'Anna (anzi, facciamo tre, perché una la dico subito: spaventosa), nonché sulla direzione e la regia. - A.T.



Alcuni dei cantanti “in gara” rasentano i confini della parodia involontaria (d’altra parte il clima è quello del concorso…).
Il Don Giovanni di Bo Skovhus, “specialista” del repertorio dapontiano con qualche incursione nell’operetta, è una sorta di macchietta a metà strada tra la paranoia di un Kinski herzoghiano e l’immortale rimando al Paul di rue Jules Verne della Parigi di Bertolucci (pure la stessa illuminazione sembrerebbe richiamare le tonalità calde e pastose di Storaro). Ma, inutile dirlo, è un azzardo da fegato in piena forma. Perché Tcherniakov dimostra in questo modo non solo di farsi beffe di Da Ponte, ma di non aver compreso nulla nemmeno del capolavoro con Marlon Brando. Rimangono tuttavia quisquilie da tè delle cinque a confronto di quel che abbiamo sentito.
Skovhus vocia sporco, non c’è nulla che rimandi a una certa soavità d’emissione. Quando non si avvale del colpo di glottide, canta sempre aspirato, l’aria si impadronisce dell’apparato fonatorio e di conseguenza la riserva di fiato finisce per avere il volume di una spira di vento in una camera pressurizzata… Facile prevedere quali possano essere le conseguenze di una tale “maleducazione” al canto: una su tutte, l’obbligo ad inspirare a ogni sillaba. Debiti di fiato si riscontrano ovunque qua e là nel corso della rappresentazione, ma bastino i primi versi di sortita, quel «taci e trema al mio furore» ripetuti due volte su due ai limiti dell’apnea. Al centro il suono esce piuttosto aperto, come succede per buona parte del famoso duetto “Là ci darem la mano”, in cui quegl’«ANdiam - ANdiam» sono un re3 e un mi3 rispettivamente l’uno orchesco, l’altro stonato.
Una dizione approssimativa, causa di effetti acustici indistinti, si rileva nel pur celebre assolo “Finch’han del vin”, altrimenti noto come “aria dello champagne”. Qui addirittura le sillabe vengono pronunciate per due terzi, le parole farfugliate quando non direttamente inghiottite. Un inno all’ebbrezza? Sì, quanto qualche metro sul lungomare, maglioncino in spalla.
Davvero vergognosa infine la serenata in forma di canzonetta (“Deh, vieni alla finestra”) che Don Giovanni dedica alla cameriera di Donna Elvira (almeno nel libretto: qui, chi può dirlo?). La linearità della melodia, di tessitura medio-alta, tutta a cavallo del passaggio, nella fattispecie mai risolto, restituisce l’esperienza della guida di un pedalò con le onde alte: suoni fissi e calate d’intonazione in successione degne di un grafico gaussiano. A conti fatti, alle orecchie arriva un canto che fa quasi perdere i sensi: anestetico e ipnotico quanto l’assurda messinscena che lo incornicia.
Un disastro anche la Zerlina di Kerstin Avemo, che ha il suo limite più triste nella completa mancanza di legato (con tali “doti” diventa naturale per i teatri scritturarla come Gilda, mi pare chiaro…). Non parliamo poi del timbro infausto e dell’emissione dura e ruvida come carta vetrata, “qualità” che poco si addicono a momenti di provocante abbandono, come per esempio l’aria “Batti, batti, o bel Masetto”. Fin dal recitativo d’entrata, la signora Avemo tradisce da subito un suono senza proiezione, soffocato in bocca, mentre già sul secondo «batti» arriva sfiatata (ovvio, l’attacco è parlato), e la salita all’acuto («STArò lì», «Agnellina») rimane impiccata in gola (se possiamo parlare di acuti, considerato che si tratta di un fa4!) e quasi mai a fuoco («LE tua botte»). Si salva giusto il passaggio su «non hai core», ma l’invocazione “Gente, aiuto, aiuto gente!”, nella scena del ballo, è un urlo ferino. Nessuna nota distintiva da rilevare nella seconda aria (“Vedrai, carino”), che dovrebbe se non altro esibire, con la sua dichiarata semplicità, una linea seducente ed elegante. E invece…
Poco da dire pure sul Commendatore di Anatoli Kotscherga. Credo siano sufficienti i quattro la2 su «LASCIALA INdegno» del verso di sortita, emessi con derivazione stomacale e con un declamato vicino al parlato, per riconfermare un’altra volta la bontà del canto del basso ucraino. Forse per infondere una certa autorità (primo atto) e una dose di potenza ultraterrena (secondo atto), gli attacchi vengono ogni volta accentati con violenza e buttati lì con piglio più che grossolano (su tutti, il re3 su «BAttiti!»). Il breve terzetto che tratteggia la scena dell’uccisione del Commendatore è invece un amalgama di stonature e fissità di difficile sopportazione, mentre il rientro in pista come statua funebre va segnalato per l’accentuazione di suoni ancor più cavernosi e intubati della performance iniziale.
Carlotta Marchisio





Serate come quelle regalate con tanta solerzia da Aix-en-Provence sono destinate a marchiarsi indelebilmente nella memoria per essere in futuro utilizzate come metro di paragone per ulteriori avvenimenti epifanici che solo il teatro d’opera odierno sa regalarci con così tanta dovizia!
Quante forti emozioni hanno invaso le mie membra di fronte a sconvolgimenti musicali, canori e registici di tale potenza da ribaltare la storia dell’opera e del “Don Giovanni” in particolare!
Ancora mi devo riprendere…
E’ bello ad esempio vedere in scena un attore così fascinoso e disinvolto come Kyle Ketelsen vestire i panni di un Leporello emo e parassitario con il ciuffo piastrato, il gusto nel vestire così e moderno, che gli permette accostamenti arditi come scarpe da tennis e abiti eleganti, per poi muoversi con la carismatica vivacità della giovinezza. Ah, dimenticavo, il nostro Kyle possiede anche doti canore: ti rapiscono sicuramente la particolarità del timbro, virile e gradevole, più baritonale che da basso, nel registro centrale ed altrettanto la ruvidezza della voce poggiata solo sulle corde vocali, a disagio già con i Si, i Do, i Re sopra il rigo che risultano granulosi; ma come si può appoggiare la voce e cantare sul fiato quando c’è una immedesimazione totale come in questo caso?
C’è però il fraseggio, perdiana, che lo rende ancora più moderno!
Fraseggio concentrato sull’obiettivo di far apparire Leporello il più possibile sfacciato e briccone; dunque l’interminabile noia che si respira sia in “Notte e giorno faticar”, nell’aria del catalogo, che in tutto il II atto, compresi gli interventi con il Commendatore, sono in realtà “efficaci” strumenti espressivi… di cui però continuo ad ignorare l’efficacia! L’attore, poi è così travolgente e prevaricante che anche il canto viene dimenticato a favore della recitazione; abbiamo dunque dei recitativi parlati invece che cantarli o, se proprio è costretto a ricordarsi delle note, il buon Kyle trasforma la propria emissione attraverso un sapiente gioco di suoni gutturali.
Che colpo di genio registico poi farlo cantare con la bocca piena di cibo durante il terzetto delle maschere! Molto commovente!
Cosa dire del Don Ottavio di Colin Balzer? Sicuramente siamo un gradino al di sopra (o al di sotto; non fa differenza a questo livello) di Ketelsen: cosa importa se la pronuncia è discutibile, la voce linfatica ed ectoplasmatica che galleggia allegra e beata sul nulla nel registro centrale e che si schiarisce ancora di più stimbrandosi a partire dal passaggio di registro rigorosamente emesso di gola, tanto da trasformare in sbuffi d’aria note come i Mi, Fa, Sol? Cosa importa se la vocalizzazione legata lo trova a mal partito e particolarmente pasticciato nel duetto “Fuggi, crudele, fuggi” con Donna Anna oppure in “Dalla sua pace”? Cosa importa se il canto è improntato sui più frusti dettami della “tecnica baroccara”, ovvero: voce spoggiata, evanescente, fissa non appena la linea sale, e con falsetti scambiati per mezze voci? Quando si ha a che fare con un attore del genere che si spoglia, ha innumerevoli e tragici amplessi con Donna Anna, bacia Masetto con passione (una rivelazione da brividi eh) e sa sedersi a tavola, tutto il resto passa, vuoi o non vuoi, in secondo piano! Questa è “vera vita teatrale”, sveglia gente! Ah, ovviamente di accento nemmeno a parlarne…
Sublime, alle soglie del capolavoro la Donna Elvira di Kristina Opolais: la natura e la tecnica le hanno offerto uno strumento “formidabile”, una voce che sarebbe adatta ad essere una… discreta Zerlina si cimenta con Donna Elvira. Ma si, va bene tutto! Se oggi Zerlina canta Norma, perché farsi problemi con Donna Elvira? Quali emozioni suscita ascoltare un registro centrale sicuramente sonoro, ma emesso tra naso e gola! Quali rapimenti ascoltando le fissità o la fragilità delle note a partire dal Mi. Che immedesimazione di fronte alle due espressioni due riservate al fraseggio, e cioè: ridanciana per “Ah chi mi dice mai” e nervosa mestizia a partire da “Ah fuggi il traditor” fino alla fine. Quanta commozione si riversa nell’ascolto dei recitativi in cui la voce va giustamente indietro oppure nei duetti compitati perfettamente senza accento e senza chiarezza di dizione, con una elettrizzante vocalizzazione stentata. Nel “terzetto delle maschere” siamo vicini ad un coro sospeso tra Haendel e lo “Zecchino d’oro”. La sua Nedda scaligera spero mi convinca come questa sua magistrale interpretazione di Donna Elvira.
David Bizic, Masetto, usa con straordinaria perizia tecnica il suo poderoso registro di stomaco. Ed è tutto!
Marianne Brandt





Passatisti che altro non siamo, neppure riusciamo a concepire che si possa affidare Donn’Anna a una voce che non sia di soprano drammatico o almeno di lirico spinto. Questo non solo perché la figlia del Commendatore è figura tragica, animata dal furore della vendetta (che diviene oggi, mercé le paranoie del Régisseur di turno, ninfomania, frigidità, necrofilia, voyeurismo o quant’altro), ma perché questa è la tipologia vocale consegnataci dalla tradizione e immortalata fin dagli albori del disco. Le Anne “pesanti” in voga nel passato più o meno remoto (diciamo fino alla metà abbondante del secolo scorso) potevano accusare difficoltà in acuto (la salita al si bemolle nel terzetto delle maschere, che direttori abili e capaci potevano eventualmente assegnare, in alternativa, ad Elvira) e stentare nei passi di agilità (fino a giungere al doloroso taglio del rondò), ma certo non si facevano pregare quanto a potenza di suono, maestosità di fraseggio, accento di volta in volta terribile, sussiegoso e disperato, a seconda che fosse rivolto al seduttore, al fidanzato o alla memoria del padre. Peraltro è falso che queste Anne di grande calibro fossero tutte e indistintamente delle megere o, dio ne guardi, delle gelide matrone. Basti ascoltare il famoso live di Stoccarda del 1936, in cui Maria Reining tratteggia una figura certo imponente ma di voce dolcissima e suprema eleganza. Dolcezza ed eleganza sono per inciso appannaggio del suo Ottavio, Julius Patzak, non certo il prototipo del tenore di grazia nell’accezione e corriva corrente del termine.
Per tornare al mestissimo presente, Marlis Petersen, debuttante nella parte, ha voce adeguata a una Zerlina da cantarsi a Ludwigshafen o Brema (caratteristica che la accomuna peraltro alle sue colleghe in Aix) e una preparazione tecnica così scarsa, da renderle impossibile un canto degno di questo nome. I centri sono vuoti, gli acuti striduli e spoggiati, ma quel che è peggio è la transizione fra questi due registri: sul fa/sol4, nella zona in cui cadrebbe il secondo passaggio, ovvero di transizione fra centro e primi acuti, si odono suoni per i quali mancano gli aggettivi. Basti sentire, nel recitativo della scoperta del cadavere del Commendatore (che la regia trasforma in una sorta di prova generale di veglia funebre), gli attacchi “Ma qual MAI s’offre”, “MIO caro padre!””TINto e coperto del color di morte”. Tralasciando la velleità della puntatura al do acuto nella ripresa di “Ah! Vendicar quel sangue”, va segnalata la scarsa dimestichezza con la coloratura, che porta il soprano ad aspirare e pasticciare le quartine su “vammi ondeggiando il cor”. Difficoltà analoghe si riscontrano nella grande aria “Or sai chi l’onore” e soprattutto nel recitativo che la precede, affrontato con accento piagnucoloso e inerte, malgrado gli strilli generosamente profusi. L’assolo, complice un aborto di accoppiamento con Ottavio, prescritto dalla sceltissima regia, suscita nel pubblico parchi applausi e sonore riprovazioni. Crediamo sia un unicum nella storia esecutiva del pezzo, almeno per quanto documentato dal disco e dal video!
Quanto al rondò, che la sempre furbissima regia trasforma in una seduta di terapia di gruppo, modello “alcolisti anonimi”, siamo a un livello forse accettabile per una compagnia di dilettanti. Peccato che la signora canti non già in qualche salone parrocchiale, bensì al Metropolitan e, appunto, ad Aix-en-Provence.
A tenere le fila del tutto (e che fila, e che “tutto”!) Louis Langrée, che già si era illustrato nel titolo alla Scala qualche mese fa. Ma ovviamente la sua prova in questo contesto assume ben altra valenza, rispetto al "provinciale" contesto ambrosiano. In verità, non c'è nulla da aggiungere alla recensione di allora di Donzelli, se non che questa volta il direttore era scortato da un’orchestra baroccara d.o.c., la Freiburger Barockorchester. Più che a un intermezzo napoletano, viene da pensare stavolta a un masque di Purcell, vista anche la presenza, discreta, in tutti i sensi, del coro English Voices. Ovviamente non si contano gli attacchi sporchi, gli sfrigolii, le stecchette assortite (le tre orchestre del finale primo!), ma su tutto prevale una sensazione di noia ed esaurimento. C’è però da dire che un’orchestra del genere ha l’indiscusso pregio di non rischiare di soffocare le voci, e non si tratta, nel caso specifico, di impresa da poco.
E veniamo alla regia, intelligentissima, modernissima, sconvolgente, allucinante etc. Tcherniakov rilegge il Don Giovanni come una sorta di antesignano della Saga dei Forsyte o dei più moderni Dynasty e Beautiful, collegando i personaggi con rapporti di parentela più o meno balordi (Zerlina diventa la figlia di Anna) e collocando fra loro l’antieroe etilico Don Giovanni, marito di Elvira, nipote del Commendatore e quindi cugina di Anna. Forse il regista ignora che “sposo”, nel libretto di Da Ponte, designa semplicemente il fidanzato, e non già il marito, e comunque non appare ragionevole supporre che Giovanni abbia mai avuto serie intenzioni nei riguardi della dama di Burgos. Archiviata la morte del Commendatore come un episodio di violenza domestica (in cui assume un ruolo di primo piano la stessa Anna, vista come una sorta di Emma Bovary libidinosa e bipolare, o se si preferisce, come Brooke di Beautiful, tanto per restare in tema, o meglio, fuori tema), il regista prosegue nell’esplorazione di questo microcosmo alto borghese di sua invenzione, seguendo solo sporadicamente le indicazioni di Mozart e Da Ponte. Assistiamo così a scene madri (il quartetto in cui tutti si preoccupano della traumatizzata Zerlina), orgette in maschera in odore di Eyes wide shut, giochi di ruolo (i travestimenti di Don Giovanni e Leporello nel secondo atto, resi, più che incomprensibili, inutili dalla piena luce e dalla presenza costante di tutti i personaggi in scena), sino al finale, in cui Don Giovanni ha un infarto perché gli altri hanno noleggiato un attore travestito (maluccio) da Commendatore. Ovviamente non mancano e non mancheranno critici e commentatori capaci di indicare in questo spettacolo (peraltro gestito assai bene a livello teatrale, sia pure con i limiti derivanti dal décor unico: una stanza in casa del Commendatore, che diventa di volta in volta salotto, camera ardente, corridoio e sala da pranzo) una pagina cruciale nella storia degli allestimenti del Don Giovanni. Più modestamente riteniamo che, per vedere una brutta imitazione di Ibsen e Sartre, tanto valga assistere a una rappresentazione di Spettri o Huis clos. Riteniamo altresì simili allestimenti, prima ancora che offensivi della dignità di chi li subisce (i cantanti) e di chi vi assiste, indicativi di una fiducia così scarsa nelle potenzialità dei testi da allestire, e di un interesse così debole nei loro confronti, che viene spontaneo chiedersi perché mai questi eccelsi registi non si dedichino ad altri testi (e nei casi più gravi, ad altri mestieri).
Notevole anche il "backstage" proposto da ARTE, in cui si poteva assistere a una sfuriata del regista, indignato con i tecnici che avevano mal collocato le poltrone in iscena. Quando si dice la vocazione dell'arredatore d'interni!
Antonio Tamburini





2 commenti:

mozart2006 ha detto...

Complimenti, tutto perfetto.
Però non avete adeguatamente messo in risalto la sublime intuizione delle Zerlina abbigliata da bimbominkia fan di Twilight...

Velluti ha detto...

Non riesco ad aprire i files!!! Please, help me :(