martedì 18 maggio 2010

Monteverdi: Vespro della Beata Vergine 1610-2010

Avvenimento principale dell’edizione 2010 del Festival Monteverdi di Cremona, lo scorso 15 di maggio è stato eseguito nella suggestiva cornice della Chiesa di San Marcellino, il Vespro della Beata Vergine. Nell’occasione sono stati celebrati i 400 anni della partitura, pubblicata nel 1610 e composta mentre l’autore risiedeva a Mantova, alla corte dei Gonzaga. Allo stesso anno risale l’altro capolavoro sacro di Monteverdi: la Missa in illo tempore che verrà eseguita, sempre nell’ambito del Festival cremonese, il prossimo 25 maggio. Il Vespro è uno dei grandi capolavori della musica sacra e rappresenta, nell’intenzione dell’autore, una vera e propria summa del genere. Basato essenzialmente sul cantus firmus di matrice gregoriana – mentre la Missa a 6 voci è una raffinatissima rielaborazione della polifonia di scuola palestriniana – è una partitura estremamente complessa e dalle proporzioni monumentali. Sia la libertà di struttura con cui Monteverdi tratta i salmi biblici, inframezzati da inni e concerti (di chiara origine profana), sia il previsto accompagnamento strumentale, tradiscono la natura extra liturgica della composizione.

Un lavoro concertante, cioè, destinato all’ascolto: una sorta di idealizzazione della musica sacra, una sperimentazione delle ampie possibilità espressive connesse a quel genere musicale (trattato con estrema libertà dal virtuosismo compositivo monteverdiano) svincolata dall’occasione liturgica e destinata ad una ristretta cerchia di intellettuali, artisti, cultori della musica. Operazione, dunque, analoga all’esperimento dell’Orfeo (a cui lo stesso Vespro rende omaggio, esplicitandone il collegamento ideale, con la citazione della Toccata con cui si apre il pezzo): anche questo, infatti, è un lavoro che solo formalmente ha natura teatrale, ma si sa che fu piuttosto un esperimento teorico, un’opera ideale, che non aveva, sia per struttura che per forma, alcun legame con la coeva pratica teatrale (si pensi a quanto differisca anche dai lavori dello stesso autore, quelli veramente destinati alla scena e non ad un’accademia o ad un circolo culturale).
Il Festival cremonese affida l’esecuzione della partitura a Ton Koopman e ai suoi prestigiosi complessi (Amsterdam Baroque Orchestra e Amsterdam Baroque Choir). Koopman è una delle personalità di primo piano della prassi esecutiva “autentica”. Allievo di Gustav Lehonardt (uno dei pionieri della filologia barocchista), è esponente di spicco della cosiddetta scuola olandese, e coerentemente ai suoi assunti teorici, ha una visione scarna e minimalista della prassi e del modus di eseguire la musica barocca. L’orchestra è ridotta all’osso, il suono è asciutto e trasparente (di chiarezza quasi cameristica: l’Amsterdam Baroque Orchestra, difatti, è composta essenzialmente da solisti), il coro è formato da pochi elementi (che eseguono anche le parti soliste). Al contrario di altri suoi colleghi, Koopman ha limitato il suo repertorio alla musica propriamente barocca, spingendosi solo in rare occasioni a Mozart, e concentrando il suo interesse su Bach in particolare (di cui ha realizzato una monumentale incisione di tutte le cantate sacre e profane) e Buxtheude (di cui è in corso la registrazione dell’Opera Omnia). Al contrario di altri suoi colleghi, dunque, Koopman non ha mai ridiscusso i suoi modelli teorici e interpretativi, ancorati ad un rigore quasi calvinista e ad una estrema rigidità esecutiva. Proprio a causa di questo autoisolamento, tuttavia, risulta del tutto impermeabile (a differenza dei più recenti sviluppi degli ensemble specialistici, finalmente preoccupati anche del bel suono) ad influenze esterne al ristretto ambito della prassi barocchista e alla rigida osservanza dei dogmi baroccari: orchestra di proporzioni cameristiche, riduzione del coro quasi alle sole parti reali (prassi suggerita come autentica da alcuni specialisti del settore, i più estremisti, e che applicano arbitrariamente anche alle passioni di Bach, trasformando, di fatto, i grandi corali in quartetti per solisti), un suono secco ed arido (dovuto anche alla mancanza di varietà strumentale dell’ensemble), dinamiche esasperate e tendenzialmente risolte nel forte e mezzo forte (impoverendo così la qualità timbrica dell’esecuzione che risulta poverissima di sfumature ed espressione), tempi non troppo spediti, ma monotoni e meccanici, assenza totale di cenni di vibrato e mancanza completa di colore e calore. Non fa eccezione l’esecuzione di questo Vespro: non molto convincente. Due i tipi di rilievo che muovo a Koopman: la realizzazione musicale e le forzature musicologiche. Il Vespro della Beata Vergine è un lavoro di ampie proporzioni: ben sette solisti (con effetti di eco) e un coro che in taluni punti è chiamato a cantare a 10 voci o a dividersi in due blocchi, oltra all’orchestra (Monteverdi stese solo le parti del violino e dei cornetti, oltre alle linee del basso, ma – secondo la prassi dell’epoca e dell’autore – non significa che l’orchestrazione si debba limitare a ciò che è scritto: come sempre spetta all’esecutore arricchire il ripieno, elaborare il basso, costruire l’accompagnamento strumentale, secondo lo stile adeguato all’epoca, agli intenti del musicista e all’occasione; senza dimenticare che ai tempi di Monteverdi la scelta degli strumentisti e la conseguente elaborazione strumentale dipendevano da circostanze contingenti). Mentre Jacobs, Gardiner e Savall (per citare i più esuberanti esecutori del Vespro) optano, nelle loro incisioni, per orchestre ricche e sontuose, nell’intento di creare sonorità varie e lussureggianti (finalizzate a mostrare la monumentalità dell’impianto monteverdiano e la meraviglia che tendeva a suscitare nell’ascoltatore: e non la devozione del fedele, attesa la natura concertante del lavoro), Koopman schiera un violino solista (più un secondo di ripieno), tre tromboni e tre cornetti (creando così un grave squilibrio tra strumenti a fiato e archi, che rimangono sopraffatti), oltre al continuo affidato all’organo, a un contrabbasso e ad una dulciana (una specie di fagotto che ha suscitato diversi interrogativi nei mie vicini di posto, circa l’individuazione dello strumento), infine un cembalo, utilizzato solo saltuariamente da Koopman nell’accompagnare i brani solistici. Il coro era appena sufficiente a coprire i brani a 10 voci e lo sdoppiamento previsto in taluni pezzi non era per nulla percepibile. I brani solistici, affidati a membri della stessa compagine corale, suscitava più di una perplessità: ben diverse, infatti, sono le difficoltà per il coro e quelle per i solisti. Salvo il primo tenore e il primo soprano, nessuno degli altri cantanti è riuscito ad eseguire in modo decente la sua parte (pessimo il secondo tenore, che faceva l’eco al primo in alcuni pezzi, e i bassi; appena mediocre il secondo soprano). Peraltro l’esiguità degli interpreti ha ingenerato alcuni momenti di imbarazzo: tra un brano e l’altro si assisteva alla corsa di uno dei corsiti da una parte all’altra del palco (passando per il retro), per raggiungere l’altro gruppo. Nel contempo, durante le antifone gregoriane, Koopman lasciava il cembalo e si dirigeva lentamente verso l’organo, prendendo il posto della musicista e accompagnando con accordi elementari il quartetto salmodiante. Questa inutile operazione (non si comprende il senso per cui Koopman in persona dovesse suonare l’organo in quei brani, molto piani e semplici, laddove ben avrebbe potuto farlo la sua brava collaboratrice) creava imbarazzanti minuti di silenzio e rumori assortiti (sedie spostate, leggii, scarpe che battevano sulle assi). Una soluzione macchinosa che smaschera certe pretese baroccare e certe oggettive difficoltà, confermando come il Vespro sia partitura che richiede un certo numero di esecutori, non essendo evidentemente sufficienti quelli proposti dal filologo olandese. Si aggiunga che queste continue e frequenti interruzioni compromettevano, non di poco, la tensione e l’atmosfera creati dalla musica di Monteverdi! Allo stesso risultato (anzi, ad un risultato ben peggiore) ha portato la lunga pausa resasi necessaria per riaccordare tutti gli strumenti appena prima dell’Ave maris stella e del Magnificat finale (eseguito nella versione a sette voci e strumenti): un calo di attenzione e di tensione che ha di fatto compromesso la parte finale (la più grandiosa ed emozionante) della costruzione monteverdiana!
Il secondo rilievo riguarda i presupposti musicologici: il Vespro è lavoro extra liturgico e, per la stessa struttura, non può essere assimilato ad alcuna funzione religiosa. Che senso ha aggiungere tra un salmo e l’altro delle antifone tratte dal messale gregoriano? A parte l’arbitrio della scelta delle medesime, è l’intento ad essere scorretto: cercare di trovare agganci alla liturgia tradisce le finalità dell’autore! Purtroppo oggi è prassi comune l’inserimento di brani gregoriani scelti dall’esecutore. E’ certamente un peccato veniale e, seppur scelta musicologicamente scorretta, non è priva di un certo fascino estetico, se ben fatta: qui è fatta molto male, con un corista che corre dietro al palco per raggiungere gli altri (all’estremo opposto) e cantare l’antifona, e senza nessuna continuità con la struttura musicale (le lunghe pause che ne inframezzano l’esecuzione sono mortifere). Infine trovo di cattivo gusto concludere il Vespro non con l’Amen di Monteverdi, ma dopo la fine dello stesso, con un’ultima antifona salmodiata dal solito gruppetto con corista corridore!
Alla fine successo trionfale, tributato da un pubblico disattento e poco consapevole di quel che stava ascoltando (taluno si “stupiva” del fatto che venisse eseguita la “versione in latino”…). Evidentemente soddisfatto per i tanti applausi (francamente eccessivi) il simpatico Koopman, tra plateali strette di mano a tutti i suoi collaboratori e sorrisi che avrebbero fatto invidia all’attuale presidente del consiglio, ha concesso un bis! Serata tutto sommato piacevole (grazie a Monteverdi e alla splendida chiesa di San Marcellino), ma priva di quel trasporto che una musica di questo genere dovrebbe suscitare! Continuo a suggerire le belle incisioni di Gardiner, Garrido o Savall.

13 commenti:

Francesco Benucci ha detto...

Koopman non è mai stato capace di avere un approccio positivo con il barocco italiano. e soprattutto con tutta quella musica che si situa tra 500 e 600 tra cui lo stesso Monteverdi: basti pensare a quelle noiosissime e pesantissime quattro stagioni vivaldiane con l'inglese Manze o alle sue esecuzioni delle musiche romane del 500.
con il mondo tedesco ha avuto sempre più facilità: ricordo la sua messa in si minore di Bach che a parte qualche imperfezione e carenza di suono nel complesso era stata abbastanza piacevole, il suo messiah interesante e corretto, o per andare più avanti con gli anni il disco dei concertie divertimenti per clavicembalo di Haydn con un complesso molto misurato ed equilibrato.
certo, non è mai stato una stella della filologia musicale nordeuropea: ha sempre avuto il vizio della noia e della pesantezza (abbastanza mascherata su Bach). concordo col preferire Gardiner su monteverdi anche se il suono inglese (di cui avevamo già parlato) si sente e devo dire che sulla musica italiana non rende particolarmente bene.
sulla scelta dell'orchestra si è sempre lasciata molta libertà all'esecutore anche se negli ultimi anni i baroccari/barocchisti hanno il vizio di ridurre enormemente il numero di strumenti: per certe musiche l'esito può essere positivo (penso alle suite per orchestra di Bach dirette da Koopman) ma su certe cose, come il Vespro, ridurre l'orchestra non sempre risulta efficace.
ma sai, qui il discorso diventa più vago a mio avviso perchè rientra nell'oscuro e ambiguo ambito della filologia.

credo che il limite di molte esecuzioni di clan filologici sia quello di applicare presunte verità esecutive della musica barocca a tutti i costi, concetrandosi sulla messa in atto di queste e tralasciando quindi altri aspetti della musica: si farà più attenzione nella scelta degli strumenti d'epoca piuttosto che nel corretto suono del basso continuo, ci si preoccuperà maggiormente sulle corde di budello di un violino rispetto al suono di questo e in certi casi drammatici si sperecherà più tempo nella disposizione degli orchestrali nel concerto secondo una finta prassi antica piuttosto che nella complessiva resa acustica e timbrica.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Sono sostanzialmente d'accordo: spesso, nell'ambito degli specialisti più intransigenti, ci si concentra sulla realizzazione e applicazione delle teorie, piuttosto che sulla riuscita musicale. Anzi, spesso la si sacrifica scientemente pur di non scostarsi da certi presupposti (dogmi?) teorici. E così ci si trasforma da musicista a freddo burocrate e l'esecuzione assomiglia molto alla pedissequa applicazione di un regolamento amministrativo. Questa è la sensazione chi mi ha dato Koopman, evidentemente a disagio con le libertà, anche formali, insite nella musica di Monteverdi. E' grave non rendersi conto della palese insufficienza numerica del coro, tanto da dover far correre alcuni membri avanti e indietro per unirsi a questo o quel gruppo. E' grave non pensare che se i solisti sono parte del coro, quest'ultimo risulterà indebolito nei brani in cui questo accompagna i primi (se si dispone di 3 tenori e due sono impiegati nei brani solistici, nel coro ne resta uno soltanto...con tutti i conseguenti squilibri). E' grave, per un filologo, limitarsi alla nota scritta e non considerare la prassi esecutiva dell'epoca: soprattutto nel continuo vero corpo dello strumentale (la splendida esecuzione dell'ensemble di Garrido, schiera nella sola sezione del basso continuo ben 10 strumenti, per tacere dei due cori, degli 11 solisti, dell'orchestra e della formazione di cornetti e tromboni). Ma poi, anche volendo adottare una orchestrazione scarna, non per questo deve essere anche meccanica e grigia.
Il Monteverdi di Gardiner, secondo me, è splendente...soprattutto lo strumentale ricchissimo. Certo la pronuncia tipicamente anglosassone compromette molto l'efficacia del recitar cantando, ma nel Vespro, tutto sommato, il problema è poco o nulla percepibile.

ლუკა ნახუცრიშვილი ha detto...

Un specialista del barocco che rispetto molto e considero come il miglior interprete degli autori rinascimentali e barocchi, è Herreweghe. Ha una rigorosa visione filologica, ma unita con una grande beltà e nobilità della materia orchestrale. Credo che sia anche il piu grande maestro in merito al trattamento dei cori (Orlando di Lasso, Bach, Monteverdi...). La sua visione è sempre piu orientata verso una omogeneità o una omogeneizazione della polifonia, ma questo non vuol dire che Herreweghe spegna la polifonia. Al contrario, la fattura corale è mai cosi distinta e, allo stesso tempo, unita come nelle interpretazioni di Herreweghe.
Gardiner insiste sempre su una disomogeneità che lascia proprio cosi, ch'egli mantiene appunto in questa condizione. Per esempio, le alternanze dei gruppi che si echeggiano mutualmente nel Vespro della beata Vergine: Gardiner accentua materialmente la differenza e produce cosi una sensazione di unità, mentre Herreweghe accentua piuttosto l'unità sonore, aprendo dal di dentro la differenza e la polifonialità.
Savall appartiene certamente piuttosto al fianco di Gardiner; trovo anche che Savall è molto piu impressionante e, in un certo senso, piu "selvaggio", c'è una aggressività elementare che mi piace molto.
Sono assai distanziato contro Jacobs, non accetto, per esempio, il suo approccio alle opere monteverdiane.
Qualcuno che considero come completamente brutale, è Harnoncourt. Per il suo Bach, Haendel, Monteverdi, Mozart (!) - un grande NO.
Sono assoluttamente d'accordo sulla critica contro Koopman di cui la visione di Bach o Buxtehude trovo stretta, rigida e anche noiosa. Non conosco il suo Monteverdi, ma sembra che non abbia cambiato anche qui.


A parte le opere liriche e sacre di Monteverdi, vorrei sapere quali gruppi vocali specialisati sulla musica a capella e madrigalistica (Gesualdo, Palestrina, Monteverdi se stesso, etc.) dell'epocha rinascimentale e del "Frühbarock" stimate.
Io sono sempre fascinato dal Hilliard Ensemble (Tenebrae di Gesualdo, Palestrina, Ockegem, anche mottetti di Bach...) e A Sei Voci (il loro Josquin Desprez, ad esempio). Ho in orrore Tallis Scholars e tanti altri gruppi (nella maggior parte anglosassoni!) con il loro canto sterile e soporifero.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Cara Giuditta: condivido pienamente quello che dici. Anche se non ritengo Herreweghe il miglior interprete di Monteverdi, ritengo la sua esecuzione della Missa in illo tempore un vero capolavoro. Preferisco Savall, Garrido e Gardiner (per certe cose). Mi piace molto La Venexiana e Vartolo. E non mi dispiacciono I Fagiolini, anche se credo che Monteverdi e il repertorio madrigalistico italiani vadano eseguiti da chi conosce alla perfezione lingua, pronuncia e prosodia italiana. Ascolterò i Tallis Scholars il 25 maggio con la Missa in illo tempore, ma salterò l'Hilliard Ensemble...non mi convince il programma proposto a Cremona.

Trovo, come te, inascoltabile il Monteverdi di Jacobs: tutto sbagliato.

Francesco Benucci ha detto...

Jacobs non lo amo soprattutto per la sua pessima abitudine di rileggere mozart e haydn in chiave eccessivamente filologica (come del resto Gardiner, anche se con esiti più felici). su harnoncourt invece non sono d'accordo: spesso si abbandona ad interpretazioni discutibili ma definirlo brutale mi sembra eccessivo.
comunque per il repertorio in questione (monteverdi, palestrina, gesualdo...) a me piace molto alessandrini: riesce, pur dando una interpretazione inevitabilmente filolgica, a mantenere una linea corretta e piacevole, un equilibrio sempre gisuto e un suono bello.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Sì, Jacobs - soprattutto nelle sue ultime prove - dimostra una visione piuttosto ristretta, riducendo tutto ad un'estetica addirittura prebarocca. Il suo ultimo Mozart, ad esempio, è terribile, arbitrario, tutto strappi e strepiti. E poi si disinteressa completamente del canto (non si spiega altrimenti l'infimo livello dei suoi cantanti). Il problema è che le sue letture appaiono monotone, chiuse, involute (per certi versi è così pure il Mozart di Gardiner, ridotto ad una figurina rococò ad una decorazione da tazzina da tè)
Invece Harnoncourt mi piace di più (ma non il suo Monteverdi con quei cantanti dalla pronuncia ostrogota).

ლუკა ნახუცრიშვილი ha detto...

Il Monteverdi di Harnoncourt ascolto solo quando voglio (ri)vedere le tre opere monteverdiane nella versione cinematographica del genio Ponnelle. Devo dire che, come nel caso di tutte le altre opere filmate di Ponnelle, questi tre film hanno maggiormente contribuato alla mia comprehensione della musica monteverdiana. Non conosco un altro regista chi possa spiegare con tanta lucidita e intuizione l'ambiente musicale, la musicalita della musica operistica.
Perdonatemi questa deviazione, ma quando ho un'assoziazione con Ponnelle, non posso trattenermi. :)

http://www.youtube.com/watch?v=qBhJbws1i0c


Riguardo al specialista in questione nella recensione, Koopman lo vedro qui a Wuppertal in un mese nel un programma costituito esclusivamente dai concerti per 2 e 3 cembali di Bach. Penso che saro piuttosto soddisfatto, poiche non ci sara implicato il problema che crea a priori il suo trattamento dei cori e della vocalita in generale.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Quelle regie di Ponnelle sono un vero capolavoro...e come dici tu giustamente, sono fondamentali per capire il teatro monteverdiano!

Semolino ha detto...

@ Duprez : per me resta un mistero inspiegabile il fatto che ti piaccia una scostumata della vocalità come l'oscena Venexiana, sono tutti miagolii da casa chiusa!
Fra l'altro ho appena ascoltato, per disgrazia, alcuni passaggi della sua registrazione dell'Incoronazione di Poppea, e in particolar modo il famoso duetto pur ti vego. Sono tutti suoni durissimi di gola, le messe di voce sono spinte dal sotto in sù alla dilettante, con suono ora fisso ora barcollante, niente legato (et ti pare non canta sul fiato) quindi parla, anzi sproloquia con una concitazione tutta esteriore, per non parlare dei passaggi aspirati, e poi è stonata, tanto stonata! Il solo punto positivo che costei possiede in rapporto alle baroccare franco-anglo-tedesche è la pronuncia, e basta.
Si potrà anche tirare in ballo la solita tiritera che Monteverdi non va cantato come se fosse opera, cioè con un canto stentoreo e altisonante, questo è vero, almeno lo è per l'Orfeo, per la Poppea esistevano già i grandi teatri in cui bisognava avere proiezione. Ma l'oscena scostumata proprio rantola non impostato, secondo la più bieca tradizione baroccara venuta dal Nord. Ricordo che all'epoca di Monteverdi la voce era già impostata come lo fù dopo ai tempi di Haendel e poi di Rossini, è lo stile che ha subito una evoluzione e non il modo di impostare l'emissione, a prova di quanto sostengo (e poi i versacci di gola della vil cortigiana arrivista sono poprio inverecondi, pare sia nata dall'improbabile accopiamento fra la Petibon e la Kermes, ma da queste abbandonata quindi educata poi dalla Kirby) per riprendere il discorso, riporto quanto segue per provare che ai tempi di Caccini e Monteverdi il canto era già impostato : Monteverdi spiega, in una lettera ad Alessandro Striggio nel 1627, che bisogna unire la voce di testa a quella di petto. Ora, anche un somaro sa che il solo modo per unire, come avrebbe poi scritto il Mancini i due "divisati" registri, è quello di appoggiare tutti i suoni nello stesso punto di risonanza e cioè nella maschera! La Venexiana è tutta una melopea di gola e di bocca, disomogenea comme une purée ratée allorchè Francesco Patrizi nel 1577 parlando del soprano Tarquinia Molza scrisse "delicato EGUALE e soavissimo" e oltre aggiunge "che i musici sogliono appellare ROTONDO, che tanto vale di sotto, quanto in mezzo, e di sopra" : voce omogenea e rotonda che nasce solo coll'immascheramento perfetto!!!
Poi fra i baroccari ci sono stati anche quei ciarlatani della vocalità che sono andati sostenendo che una voce impostata è incompatibile con una pronucia chiara che da importanza massina alla parola, hanno voluto far credere che un cantante impostato, da loro venne definito come "lirico", non poteva rendere giustizia al dettato monteverdiano. Tutte baggianate : una voce impostata non è incompatibile con una dizione chiara e con una messa in valore della parola in tutte le sue sfumature poichè la voce impostata è sempre stata usata anche dagli attori di teatro, quelli veri ben inteso e non i ciarlatani d'oggi.
Vincenzo Giustiniani nel Discorso sopra la musica dei suoi tempi , nel 1628, a proposito della voce e del canto scrive " col moderare e crescere la voce forte o piano, assottigliandola o ingrossandola" in poche parole parla delle messe di voce e della dinamica sfumata, cose che si possono ottenere solo cantando SUL fiato e non come fa la Venexiana COL fiato, perchè si sente chiarissimamente la scostumata attacca il suono di gola, è lì da ascoltare.
Ciao ciao

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Devo dirti che quella Incoronazione mi ha deluso molto... Però la Venexiana mi soddisfa, soprattutto nel repertorio madrigalistico. La ritengo molto diversa dalle solite compagini baroccare.

Invece mi piacciono molto e senza riserve le incisioni di Vartolo delle tre opere. Le conosci? Che ne pensi?

Semolino ha detto...

Non le conosco, magari un giorno le ascolterò.

Semolino ha detto...

Lo dissi già ma lo ripeto volentieri, il solo Monteverdi da me ascoltato e che mi soddisfa pienamente sia some canto che come stile ed interpretazione è quello di Teresa Berganza. Non ne ha cantato molto, ma quel poco mi basta.
Forse ti piacerà la Venexiana perchè contrariamente alle sue colleghe d'oltr'alpe non ha una pronuncia ostrogota, cosa fondamentale in Monteverdi.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

In parte sì...nel senso che sentire il Monteverdi storpiato da certi gruppetti inglesi o tedeschi è qualcosa di odioso! Poi considero il madrigale assai diverso dall'opera e credo che lì certi vezzi (o vizi) baroccari, siano meno fastidiosi.

Il Monteverdi di Vartolo, secondo me, è completamente diverso dalle solite compagini specialistiche, soprattutto per l'attenzione dedicata al canto. Innanzitutto la pronuncia (sono quasi tutti italiani) e poi i cantanti scelti, nell'Orfeo e nell'incoronazione, ad esempio, canta Matteuzzi (nei ruoli di Orfeo e di Ottone).