dopo la felice esperienza del Ballo parigino di qualche mese fa, il Corriere dedica nuovamente spazio alle recensioni dei lettori, nella fattispecie Tripsinogeno e Fantedipicche, che hanno assistito per noi alla Sonnambula allestita all'Opéra di Parigi con Natalie Dessay, Javier Camarena, Michele Pertusi e la direzione di Evelino Pidò. Ringraziandoli per la disponibilità e...lo sprezzo del pericolo!, cediamo loro la parola.
“No, più non reggo”. La Sonnambula all’Opéra Bastille
Non è poi così difficile. Deludi un’aspettativa, la riconfermi pochi istanti dopo e ottieni pure la benevolenza dei battimani. E’ andata più o meno così alla prima della Sonnambula, all’Opéra Bastille di Parigi, nuovo ecomostro sorto ad affiancare il “vecchio” Palais Garnier. Un signora dal tono sconsolato esce sul palco: “Natalie Dessay est souffrante…”. Il pubblico: “Ohhhh!!”. Fischi e buu. Ma la signora, subito sorridente: “Mais malgré sa pharyngite, elle a decidé d’assurer la représentation…”. Boato e visibilio generale. Nulla di nuovo. Dai divi alle prese con repertori al limite delle proprie potenzialità vocali (Flórez a Bologna nel quasi debutto dei Puritani) ad altri artisti “in carriera” (Albelo, nella stessa occasione, ma senza portare a casa la recita…), la tentazione al facile procacciamento di indulgenze a buon mercato ha stuzzicato anche la furba stratega Dessay. Dunque, eccola in scena.
Dico subito che le condizioni vocali della diva mi sono sembrate peggiorate rispetto alla sua Amina newyorkese dello scorso anno, con cui non si possono evitare raffronti considerata la regolare riproposizione, per l’opera in questione, sia del direttore che di buona parte del cast, quasi si trattasse della tournée di una vecchia compagnia di teatro itinerante. Fin dall’entrata in scena, con la discesa su “compagne” nel verso di sortita, il soprano francese non riesce a nascondere le pecche di un mezzo vocale sbrindellato, dall’emissione piena d’aria, in particolare nei registri grave e centrale, che la tessitura della parte sollecita non poco. Ne vengono fuori dei recitativi monotoni, sbracati, completamente privi di qualsivoglia connotazione espressiva. Allora la sensazione è quella di trovarsi davanti a un personaggio volgarizzato nella parte (rischio peraltro ben diffuso quando si gigioneggia con le partiture belliniane). Una rozza, esangue pastorella – declinata per l’occasione nella mesta inserviente di un sanatorio – forse più vicina all’entourage un po’ ordinario del basco Nemorino che alla sublime solennità delle Alpi svizzere. Nella cadenza proposta nel secondo “da capo” nella cabaletta «Sovra il sen» (la prima ripresa è quasi priva di variazioni) produce un acuto stimbrato su «la man mi posa» e un altro gridato su «che i suoi contenti». Addirittura imbarazzante, come ulteriore prova del logoramento vocale in stato avanzato, gli accenti esibiti, nel duetto in coda alla cavatina di Elvino, su «Ah non ne ha d’uopo il core» e, poco dopo, su «il tuo con me restò», in chiusa, all’unisono. Il discorso non cambia su «Ah vorrei trovar parole» e sui due versi successivi, ad accompagnamento alla cabaletta del tenore, strascicati davvero con poco gusto (inutile dire che anche qui aspettarsi un suono rotondo, proiettato ed espressivo sarebbe grottesco come chiamare un miracolo a Lourdes). Stessa solfa nel recitativo e nell’aria «Ah non credea mirarti», in cui se aggiungete al solito centro dissestato qualche nota spoggiata e un’intonazione non certo indiscutibile… tirate voi le conclusioni! La parabola discendente termina (se dio vuole…) con l’esecuzione penosa del rondò. Dimenticatevi suoni fluidi, pienezza di cavata e disinvoltura nelle agilità. Solo affanno in gola e sgomento in volto.

A conti fatti, Dessay disegna un’orfanella completamente refrattaria all’abbandono, al “patetico”, all’elegia che una buona Sonnambula dovrebbe sempre almeno prendere in considerazione. Saranno pure evidenze e condizioni essenziali promosse da poveri passatisti, ancora attaccati alla sottana della Tetrazzini, ma sono questi i pilastri su cui deve poggiare ogni incursione nelle partiture di Bellini. Altrimenti, come in questo caso, ne vien fuori un’interpretazione un po’ forzata, nervosa, che in alcuni passaggi tradisce sul viso dell’interprete una tensione psicologica preoccupante, di cui solo dio può determinarne le cause: esuberanza registica o disagio dell’artista?
L’Elvino di Javier Camarena, tenore leggero avvezzo a ruoli donizettiani e rossiniani per la maggiore, ha un’emissione piuttosto morbida e limpida, almeno fino al passaggio superiore, oltre cui il suono si indurisce e la gola prende il sopravvento. Si esibisce in una cavatina con piglio passionale e una certa eleganza che mi ha fatto ben sperare. Peccato che da lì in poi la voce ha salutato platea e gallerie e il possidente svizzero si è trasformato in lupo mangiafrutta. Un esempio su tutti, l’attacco «No, più non reggo», che inframmezza l’aria finale di Amina, pronunciato con una durezza (e non sono andato a teatro sperando di sentire un Valletti o un Kraus…) tale da rendere quasi precario, per lo spavento, l’equilibrio della sonnambula, costretta a barcollare, per “esigenze registiche”, su una tavola messa a soqquadro da una tempesta di neve.

Michele Pertusi, promosso dall’establishment discografico come Conto Rodolfo di riferimento, è stato forse la vera delusione della serata. Non ha nulla della morbidezza di emissione e d’accento che dovrebbe possedere un autentico personaggio aristocratico, quale tradizionalmente si confà alla tessitura di basso. Eppure l’avevo trovato piuttosto in forma nel Don Pasquale bolognese, al suo debutto nel personaggio donizettiano. Qui, invece, il do3 sulla O dei «luoghi ameni» viene “dal profondo” e non è a fuoco, così come il reb3 su «io vi trovai» e il do3 sulla E di «a qual tu sei», nella cabaletta «Tu non sai con quei begl’occhi». Non solo. Oltre alla prima ottava sempre vuota, si esibisce con spavalderia grossolana, per altro con un declamato davvero volgare. Quando va bene, perché per la maggiore ho sentito una sorta di prova di scena di uno spettacolo preso direttamente dal teatro di prosa, cui mi aspetto venga presto destinato. Con i migliori auguri…
Sulle orme di una direzione artistica convinta che Lisa sia personaggio di contorno, alla stregua di una comprimaria di poco conto e non della vera antagonista, mi limito a constatare in Marie-Adeline Henry una voce acidula, refrattaria all’appoggio e berciante in acuto tre volte su tre. Misteriosa, considerata l’acerbità delle condizioni vocali della signora, la scelta di eseguire anche la seconda aria («De’ lieti auguri»), nel secondo atto, per altro con “da capo” (chiedere a Pidò).
Stesso discorso, ma di minor peso e quindi gravità, per la Teresa di Cornelia Oncioiu, che sarebbe scivolata via senza gravi danni se non avesse rovinato in toto, con urla da altoparlante al museo delle torture, il quartetto al secondo atto.
Nahuel Di Pierro (Alessio) è un (pessimo) attore di prosa.
La direzione di Evelino Pidò ha invece la responsabilità di aver diretto la baraonda vocale staccando tempi quasi sempre slentati, soporiferi. Nessuna traccia di soavità, anni luce da un accompagnamento etereo, che diventa addirittura greve quando i corni sparacchiano indefessi sotto «Prendi l’anel ti dono». Inspiegabile, se non per risonanza mediatica intorno alla diva Dessay, la decisione del doppio “da capo” in coda alla cabaletta di sortita di Amina. Come inspiegabile, se non per snellimento legato a questioni “ritmiche” (e in questo caso la prosa sarebbe davvero dietro l’angolo) il taglio netto del coro in apertura al secondo atto che, detto tra noi, non è proprio un mal sentire. Come inspiegabile, infine, se non per vera, autentica mancanza di lucidità, la decisione di non sopprimere la seconda aria di Lisa.
Gradimento del pubblico in sala: applausi scroscianti per tutti, Dessay in primis, e un paio di sacrosante sbuazzate rivolte a Pidò, al regista Marco Arturo Marelli e alla costumista Dagmar Niefind.
Tripsinogeno
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Sogno o son desto?
Varrebbe la pena, prima o poi, di cominciare ad affiancare alle recensioni degli spettacoli operistici tout court, anche una “nota a margine” di costume, un’appendice testuale birichina, dove poter rendere conto del corollario di bestialità e farneticazioni che si sono udite prima, durante, e dopo la rappresentazione, da parte di quel variopinto sottobosco umano che si è mobilitato per gremire, vestito a festa, la sala del teatro. Avanzo questa idea, certamente provocatoria, perché credo che, oltre a dar vita ad un impietoso frasario tragicomico sui “plaudenti della domenica”, si potrebbe, forse, avere un’ulteriore chiave interpretativa circa l’esito della serata. E forse adesso, a distanza di qualche giorno, sarei in grado di capacitarmi del trionfale esito con cui è stata salutata la première di La sonnambula (cui ho assistito).
Una première che ha rappresentato sicuramente, per me spettatore, un punto di non ritorno. Lo dirò francamente: non avrei mai immaginato di assistere ad uno scempio vocale e musicale di siffatta portata. Ma tanto più il mio sbigottimento è cresciuto col proceder della serata (mentre la partitura di Bellini (spietata !) si inghiottiva poco per volta tutti i suoi interpreti) tanto meno il pubblico sembrava accorgersene, deglutendo senza batter ciglio qualunque suono (o simil tale) provenisse dal palco, e riservando nel finale consensi incondizionati a tutti (o quasi).

Dell’Elvino di Javier Camarena c’è poco da dire. La sua performance, più di tutte le altre forse, ha seguito una traiettoria parabolica discendente e precipitosa col progredire della serata. Se ho ammirato la freschezza della voce e lo splendido legato con cui ha interpretato “Prendi l’anel ti dono”, riuscendo a calibrare in maniera sorprendente, secondo me, fiato e mezzevoci sul tempo, troppo slentato che ha battuto Pidò, ha dimostrato tuttavia poco dopo, già a partire dalla cabaletta, tutte le mende tecniche del suo mezzo. A partire dai grossi problemi di intonazione che la sua linea di canto, tutta indietro e ingolata, presenta ogni due per tre. Problemi di intonazione che, se percepibili in maniera discontinua nel primo atto, sono lievitati mastodonticamente nel secondo, arrivando addirittura a ridestare la platea della Bastille dal torpore diffuso. Rumoreggiamento generale nell “Ah perché non posso odiarti”, dove Camarena ha pure “scragnato” nel ah del tutto ancora non sei/cancellata dal mio cor e ammutolimento collettivo con palpabile disagio, durante il quartetto, il momento sicuramente più buio e inquietante di tutta la serata.
Complici di questa “danse macabre a quattro” gli altri comprimari della serata, su cui veramente sarebbe educato censurarsi. Rimango tuttora basito dalla performance di uno che professionista, almeno sulla carta, dovrebbe esserlo, quale Michele Pertusi. Il basso parmense ha cantato un Conte Rodolfo intubatissimo e sfiaccato nella linea di canto, incapace di articolare i recitativi se non in un imbarazzante declamato e con grossi problemi di intonazione. Quanto alla Lisa della “vibrantissima” e petulante Marie-Adeline Henry e alla Teresa della rumena Cornelia Oncioiu mi auspico soltanto di rimuovere rapidamente e in maniera indolore il ricordo della loro “performance”. La dimostrazione più alta del pressapochismo canoro che soltanto un dilettante spudorato potrebbe oggi, così placidamente e in maniera altrettanto sfacciata, offrire ad un pubblico pagante. Davvero no comment.

Un ultimo appunto sull’aspetto visivo. Non sono contrario alle messinscene che operano una qualche forma di slittamento temporale o simbolico rispetto alla drammaturgia di partenza; amo, tuttavia, in qualità di spettatore, che vengano rispettati quantomeno i cardini di coerenza logica che il libretto sollecita in maniera più o meno vincolante tra testo, azione drammatica, e potenziale trasposizione visiva. Ecco, mi chiedo se Marco Arturo Marelli, non avesse come riferimento Il viaggio a Reims quando ha pensato la scena per questa Sonnambula parigina. Non solo, infatti l’azione è traslata in un sanatorium di lusso anni 40-50, che tradisce visibilmente l’originaria location del villaggio svizzero (evidentemente poco à la page per Parigi), ma gli stessi personaggi perdono inevitabilmente i loro caratteri popolani e alpestri per adeguarsi a questa trasfigurazione che li catapulta nel “resort termale a 5 stelle”. Basti dire che Amina, in livrea nera e crestina bianca, diventa all’Opéra Bastille una femme de ménage al servizio della “locandiera” Lisa, che Alessio si tramuta in un sovreccitato lacché frenetico come solo le gag di Benny Hill possono rievocare, e che la stessa Lisa polarizza i suoi tratti riducendosi a frigida e cleptomane (ebbene sì!!) direttrice d’albergo. I momenti di disagio? Non si contano. A cominciare dal coro introduttivo “Viva! Viva Amina!” cantato da una schiera di cameriere dell’albergo in versione cheerleaders, sbandieranti manifesti e festoni pro-Amina, fino ad arrivare al “Vi ravviso o luoghi ameni” cantato da un Conte Rodolfo avventore per caso, seduto al bar dell’albergo e in contemplazione di bottiglie e di bicchieri di whisky . Il mulino, il fonte e il bosco invece, non pervenuti!
Fantedipicche
Gli ascolti
Bellini - La sonnambula
Atto I
Come per me sereno...Sovra il sen la man mi posa - Lina Pagliughi (1934)
Prendi, l'anel ti dono - Fernando de Lucia & María Galvany (1908)
Atto II
Ah, non credea mirarti - Luisa Tetrazzini (1909), Selma Kurz (1911)
Ah, non giunge uman pensiero - María Barrientos (1920)
