sabato 13 febbraio 2010

L'angolo dei lettori: La Sonnambula all'Opéra di Parigi



Cari amici,
dopo la felice esperienza del Ballo parigino di qualche mese fa, il Corriere dedica nuovamente spazio alle recensioni dei lettori, nella fattispecie Tripsinogeno e Fantedipicche, che hanno assistito per noi alla Sonnambula allestita all'Opéra di Parigi con Natalie Dessay, Javier Camarena, Michele Pertusi e la direzione di Evelino Pidò. Ringraziandoli per la disponibilità e...lo sprezzo del pericolo!, cediamo loro la parola.


“No, più non reggo”. La Sonnambula all’Opéra Bastille

Non è poi così difficile. Deludi un’aspettativa, la riconfermi pochi istanti dopo e ottieni pure la benevolenza dei battimani. E’ andata più o meno così alla prima della Sonnambula, all’Opéra Bastille di Parigi, nuovo ecomostro sorto ad affiancare il “vecchio” Palais Garnier. Un signora dal tono sconsolato esce sul palco: “Natalie Dessay est souffrante…”. Il pubblico: “Ohhhh!!”. Fischi e buu. Ma la signora, subito sorridente: “Mais malgré sa pharyngite, elle a decidé d’assurer la représentation…”. Boato e visibilio generale. Nulla di nuovo. Dai divi alle prese con repertori al limite delle proprie potenzialità vocali (Flórez a Bologna nel quasi debutto dei Puritani) ad altri artisti “in carriera” (Albelo, nella stessa occasione, ma senza portare a casa la recita…), la tentazione al facile procacciamento di indulgenze a buon mercato ha stuzzicato anche la furba stratega Dessay. Dunque, eccola in scena.
Dico subito che le condizioni vocali della diva mi sono sembrate peggiorate rispetto alla sua Amina newyorkese dello scorso anno, con cui non si possono evitare raffronti considerata la regolare riproposizione, per l’opera in questione, sia del direttore che di buona parte del cast, quasi si trattasse della tournée di una vecchia compagnia di teatro itinerante. Fin dall’entrata in scena, con la discesa su “compagne” nel verso di sortita, il soprano francese non riesce a nascondere le pecche di un mezzo vocale sbrindellato, dall’emissione piena d’aria, in particolare nei registri grave e centrale, che la tessitura della parte sollecita non poco. Ne vengono fuori dei recitativi monotoni, sbracati, completamente privi di qualsivoglia connotazione espressiva. Allora la sensazione è quella di trovarsi davanti a un personaggio volgarizzato nella parte (rischio peraltro ben diffuso quando si gigioneggia con le partiture belliniane). Una rozza, esangue pastorella – declinata per l’occasione nella mesta inserviente di un sanatorio – forse più vicina all’entourage un po’ ordinario del basco Nemorino che alla sublime solennità delle Alpi svizzere. Nella cadenza proposta nel secondo “da capo” nella cabaletta «Sovra il sen» (la prima ripresa è quasi priva di variazioni) produce un acuto stimbrato su «la man mi posa» e un altro gridato su «che i suoi contenti». Addirittura imbarazzante, come ulteriore prova del logoramento vocale in stato avanzato, gli accenti esibiti, nel duetto in coda alla cavatina di Elvino, su «Ah non ne ha d’uopo il core» e, poco dopo, su «il tuo con me restò», in chiusa, all’unisono. Il discorso non cambia su «Ah vorrei trovar parole» e sui due versi successivi, ad accompagnamento alla cabaletta del tenore, strascicati davvero con poco gusto (inutile dire che anche qui aspettarsi un suono rotondo, proiettato ed espressivo sarebbe grottesco come chiamare un miracolo a Lourdes). Stessa solfa nel recitativo e nell’aria «Ah non credea mirarti», in cui se aggiungete al solito centro dissestato qualche nota spoggiata e un’intonazione non certo indiscutibile… tirate voi le conclusioni! La parabola discendente termina (se dio vuole…) con l’esecuzione penosa del rondò. Dimenticatevi suoni fluidi, pienezza di cavata e disinvoltura nelle agilità. Solo affanno in gola e sgomento in volto.
Ma forse non tutto è da buttare. Perché se la voce è logora dal passaggio superiore in giù, in alto riesce ancora a produrre suoni puliti e sicuri, e il legato rimane ancora uno dei (pochi) punti di forza della signora. Ricordo con piacere la salita, senza debito di eleganza e raffinatezza, nella ripetizione di «amor la colorò», ancora nella cavatina di Elvino «Prendi l’anel ti dono». Così come le puntature, la più parte eseguite con una certa sicurezza (esemplare la chiusa, all’unisono col tenore, del duetto dello «zeffiro»). Anche il fraseggio e la dizione sarebbero considerevoli se non fossero intaccati da quei suoni asmatici, che non solo penalizzano il coté vocale, ma anche la resa drammaturgica del personaggio. Va detto, per onor del vero, che la signora pare ben consapevole delle condizioni in cui versa il suo mezzo vocale, tant’è che, a detta della cantante, questa parigina sarà la sua penultima Sonnambula e che i battenti, con le Amine, verranno chiusi a Vienna il prossimo aprile, a riprova che forse le perplessità che il Corriere ha sollevato in questi ultimi mesi non sono (state) poi così infondate…
A conti fatti, Dessay disegna un’orfanella completamente refrattaria all’abbandono, al “patetico”, all’elegia che una buona Sonnambula dovrebbe sempre almeno prendere in considerazione. Saranno pure evidenze e condizioni essenziali promosse da poveri passatisti, ancora attaccati alla sottana della Tetrazzini, ma sono questi i pilastri su cui deve poggiare ogni incursione nelle partiture di Bellini. Altrimenti, come in questo caso, ne vien fuori un’interpretazione un po’ forzata, nervosa, che in alcuni passaggi tradisce sul viso dell’interprete una tensione psicologica preoccupante, di cui solo dio può determinarne le cause: esuberanza registica o disagio dell’artista?

L’Elvino di Javier Camarena, tenore leggero avvezzo a ruoli donizettiani e rossiniani per la maggiore, ha un’emissione piuttosto morbida e limpida, almeno fino al passaggio superiore, oltre cui il suono si indurisce e la gola prende il sopravvento. Si esibisce in una cavatina con piglio passionale e una certa eleganza che mi ha fatto ben sperare. Peccato che da lì in poi la voce ha salutato platea e gallerie e il possidente svizzero si è trasformato in lupo mangiafrutta. Un esempio su tutti, l’attacco «No, più non reggo», che inframmezza l’aria finale di Amina, pronunciato con una durezza (e non sono andato a teatro sperando di sentire un Valletti o un Kraus…) tale da rendere quasi precario, per lo spavento, l’equilibrio della sonnambula, costretta a barcollare, per “esigenze registiche”, su una tavola messa a soqquadro da una tempesta di neve.

Michele Pertusi, promosso dall’establishment discografico come Conto Rodolfo di riferimento, è stato forse la vera delusione della serata. Non ha nulla della morbidezza di emissione e d’accento che dovrebbe possedere un autentico personaggio aristocratico, quale tradizionalmente si confà alla tessitura di basso. Eppure l’avevo trovato piuttosto in forma nel Don Pasquale bolognese, al suo debutto nel personaggio donizettiano. Qui, invece, il do3 sulla O dei «luoghi ameni» viene “dal profondo” e non è a fuoco, così come il reb3 su «io vi trovai» e il do3 sulla E di «a qual tu sei», nella cabaletta «Tu non sai con quei begl’occhi». Non solo. Oltre alla prima ottava sempre vuota, si esibisce con spavalderia grossolana, per altro con un declamato davvero volgare. Quando va bene, perché per la maggiore ho sentito una sorta di prova di scena di uno spettacolo preso direttamente dal teatro di prosa, cui mi aspetto venga presto destinato. Con i migliori auguri…
Sulle orme di una direzione artistica convinta che Lisa sia personaggio di contorno, alla stregua di una comprimaria di poco conto e non della vera antagonista, mi limito a constatare in Marie-Adeline Henry una voce acidula, refrattaria all’appoggio e berciante in acuto tre volte su tre. Misteriosa, considerata l’acerbità delle condizioni vocali della signora, la scelta di eseguire anche la seconda aria («De’ lieti auguri»), nel secondo atto, per altro con “da capo” (chiedere a Pidò).
Stesso discorso, ma di minor peso e quindi gravità, per la Teresa di Cornelia Oncioiu, che sarebbe scivolata via senza gravi danni se non avesse rovinato in toto, con urla da altoparlante al museo delle torture, il quartetto al secondo atto.
Nahuel Di Pierro (Alessio) è un (pessimo) attore di prosa.

La direzione di Evelino Pidò ha invece la responsabilità di aver diretto la baraonda vocale staccando tempi quasi sempre slentati, soporiferi. Nessuna traccia di soavità, anni luce da un accompagnamento etereo, che diventa addirittura greve quando i corni sparacchiano indefessi sotto «Prendi l’anel ti dono». Inspiegabile, se non per risonanza mediatica intorno alla diva Dessay, la decisione del doppio “da capo” in coda alla cabaletta di sortita di Amina. Come inspiegabile, se non per snellimento legato a questioni “ritmiche” (e in questo caso la prosa sarebbe davvero dietro l’angolo) il taglio netto del coro in apertura al secondo atto che, detto tra noi, non è proprio un mal sentire. Come inspiegabile, infine, se non per vera, autentica mancanza di lucidità, la decisione di non sopprimere la seconda aria di Lisa.
Gradimento del pubblico in sala: applausi scroscianti per tutti, Dessay in primis, e un paio di sacrosante sbuazzate rivolte a Pidò, al regista Marco Arturo Marelli e alla costumista Dagmar Niefind.

Tripsinogeno

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Sogno o son desto?

Varrebbe la pena, prima o poi, di cominciare ad affiancare alle recensioni degli spettacoli operistici tout court, anche una “nota a margine” di costume, un’appendice testuale birichina, dove poter rendere conto del corollario di bestialità e farneticazioni che si sono udite prima, durante, e dopo la rappresentazione, da parte di quel variopinto sottobosco umano che si è mobilitato per gremire, vestito a festa, la sala del teatro. Avanzo questa idea, certamente provocatoria, perché credo che, oltre a dar vita ad un impietoso frasario tragicomico sui “plaudenti della domenica”, si potrebbe, forse, avere un’ulteriore chiave interpretativa circa l’esito della serata. E forse adesso, a distanza di qualche giorno, sarei in grado di capacitarmi del trionfale esito con cui è stata salutata la première di La sonnambula (cui ho assistito).
Una première che ha rappresentato sicuramente, per me spettatore, un punto di non ritorno. Lo dirò francamente: non avrei mai immaginato di assistere ad uno scempio vocale e musicale di siffatta portata. Ma tanto più il mio sbigottimento è cresciuto col proceder della serata (mentre la partitura di Bellini (spietata !) si inghiottiva poco per volta tutti i suoi interpreti) tanto meno il pubblico sembrava accorgersene, deglutendo senza batter ciglio qualunque suono (o simil tale) provenisse dal palco, e riservando nel finale consensi incondizionati a tutti (o quasi).

E in particolare all’idolo nazionale Natalie Dessay. Che ha pensato bene, per la sua ultima sonnambula parigina, e secondo ormai prassi consumata tra divi starpagati e da palesi insicurezze tecniche, di incerottare preliminarmente il SUO pubblico, facendosi annunciare “souffrante” ma intenzionata a portare a termine la recita. Come dire: se il mio canto non sarà proprio ineccepibile, non vogliatemene (e soprattutto non fischiatemi!), canto solo per il rispetto che ho per voi-pubblico e per amore della partitura. La Amina della Dessay si è dimostrata sotto il profilo vocale non soltanto gravemente lacunosa, ma ha risentito in maniera progressiva delle mende vocali (ormai ai limiti dell’accettabile) della sua interprete. La voce del soprano è ormai un fantasma di sé stesso: piccola e ridotta al lumicino quanto a volume (faticosamente udibile nelle ultime file), è completamente svuotata nei gravi (inesistenti), migolante e malferma nei centri, e fibrosa nonché schiacciata nel registro acuto, dove peraltro, l’eccessivo fiato con cui articola, produce un fastidiosissimo sbiancamento del suono. Si ha perennemente l’impressione che ogni attacco, che ogni incipit di frase sia spoggiato e che il supporto del diaframma subentri solo in un secondo momento quasi fosse un orpello accessorio alla tecnica di canto dell’interprete. L’intonazione poi, diventa seriamente periclitante nei passaggi al sovracuto, che la signora ha garantito a tutti i costi producendosi in suoni spintissimi (in chiusa del primo atto), trasformatisi poi in vere e proprie grida nel finale. E proprio sul rondò conclusivo mi soffermo. La Dessay è arrivata all’ “Ah, non giunge” completamente sfiancata e sfibrata nella voce, dimostrando gravi carenze nella economizzazione delle proprie risorse. Energie che però non si è fatta mancare sotto il profilo interpretativo e fisico, secondo una logica di furbissima compensazione scenica: laddove non arriva la voce, arrivano le mossettine e le increspature del viso. Non è un caso che, degna figlia di Arturo Brachetti, è riuscita in 10 secondi ad uscire dalle quinte, a dismettere i panni di cameriera (!!!) (ah già, parleremo dell’allestimento!) a rientrare in scena e cantare, a sipario chiuso e con l’occhio di bue puntato, la cabaletta finale vestita da femme fatale con un abito rosso fuoco, sottratto forse al guardaroba di Rossella O’Hara. Certo, nel daccapo non ha eseguito alcuna variazione, e non c’era più un suono che non fosse strozzato e afono, ma volete mettere per i parigini vedere la loro Natalie dimenarsi come una bailaora de flamenco?

Dell’Elvino di Javier Camarena c’è poco da dire. La sua performance, più di tutte le altre forse, ha seguito una traiettoria parabolica discendente e precipitosa col progredire della serata. Se ho ammirato la freschezza della voce e lo splendido legato con cui ha interpretato “Prendi l’anel ti dono”, riuscendo a calibrare in maniera sorprendente, secondo me, fiato e mezzevoci sul tempo, troppo slentato che ha battuto Pidò, ha dimostrato tuttavia poco dopo, già a partire dalla cabaletta, tutte le mende tecniche del suo mezzo. A partire dai grossi problemi di intonazione che la sua linea di canto, tutta indietro e ingolata, presenta ogni due per tre. Problemi di intonazione che, se percepibili in maniera discontinua nel primo atto, sono lievitati mastodonticamente nel secondo, arrivando addirittura a ridestare la platea della Bastille dal torpore diffuso. Rumoreggiamento generale nell “Ah perché non posso odiarti”, dove Camarena ha pure “scragnato” nel ah del tutto ancora non sei/cancellata dal mio cor e ammutolimento collettivo con palpabile disagio, durante il quartetto, il momento sicuramente più buio e inquietante di tutta la serata.

Complici di questa “danse macabre a quattro” gli altri comprimari della serata, su cui veramente sarebbe educato censurarsi. Rimango tuttora basito dalla performance di uno che professionista, almeno sulla carta, dovrebbe esserlo, quale Michele Pertusi. Il basso parmense ha cantato un Conte Rodolfo intubatissimo e sfiaccato nella linea di canto, incapace di articolare i recitativi se non in un imbarazzante declamato e con grossi problemi di intonazione. Quanto alla Lisa della “vibrantissima” e petulante Marie-Adeline Henry e alla Teresa della rumena Cornelia Oncioiu mi auspico soltanto di rimuovere rapidamente e in maniera indolore il ricordo della loro “performance”. La dimostrazione più alta del pressapochismo canoro che soltanto un dilettante spudorato potrebbe oggi, così placidamente e in maniera altrettanto sfacciata, offrire ad un pubblico pagante. Davvero no comment.

Censurabile, e molto, la direzione di Pidò, che non a caso è stato buato dalle 4 teste pensanti (e dotate di un apparato uditivo funzionante) presenti in sala. A lui va imputata una direzione che non solo non è stata capace di restituire le infinite nuances presenti nella partitura di Bellini ma che non è stata nemmeno in grado di piegarsi alle mediocri risorse vocali del cast arruolato, con l’obiettivo di contenerne quantomeno le rispettive derive canore, puntualmente e immancabilmente verificatesi, al contrario. Slentato e piatto nella resa delle rarefazioni belliniane, fracassone e stordente nelle scene corali e nelle cabalette (al punto da creare un paradossale “effetto acquario” in scena), Pidò, ha impresso alla serata un ritmo sincopato e disomogeneo, mal amalgamando un’orchestra già di suo zoppicante (impressionanti i problemi di intonazione del comparto degli ottoni) e operando scelte musicali fortemente arbitrarie (come l’eliminazione tout court della scena corale ad inizio del secondo atto).

Un ultimo appunto sull’aspetto visivo. Non sono contrario alle messinscene che operano una qualche forma di slittamento temporale o simbolico rispetto alla drammaturgia di partenza; amo, tuttavia, in qualità di spettatore, che vengano rispettati quantomeno i cardini di coerenza logica che il libretto sollecita in maniera più o meno vincolante tra testo, azione drammatica, e potenziale trasposizione visiva. Ecco, mi chiedo se Marco Arturo Marelli, non avesse come riferimento Il viaggio a Reims quando ha pensato la scena per questa Sonnambula parigina. Non solo, infatti l’azione è traslata in un sanatorium di lusso anni 40-50, che tradisce visibilmente l’originaria location del villaggio svizzero (evidentemente poco à la page per Parigi), ma gli stessi personaggi perdono inevitabilmente i loro caratteri popolani e alpestri per adeguarsi a questa trasfigurazione che li catapulta nel “resort termale a 5 stelle”. Basti dire che Amina, in livrea nera e crestina bianca, diventa all’Opéra Bastille una femme de ménage al servizio della “locandiera” Lisa, che Alessio si tramuta in un sovreccitato lacché frenetico come solo le gag di Benny Hill possono rievocare, e che la stessa Lisa polarizza i suoi tratti riducendosi a frigida e cleptomane (ebbene sì!!) direttrice d’albergo. I momenti di disagio? Non si contano. A cominciare dal coro introduttivo “Viva! Viva Amina!” cantato da una schiera di cameriere dell’albergo in versione cheerleaders, sbandieranti manifesti e festoni pro-Amina, fino ad arrivare al “Vi ravviso o luoghi ameni” cantato da un Conte Rodolfo avventore per caso, seduto al bar dell’albergo e in contemplazione di bottiglie e di bicchieri di whisky . Il mulino, il fonte e il bosco invece, non pervenuti!

Fantedipicche






Gli ascolti

Bellini - La sonnambula


Atto I

Come per me sereno...Sovra il sen la man mi posa - Lina Pagliughi (1934)

Prendi, l'anel ti dono - Fernando de Lucia & María Galvany (1908)

Atto II

Ah, non credea mirarti - Luisa Tetrazzini (1909), Selma Kurz (1911)

Ah, non giunge uman pensiero - María Barrientos (1920)



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giovedì 11 febbraio 2010

Irina Arkhipova (1925-2010)

Avevamo pensato ad altro per oggi e per il nostro affezionato gruppo di lettori. La notizia arrivata ci ha indotti a cambiare programma e celebrare una grandissima cantante.
Irina Arkhipova cantò, fra l'altro, in Scala Marina in un Boris del 1972, se la memoria non mi difetta. In scena, quelle colorate e descrittive di Benois, era solenne, imperiosa e statuaria, come competeva alla dama di rango. La voce era bellissima ed ampia e molto italiana. All'atto polacco gli applausi erano sempre molti e caldi.
Gli applausi si rinnovarono qualche anno dopo quando l'Arkhipova, con la tournée del Bolshoi, propose l'altro personaggio di Mussorgsky, Marfa, che, ieratica e strega, le riusciva splendida alla scena della profezia.

Non era un caso. In una intervista alla radio italiana di quegli anni la cantante, arrivata al canto per caso dopo la laurea in architettura, raccontò di avere trovato a Mosca un disco di Ebe Stignani e di averlo ascoltato. Molto e con profitto aggiungerei.
Per capire che Irina Arkhipova cantasse all'italiana e senza i tipici vezzi di risonanze stomacali delle vocik gravi (maschili e femminili) bastò sentire il mezzosoprano russo che dopo la Arkhipova approdò in Scala, ossia la Obraztsova.
La Arkhipova tornò, poi, per quella che è la parte della vecchia cantante del repertorio russo, ossia la Contessa, protagonista della Dama di Picche. Anche qui la differenza fra il canto di scuola dell'architetto, approdato al canto e quello della signora Obraztsova (che parlò la Contessa agli Arcimboldi) fu ancora di tutta evidenza.
La voce di Irina Arkhipova era di mezzosoprano acuto, alla Stignani appunto. Se aggiungiamo una completa e rifinita cognizione tecnica è facile capire ampiezza del repertorio e durata della carriera. Quando alla fine degli anni '60 - primi anni '70 il mezzosoprano russo cantò con maggior frequenza nei teatri europei ed anche americani ed era vicina ai cinquanta la voce era salda e freschissima come quindici anni prima.
Mezzo acuto era prima di tutto nel repertorio russo, Marina e la Pulzella di Orléans, che sono in Russia un condominio fra soprani e mezzi, nel repertorio italiano Amneris, Eboli e Santuzza, anch'esse parti quanto meno Falcon. Più tipiche del mezzo Azucena e Marfa. Fu poi una celebratissima Carmen, anche perchè nei primi anni di carriera non era, oltre la voce, l'avvenenza che difettava alla signora.
Neppure quando cantava in italiano si percepivano difficoltà di fonazione ed articolazione, in cui spesso i cantanti di lingua slava incorrono.
Dagli ascolti che proponiamo ritengo opportuni taluni spunti di riflessioni per capire che siamo veramente dinnanzi ad una grande cantante ed una interprete autentica, seppure di impianto tradizionale.
Irina Arkhipova nel 1973 cantò ad Orange Azucena. Circola l'intero video dove è gara fra le due protagoniste femminili. Irina Arkhipova ogni tanto emette suoni non perfettamente rotondi e calibrati se cadono sulla vocale "i", ma sfoggia un'ottima dizione italiana, una compostezza vocale ed un rispetto della dinamica, ossia buone maniere vocali, che ad esempio Fiorenza Cossotto l'Azucena ufficiale degli anni '70 ed '80 spesso e volentieri scordava, all'aperto precipue. E le cose vanno ancora meglio alla scena della prigione, sentire l'accento misurato e commosso dell'incipit della scena e la mancanza di ogni esagitazione (salvo il "parola orrenda"), il legato del famoso "ai nostri monti". La penetrazione in zona medio alta, poi, soffre solo dinnanzi a quella di Ebe Stignani.
Come Amneris e come Santuzza non ci sono frasi alte e scomode che la mettano in difficoltà. Anche qui i confronti si fanno fra grandi o del passato o coetanee per carriera alla Arkhipova perché nei panni della principessa egizia solo Grace Bumbry è più singolare nell'accento, femminile nel timbro e solo la solita Ebe Stignani è ancora più esplosiva e torrenziale nella scena del giudizio. Fra le odierne solo Irina Makarova, che infatti della Arkhipova è stata allieva, è di questa genia ed infatti l'hanno ignorata. Perdonate, poi, l'espressione semplicistica: scontro fra titani!
Sotto questo profilo è chiaro ed evidente il rammarico per una limitata presenza di Irina Arkhipova nei teatri italiani.
Un personaggio fondamentale nella carriera della Arkhipova fu Carmen. Normalmente e tradizionalmente i mezzo soprani di strumento opulento alla Arkhipova erano Carmen di pochi colori, comprese a gareggiare con i tenori in acuti. Una visione che non deve essere respinta in toto perchè i titoli dell'opéra comique, che approdavano fuor di quel teatro subivano i giusti ed opportuni rimaneggiamenti. Però certe scelte interpretative e vocali delle Buades, Besanzoni, Zinetti e magari Simionato, Barbieri e Cossotto in italiano possono dar luogo a perplessità. La Arkhipova-Carmen nulla ha delle Carmen opéra comique, il timbro è sontuoso, ampio, attacca una solenne habanera, poi comincia ad essere Carmen ossia compaiono colori chiari, effetti di chiaroscuro, nonostante la lingua russa. Lo stesso accade alla scena della seduzione, con Zurab Anjaparidze o al duetto finale con del Monaco (la famosa edizione bilingue) dove Carmen è sempre sorvegliata, il che soprattutto in compagnia di del Monaco è quasi impossibile e il registro alto è veramente sorprendente per facilità e splendore. Impertinenza direi.
Ad majora Irina Konstantinovna!



Gli ascolti

Irina Arkhipova (1925-2010)



Pergolesi - Stabat Mater

Quae moerebat et dolebat (1973)

Verdi - Aida

Atto IV

L'aborrita rivale a me sfuggia (1974)

Verdi - Requiem

Liber scriptus (1960)

Bizet - Carmen

Atto I

L'amour est un oiseau rebelle (1960)

Tchaikovsky - Pikovaja dama

Atto II

Polno vrat vam! Nadoyeli!...Je crains de lui parler la nuit (1989)







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martedì 9 febbraio 2010

Simon Keenlyside in concerto alla Scala


Programma raffinato per una delle voci più importanti della scena internazionale: Simon Keenlyside ha scelto alcuni fra i più ispirati Lieder di Schubert, di Wolf e di Brahms per il suo concerto di canto alla Scala. Le recensioni dei suoi recital, in diverse capitali della musica, sono tutte da cinque stelle.

Lo scritto sopra riportato è la presentazione che il Teatro alla Scala ha dedicato al baritono inglese.

E' molto istruttiva e per la lingua e per lo stile. Apprendiamo che esiste il super superlativo e che i cantanti lucrano recensioni da Guide Michelin.
Lo diciamo a beneficio di chi, leggendoci, spulcia il nostro latino, privo, credo, di altri e consistenti argomenti di polemica e dibattito.
Sappiamo, per averlo letto più volte, che i programmi dei concerti di canto rispondono al deliberato e nobile scopo, proclamato dalla dirigenza scaligera, di educare il pubblico.
Anche certe case di correzione e di punizione, anche i metodi educativi del Vescovo Vergerus del film Fanny ed Alexander rispondevano al medesimo scopo.
Solo che al pari di quegli educatori, i cui esiti, anche senza essere fanatici del metodo Montessori, erano nefasti, il processo di rieducazione fallisce per le energie artistiche messe in campo. Faccio un esempio chiaro, ma lampante: riproporre, anno 1983, Maometto secondo con un bel cast Ghiaurov, Obraztsova, Carreras, Baltsa sarebbe stato un errore imperdonabile, una operazione per nulla culturale e pure fallimentare sotto il profilo commerciale.
Infliggere una serata di 19 Lieder di Schubert, Wolf e Brahms affidandoli ad un cantante che: non si capisce se sia un basso o un baritono, tanto bituma la voce nella quarta grave (quarta di quell'ottava centrale, che utilizza); che canta o mezzo forte o con un tenue falsettino; che ha problemi di volume e di ampiezza e che non dispone, per limiti tecnici, della tavolozza espressiva minimale per tali programmi, offrendo, per contro, un legato molto, molto approsimativo, è abortire l'operazione in partenza.
Siccome completezza impone di dettagliare ricordo come i difetti fossero particolarmente evidenti nel secondo e terzo Lied di Schubert (Der Tod und das Mädchen, op. 531 e Dass sie iher gewesen, op. 775) e quanto al legato soprattutto in Wolf.
Tanto per chiudere: la liederistica femminile post bellica è il frutto delle affettazioni della signora Legge, la maschile di quello -identico- del signor Fischer-Dieskau. Sentire il proposto Heinrich Schlusnus in brani della letteratura del salotto di lingua tedesca.
A riprova dell'esito e della stima del pubblico, per le scelte proposte, siano, se "il botteghino" ha valore e significato, i circa ottanta (di centocinquanta) palchi vuoti, la platea piuttosto rara di pubblico e le due gallerie dove tutti, anche i miseri come Donzelli, entrati con l'ingresso da Euro 5, si sono seduti in prima fila.
Si potrà facilmente obiettare che il pubblico è ignorante e sogna solo il repertorio, ossia i famosi dieci titoli, che si crede nelle direzioni artistiche germano-italiche essere il repertorio italiano e francese.
Con altrettanta facilità si può obiettare che siffatte scelte, affidate a siffatti esecutori non possono che nascer morte o di breve vita.
E non con facilità, ma con buon senso e minima nozione della storia della musica da camera, si DEVE replicare per non subire ulteriori vessazioni che la musica da salotto è esperienza culturale comune all'Europa tutta, pure mediterranea ed agli Stati Uniti d'America!!! E' scritto sulla Garzantina.
E per dimostrare che la Garzantina non mente abbiamo pescato il re del salotto italiano a cavallo fra Otto e Novecento (Francesco Paolo Tosti), in corda di baritono (vero!). Per chi voglia mettere i "puntini sulle i" precisiamo che è una delle venti o trenta scelte possibili, tutte atte a dimostrare che ci sono tanti ed ugualmente importanti salotti.



Gli ascolti

Brahms


Von ewiger Liebe - Heinrich Schlusnus (1939)

Regenlied - Heinrich Schlusnus (1939)

Tosti

Ancora - Mattia Battistini (1902)

Invano - Antonio Scotti (1902)

L'ultima canzone - Giuseppe Bellantoni (1910)

Denza

Occhi di fata - Mattia Battistini (1902)

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domenica 7 febbraio 2010

Don Giovanni alla Scala

E' solo per dovere e spirito di contraddizione che siamo andati a vedere questo Don Giovanni. Solo per non sentirci dire che siamo preconcetti.
La recita domenicale e pomeridiana è immagine e ricordo di altri tempi. Come agli altri e passati tempi appartiene la cospicua carica di fischi che, alla quarta recita, ha salutato le uscite singole di Carmela Remigio (donna Anna), Emma Bell (donna Elvira) e del direttore Louis Langrée.
Domani la centrale del cosenso minimizzerà la riprovazione, stigmatizzandola quale frutto della mania di protagonismo di pochi, cattivi, facinorosi, che non vogliono bene alla Scala e non sono in capaci di apprezzare il programma di rifondazione culturale che il soprintendente e direttore artistico dona plenibus manibus.
Conti e resoconti su questa inutile ripresa di don Giovanni sono presto fatti. L’allestimento è la ripresa di quello proposto un paio di anni fa a firma Peter Mussbach dove a parte la Lambretta, guidata da donna Elvira, un Bignami delle più usate posizioni per l’accoppiamento dell’homo sapiens, qualche sottoveste e i pettorali di Erwin Schrott proprio non c’è nulla. Ove proprio nulla significa nessuna idea registica, che illustri ed illumini e non sia una brutta esibizione di ciò che il libretto dice in maniera che chiunque possa capire.
La direzione di Langrée è stata lenta, priva di solennità ed aulicità, fiacca, imprecisa in ogni ensemble, una sorta di noiosa e meccanica mignardise. Perché questo don Giovanni evocava un intermezzo napoletano della prima metà del ‘700. I momenti peggiori il finale primo, la scena del lugubre pranzo di don Giovanni, il finale dell’opera, con la chicca di una entrata delle maschere, né solenne né misteriosa, ma da avanspettacolo.
Fischi per tutti i cantanti, che, italiani o stranieri che siano, non sanno eseguire i recitativi, mai chiari nella dizione, mai scanditi, talora come accade per servo e padrone inficiati da caccole e cachinni.
I fischi dello scocciato, offeso, annoiato pubblico hanno colpite le due donne. Emma Bell: emissione greve e volgare, incapace di eseguire decentemente le elementari agilità della parte, voce veramente brutta e sgraziata, per giunta maldestramente accompagnata nelle arie. Ha un solo pregio, un certo volume, unica nella compagnia di canto.
Carmela Remigio, a suo tempo assolta quale Elettra del recente autunnale Idomeneo, ha il peso, il colore di Zerlina, accento da personaggio comico e popolare e non certo da gran dama, spagnola e vendicativa. Possiamo rilevare e censurare la mancanza di vigore e furore della prima aria, l’imprecisione e la difficoltà del rondò e peggio ancora i pigolati e flautati vocalizzi dell’entrata delle maschere. Donna Anna parla di vendetta, signora Remigio!
Inudibile Veronica Cangemi, ex mezzo soprano baroccaro, oggi soprano leggero, senza appoggio e sostegno, senza ampiezza e sonorità. Insomma nemmeno la parvenza del canto professionale. Avrebbe meritato parità di trattamento rispetto alle altre protagoniste femminili.
Quanto a volume limitato, fraseggio da pesce lesso, nessun accento, nessun vigore, nessun colore Juan Francisco Gatell, don Ottavio. Accenna con grazia i passi di flamenco (sic!) che il genio della regia impone all’entrata delle tre lugubri maschere, che sembrano i Blues Brothers. Gravi i problemi di intonazione, specie nella prima aria, farcita di variazioni assolutamente inutili.
Erwin Schrott ha esibito un torace ben costruito. Erwin Schrott dovrebbe cantare e non fare lo stripper o qualche cosa di analogo. E oltre al torace muscoloso non c’è altro, perché la voce non c’è, parlotta nei recitativi, accenna molti dei cantabili (Fin ch’han dal vino, scena del cimitero e della festa, accoglienza delle maschere al finale), quando prova a mettere la voce al posto (serenata) percepiamo suoni nasali e fiati piuttosto corti.
Il fedele Leporello, Alex Esposito, canta da basso, non è un basso. La voce è vuota in basso e corta in alto per l’incapacità di una corretta esecuzione del passaggio di registro, si sforza di interpretare, esagerando, però in mosse e mossette e arrivato al cantabile dell’aria del catalogo esibisce i limiti della voce e della tecnica, privo di legato e di ampiezza di suono, che deriva dall’esatto sostegno del fiato.
Degli altri due bassi Mirco Palazzi, Masetto è corretto e composto, ma è un basso sulla carta. Basso vero per timbro ed alla slava per tecnica Georg Zeppenfeld, il Commendatore.
Dite pure che siamo passatisti, ignoranti e retrogradi, ma a questo don Giovanni abbiamo, noi e altri che condividono il nostro pensiero, subito molti assalti di Morfeo.


Gli ascolti

Mozart - Don Giovanni


Atto I

Bisogna aver coraggio...Protegga il giusto Cielo - Rose Bampton, Jarmila Novotna, Charles Kullman, Ezio Pinza & Alexander Kipnis, dir. Bruno Walter (1942)

Atto II

Deh vieni alla finestra - Antonio Scotti (1902), Mariano Stabile (1926)

Il mio tesoro intanto - Hermann Jadlowker (1908)

In quali eccessi, o Numi...Mi tradì quell'alma ingrata - Johanna Gadski (1910)

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venerdì 5 febbraio 2010

Mese verdiano XIX - Son giunta! Ottava puntata: Gilda Cruz-Romo e Martina Arroyo

Le donna Leonora di Vargas di Martina Arroyo e Gilda Cruz-Romo appartengono, già, al tempo moderno ossia a quello del Verdi lirico. Sono anche passati da quelle esecuzioni più di trent'anni ed il giudizio, per certo, risente del tempo trascorso e di quello che è accaduto e del misero attuale presente.
Particolarmente misero nel cosidetto repertorio.

Premetto che in Scala, coeve alle scene di Forza che proponiamo, ascoltai sia la Arroyo che la Cruz-Romo. La prima, quale Aida, aveva una voce splendida nel vero senso della parola, raggiante e angelica, la seconda -Amelia del Ballo- era, con buona pace dell'aficionado, assai più verdiana della titolare del ruolo, un poco in difficoltà in zona bassa, anche lei voce raggiante. Autentico soprano da Verdi, però, Gilda Cruz-Romo non lo era. Era uno splendido lirico con voce ampia e siccome il vero drammatico ormai scarseggiava e latitava le qualità vocali del soprano messicano erano sufficienti per farne un'inteprete di Verdi e da Verdi. Mi limiterei al "di Verdi".
Al convento della Madonna degli Angeli, apprestato a Vienna, la Cruz-Romo arriva accompagnata da Riccardo Muti e farà, oltre al desiderato incontro con la redenzione, anche quelli vocali con Cesare Siepi e soprattutto con Sesto Bruscantini.
In queste riflessioni abbiamo, naturalmente privilegiato l'aspetto vocale, ma Bruno Walter al Met o Dimitri Mitropoulos, sia a Firenze che a Vienna, hanno imposto riflessioni anche sulle bacchette. Chi sentisse questo Riccardo Muti, poco più che trentenne, comprende la fama di grande bacchetta verdiana del maestro e l'auspicio del suo avvento sul podio scaligero. Chi, poi, ascoltasse lo stesso direttore nella stessa opera allorché giunto sul soglio (rectius podio) scaligero ben comprenderebbe il perché di frequenti, motivati malumori e la sopportazione di cui, almeno una parte del pubblico, lo fece oggetto poco dopo l'ascesa.
E che la Cruz-Romo fosse voce di Verdi, ma non da Verdi lo percepiamo chiaramente nelle battute di recitativo, che la presentano sul piazzale antistante il convento dove l'esigenza - fondata - di impeto verdiano la porta a suoni forzati nel primo "sul giunta" e a suoni più prossimi al parlato che non al canto in tutte le frasi, che insistono nella zona grave della voce con anche qualche suono sgradevolmente aperto come accade nella discesa al do # grave di "mio padre intrisa". Forzare e gonfiare la voce può anche portare a suoni un poco oscillanti nel si nat dell'escalamazione "ahi". Poi la Cruz-Romo canta con la sua voce di soprano lirico e il "tant'ambascia", che chiude il recitativo è splendido, dolente e dolce. Non solo, ma il direttore dimentica pure il metronomo. Un "peccato" dal quale sul podio scaligero si sarebbe, purtroppo, emendato.
Aria di lamento e dolore, Madre pietosa Vergine trova in Gilda Cruz-Romo un'esecutrice attenta a molti dei segni di espressione ad onta del tempo sostenuto staccato. Tempo sostenuto, che non è affatto pesante e giova ad una voce, che proprio quella di Leonora non è. Non solo ma nella seconda sezione dell'aria soprano e direttore realizzano benissimo l'indicazione di crescendo su "pietà Signor" e quella di con passione, sia pur con sonorità vocali ed orchestrali misurate, su "non m'abbandonar".
Nelle frasi di conducimento allorchè Leonora ode il coro interno, che gravitano in zona bassa della voce, i suoni sono molto migliori di quelli emessi con impeto e foga nell'incipit della scena.
Quando Verdi prescrive "declamando" sui si nat3 di "Al santo asilo accorrasi" la Cruz-Romo canta e, soprattutto, intepreta. Ennesima prova che si trattava di uno splendido soprano lirico, tanto è che la forcella dell'ultimo "pietà signor" della ripresa la voce suona un po' spinta, mentra la forcella sul "pietà Signor" conclusivo (non prevista in spartito) è realizzata a meraviglia.
Nelle battute, che precedono l'entrata del padre guardiano si deve ammirare la tecnica ed il gusto di Bruscantini. Sale senza nessuna fatica agli acuti previsti dalla parte. Niente vezzi e cadute di gusto. Esemplare e il vocalista e l'interprete. Non so se l'ispirazione sulle battute di conducimento sia del direttore o del soprano, ma la Cruz-Romo è anche in questa sede molto varia. Il timbro dolce e femminile esalta certe frase come "una donna son io" ed è esempio positivo del Verdi lirico (ma io direi del Verdi ben cantato) l'attacco di "infelice delusa rejetta" su tono ed intensità attutite, l'accento prevalentemente attonito, che rendono lo strazio interiore del personaggio e consentono l'emissione di un si nat sulla frase topica "la sua figlia a maledire" facile e squillante. Non possiamo che essere esterrefatti perchè Muti consente un rallentando non previsto a Siepi, Superiore del convento, su "giungerebbe il pentimento". Sin tanto che Leonora può essere sofferente e dolente la Cruz-Romo canta benissimo. Quando, per contro, lo spartito richiede mordente e slancio (quello che i soprani di un tempo chiamavamo "fuoco verdiano") i limiti della voce emergono, come accade all'attacco di "se voi scacciate" dove il soprano messicano, complice la scrittura bassa, suona enfatica. Quindi è logico che frasi come "mi toglierà" alla chiusura della sezione centrale del duetto sia resa con morbidezza ed accento forbito, mentre quelle infervorate e roventi della chiusa, dal sapore ancora un poco cabalettistico mettano in difficoltà la cantante.
Trattando di direzione di orchestra l'introduzione all'apertura della chiesa è solenne e misteriosa, Siepi (che, sia chiaro, non è Pasero o Pinza, ma il miglior Guardiano del dopo guerra) è, comunque, morbido e l'enunciato del coro "La Vergine degli angeli" sembra veramente discendere dal cielo e, come sempre accade alle voci d'oro (perchè tale era quella del soprano messicano) l'esecuzione della preghiera per bocca di donna Leonora, pentita e convertita, è veramente celestiale. Nessuna enfasi, nessun rumore, che unite a metronomicità e limitata dinamica ammorberanno il Verdi scaligero di Muti. Una grande direzione d'orchestra.

Non da meno quella di Levine.
A New York la pellegrina aspirante penitente è Martina Arroyo, accompagnata da James Levine, l’ultimo direttore che, nelle opere verdiane, accompagna con vigore e slancio, e che certa critica, che vuole essere di moda, suole guardare con aria sprezzante perché in odore di banda. Levine, sia detto subito, può permettersi certe scelte perché la protagonista, forse non irresistibile come accento, ma saldissima in tutta la gamma della voce, canta senza nessuno sforzo a tutte le intensità e a tutte le altezze. Che l’acume interpretativo sia limitato lo sentiamo sia nel recitativo che nell’aria. Martina Arroyo è misurata e sobria come interprete, forse non molto presente e salvo qualche sporadica tentazione di emettere suoni ovattati ed ingolati alla Price canta tutto con facilità irrisoria e arrivata al si nat su “ah, ohimè!” emette un suono bello, rotondo e facilissimo oltre che di grande volume. In tutta l’aria colori e sfumature poche. Il direttore stacca un ritmo sostenutissimo e solo al “pietà Signor” conclusivo compare, facile e dolcissima una smorzatura, ancor più efficace per il vigore di soprano e direttore nella conclusione dell’aria. Segnalo applausi da stadio o quasi. Oggi la memoria di siffatta ovazione è perduta. Oggi per continuare in una usata litania il pubblico under trenta ignora l’ascolto di una dote vocale come quella del soprano americano.
Bacquier dimostra la grandezza di Bruscantini e la Arroyo nelle battute di conversazione con il ben poco accogliente Melitone riesce anche a fraseggiare. E sempre, anche nella attesa dell’arrivo del Guardiano, una Leonora lirica nell’accento, ma di grande, opulenta voce.
L’incipit del duetto è interessantissimo perché la delicatezza e lo spavento della Cruz-Romo con Muti divengono il terrore e l’ansia della Arroyo con Levine. Egualmente legittime, egualmente giustificate dalla situazione scenica.
Certo che la Arroyo è piatta nella prima sezione del duetto e si scalda solo quando arriva il si nat della “figlia maledir” nota esemplare per facilità e squillo. Come esemplare è la facilità con cui l’Arroyo affronta e canta frasi come “darmi a Dio”. Come verdiana, in senso tradizionale e positivo, è la cantabilità della sezione che segue.
Non credo che nessuna registrazione e tanto meno esecuzione scenica possa avvalersi di tanto splendore e turgore vocale. Neppure la giovane Price. Arrivata a frasi come “salvati all’ombra” la Arroyo è anche capace di varietà di fraseggio, ma il suo rimane un Verdi la cui peculiarità è la bellezza e facilità del canto. Nella parte conclusiva di questa sezione l’accompagnamento è un poco pesante. Eseguiti alla lettera alla chiusa le indicazioni di “dolce poco rallentando e morendo”.
La sezione conclusiva del duetto “Sull’alba il piede” è staccata da Levine in maniera molto cadenzata e solenne (una sorta di trionfo della fede, per utilizzare il quanto mai opportuno concetto manzoniano della fede avvezza ai trionfi) e anche l’intervento di Leonora è in tempo sostenuto. Però il suono puro, dolcissimo sul mezzo forte mette già in sfera angelica la Leonora di turno. In tutta l’esecuzione non una nota brutta, non un suono che non sia al posto giusto. L’interprete è tutto men che travolgente, ma l’esecuzione vocale di impensabile facilità aiuta e nasconde i limiti di accento.
Angelica la Vergine degli Angeli, come la esegue Martina Arroyo, introdotta non già dal coro rarefatto di Muti a Vienna, ma sostenuta da un tempo e da sonorità, sì eleganti e sobrie, ma consone ad una trionfante chiesa ambrosiana, ancora animata dagli ideali del concilio tridentino. Hanno due pregi: esaltano per contrasto il canto della Arroyo e ritraggono, in fondo, l’istituzione Chiesa, che Verdi vedeva, viveva e, forse, subiva.


Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli

1975 - Martina Arroyo (con Bonaldo Giaiotti & Gabriel Bacquier - dir. James Levine - Met, New York)

1977 - Gilda Cruz-Romo (con Cesare Siepi & Sesto Bruscantini - dir. Riccardo Muti - Opera di Stato, Vienna)

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mercoledì 3 febbraio 2010

Grandi concerti di canto: Beverly Sills, Chicago 1970.


Dopo la spedizione viennese di Antonio Tamburini ed il contenuto omaggio ad una delle ultime dive abbiamo sentito il dovere di rendere omaggio ad una diva amatissima dal pubblico, proposta in un momento magico della propria, per certi versi breve, ma grandissima carriera: Belle Silvermann in arte Beverly Sills.

La Sills un anno prima del concerto aveva fatto esplodere la Scala quale protagonista di Assedio di Corinto. Spartito alla mano, al pari delle non autentiche versioni Malibran dei lavori belliniani, si potrebbe parlare della versione Sills per il titolo rossiniano. Philip Gossett nel proprio "Divas & Scholars" lungamente discetta su una tale operazione, ma il risultato fu una performance di levatura storica.
Una cosa è certa: in quell'Assedio la scrittura centralizzante di Pamira divenne acutissima per esaltare le qualità della cantante prescelta. Il risultato non fu solo una esecuzione vocale unica, ma e soprattutto una delle più complete esemplificazioni del sublime tragico.
Nel concerto americano la Sills ovviamente rivela il suo meglio nei brani di coloratura, rendendo un omaggio ed una esemplificazione di quella che fu per il mondo francese del grand-opéra la grande chanteuse à roulades. Non solo, ma la Sills in due brani che da sempre identificano il cosiddetto soprano leggero riesce ad essere una interprete diversa ed assoluta. Mi spiego: mentre la Margherita di Valois è salottiera ed esteriore, qualità che è rimarcata da inserimenti che superano quelli documentati a 78 giri, Ofelia è intensamente drammatica, bastando a ciò come la Sills scandsce il ritornello della canzone, ossessione nella mente malata della protagonista.
Divenuta diva la Sills seguì nella scelta del repertorio le dive già affermate come la Callas e la Sutherland, eppure chi ascolta l'esecuzione delle arie da concerto mozartiane non può che rimpiangere una più lunga frequentazione (che forse avrebbe coinciso con una più lunga carriera) con il repertorio mozartiano. Ascoltare per credere il "Vorrei spiegarvi o Dio".



Gli ascolti

Beverly Sills - Recital in Chicago


Programma

Antonio Vivaldi

Sorge vermiglia in ciel - Cantata RV 667

Darius Milhaud

Chansons de Ronsard, op. 223

A une fontaine
A Cupidon
Tais-toi, Babillarde
Dieu vous garde

Wolfgang Amadeus Mozart

Vorrei spiegarvi, oh Dio K 418

Gabriel Fauré

Rencontre
Toujours
Adieu
Nocturne
Notre Amour

Camille Saint-Saëns

Le Rossignol et la Rose

Nikolai Rimsky-Korsakov

The Nightingale & the Rose

Enrique Granados

La maja y el ruseñor (da Goyescas)

Giacomo Meyerbeer

Les Huguenots - O beau pays de la Touraine

Ambroise Thomas

Hamlet - A vos jeux, mes amis

Gaetano Donizetti

Linda di Chamounix - O luce di quest'anima

Enrique Granados

Elegia Eterna

Roland Gagnon, piano

Chicago, Auditorium Theater, 26 Ottobre 1970

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lunedì 1 febbraio 2010

Puritani alla Staatsoper di Vienna

Vienna s’inginocchia al cospetto di Edita Gruberova, tributandole al termine della recita un autentico trionfo “old style”, con tanto di lancio di bouquet, striscioni inneggianti alla “voce soave” della cantante e più di dieci minuti di applausi, che si sommano a quelli a scena aperta raccolti dopo l’Ah vieni al tempio, la scena della pazzia e il duetto con il tenore. Trionfo scontato, si potrà dire, per la prossimità geografica rispetto alla città natale della diva e, più ancora, per il rapporto pluridecennale e davvero storico con il teatro viennese, che contende al Liceu di Barcelona il titolo di feudo supremo della Gruberova. Per essere chiari e netti, la Staatsoper è anche, sempre assieme al Liceu, il solo teatro in cui la signora possa, oggi, affrontare un titolo del repertorio belcantista senza suscitare, oltre alla doverosa ammirazione per le sue vitalissime 63 primavere, qualche giustificata perplessità.

Fin dalle prime battute, con l’inno dietro le quinte, la Gruberova ci ricorda che sa ancora dove e come mettere la voce, alta di posizione, proiettatissima, dal timbro cristallino e senza tracce di senescenza. Il duetto con lo zio mette però in evidenzia un’ottava bassa notevolmente meno sonora di quanto ricordassimo, l’incapacità di eseguire le agilità di forza nel tempo di attacco e la fatica ad esempio nelle scale discendenti su “in quell’istante di dolor” e nei trilli su “morirò”. Il sovracuto interpolato al termine della scena con Giorgio è attaccato stonato, poi la cantante riesce ad “aggiustarlo” in corsa, procedimento peraltro per lei abituale, ma che stavolta è più evidentemente percepibile che in passato. Identici limiti, sia pure smorzati dal contesto, decisamente più incline al grazioso, presenta la polacca, peraltro eseguita in versione ridotta e passata senza un solo applauso.
La diva si prende la rivincita nel finale del primo atto, col quale dimostra che, almeno nel canto spianato, teme oggi ben poche rivali, se non fra le coetanee. Prodigiosa la capacità di smorzare i suoni, massime in alto, e di risultare, anche e soprattutto nei pianissimi, brillante e sonora. Per inciso il soprano acquista punti quando canta a mezzavoce, perché a voce piena i suoni risultano non di rado spinti e un poco striduli, come ad esempio avviene nelle puntature di tradizione dell’Ah vieni al tempio.
Cantabile della pazzia: in prima ottava i suoni sono gonfi e tubati e l’interprete alquanto manierata, ma non appena la tessitura sale, la signora dimostra che sa ancora che cosa siano le messe di voce (una bellissima anche nel primo atto, sul la naturale acuto durante la sortita di Arturo). Bene anche la cabaletta, le cui variazioni, decisamente “antiche” per gusto e quantità, richiedono alla cantante vistose e udibili riprese di fiato, che però il soprano gestisce al meglio, controllando la colonna d’aria con invidiabile sicurezza. La precisione delle agilità manda in visibilio il pubblico, anche se in scena non c’è Elvira, ma semmai la Fiakermilli travestita da Elvira.
La stanchezza si fa sentire nel terzo atto, in cui la voce risulta meno sonora (se non nel sovracuto interpolato nel duetto, peraltro calante) e anche l’interprete appare in affanno, anche se il taglio di una parte della stretta del duetto le permette una più celere conclusione dello stesso. Per inciso non è stata eseguita la cabaletta Ah sento o mio bell’angiolo, tradizionale Bravour-Szene delle Elvire grandi virtuose del post Sutherland. Ciò premesso, e pur auspicando che questi siano gli ultimi Puritani della signora (anche perché il motto "meglio rimpianti che compianti" vale anche per lei), non possiamo fare a meno di ammirare, ancora una volta, la tenuta di una cantante che in età matura e alle prese con un repertorio in cui non ha mai brillato, neppure in anni più felici (perché la sua Elvira e la sua Lucia, per tacere di esperimenti più arditi, non sono neppure paragonabili alla sua Zerbinetta), impartisce, con tutti i limiti del caso, una lezione di canto. E mai come oggi ne avvertiamo il bisogno!
Il successo della Gruberova è stato condiviso dal suo Arturo, Shalva Mukeria, che ha avuto il merito di non sfigurare non solo al cospetto della collega, ma soprattutto rispetto al ruolo, uno dei più esigenti del Belcanto. Anche la voce di Mukeria è brillante e sonora, e come per la Gruberova non si tratta di eccezionale dote di natura, ma di grande controllo tecnico, anche questo davvero “vecchia scuola”. La voce è argentina, squillante sugli acuti e i sovracuti, meno sonora nei gravi, che però Mukeria non forza mai, cantando in modo estremamente dolce e morbido. Ne risulta un personaggio idealizzato (come non possono non esserlo quelli di questo repertorio!), tenero e sognante nell’A te o cara (dopo le prime battute un poco incerte, per così dire “di assestamento”, è mirabile la facilità con cui il cantante prende e tiene il do diesis e lo lega alla successiva scaletta discendente), eroico nel riconoscimento della Regina e baldanzoso alla sfida (magnificamente scandite le quartine e terzine vocalizzate) ma sempre elegante e nobile.
Il punto di forza di questo Arturo, come già a Toulon, è il terzo atto. La canzone del trovatore (purtroppo eseguita con un taglio nella sezione conclusiva della prima strofa) è malinconica quanto varia nell’accento e nei colori, mentre nel recitativo che la precede il tenore sostiene con grande naturalezza la tessitura per nulla comoda, rendendo bene l’emozione e lo sgomento del personaggio. Sacrosanto applauso a scena aperta al termine della scena. Anche al duetto Mukeria ci rammenta che cantare bene e interpretare non sono alternative, ma causa ed effetto: il pianissimo su “Fur tre mesi” trasmette l’ansia, l’affetto e i sensi di colpa dell’amante fuggitivo più di mille trovate pseudointerpretative. Al Credeasi misera il canto di Arturo si fa tragico, ma questa tragedia si esprime, come fa Mukeria, dominando con spavalderia l’ostica scrittura, squillando quasi con protervia sul la bemolle e re bemolle e smorzando le ultime frasi, quasi che Arturo le ripetesse fra sé. Altri poi si lagneranno della mancanza del fa sovracuto. Come se una nota, magari emessa di strozza, potesse aggiungere qualcosa a un brano già così diabolicamente difficile. Grandi e meritati applausi anche a questa pagina che, con la soppressione della cabaletta finale, conclude di fatto la serata.
Poi ci si può magari interrogare sul perché il primo atto non sia affrontato con la stessa irruenza del terzo, anche se quella che è verosimilmente una scelta di prudente e oculata amministrazione delle forze vocali è anche funzionale alla costruzione del personaggio, che cresce nel corso della serata fino al vertice dell’ultimo assolo. Ma se richiamiamo alla memoria gli Arturi stanziali o sporadici del presente e del recente passato, il tenore georgiano si colloca agilmente in cima alla classifica. Come per la Gruberova, il segreto si chiama grande preparazione tecnica, cura della propria voce, amore e rispetto per la musica e per il pubblico.
Boaz Daniel (Riccardo), fattosi annunciare indisposto, ha cantato con buona voce, assai chiara e abbastanza grande, però molto rigida e compressa, specie dopo che la puntatura alla fine del cantabile dell’aria, risoltasi in un suono piuttosto rauco, ha provocato un mormorio di disappunto fra il pubblico. Alla sfida gli è mancato lo squillo dell’innamorato vendicativo, ma ha ben figurato nel duetto in chiusa del secondo atto. Christof Fischesser, Giorgio slaveggiante nell’emissione, ha risolto discretamente il Cinta di fiori (più per le encomiabili buone intenzioni di fraseggio che per il risultato vocale, un poco ingolfato) ed è stato funzionale nel resto dell’opera. Se non altro la voce è di vero basso, e con l’abbondanza di tenori mancati, anche e soprattutto di provenienza belcantista, cui attualmente è affidato il ruolo dello zio di Elvira, non è cosa da poco.
Pesante e priva di nerbo la direzione di Latham-König. Se non altro ha avuto il merito di non ostacolare le voci, staccando ad esempio nel terzo atto tempi ragionevolmente rapidi e non inutilmente dilatati, come invece fanno certi astri nascenti della bacchetta, le cui nozioni in questo repertorio si limitano a qualche peregrina osservazione sui pregi di Bellini come strumentatore (!).
Messinscena “alla tedesca”, probabilmente all’origine di alcuni tagli piuttosto discutibili (fra cui spicca quello del coro Garzon che mira Elvira, evidentemente ritenuto troppo frivolo). Costumi quasi classici (ma gli ufficiali puritani sono vestiti da preti con soprammessa armatura, più da Templari che da calvinisti inglesi), la scena uno show-room con poltroncine minimaliste, qualche polveroso simbolo (una serie di teste mozze, una foresta di lampade su un pavimento di foglie morte) e poco altro.



La locandina

Lord Gualtiero Valton - Janusz Monarcha
Sir Giorgio - Christof Fischesser
Lord Arturo Talbo - Shalva Mukeria
Sir Riccardo Forth - Boaz Daniel
Sir Bruno Roberton - Benedikt Kobel
Enrichetta di Francia - Zoryana Kushpler
Elvira - Edita Gruberova

Direttore - Jan Latham-König
Maestro del coro - Martin Schebesta

Orchestra e Coro dell'Opera di Stato di Vienna

Regia - John Dew
Scene - Heinz Balthes
Costumi - José Manuel Vásquez

Wiener Staatsoper, 30 Gennaio 2010



Gli ascolti

Bellini - I Puritani


Atto II

Qui la voce sua soave...Vien diletto, è in ciel la luna - Marcella Sembrich (1907)

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