mercoledì 30 luglio 2008

Schrott - Disco Decca

Esce in questi giorni il disco di Erwin Schrott. Marchio Decca. La casa discografica, parlando della corda di basso, di Ghiaurov e, in parte, di Ramey.
Abbiamo ascoltato sul sito del cantante la preview del disco.
Abbiamo deciso dal parziale ascolto di non acquistare il disco.
Abbiamo, però, deciso, per consentire a chi ci legge di continuare a giudicarci passatisti e nostalgici, di offrire le medesime pagine musicali, che vanno da quelle per basso baritono a quelle per basso profondo, nell'esecuzione di cantanti che hanno rilevanza ed importanza ed in taluni casi levatura storica.
Abbiamo, perdonate l'atto di presunzione, pensato di offrire a chi avrà la disponibilità, in ogni senso, di acquistare il cd di avere una "pietra di paragone".
Abbiamo anche il dovere di precisare che i vari signori che offriamo in ascolto sono negli stessi brani il più delle volte intercambiabili.
Buon ascolto
Buone riflessioni
Buona anguria!!!!!



Gli ascolti

Mozart - Don Giovanni - Madamina, il catalogo è questo - Tancredi Pasero

Verdi - Don Carlos - Elle ne m'aime pas - Pol Plançon

Mozart - Don Giovanni - Deh, vieni alla finestra - Maurice Renaud

Mozart - Don Giovanni - Fin ch'han dal vino - Antonio Scotti

Mozart - Le nozze di Figaro - Se vuol ballare - Giuseppe de Luca

Verdi - Macbeth - Come dal ciel precipita - Karl Ridderbusch

Berlioz - La damnation de Faust - Voici des roses - Mattia Battistini

Mozart - Le nozze di Figaro - Aprite un po' quegli occhi - Sesto Bruscantini

Mozart - Le nozze di Figaro - Non più andrai - Samuel Ramey

Gounod - Faust - Vous qui faites l'endormie - Alexander Kipnis

Verdi - I vespri siciliani - O tu Palermo - Ezio Pinza

Meyerbeer - Robert le diable - Nonnes qui reposez - Nazzareno de Angelis

Bonus track : Gounod - Faust - Le veau d'or - Trovate l'interprete!

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domenica 27 luglio 2008

Della necessità e utilità dei festival

L’estate è da più di un secolo la stagione dei festivals.
I festival nacquero con la nobile ed encomiabile idea di consentire ad autori reietti in altri teatri l’esatta rappresentazione delle loro opere o per consentire la nuova e corretta circolazione ad altri adulterati, maltrattati e malmenati nelle allora coerenti ed invernali stagioni.
Sono questi, dicevo, nobili ed alti intenti. Rimangono, però, intenti perché quel che conta è la realizzazione pratica degli stessi ed il rispetto dell’arte e l’evitare di trasformare, snaturandolo, l’evento artistico in evento mondano e commerciale.
I primi a partire furono Oltralpe. Anzi nel caso del “consentire ad autori reietti in altri teatri l’esatta rappresentazione” vi provvide il reietto autore medesimo. Wagner, erigendo a sé ed alla sua produzione musicale Bayreuth. Come tutti i manager Wagner non tenne conto che sempre le aziende cadono in successione e spesso gli eredi sono cagione di disastri e dissesti. Spesso irreparabili. Non mi addentrerò nelle vicende ereditarie, ma è chiaro che sin dall’avvento di Cosima Liszt vedova Wagner le cose (ossia gli intendimento artistici) presero una piega non preventivata dal Maestro. Dalle scelte della vedova più allora che oggi (viste le condizioni obitoriali del canto wagneriano e soprattutto della tradizione direttoriale) due separate scuole di esecuzione fra loro non certo in antitesi hegeliana, ma i guerra aperta, l’una transfuga negli altri teatri germanici ed anglossassoni soprattutto, l’altra di stretta osservanza e assolutamente improponibile altrove.
L’episodio di Cosima Wagner ed Ernestine Schumann_Heink che vennero, in pratica, alle mani è significativo più di ogni parola. Inutile dire che con il nostro paradigma di esecuzione stiamo dalla parte di Frau Ernestine, con cui studiò Tristano persino Lauritz Melchior. Il Tristano per antonomasia, che le odierne Cosime bollano come negazione di canto ed interpretazione wagneriana. Noi ignoranti e passatisti, invece, lo consideriamo modello insuperato, confortati in questa opinione dai più eminenti direttori d’orchestra, che se lo contendevano per tutte le parti di tenore wagneriano.
Quanto al secondo intento “consentire nuove e corretta circolazione a musicisti maltrattati, adulterati” fu il criterio ispiratore di Salisburgo. Non dimentichiamo che all’epoca di fondazione del festival di Mozart circolavano in pratica Flauto magico e Don Giovanni. Va anche detto che altre e non tedescofone istituzioni furono quelle che permisero una più massiccia e persuasiva diffusione dell’autore salisburghese. Alludo al festival di Glyndebourne.
Quello che è divenuto il festival di Salisbugo dagli anni 1960 in poi è sotto gli occhi di tutti e, quel che è peggio, nelle orecchie di tutti. Una cosa è certa che se ai primi del ‘900 la crociata volta a riportare Mozart in stabile repertorio aveva alti fini (!), oggi gli stessi li avrebbe quella per allontanare o ridurre drasticamente le rappresentazioni dei titoli del genio salisburghese. Ma ormai l’azienda Salisburgo è in produzione sia pur con qualche ausilio della cassa integrazione e deve andare avanti a produrre.
Certo è che comparando un don Giovanni in lingua tedesca del 1936 con un cast capitanato da Maria Reining ed Julius Patzak e molte delle attuali esecuzioni nello spirito festivaliero sorge qualche pesante dubbio sulla tenuta nel tempo degli ideali festivalieri.
Dicevo di due scopi condivisibili. E credo siano gli unici coerenti e spendibili per pensare, organizzare ed allestire un festival nel tempo con il corollario –obbligatorio- di esecuzioni vocali e strumentali di qualità.
Queste esigenze, venendo a casa nostra, mettono in dubbio che abbiamo necessità stringenti e credibili di manifestazioni festivaliere dedicate ad autori come Verdi e Puccini, il cui catalogo, fra l’altro, non è sterminato, atteso che i due autori stanno, al pari di Mozart, in dosi massicce nei teatri di tutto il mondo.
Quanto, poi, a Puccini mi domando l’utilità se non puramente accademica (o peggio l’interesse economico) di riproporre pagine come quelle di Edgar che finirono non tagliate, ma rottamate dallo stesso autore o inventarsi le versioni di Butterfly (manco fosse Macbeth o Don Carlos) quando è chiaro per prossimità dei fatti e la loro documentazione che l’opera è, sia pur uscita a puntate dallo studio di Puccini, quella che da sempre circola a stampa ed è proposta nei teatri.
Anche perchè la prassi teatrale ed esecutiva di Butterfly, piuttosto che di Tosca non è certo quella di Semiramide o Tancredi. Titoli questi che riportano alla mente quello che sembra essere la “collina” attuale dell’industria festivaliera italiana. L’intento che fondò il ROF era inoppugnabile: restituire rappresentazioni teatrali di un autore tanto divinizzato in vita quanto perso nella realtà esecutiva.
Idea, ripeto, condivisibile e resa ancor più intrigante dal corollario di restituire anche una prassi esecutiva fatta di interventi di testo e soprattutto di compresenza di svariate versioni.
Però Rossini è l’autore che più di ogni altro richiede in termini di esecuzione. Allora sia chiaro che nella terra promessa di Rossini dei rossinisti e dei rossiniani non abbiamo mai sentito una grande direzione rossiniana. Preciso che ritengo che modello della direzione rossiniana, rimanga quella di Schippers nell’Assedio scaligero.
Quanto ai cantanti è documentale che i maggiori e storici siano stati pochi come pochi furono all’epoca della composizione di quelle opere, hanno patito tutti di sottoccupazione.
Il festival, allora, ovvero quando disponeva di forze vocali di levatura storica non ha mai ragionato come ragionava Rossini, ossia offrendo a quegli elementi straordinari e realmente rossiniani l’opportunità di titoli o di versioni, magari differenti da quelli della prima versione (ma approvati da autore e tradizione coeva), comportamento e scelta che con riferimento a Rossini è un errore, prima che musicale, di filologia. Di quella filologia di cui tanto il Rof si fa merito e vanto. Tanto fatuo da meritare nella mente e nei sogni di chi scrive un vero e proprio contro festival.

Mozart - Don Giovanni

Atto I: Don Ottavio, son morta!...Or sai chi l'onore - Maria Reining (con Julius Patzak)

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giovedì 24 luglio 2008

Stagioni prossime venture: La Spagna


Ormai da tempo nota la composizione della stagione 2008-2009 nei maggiori teatri spagnoli (Real di Madrid, Liceu di Barcelona, Opera di Bilbao, Campoamor di Oviedo, Pérez Galdós di Las Palmas), il panorama iberico si prospetta, al pari di quello francese e londinese analizzato da Duprez, a dir poco desolante. Non certo per la quantità di proposte, sempre e comunque superiore a quella di teatri italiani dalle risorse altrettanto (se non più) importanti, bensì per la qualità di un'offerta che assai di rado coniuga arditezza di proposte e lungimiranza di distribuzione vocale, per tacere di quella artistica in senso lato.

Basta uno sguardo ai titoli per accorgersi della poca fantasia dei curatori dei cartelloni: se fra gli autori premozartiani fanno timidamente capolino solo Monteverdi, Purcell (la solita Dido & Aeneas) e Haendel (con schiere di baroccari, sul palco e in buca), di Mozart impera la trilogia dapontiana (nessuna traccia non dico dei capolavori seri, ma ben più banalmente dei Singspiel), Rossini è limitato al canonico Barbiere (a Oviedo, con un Almaviva che è squittente caricatura di un tenore di grazia) e Donizetti alle opere comiche (Don Pasquale, affidato per giunta ai partecipanti di un workshop del Teatro Real istruiti da Ernesto Palacio [sic], e Figlia del Reggimento). Se Verdi è maggiormente presente e risponde all'appello il solito Janacek (ormai il vero autore à la page di questi anni), Bellini e Gluck mancano del tutto (assenti non dico Norma o Pirata, bensì i più abbordabili Capuleti), Wagner e Strauss sono ridotti ai soliti titoli (soprattutto il secondo, con l'ennesima Arianna a Nasso dal cast ben poco attraente) e di Puccini, malgrado le celebrazioni, si vedranno Turandot e Bohème (titoli non proprio bisognosi di riscoperta). Persino l'opera francese, a eccezione della "sivigliana" Carmen (peraltro incautamente affidata a una Ganassi che non ha certo lo charme richiesto dal ruolo, per tacere del resto), latita. Importante, come usa dirsi, la presenza di titoli novecenteschi e/o inediti, specie in teatri come il Real e il Liceu, ma ci sono forti dubbi sulla qualità del canto che simili titoli possano richiedere e conseguentemente proporre al pubblico.

Non che negli altri repertori le cose vadano splendidamente, per inciso, attestato che i più quotati interpreti di un ruolo da vertigine come Riccardo nel Ballo in maschera sono rispettivamente un tenore dalla voce un tempo magnifica e ormai appannata e dal forfait facile e un microbico cantante assai più adatto a Paisiello che non agli eroi verdiani, frequentati con stolida assiduità anche sulle scene dei nostri teatri. Per non parlare del Duca di Mantova, altro ruolo a forte rischio di rinunce last minute, schiacciato com'è fra tenori di brillante ascendenza contraltina che poco o punto sanno di vocalità e accento verdiani (e che per giunta faticano assai sul passaggio e oltre) e voci deliberatamente bloccate allo stato brado, malgrado un'agenda che porrebbe seri problemi anche a cantanti tecnicamente ben più ferrati.
Non si creda però che la corda tenorile sia l'unica a conoscere serie difficoltà nel repertorio verdiano: in campo femminile assistiamo a un'altalena di orchi e passerotti, voci liriche un tempo dignitose, quando non sontuose, ormai svuotate e rinsecchite, precocemente senili nel timbro e nel vibrato, quando non svociate e ululanti senz'altro.

A proposito di difficoltà. Non sfugge certo che il teatro di Bilbao, saggiamente, ha scritturato per opere di grande richiamo come Figlia del reggimento e Carmen due cast, il primo "all star" e il secondo di giovani di belle speranze: è bello avere fiducia nelle nuove leve, ma, alla luce di recenti prove (e mancate prove) delle massime star mondiali, abbiamo ragione di credere che non sia tanto la fiducia ad animare i responsabili dell'iniziativa, quanto il timore di non avere un rimpiazzo pronto in caso di abdicazione in extremis.

Un dettaglio curioso, nella follia generale, è il debutto di una baroquiste di lungo corso e provata fede come Véronique Gens nei Maestri cantori di Norimberga (Liceu di Barcellona). Come possa una voce delicata (per usare un termine neutro) e avvezza agli striminziti complessi "su strumenti originali" pensare di oltrepassare le bordate dell'orchestra wagneriana, è cosa difficile da comprendere. Peccato che a dirigere l'opera non siano stati convocati filologi del calibro di Herreweghe o Spinosi, essendo il tutto affidato a un più tradizionale - ma assai meno chic - Sebastian Weigle, cui spetterà l'arduo compito di non ridurre la Gens a una mima. Il percorso inverso percorre invece, nel medesimo teatro, Vesselina Kasarova, dai troppo onerosi eroi en travesti del melodramma rossiniano e belliniano al più abbordabile Nerone di Monteverdi. Spericolata invece Patrizia Ciofi, quasi afona nei recenti Capuleti parigini: le stagioni spagnole la vedranno impegnata come Gilda, nel debutto come Cleopatra nel Giulio Cesare haendeliano (una parte sontuosa e virtuosistica che le sarebbe stata forse dieci anni fa, e nemmeno allora perfettamente) e in un concerto-omaggio a Puccini, al fianco di colleghi del calibro di Paoletta Marrocu, Maria Guleghina e Roberto Aronica (è il caso di dire: povero Puccini).

E a proposito di concerto, gli amanti del "nuovo che avanza" non si faranno certo sfuggire le rinnovate esibizione di pezzi di storia del canto come Jaime Aragall e Juan Pons (quest'ultimo ormai assurto al rango di reperto archeologico). E infine, ça va sans dire, Edita Gruberova, impegnata al Liceu in due concerti solistici, uno con orchestra, dedicato alle arie di bravura di Mozart, e l'altro liederistico, con accompagnamento di pianoforte. Ma quella della signora Gruberova è una lezione di tecnica ferrea e conseguente longevità vocale che molte colleghe (e colleghi) paiono prendere in scarsa considerazione.


Gli ascolti

Beethoven - Fidelio
Atto II: Gott! Welch Dunkel hier - Wolfgang Windgassen

Donizetti - La fille du régiment
Atto I: Pour mon âme - Chris Merritt

Monteverdi - Il ritorno d'Ulisse in patria
Atto I: Di misera Regina - Gabriella Gatti

Rossini - Il barbiere di Siviglia
Atto I:
Largo al factotum - Armand Crabbé
Dunque io son - Ewa Podles & Mikael Melbye

Verdi - Rigoletto
Atto II: Parmi veder le lagrime - Rockwell Blake

Verdi - Un ballo in maschera
Atto I: Di' tu se fedele - Tino Pattiera

Wagner - Tannhäuser
Atto III: O du, mein holder Abendstern - Herbert Janssen

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martedì 22 luglio 2008

75.000 ingressi: Gran concerto meyerbeeriano

E siamo arrivati ai 75.000 ingressi nel blog.
Per i 75.000 ingressi avevamo pensato di scegliere un autore tanto famoso e paradigmatico nella storia dell’opera quanto, da almeno cinquant’anni, sostanzialmente dimenticato : Giacomo Meyerbeer. Dimenticato in maniera anche incomprensibile perché se i teatri allestiscono ancora (e il futuro –temiamo- sarà latore di dense tenebre) opere come Don Carlos non si da un valido motivo, se non la scarsa consultazione della sempre utile Garzantina per la mancata rappresentazione di Ugonotti o Africana.

Devo anche dire, a piccola e parziale scusante della scarsa cultura e fantasia di chi propone gli allestimenti, che il declino dell’operismo di Meyerbeer è principiato in un’epoca in cui erano ancora ben disponibili cantanti che per tecnica e gusto potevano essere esecutori meyerberiani storici.
E, dunque per i 75.000 Meyerbeer con il suo lavoro più famoso : Les Huguenots.
Per capire la rilevanza sino agli anni 30 o 40 del secolo scorso di Meyerbeer basta rilevare che delle arie più famose dei suoi grand-opéra si contano tante registrazioni quante delle arie e dei duetti di opere come Rigoletto o Traviata.
Gli ascolti proposti sono un minimo rispetto alla vastità delle registrazioni. L’ascolto, pur con le difficoltà che il 78 giri specie se acustico, mette in contatto con un mondo dove l’interpretazione è interamente affidata al canto, dove la cognizione tecnica è presupposto per essere interprete e non solo esecutore. In un autore che non brillava per inventiva musicale, ma per altro dallo stupore per le difficoltà vocali alla sapienza compositiva, la perfetta esecuzione delle indicazioni dello spartito, Meyerbeer era maniacale nelle indicazioni di dinamica ed agogica, il possesso di una tecnica che consenta di eseguire le più astruse figure ornamentali, le più estenuate e raffinate filature e messe di voce, di sfoggiare gli estremi della voce è essenziale ed irrinunciabile. Il grande esecutore Meyerbeeriano si chiami Margarethe Siems, piuttosto che Frieda Hempel o Leo Slezak deve essere in primo luogo un attore vocale.
Meyerbeer e gli Ugonotti sono stati, poi, l’occasione per un felicissimo ed incomparabile incontro, quello con Vivian Liff, uno dei maggiori collezionisti di registrazioni storiche al mondo.
Mr Liff, la cui collezione è stata utilizzata per la realizzazione di una serie di dischi, imperdibili per l’appassionato e lo studiosi di voci storiche quale il "The Record of Singing", apprestò una disamina esaustiva e completa delle registrazioni degli Ugonotti vuoi complete che per brani. Mr Liff, richiesto in tal senso ci ha dato il permesso di pubblicare il suo scritto.
Ci siamo messi all’opera anche come traduttori e dalla settimana prossima a puntate comparirà in duplice versione lo scritto di Mr Liff. Ci auguriamo che Mr Liff continui a regalarci i suoi pensieri scritti.

Per ora proponiamo un'ampia selezione del suo capolavoro per tutti i nostri lettori. Buon ascolto!

Gli ascolti

Meyerbeer - Les Huguenots

Acte I


Sous le beau ciel - Enrico Caruso (1901)

Plus blanche que la blanche hermine - Enrico Caruso (1905), Antonio Paoli (1910), André D'Arkor (1931), Helge Rosvaenge (1932)

Seigneur, rempart et seul soutien - Wilhelm Hesch (1906)

Piff, paff - Adamo Didur (1908)

Nobles seigneurs - Selma Kurz (1912), Sigrid Onegin (1928)

Acte II

O beau pays...Sombre chimère...A ce mot - Nellie Melba (Mapleson - 1902), Luisa Tetrazzini (1914), Beverly Sills (1969)

Non, vous n'avez jamais - Zara Dolukhanova

Beauté divine, enchanteresse - Leo Slezak & Elise Elizza (1905), Augustarello Affré & Lise Landouzy (1907)

Acte III

Dans la nuit, où seul j'eveille - Edouard de Reszke & Johanna Gadski (Mapleson - 1903)), Nicolai Ghiuselev & Martina Arroyo (1968)

En mon bon droit j'ai confiance - Leon Escalais, Magini-Coletti, Luppi, Sala, Corradetti, Algos, Masotti (1905)

Acte IV

Benediction - Marcel Journet (1912)

O ciel! Où courez-vous - Fernando de Lucia & Angela De Angelis (1917), Marcel Wittrisch & Margarethe Teschemacher (1931), Rockwell Blake & Alketa Cela (2004)

Acte V

Savez-vous qu'en joignant - Samuel Ramey, Harry Thayard & Marisa Galvany (1977)


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lunedì 21 luglio 2008

...un romantico artista moderno!

Mi perdoneranno i melomani puristi per questa escursione fuori dai nostri territori di elezione, ma a volte anche una grande impresa sportiva può assurgere alle vette ....dell'ARTE!

Quanto ha fatto Valentino Rossi ieri a Luguna Seca ( USA ) può ben stare al fianco delle imprese dei nostri epici e romantici cantori, soprattutto di quelli che hanno sfidato i loro limiti per andare ....oltre.
Omaggiamo qui una gara che resterà nella storia del motociclismo, come esempio di ardimento, coraggio, determinazione e ....forza mentale, perchè grazie ad essa è stato piegato l'avversario dalla moto più forte.

Per superVale, il canto di esultanza della più grande tra le virtuose!!!!!



OMAGGIO A VALENTINO ROSSI



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domenica 20 luglio 2008

Il tenore prima di Caruso e del Verismo, parte VII

Siamo arrivati al termine delle nostre riflessioni sul tenore antecedente la “svolta” di Caruso.
E siamo arrivati a riflettere su Leon Escalais (1859-1941) e Augustarello Affre (1858-1921), quindi, francesi e coetanei, tenori di levatura storica, più oggi che allora, rappresentanti l’ultima completa raffigurazione del tenore da Grand-Opéra.

Nel tempio del Grand-Opéra, però si esibì soprattutto Affre dal 1895 al 1908, Escalais, che a Palas Garnier aveva debuttato nel 1883 cantò soprattutto nei teatri della provincia francese (Marsiglia e Lione soprattutto) ed a Bruxelles, oltre che in Italia. Entrambi affrontarono il Covent Garden e i Teatri Americani, escluso, però, il sovraffollato per quanto concerne i tenori Metropolitan.
Il motivo ufficiale dell’esclusione dal massimo teatro francese era l’aspetto fisico di Escalais, piccolo di statura, con un grosso capo e scadente attore. La giustificazione suona sospetta; l’iconografia fotografica esclude che Affrè fosse dotato di bellezza apollinea. Per la cronaca Escalais tornò all’Operà ne 1909 a fine carriera. Sua e di Affre, che si esibì per un paio di anni ancora.
L’esilio dal massimo teatro francese fruttò ad Escalais il debutto nel massimo teatro italiano e la possibilità di eseguire il proprio repertorio sia in Italiano che in francese. Come era accaduto per l’archetipo di questi tenori Duprez, che famoso e primo tenore dell’Opera si esibiva, talvolta, al Teatro degli Italiani, applauditissimo in coppia con Rubini nel duetto del Ricciardo e Zoraide.
Affrè venne definito il Tamagno francese, Escalais dalle registrazioni somiglia non poco al creatore di Otello. E proprio nell’Otello ritengo opportuno proporlo, trattandosi di una registrazione esemplare per misura e gusto..
Devo anche aggiungere che nelle registrazioni i due cantanti suonano per timbro e gusto molto simili, con la precisazione che le registrazioni acustiche penalizzavano pesantemente le voci squillanti e ricche di armonici. Escalais, benché in forma sino alla morte, non registrò alcunché con il sistema elettrico, come fecero Knote e Bonci, con grande guadagno per la loro fama.
Entrambe le voci suonano chiare. Oggi diremmo da tenore lirico, come tutti i tenori pre carusiani, escluso Jadlowker dal colore veramente baritonale.
Eppure entrambi tenevano i repertorio opere come Profeta, Sansone, Ebrea dalla scrittura marcatamente centrale, impraticabile agli attuali tenori lirici, pena risultati censurabilissimi carriere ed acuti accorciati.
Non si accampi per giustificare la differenza la solita storia delle orchestre più voluminose. Per essere onesti nel valutare basta ascoltare l’esecuzione o dell’aria “ O paradis” o della famosissima aria “ Rachel quand du Seigneur” prendendo a metro di paragone da un lato Esclalais o Affre e dall’altro i più celebrati tenori degli ultimi cinquant’anni vuoi Pavarotti, quale Vasco de Gama, o Domingo, Shicoff ed Alagna quale Eleazar. Nel migliore dei casi (Pavarotti) a parte l’accento poco nobile si percepiranno suoni un po’ aperti al centro, ma negli altri è il trionfo de centri artificiosamente gonfiati, della dinamica piatta, del legato incerto, della salita difficoltosa agli acuti, che rendono un si bemolle un traguardo invalicabile.
La realtà è che il suono di Escalais ed Affre, il cui repertorio era quello romantico, sta, come si dice gergalmente più in alto di quello di tutti i metri di paragone sopra citati.
Il canto dei due tenori francesi è la realizzazione pratica delle prescrizioni dei più accreditati manuali di canto del tempo.
La quadratura tecnica consente acuti squillantissimi sino al do, rispetto della dinamica prevista dall’autore, salvo certe prese di fiato prima degli acuti estremi , voce sempre “ a fuoco” e morbida ad ogni sonorità compresa fra il piano ed il forte.
Per precisione possiamo dire che talvolta, solo in lingua italiana, Escalais suoni un po’ nasale in zona di passaggio, però nell’esecuzione dei passi di agilità del Robert le Diable lo stesso tenore supera anche un autentico virtuoso come Blake e non solo per la qualità vocale.
Dai reperti archeologici si può intendere che Escalais fosse più ampio al centro, Affre per legato e, forse, per la stessa qualità vocale.
Entrambi restituiscono un’immagine elegantissima e raffinata quando attaccano con sicurezza e morbidezza pari lo scomodissimo fa diesis di “O paradis” o quando legano anche nelle zone scomode, perché basse, dell’aria di Eleazaro. Nel monologo di Otello, anche esso dall’incipit piuttosto basso, propiziatore di suoni ingolati e tubati e con una chiusa travolgente e che investe la zona acuta della voce con conseguenti urla scomposte o quasi, Escalais è sfumato e nobile, sfuma dove tutti gli Otelli gridano ed urlano, e negli acuti squilla, facendo immaginare il tonnellaggio di quei suoni in teatro. Solo Slezak e Lauri Volpi, anagraficamente post carusiano, ma ultimo tenore ottocentesco gli sono, in questo passo pari.

Gli ascolti

Léon Escalais

Halévy
La Juive - Atto IV: Rachel, quand du Seigneur (in francese - in italiano)
La Juive - Atto IV: Dieu m'éclaire

Massenet
Le Mage - Atto II: Ah! parais

Meyerbeer
Le Prophète - Atto III: Roi du ciel

Rossini
Guillaume Tell - Atto II: Ses jours qu'ils ont osé proscrire

Saint-Saëns
Samson et Dalila - Atto I: Arrêtez, ô mes frères

Verdi
Aida - Atto I: Celeste Aida
Otello - Atto III: Dio! Mi potevi scagliar
Il Trovatore - Atto III: Ah sì, ben mio


Augustarello Affre


Halévy
La Juive - Atto II: Dieu, que ma voix tremblante

Meyerbeer
L'Africaine - Atto IV: O paradis
Les Huguenots - Atto II: Beauté divine, enchanteresse
Le Prophète - Atto I: Pour Berthe moi je soupire

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venerdì 18 luglio 2008

Gluck: tra riforma e routine

Verso la fine del 1776, il bel mondo culturale parigino, venne “scosso” da una nuova querelle (che ricordava, per certi versi, quella da poco conclusa, detta des buffones, che vedeva contrapposti i sostenitori della nuova opera italiana – simboleggiata da Pergolesi e dai “buffi” napoletani – agli strenui fautori della tradizionale e paludata musica della Francia illuminata che aveva in Rameau il suo re sole). Questa volta l’occasione di scontro venne data dall’arrivo a Parigi di Niccolò Piccinni (l’autore della celebre Cecchina), nel quale una certa parte dell’intellettualità francese vide la bandiera della “resistenza” del classicismo al dilagare apparentemente irrefrenabile della “riforma” del più potente e ben introdotto Gluck (che all’epoca godeva della protezione della regina Maria Antonietta).
Com’è noto, i due compositori non vollero mai entrare esplicitamente nella polemica che li riguardava (anche se Gluck – si suppone – utilizzò tutta la sua influenza per ritardare il più possibile la rappresentazione dell’Iphigénie en Tauride di Piccinni, impedendo così che entrasse in diretta competizione con la sua opera omonima ed evitando che il confronto ravvicinato potesse adombrare il successo di quest’ultima). Altrettanto noto il fatto che detta contrapposizione fu più supposta e chiacchierata che reale: Gluck stesso aveva da tempo abbandonato l’originaria intransigenza della sua “riforma” (secondo la prima formulazione, nel periodo viennese), sacrificandone la “purezza” – assai pragmaticamente – alle esigenze e al gusto del nuovo (e redditizio) pubblico d’oltralpe, “imbastardendola” con il recupero di gran parte di quegli elementi decorativi legati alla tradizione francese (Lully, Rameau e Charpentier). Così pure Piccinni non era certo rigidamente ancorato ai vecchi e ormai logori schemi dell’Opera Seria, e neppure era quel baluardo inossidabile dell’ortodossia contro un preteso “progresso” (basterebbe l’ascolto di Roland, Didon e della stessa Iphigénie en Tauride – cioè le opere del suo periodo francese – per rendersi conto di come il linguaggio della tragédie-lyrique risultasse già profondamente rinnovato rispetto ai modelli e come certe soluzioni di Piccinni risultino talvolta più “moderne”, già protese ad un approccio embrionalmente protoromantico, rispetto a quelle dello stesso Gluck, che appare ancora saldamente fermo alle marmoree idealizzazioni illuministe). L’episodio – così come tutta la questione della “riforma” – al di là della sua reale portata, venne poi ingigantito e utilizzato a sproposito, enfatizzato da certa critica posteriore, scientemente frainteso e, infine, usato a pretesto nell’unico intento di mostrare una presunta superiorità di Gluck rispetto alla musica del suo tempo (Mozart incluso), in quanto epigono del futuro “dramma musicale” wagneriano. In tal senso appare assai condivisibile la riflessione del Dent che nel suo saggio “Il teatro di Mozart” scrive: “La storia dell’opera del XVIII secolo è stata in buona misura mal compresa per il fatto che tutti i nostri testi hanno tratto le loro informazioni da fonti tedesche; ed è stata tendenza invariabile degli storici tedeschi quella di esagerare l’importanza di Gluck, suggestionati dal fatto che Gluck è un compositore tedesco. Non voglio per un solo istante affermare che Gluck in quanto musicista sia stato sopravvalutato, ma è del tutto sbagliato immaginare che egli abbia distrutto in un soffio la vecchia immagine dell’Opera Seria e aperto la via a Wagner e a Richard Strauss”. Proprio a causa di questa lettura critica orientata e partigiana (quella tedesca) l’importanza di Gluck è stata largamente sopravvalutata. Così come pure è stata eccessivamente considerata la reale portata storica della sua cosiddetta “riforma”. Anche rispetto alla musica dello stesso Gluck. Infatti se si scorre la cronologia della vita e delle opere dell’autore, si vedrà che solo una piccolissima parte della sua considerevole produzione è coerente con i dettami delle sue teorie musicali. Possono essere individuati tre distinti periodi nella sua carriera: un primo periodo che va dal 1741 al 1762 in cui, compositore tra i tanti di drammi metastasiani (e neppure baciato da grande fantasia e padronanza tecnica), non si discosta dalla mediocritas degli operisti minori dell’epoca, modellata, senza neppure sfiorare l’originale, sulla falsariga di Haendel (che – ci riferisce l’impagabile Burney – dopo aver conosciuto Gluck a Londra nel 1745 confidò con spregio: “Non sa di contrappunto più del mio cuoco Waltz” – di tutt’altro tenore il medesimo fatto raccontato dal povero Gluck che, ignaro degli “apprezzamenti” del Caro Sassone parlò dell’incontro in termini assai più lusinghieri); un secondo periodo – a Vienna tra il 1762 e il 1770 – è quello della “riforma”, ma di essa gli unici risultati compiuti, in mezzo ad altri titoli che seguivano pedissequamente gli stilemi dell’Opera Seria, si limitano in effetti, a tre lavori (Orfeo ed Euridice, Alceste, Paride ed Elena): solo in essi hanno trovato una reale e completa applicazione, le teorie elaborate di concerto con Ranieri de’ Calzabigi (mediocre intellettuale di fede intransigentemente razionalista e con velleità letterarie, i cui risultati più interessanti – anche se non del tutto originali– non vanno ricercati tanto negli imbarazzanti libretti gluckiani, quanto nelle prefazioni agli stessi, testimonianza della temperie culturale dell’epoca – richiamando per certi versi, gli autori del futurismo italiano: tanto prolifici in proclami e manifesti estetici ed artistici, quanto inconcludenti nei modesti, quando non pessimi, risultati letterari). Infine un terzo ed ultimo periodo, quello dei trionfi parigini, dal 1767 al 1779, l’anno del tonfo di Echo et Narcisse e del conseguente ritiro dalle scene musicali: in questa ultima fase Gluck, com’è noto, rivedrà e disattenderà, almeno in parte, i motivi programmatici della sua “riforma”, rinnegandone l’originaria severità ed intransigenza, dandosi alla rielaborazione dei suoi successi viennesi e componendo nuovi lavori nel recupero di quegli elementi puramente decorativi, danze, balli, effetti strumentali, divertissement – ed indulgendo pure in abbellimenti vocali – contro cui tanto aveva combattuto a Vienna.
Gli elementi chiave della riforma gluckiana sono noti: essi riguardano tanto la struttura dell’opera, quanto il trattamento vocale e il ruolo dell’orchestra. Come si legge nella celebre prefazione all’Alceste (che ricalca, però, molte delle teorizzazioni di Francesco Algarotti) i principali punti programmatici sono: l’abolizione delle arie col da capo e la conseguente eliminazione di cadenze e di ogni altra libertà di improvvisazione virtuosistica (limitando così l’esibizione dell’interprete, da sempre fulcro e protagonista dell’opera, a fedele esecutore della pagina scritta), l’attenuazione dello stacco tra recitativo (non più secco, ma accompagnato) e aria, ampliamento del ruolo del coro (nell’intento di richiamare la funzione di quello delle antiche tragedie greche), una sinfonia iniziale tendenzialmente ridotta (rispetto a quelle in tre tempi, della tradizione haendeliana) e finalizzata ad introdurre l’ascoltatore nel clima dell’opera ricalcandone, quindi, il tono (eroico, pastorale, drammatico etc…). Ovviamente tutto ciò non è “apparso dal nulla” nella storia del mondo, frutto della superiore genialità di compositore e librettista, ma, come sempre accade, deriva da un processo più lungo e sedimentato nel tempo (si pensi ad esempio agli oratori di Haendel, che già – senza alcun bisogno di dichiarare riforme o rivoluzioni – presentano molte delle caratteristiche suddette): merito di Gluck e Calzabigi è certo quello di averlo teorizzato in modo sistematico, tuttavia vanno riconosciuti, in tale operazione, i tanti debiti contratti con predecessori e contemporanei e la reale incidenza di tali teorizzazioni (al di là, quindi, delle forzature che la critica tedesca – imbevuta di wagnerismo – ci ha inculcato). A ben guardare, infatti, ben più incisivi nell’evoluzione dell’opera, sono stati i lavori teatrali di Mozart, e non soltanto la trilogia dapontiana (che da sola basterebbe a smentire gli assunti di tali posizioni ideologiche), ma anche e soprattutto Idomeneo e La Clemenza di Tito, per non parlare delle grandi Arie da concerto. Eppure ancora oggi certa critica (e non solo germanica) ripete la vulgata di un Gluck riformatore che in un soffio distrugge l’Opera Seria e getta le basi della “musica dell’avvenire”, mentre Mozart si accoda, influenzato e soggiogato dal modello, senza mai riuscire – soprattutto nei lavori seri – ad avvicinarvisi. La realtà è ben diversa. Mozart vive sì in un ambiente musicale che deve giocoforza confrontarsi con la “riforma” gluckiana, la Vienna della seconda metà del ‘700, tuttavia fin da subito si allontana da questo presunto modello per seguire una strada assolutamente originale e priva di dogmatismi. L’Idomeneo, per fare un esempio, non ha nulla da spartire con le teorizzazioni di Gluck/Calzabigi, sia per il trattamento del soggetto, sia per la realizzazione musicale: esso, anzi, si rifà costantemente alle grandiose costruzioni haendeliane, operistiche e oratoriali (i grandi cori e i recitativi accompagnati ne sono una esemplificazione). E’ un’opera italiana e metastasiana, ma rivista attraverso il linguaggio personale e geniale dell’autore. Mozart rivoluziona l’Opera Seria dall’interno delle sue forme e strutture. Le forza, le porta al limite estremo, senza mai scardinarle esplicitamente. Senza rigidità dogmatiche, senza ideologie, senza schematismi programmatici. Non abolisce, ad esempio, il virtuosismo vocale tout court, in nome di una non meglio precisata verosimiglianza drammatica (se è vero che le persone normalmente non “gorgheggiano” è pur vero che, nella vita di tutti i giorni neppure dialogano cantando: ergo l’opera lirica non potrà mai essere “realistica”), semplicemente lo rende evocativo ed espressivo di per sè, attribuendogli significati ulteriori che non il mero esibizionismo vocale. Ma non vi rinuncia in base a preconcetti e teorizzazioni. Non si assume l’incarico, o la missione, di rivoltare il mondo dell’arte per riportare in vita la tragedia greca (evidentemente i tedeschi non riescono a concepire sé stessi senza sacre missioni da compiere o reich millenari da costruire: ma si sa come è andata a finire…). Per lungo tempo però la critica, troppo occupata a immaginare improbabili parallelismi Gluck/Wagner, non ha avuto il tempo, l’occasione e, soprattutto, la voglia di accorgersi di come l’evoluzione dell’opera lirica in generale, sia debitrice dell’austriaco Mozart più che delle intellettualistiche teorizzazioni del collega tedesco e di come il primo, in realtà, non possa in alcun modo essere considerato un emulatore del secondo (e restando a Idomeneo, gli unici episodi in cui può ravvisarsi una certa influenza gluckiana, vanno circoscritti al lungo Intermezzo tra primo e secondo atto, di natura essenzialmente decorativa con cori, danze e marce, ed al Balletto finale: cioè le parti meno significative dell’opera).
Un esempio rilevatore delle differenze tra i due approcci – dovute non tanto al breve spazio temporale che separa i due autori, quanto piuttosto alla incolmabile diversità di sensibilità, abilità e concezione musicale, va ravvisato nel trattamento che entrambi riservano all’aria “Popoli di Tessaglia”. L’Alceste di Gluck (1767), da cui è tratto il brano, è forse l’opera che più di tutte applica rigorosamente gli assunti della “riforma”. Tuttavia il confronto con l’Aria da concerto KV 316 di Mozart (1779) ne rivela tutti i limiti. Già a partire dal recitativo iniziale: secco e scarno in Gluck, laddove Mozart lo veste di uno straordinario accompagnamento orchestrale: un vigoroso sostegno sinfonico di incredibile varietà e movimento ad una altrettanto movimentata linea vocale. A distanza ancora più incolmabile le due arie: mentre la prima non si discosta da un’algida e plastica compostezza formale, con uno strumentale ordinato e schematico che si limita ad accompagnare la retorica del fraseggio vocale, la seconda, nel suo alternarsi di tempi (andantino sostenuto e cantabile, allegro assai), di inserti strumentali e di scalate vertiginose in cadenze ed agilità (di gusto e valore totalmente “nuovo” rispetto alla mera esibizione vocalistica, che pure non manca) sino alla vertiginosa altezza del Sol5, assume un carattere di tale grandiosità e complessità, di fronte al quale impallidisce il preteso e pesunto modello gluckiano. Eppure la solita critica ha ripetuto e ripete ancora, l’inferiorità drammatica e musicale dell’aria di Mozart. Cos’altro, se non l’esagerazione dell’incidenza e della reale importanza della “riforma”, ha potuto portare alla mala fede di un tale pregiudizio?
Questa sopravvalutazione ha spiegato, poi, i propri effetti anche nei confronti del catalogo dello stesso Gluck: in particolare quello non riformato che, abbastanza rapidamente, ha conosciuto un oblio pressocché totale. Spesso giustificato dalla evidente modestia e mancanza di ispirazione di quei lavori (se confrontati con i grandi capolavori francesi), in alcuni casi, almeno a giudicare da quei pochi segni che sembrano ultimamente riemergere, resta però un oblio ingiusto. Preso atto della convenzionalità di quei lavori, infatti, neppure riscattata da una particolare abilità tecnica (che Gluck non padroneggiò mai compiutamente) né da una costante e felice ispirazione (se confrontata ad altri suoi colleghi, senza scomodare il sommo Haendel, quali lo stesso Piccinni, Galuppi, Jommelli), si tratta comunque, di opere che, talvolta, ben possono essere accostate ai titoli più celebrati del periodo riformato. Nonostante certa critica abbia sempre considerato con imbarazzo quei lavori (che occupano la maggior parte del catalogo gluckiano). L’Ezio, ad esempio – sia nell’essenziale versione praghese del 1749, sia nella radicale revisione approntata per Vienna nel 1763 – ha pagine di grande bellezza (penso alle grandi arie di Fulvia – la vera protagonista dell’opera – e su tutte “Misera, dove son! …Ah! Non son io che parlo” che, pur non distaccandosi dal modello haendeliano, si evidenzia per la levigatezza formale, di neoclassica purezza screziata da agilità anche impegnative, e per la ricerca di un Bello Ideale che anticipa le pagine più riuscite dei suoi capolavori francesi) che nulla hanno da invidiare all’interminabile sequela di scarni recitativi e accenni di ariosi (ancor più scarnamente accompagnati) che costituisce l’Alceste (prima versione), dove la medesima costruzione musicale (seppur di plastico e sublime declamato classicheggiante), rigidamente ancorata al tono elegiaco, si ripete per le 3 ore di durata dell’opera, sortendo, alla fine, un senso di innegabile monotonia. Le stesse osservazioni si possono ripetere per La Clemenza di Tito o per L’Innocenza Giustificata (in particolare l’aria di Flavia “D’atre nubi” con il suo virtuosismo “barocco” oppure la suggestiva cavata di Claudia “Fiamma ignota”). Ma anche per titoli oggi misteriosi come Semiramide Riconosciuta, Il Re Pastore, Antigono. Una seconda conseguenza la rileviamo oggi: l’assenza nei teatri e nel mercato discografico del Gluck pre-riformato. Con poche eccezioni, infatti, ci si è esclusivamente concentrati sulla produzione in francese (che in effetti è la più interessante) o sul solo Orfeo ed Euridice (pur in versioni “spurie”) ignorando quasi del tutto le opere precedenti. In questi ultimi anni tuttavia, si assiste ad un rinnovato interesse verso i titoli antecedenti la “riforma”, anche se, purtroppo, vengono affidate quasi esclusivamente a compagini baroccare e soffrono, soprattutto dal punto di vista vocale, delle carenze più vistose (e dal momento che spesso l’ipotetico interesse per quei lavori risiede solo nell’eccellenza dell’esecuzione, si comprende quanto siano rilevanti le deficenze dei cantanti). Oggi sono disponibili entrambe le edizioni di Ezio (ma entrambe presentano un controtenore come protagonista, oltre a tutti i vezzi delle esecuzioni barocchiste), Aristeo e Bauci e Filemone (per le cure di Roussett che, pur con grande sforzo e impegno, non riesce a rimediara alla scelta di un cast del tutto inadeguato a restituire un minimo di linfa vitale a quelle due assai poco ispirate feste teatrali). Si può agevolmente reperire, L’Innocenza Giustificata: anche qui il cast è squilibrato (soprattutto il tenore è censurabile e rovina la bellezza della prima aria di Valerio “Sempre è maggior del vero”, eseguita mostrando ogni sorta di problema, dalla pronuncia pessima ai fiati corti, dalle agilità pasticciate agli acuti difficili, all’approssimazione di fraseggio). Di altrettanto facile reperibilità vi sono altri titoli editi da Orfeo (La Corona, La Danza, Le Cinesi, I Pellegrini della Mecca): non sono incisioni recentissime e tradiscono una certa pesantezza esecutiva di insopportabile marca teutonica. I cantanti impiegati, poi, sono quasi tutti estranei all’estetica belcantista (e alla lingua italiana). Non c’è molto altro. Ovviamente si tratta di lavori minori, spesso modesti, poco ispirati e noiosi. Ma anche questo è Gluck. Ed è indispensabile conoscerlo per valutare senza le facili suggestioni di certa agiografia interessata e partigiana. Lungi da me l’idea di sostenere che siano migliori delle grandi opere del periodo parigino, ma resta il fatto che la comprensione dell’autore resta parziale qualora non si voglia considerare anche quei titoli (che costituiscono, poi, la maggior parte del suo catalogo): titoli in cui il preteso “riformatore” appare molto più ancorato a stilemi usurati e stanchi (e pure mediocremente maneggiati, quanto a qualità musicale e freschezza di invenzione) dei presunti “conservatori”, oggetto critico delle sue teorizzazioni estetiche. Solo riflettendo su questo - abbandonando le facili verità della vulgata ufficiale, tanto comode e rassicuranti, quanto ingiuste e preconcette - si può comprendere quell'universo variegato e multiforme che è l'Opera Seria nella sua stagione estrema: un periodo di profondi cambiamenti che porteranno le forme di quel modello ad espandersi e ad estremizzarsi, fino a Mozart (La Clemenza di Tito ne è un superbo ed ancora frainteso esempio) e fino a Rossini (cosa sono Semiramide o Guglielmo Tell se non due Opere Serie, le cui strutture sono portate sino al “punto di rottura”, ma senza mai perderne il controllo?). Ed in questa evoluzione (c'è chi dice lunga decadenza, ma non sono d'accordo) Gluck non è certo la chiave di volta, non è certo il “distruttore”, non è certo colui che prepara il terreno a Wagner e Strauss (questo lasciamolo credere ai critici tedeschi et similia). Le radici della trasformazione vanno individuate in Haendel, nel belcanto, negli “sconfitti” di quella storica querelle e nei figli più illustri ed eterodossi di quella tradizione (sempre Mozart e Rossini), che senza dogmi, ideologie e costruzioni quasi metafisiche, hanno, magari controvoglia e con diffidenza, aperto la strada al protoromanticismo, al melodramma e a tutto ciò che ne è conseguito (Wagner incluso...). Scriveva Goethe: “grigia è ogni teoria, verde è l'albero della vita”.

Gli ascolti

Ch. W. Gluck - Alceste

Atto I: Divinità infernal - Ebe Stignani

Atto II: A' vostri lai - Leyla Gencer

N. Piccinni - Didon

Atto II: Ah! que je fus bien inspirée - Yvonne Brothier

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mercoledì 16 luglio 2008

Bohème alla Scala: buone idee e molte velleità.

Ho assistito ieri sera ad una replica della Bohème scaligera, in un teatro assiepato prevalentemente da turisti, come è ormai la regola per un teatro che è riuscito nella straordinaria impresa di allontanare il suo antico ed attaccatissimo pubblico milanese.
Un successo pieno se misurato con l’applausometro, ma di ben altra misura sul piano dell’arte, artefici una compagnia di canto di livello medio basso ed una bacchetta giovane, piena di idee ma anche evidentemente inesperta nella gestione del canto e dello spettacolo in generale. Il risultato è stata una serata dal clima alterno e variabile, con tante buone cose ma in generale piuttosto fiacca e noiosa, che non ha certo soddisfatto i pochi loggionisti superstiti. Ma andiamo con ordine.

Diciamo subito che del glorioso allestimento di Zeffirelli, ancor oggi efficace e giusto, è mancata la regia. Svarioni e rivisitazioni sparse hanno tolto, in generale, passionalità e personalità ai personaggi, a volte messi lì a recitare qualcosa di diverso ed avulso dal libretto ( alludo ad esempio a momenti come quello dell’atto IV, ove all’arrivo trafelato di Musetta che introduce Mimì moribonda, il buon Rodolfo non le si lancia in soccorso per le scale ma la attende insulsamente al centro della scena stringendosi ridicolmente nelle spalle; oppure, dopo l’annuncio della morte di Mimì, Rodolfo canta straziato il suo nome rimanendo lontano dal letto senza correre al capezzale…come da buon senso; un duetto atto terzo dove i due protagonisti stavano in scena con chiara estraneità l’uno all’altra.. ). Ciò non ha collaborato certo all’esito di una serata che, ad onta di molte buone idee della bacchetta e di una evidente disponibilità degli interpreti nel realizzarle ( e ciò nonostante i loro oggettivi limiti vocali ), di fatto non è mai decollata, rimanendo “ in potenza ”, cioè…velleitaria.
Gustavo Dudamel, dotato e simpatico …Mago G della bacchetta, è senz’altro un ragazzo sensibile agli aspetti più poetici, lirici ed intimisti degli spartiti che dirige. Ha isolato la coppia Rodolfo Mimì rispetto al resto del cast, chiedendo loro di cantare spessissimo sfumato, piano e pianissimo ( si cercava il cosiddetto fior di labbra…), smorzando e attaccando piano i suoni, in modo da non perdere una sillaba della poesia, dell’amore travolgente e purissimo dei due protagonisti. Il tutto con tempi lenti, talora lentissimi, con gli strumenti solisti spesso in tutta evidenza e ben “sgranati”, se mi si consente l’espressione impropria, alla ricerca di un clima di passione tenerissima ed estatica. Cosa non nuova per Dudamel, che già aveva abbondantemente sperimentato la formula nel Don Giovanni ultimo scorso, in particolare con il personaggio di Don Ottavio. Peccato che gli interpreti non siano stati, come è norma oggi, tecnicamente in grado di realizzare effetti che più che ad Alexia Voulgaridou e a James Valenti si sarebbero adattati ad una Caballè, forse alla prima Freni, a Tito Schipa o Beniamino Gigli ( nemmeno a Pavarotti..). Il soprano in particolare, voce lirico leggero, decisamente più leggero che lirico ad onta del repertorio praticato non so come, è stata da subito in debito di fiato, sempre avanti alla buca nella prima aria, dove alcune frasi le si sono anche rotte prima della fine; poi decisamente e chiaramente avanti “ a tirare” la buca al terzo atto, allorquando questa ha anche esagerato nel volume di suono, insolitamente ed inutilmente forte, sia per il momento musicale in sé che per la cantante. La vocina piccola di questo soprano, un po' querula e scoperta nei centri, piuttosto stimbrata in alto, avrebbe meritato una maggiore velocità di tempi che, forse sacrificando qualcosa all’espressione, avrebbe tolto a questa Mimì il sapore della…. buona comprimaria. Quanto a Valenti, decisamente emozionato alla grande aria, con la voce poco appoggiata e tremante per la tensione, si è sforzato di cantare lirico, di smorzare ora bene ma qualche volta con la voce davvero indietro. Con lui le cose sono andate un po’ meglio: mi è parso il migliore del cast per compostezza, musicalità e gusto. La voce, né bella né brutta, ha il sapore della scuola postcorelliana americana, dei tenori alla Shicoff per intenderci, con un colore forzatamente scuro al centro e gli acuti troppo chiari per sembrare omogenei con i centri. La ricerca del suono largo e virile toglie alla voce la dovuta proiezione nella sala, rimanendo là sul palco e con la tendenza a risolvere il canto in alto mediante portamenti...postcorelleschi appunto. Ma i grandi modelli americani, e non parlo solo di Corelli ma anche dei Tucker, la voce la mettevano da un’altra parte, assai più alta e immascherata, e con bel altra proiezione. Valenti però è garbato, bello da vedere ( un po' Big Jim o Ridge di Beautiful più che un tenore ), espressivo per quanto i suoi mezzi gli consentano, e dunque ha una sua efficacia. Ha cantato decisamente meglio, con la gola più libera, il terzo atto, anche se da qui ad impressionare ce ne corre.
Al di fuori del microcosmo Mimì – Rodolfo tutto è parso più normale, meno ricercato e davvero alterno. Nulla di speciale Dudamel pare aver chiesto o ottenuto dagli altri interpreti, e forse anche da se stesso. E questo è stato il vero punto debole della serata. Al buon primo atto, vivace e dinamico, non è seguito nulla di altrettanto buono. Timidissimo il secondo, con una chiusa concertata con l’orchestra priva di volume e di carattere ( forse paura per lo svarione dell’altra sera ); un mediocre e noioso preludio al terzo atto, men che scolastico, cui ha reagito esagerando insensatamente l’orchestra sotto al Donde lieta uscì del soprano, come vi ho detto; un quarto atto fiacco e banale, tanto che avevamo davvero voglia di andare via prima. Non paragoniamo certo questa direzione allo scandalo della Traviata e della Stuarda né per la concertazione, né per le idee, né per gli esiti, voglio sottolinearlo. Però a questa giovane bacchetta mancano un po’ il senso della serata, ossia la capacità di reagire quando questa si infiacchisce progressivamente; il senso del canto, perché se i cantanti non hanno i mezzi per realizzare le idee è inutile e sterile, oltre che dannoso per lo spettacolo, continuare ad ignorarli lasciandoli fuori tempo a lunguire da soli o a chiedere loro prodezze vocali al di sopra delle loro possibilità. Meno autocompiacimento per le proprie convinzioni musicali, soprattutto se il tempo largo, virtuosismo direttoriale di cui oggi và di moda compiacersi, non è sostenuto da effettiva abilità, mestiere e sapienza, tanto da non addormentare un’opera da sempre coinvolgente, immediata, passionale e diretta.
La signora Ainhoa Arteta, Musetta, ha ottenuto un piccolo successo personale alle singole, a riprova che cantare forte, anche al di là del necessario, paga sempre, soprattutto con un pubblico neofita e distratto. Voce di soprano leggero, figlia della tradizione spagnola delle voci “puntute e proiettate”, la Arteta ci ha dispensato il leggendario valzer del secondo atto cantando sempre forte, con i centri scoperti e spingendo decisamente la voce, tanto da risultare frequentemente crescente di intonazione. Gli acuti, naturalmente, piccoli e striduli, perché tutto quel che precede è gonfiato a dismisura. E’ riuscita a sembrare la voce più grande, cantando senza infamia e senza lode, e soprattutto con poco fascino la sua scena. Complice il vuoto orchestrale del finale secondo, è stata nettamente sopra coro e cantanti. Peccato che mancasse un pizzico di ….eleganza.
Spagnoli, voce priva di armonici ma decisamente sonora, è stato un Marcello in linea con il resto: funziona il personaggio, anche perché è un cantante di mestiere e la parte non richiede molto; però si gradirebbe un canto morbido in frasi come quelle del duettino Oh Mimì tu più non torni con Rodolfo. Anche lui, come la sua collega, tende a cantare forte ma poc’altro. Normalissimo lo Schaunard di Natale De Carolis, un po’ usurato vocalmente, e tristissimo,invece, il Colline di Giovan Battista Parodi, vocalmente ottuagenario, per giunta accompagnato pesantemente e fiaccamente da Dudamel.
Bel successo per tutti alla fine, in particolare per il dorettore, ma…….pura ruotine, di quella che si sentiva in seconda provincia sino a venti anni fa.
Vedremo se nei prossimi giorni ci riuscirà di aggiornarvi sul primo cast, Vassilva Sartori, mentre certamente parleremo del volantinaggio pro Muti-Abbado che, come ben sapete, è avvenuto la sera della prima recita.

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lunedì 14 luglio 2008

Otello a Wildbad: Tutti pazzi per Desdemona

Crediamo che dopo questa recensione nessuno ci potrà accusare di non nutrire una passione sincera e autentica per le voci, fondamento insostituibile e sola ragion d'essere dell'opera. Ben tre membri di questo Corriere hanno attraversato l'Europa, addentrandosi nel cuore della Foresta Nera, tra gorge de loups, nebbie e fortunali onde assistere al primo cimento nel Rossini tragico di Jessica Pratt, soprano australiano che i nostri teatri cominciano fin troppo timidamente a scoprire e utilizzare.
Wildbad è una tranquilla località termale (età media dei frequentatori: sui 78 anni) e la sala che ha ospitato Otello, posta su una collinetta che nulla ha che vedere con la Collina della lirica, ricorda quella di una buona birreria di provincia tedesca. Adeguate all'ambiente e all'umanità che è solita popolarlo la direzione d'orchestra e la regia. Osservando Antonino Fogliani (alla testa di un'orchestra peraltro non certo impeccabile, dagli archi pseudobaroccari ai fiati pigolanti) alle prese con l'Ouverture abbiamo potuto apprezzarne il gesto, così confuso che non si capisce come l'orchestra abbia potuto trovarvi indicazioni e suggerimenti. Ove per indicazioni e suggerimenti si intenda non sfumature dinamiche e agogiche, ma semplicemente precisione e puntualità di attacchi. Il meglio dell'arte direttoriale del maestro Fogliani si esplicita nella coda dell'Ouverture, nel preludio alla sortita di Desdemona (con un corno da caccia alla volpe, ovviamente non reale) e nell'introduzione al terzo atto, in cui ogni strumento ha ben pensato di entrare quando ..... gli pareva. E si taccia, con riferimento a quest'ultimo passo, dell'approccio, più adatto all'Italiana in Londra che al Rossini coturnato. Lo striminzito Coro filarmonico di Transilvania, dopo poche battute d'introduzione, ci ha confermato l'impressione di essere in una birreria bavarese verso l'ora di chiusura.
Quanto alla regia, la scena si apre su una specie di autofficina in disarmo, con delle panche sui lati e dei bastoni conficcati in terra (allusione agli approdi veneziani?). Il trionfo di Otello è un pestaggio, non si sa se sognato o reale, eseguito da dei picciotti con una calzamaglia sul viso. Il Doge è un paraplegico in vestaglia arancione che accarezza un gatto di peluche: purtroppo non è il capo della Spectre. I patrizi veneti sono una banda di guappi con annesse sgualdrine munite di occhiali, calici di spumante e pochette. Punti topici della regia sono stati il finale primo, in cui camerieri da brasserie con grembiali bisunti ramazzano al suolo cercando di sbirciare le copiose forme di Desdemona, intenta a cambiarsi d'abito, e il terzo atto, con Desdemona, che potrebbe sembrare la réclame di un noto detersivo liquido, intenta a "tirare sù" il bucato mentre una improvvisa nevicata, che ricorda quelle dei gadget di vetro, accompagna la Canzone del salice. Il tutto, oltre che improbabile, anche orrendo da vedere. E non si prenda come scusa alla povertà di scene, costumi e regia la limitatezza dei mezzi, ché una sana forma di concerto sarebbe stata più economica e più gradita, e più ancora lo sarebbe stata una spoglia aula veneziana, con pochi elementi mobili e sobri costumi pseudocinquecenteschi.
Otello (un Indiana Jones da scenario postatomico, cappottone brechtiano d'ordinanza e bandoliera ad armacollo), Michael Spyres, è dotato di voce abbastanza corposa, di colore piuttosto scuro, esegue correttamente le agilità ma, nella zona del passaggio, compaiono suoni un poco tra naso e gola che compromettono l'ascesa agli acuti, non molti da spartito e uno solo interpolato, che suonano spesso un poco bianchi e striminziti. Con una messinscena inutile, di ostacolo alla resa vocale e alla comprensione dell'opera, era facile lasciarsi andare all'effettaccio: Spyres ha invece mantenuto una condotta vocale e scenica castigatissima, da vero condottiero del Leone di San Marco, fiero, nobile, disperato ma con misura. Con evidente richiamo al modello di Bruce Ford.
A un livello drasticamente inferiore gli altri signori. Jago (che la regia dipinge aduso al tiro di cocaina prima dei due duetti), Giorgio Trucco, si contorce su se stesso per ottenere, senza successo alcuno, agilità presentabili. In pigiama e bastone d'ordinanza, claudicante non solo nel fisico, Elmiro, Ugo Guagliardo, cui qualcuno ha dimenticato di spiegare, dopo avergli imposto l'andatura da emiplegico, che l'invalido non usa appoggiarsi sull'arto offeso. Del tenore Filippo Adami abbiamo soprattutto apprezzato l'esibizione del villoso toracino e la scarsa disinvoltura con il serramanico, mentre l'esecuzione dell'aria lo vede in serie difficoltà, che divengono serissime alla sfida. Stonature, suoni strozzati, agilità abborracciate non si contano.
Quando, alla scena di sortita di Otello, fra la piccola folla dei coristi appare l'innamorata Desdemona, si cava dalle scene l'ipostasi del soprano, così come memoria, tradizione e iconografia ce l'hanno consegnata. L'immagine continua, si avvalora e si conferma quando Jessica Pratt apre la bocca. In una parte non molto consona ai suoi mezzi di soprano assoluto, Miss Pratt ha sfoggiato misura, eleganza, precisione di esecuzione, proponendo un personaggio sognante e timoroso al primo atto, disperato, anzi tragico nell'accezione ottocentesca al secondo, in cui la Pratt ha mostrato fiati impressionanti, grandissima ampiezza nella zona acuta e sovracuta della voce ed estrema facilità nel canto di agilità, e al terzo atto grande tensione drammatica alla Canzone del salice, che se il maestro Fogliani avesse staccato a un tempo molto più lento le avrebbe giovato. Nel duetto conclusivo con Otello, una delle pagine più pesanti vocalmente di Rossini assieme al terzetto della Donna del lago, punto in cui è facile farsi prendere la mano e indulgere a effetti poco consoni allo stile del Belcanto, la Pratt ha cantato con suoni morbidissimi e facilissimi, come si conviene alle primedonne tecnicamente più ferrate. Che poi sono quelle più autentiche, a nostra insindacabile opinione.

DD + GLD + AT

Atto I: Non indugiar... Amor, dirada il nembo - Michael Spyres
Atto II: L'error di un'infelice - Jessica Pratt

OTELLO, OSSIA IL MORO DI VENEZIA
Dramma per musica in tre atti
di Francesco Berio di Salsa
Musica di Gioachino Rossini


Otello - Michael Spyres
Desdemona - Jessica Pratt
Elmiro - Ugo Guagliardo
Rodrigo - Filippo Adami
Jago - Giorgio Trucco
Emilia - Geraldine Chauvet
Doge - Sean Spyres
Lucio - Hugo Colín
Un gondoliere - Leonardo Cortellazzi

Philharmonischer Chor Transilvania Cluj
Maestro del coro: Cornel Groza

Virtuosi Brunensis
Direttore: Antonino Fogliani

Regia: Annette Hornbacher
Scene: Anton Lukas
Costumi: Claudia Möbius

Kurhaus Bad Wildbad
12 luglio 2008

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martedì 8 luglio 2008

Il mito della primadonna: Desdemona di Rossini

Otello di Rossini è uno dei lavori del maestro pesarese di più lunga sopravvivenza, almeno sino agli anni ‘70 dell’Ottocento. Credo lo superino solo Semiramide e Tell, opera, però abnorme, si sa, nel catalogo rossiniano.
Credo, anche debba, la propria sopravvivenza non solo all’eccellenza delle pagine, anche se il terzo atto è ai vertici della produzione rossiniana, se le classifiche hanno valore e significato, ma alla possibilità che offre a tenore e soprano di essere autentici, indiscussi protagonisti.
Scorrere l’elenco degli Otelli ottocenteschi significa scorrere l’elenco dei maggiori tenori dal 1816 al 1870.
Ed il title role era di tale importanza che taluni tenori, che per dote naturale avevano la voce di Rodrigo affrontarono, con una cospicua serie di trasporti, che sarebbe oltre modo interessante esaminare, il ruolo di Otello. E’ il caso di Rubini tenore contraltino, riconosciuto erede del primo Rodrigo, David junior, che a Parigi nel 1825 vestì i panni del protagonista, mentre a Napoli nel 1822-'23, protagonista Domenico Donzelli, fu appunto Rodrigo. E se i protagonisti maschili si chiamarono Andrea Nozzari, Manuel Garcia, Niccolo Tacchinardì, Domenico Donzelli, Pancani, sino a Tamberlick e Raffaele Mirate (primo duca di Mantova) ancor più ricco è l’elenco delle protagoniste femminili.
Ad Isabella Colbran, si aggiunsero in tempi brevissimi la Fodor, la Sontag, la Manfredini Guermani, la Righetti Giorgi, la Pasta, la Malibran, la Ronzi, la Belloc, la Tadolini, la Grisi, la Meric Lalande, sino a Marie Cornelie Falcon, a Teresa Titjens la Schroder-Devrient e, ultima, Adelaide Borghi-Mamo. Devo dire che dalle ricerche che ho fatto manca solo (e meraviglia la circostanza) la Marchisio. Sarebbe, anzi, giusto dire le Marchisio, perché la parte aveva attirato sia soprani assoluti (Manfredini-Guermani e Sontag), che soprani cosiddetti centrali che mezzo soprani acuti (Righetti-Giorgi, la Belloc e la Borghi-Mamo).
La parte, seconda fra le scritte da Rossini per la Colbran, è molto centrale; ai soprani assoluti costano fatica gli attacchi sui si bem bassi della canzone del salice e la scrittura centrale sia del terzetto con Otello e Rodrigo che della grande scena agitata, che segue e chiude il secondo atto.
Il ricorso ai trasporti, che soprani assoluti come Lella Cuberli e June Anderson, protagoniste delle riprese degli ultimi venti anni, hanno effettuato è eloquente mentre che la parte, nel finale secondo, tocchi un paio di volte il do è poco significativo.
Ma è il personaggio, che faceva accorrere tutte le dive del tempo e, aggiungo, le faceva correre esercitando i diritti dello status di primadonna.
E le faceva accorrere perché offriva tutte le situazioni paradigma di tragicità secondo gusto e cultura del tempo. Nessuna esclusa, e spesso esplicitate da invenzioni musicali grandiose.
Desdemona entra e canta un duettino dolcissimo, inspirato a quelli della vecchia scuola napoletana, che tanto esaltavano Stendhal, che consentiva alla Senora Colbran di scaldare la voce (salvo che in Elisabetta la Cobran non ebbe mai una cavatina di sortita nelle parti scritte da Rossini) e su cui caddero gli ovvi strali delle altre prime donne. Fra cui Giuditta Pasta, che interpolava previi cambiamenti testuali e accomodi di un tono e mezzo la cavatina di Malcolm de "La donna del lago". Negli ascolti offriamo la cabaletta eseguita, debitamente alzata, in russo ed interpolata in "Cenerentola" da Zara Doulukanova per far capire come potesse essere l’approccio. Anche la cavatina di Malcolm è la declinazione di un brano di sapore elegiaco e struggente. Quel che canta il giovane innamorato scozzese ben si presta alla fanciulla veneziana. Il momento drammaturgico è salvo.
Poi la fanciulla cambia corda e diviene tragedienne nel finale primo di grande ampiezza e dove Desdemona di fatto è chiamata a fare la protagonista. In gergo teatrale "tira" il concertato.
Al secondo atto ed al terzo atto è esemplificato quel che per gli uomini di teatro dell’800 doveva essere la primadonna tragica. Desdemona irrompe in una sfida, fra le più ardue e teatrali, che la scena musicale conosca e siccome non può competere a suon di acuti con Rodrigo ed, in parte con Otello lo fa, dapprima, a suon di accento veemente cantando "Ahime fermate", poi di accento addolorato e commosso nell’andante "Che fiero punto è questo" ed, infine, a suon di ornamentazioni complesse eseguendo "Fra tante smanie e tante". Insomma alla prima donna è dato il diritto dovere di sfoggiare il proprio bagaglio sia tecnico che interpretativo.
Non contenta Desdemona e, qui, diventa la vera protagonista dell’opera chiude l’atto con una grandissima scena tragica bipartita con coro ed altri personaggi dediti ai "pertichini".
E’ la prima di questo genere che troverà ulteriore espressione in Rossini, ma anche in Donizetti (finale di Fausta, di Borgia e scena di Elena Faliero, non per nulla parti pensate per altrettante famosissime Desdemone: Ronzi, Meric Lalande e Grisi, Giulia, naturalmente).
Al terzo atto Desdemona, complice l’atmosfera notturna, il presago di fine imminente è destinataria di una complessa canzone. Brano musicalmente irripetibile (e questo è scontato), talmente famoso da meritare e ripetute parodie (alludo all’ "assisa a piè di un sacco" di Mamma Agata nelle Inconvenienze), amatissimo dal suo autore, che lo eseguiva in concerto, pare, con una splendida voce in falsettone ed, infine, esempio di come Rossini intervenisse sul testo di una brano strofico. Devo anche aggiungere che Rossini, conscio che la scrittura fosse marcatamente centrale non giovasse a molti soprani nell’arco della sua vita provvide più volte di varianti l’aria. Sono, infatti, note quelle per Giulia Grisi, la Desdemona di riferimento fra il 1835 ed il 1855 a Parigi e Londra.
Solo che poi Desdemona chiusa l’estasi lirica della canzone del salice, ritorna ad esprimersi in stile grande agitato e quando entra nella stanza Otello, disperato e pronto all’uxoricidio Desdemona utilizza il canto di agilità "non arrestare il colpo, vibralo", quale manifestazione dell’istinto autodistruttivo e suicida. In questo precedendo il parossismo religioso-autopunitivo di Anna Erisso.
E siccome le fantasmagorie del canto di agilità a tutti gli eccessi dell’animo umano si prestano vi fu anche la versione (romana, se non erro del 1817) che inserì, dopo il necessario chiarimento fra i coniugi, il lieto fine, che del melodramma serio sino a Rossini era un’altra irrinunciabile, o quasi, caratteristica.

Gli ascolti

Rossini - Otello

Atto I
Vorrei che il tuo pensiero - Virginia Zeani & Anna Reynolds
O quante lagrime (cabaletta della scena interpolata da Giuditta Pasta) - Zara Dolukhanova

Atto II
Ah, vieni! Nel tuo sangue - Rockwell Blake, Chris Merritt & June Anderson
Che smania, ohimé, che affanno - Lella Cuberli

Atto III
Assisa à piè d'un salice - Marilyn Horne
Non arrestare il colpo - Eileen Farrell & Thomas Hayward, June Anderson & Chris Merritt

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lunedì 7 luglio 2008

Max Emanuel Cencic canta Rossini: atro evento prodigio funesto...

Per proseguire la riflessione sulla progressiva espansione del Rossini "baroccaro" (caro e diletto al cuore dei dirigenti di molti dei nostri teatri, se dobbiamo credere al gossip che circola circa le prossime stagioni) non possiamo trascurare un disco edito alcuni mesi fa da Virgin Classics: un recital del controtenore Max Emanuel Cencic a base di pagine tratte da Aureliano in Palmira, Tancredi, La donna del lago e Semiramide. Il gotha della vocalità contraltile en travesti rossiniana. Era fatale che prima o poi i fisicamente integri eredi dei "musici" giungessero al Rossini serio: in teatro abbiamo già avuto Roggieri o Coldumieri virili d'aspetto (ma non di voce) e l'approdo al "primo Arsace" rossiniano è in fondo coerente con la discutibilissima pretesa di rimpiazzare il castrato con una voce di falsetto modesta di volume e maldestra nella coloratura. Altro paio di maniche, come suol dirsi, la scelta di cantare parti pensate e scritte per voci femminili: Tancredi ideato per Adelaide Malanotte Montresor, Malcolm destinato a Rosmunda Pisaroni, Arsace/Ninia scritto per Rosa Mariani.

Stando al booklet, Rossini sarebbe stato "costretto" a scrivere per voci femminili en travesti a seguito della decisione di Napoleone di chiudere i conservatori in cui si formavano i castrati. A parte il fatto che i conservatori italiani continuarono a sfornare virtuosi e virtuose di canto anche in epoca napoleonica (anzi, proprio sotto il vicerè Eugenio Beauharnais fu creato il Conservatorio di Milano, che più tardi assunse il nome di Giuseppe Verdi), la fantasiosa spiegazione trascura un dettaglio, vale a dire che ben prima dell'avvento dei Francesi (al cui teatro musicale era, per certo, estraneo il castrato, rimpiazzato dall'haute-contre) i compositori avevano fatto ricorso al travesti, e questo non solo in casi di emergenza, ma deliberatamente ricercando le voci più adatte alla loro musica (e viceversa). Per tutti valga l'esempio di Haendel, che per la diva Margherita Durastanti compose la parte di Sesto nel Giulio Cesare, peraltro in perfetta convivenza con il Senesino e il Baerenstadt, evirati cantori rispettivamente nelle vesti di Cesare e Tolomeo. Questa "perla" del booklet (che si somma ad altre disseminate nel testo, fra le quali la più notevole è certo la seguente: "Tancredi è tratto dall'opera di Torquato Tasso", con buona pace di Voltaire) non spiega comunque per quale ragione un controtenore (quindi una voce di falsetto) le mille miglia distante dalla vocalità tanto dei castrati quanto dei contralti en travesti possa costituire una scelta "filologica" (o anche solo una plausibile alternativa) rispetto agli standard correnti. E' vero che il canto rossiniano non gode ultimamente di ottima salute, ma certi rimedi possono essere peggiori del male. Vediamo come.
Premessa: ogni pezzo meriterebbe una recensione a sè, tanti sono gli spropositi disseminati nell'album, ma prenderemo in considerazione solo i peggiori (o i migliori, a seconda del punto di vista).

Il disco si apre con il Recitativo e Cavatina di Tancredi dal primo atto dell'opera. L'introduzione orchestrale è corretta, pulita, ma totalmente priva di nerbo: l'Orchestra da Camera di Ginevra (specializzata, ovviamente, nel repertorio barocco e forte, sia fa per dire, della mescolanza di strumenti originali e moderni) distilla un suono tenue, smunto, incipriato, più adatto a commentare l'entrata in scena di una zitella inglese in viaggio di piacere in Sicilia che il ritorno in patria di un eroe innamorato. Lo slavato colore orchestrale prelude ad identico colore vocale del protagonista. Dopo un fallito tentativo di messa di voce, Cencic mette in mostra ornamentazioni sfarfallanti ("respirarmi in seno") e, alle parole "celeste oggetto", la debolezza del proprio registro medio-grave (croce di tutti i controtenori). Ma il meglio arriva a "sfidando il mio destino", in cui il nostro si lancia in una scala ascendente seguita da volatine discendenti che si risolvono in uno sfoggio di suoni gallinacei, assai poco adatti alla situazione drammatica e francamente orrendi all'ascolto. All'attacco, invero declamato, del cantabile "Tu che accendi" l'intonazione si fa opinabile e le agilità permangono precarie. La voce cerca vanamente imperiosità sulle parole "cada un empio traditore" e si lancia quindi in agilità finalmente a tempo ma non meno aspirate delle precedenti. La sublime cabaletta, attaccata a mezza voce, vede le agilità farsi precarie anche nella scansione ritmica, prima di un "deliri, sospiri" eseguito a voce svuotata e come ulteriormente dissanguata, mentre la ripresa vede un "ti rivedrò" coronato da una puntatura: un suono debole, sporco e indietro, alla Christofellis. Ulteriori contorcimenti sulle ultime agilità e grida diffuse sulla coda, coronata da un acuto che sarebbe stato meglio evitare.

Segue l'Aria dal secondo atto dell'Aureliano, sfrondata nell'introduzione orchestrale e priva (per ovvie ragioni filologiche) del susseguente Rondò. La voce nel recitativo suona cupa, ovattata, e il salto d'ottava ("lontano") evidenzia la frattura insanabile fra primi acuti e centri. Un impeto di veemenza ("ma più possente") accentua il carattere querulo del timbro, prima di un "imperio ha sola" tutto suoni bianchicci e incerti. Difficile credere che Velluti ottenesse, in questo punto, il medesimo effetto d'isteria impubere. La cantilena "Perché mai le luci aprimmo" vede le solite agilità appena accennate, acuti puntualmente flautati e i gravi al solito deficitari. Il da capo, non avaro di tentativi di smorzature e prudenti fioriture, presenta al "se ci toglie la fortuna" ulteriori traballementi d'intonazione e chiude, dopo un'avventurosa sortita all'acuto, con un pianissimo in odore di afonia.

Mettendo fra parentesi le due ouverture dell'Aureliano e del Tancredi, in cui il direttore Michael Hofstetter sembra volersi rifare delle sonorità da biscuit cesellate accompagnando Cencic e pompa l'orchestra fino a cavarne clangori di fragorosa comicità (in evidente omaggio alle opere buffe che condividono le suddette sinfonie, rispettivamente Barbiere di Siviglia e Pietra del paragone), passiamo alle due grandi scene di Malcolm dalla Donna del lago. La parte, squisitamente contraltile, vede Cencic anche in maggiore affanno rispetto a prima, segnatamente nel recitativo della sortita. Il cantabile "Elena! O tu ch'io chiamo" si segnala per le agilità assai poco fluide (anzi, decisamente ingorgate) e per la difficoltà a legare acuti maldestramente accennati e gravi prossimi all'inesistente (timidi quanto brutti i suoni di petto su "se l'idol mio"), compromettendo così ulteriormente la tenuta dell'intonazione. La cabaletta, staccata dal direttore a tempo garibaldino, sorte un effetto quasi comico: "tutto detesto", che ancora una volta insiste sul registro grave, seguito dai soliti melismi striduli fa pensare al lupo travestito da nonna di Cappuccetto Rosso. Dopo ulteriori gorgoglii di gola spacciati per agilità, suoni faticosi e tirati conducono il pezzo a conclusione (e sommessamente ringraziamo per la schivata puntatura finale). Quanto all'aria del secondo atto, decurtata della cabaletta, è l'occasione per nuove fioriture "scivolose" e per la riproposizione di quel tono ostentatamente bamboleggiante e querulo che è cifra caratteristica del disco.

Dopo la sinfonia di Semiramide, condita da ottoni spernacchianti, il disco giunge a conclusione con le due arie dell'erede al trono di Babilonia. Solito accento sospiroso nel recitativo, solita voce maldestramente ingrossata e spaventosamente goffa alle parole "ora si desta del Nume formidabile", solita imperizia in acuto (imperizia peraltro sottolineata dall'aggiunta di una volatina al sol diesis). Degna di nota, nel cantabile, la faticosa risoluzione dei trilli su "contento" e "palpitar" e indescrivibilmente grottesca la cadenza che prepara il ponte con la cabaletta, condita da suoni assai gallinacei soprattutto sui mi ribattuti di "no, scordarmi". Nessuna traccia di variazioni nel da capo, se si eccettua l'ultima frase trasportata all'acuto, con tanto di nota conclusiva tenuta allo spasimo. L'aria del secondo atto, eseguita senza recitativo, si apre all'insegna della più assoluta indifferenza nei confronti dei segni di espressione, di cui Rossini certo non è avaro in questa pagina, a meno che non si vogliano scambiare suoni larvali e indietro per forcelle e smorzature. Nel tempo di mezzo interviene anche l'Ensemble vocale "Le Motet" di Ginevra, evidentemente convinto di stare cantando un coretto dell'Arcadia in Brenta, non certo un coro di sacerdoti che incitano al matricidio. E Cencic risponde perfettamente al mood generale, accennando le agilità come una Grande Duchesse de Gérolstein che passa in rivista le truppe. Non cerca nemmeno più di fare la voce grossa, e alla dolcissima frase "E' mia madre... al mio pianto forse il padre perdonarle ancor vorrà" si rifugia nell'afonia. Un delicato crescendo (nemmeno lontano parente di quelli gagliardi sfoggiati negli intermezzi strumentali del disco) prepara la cabaletta, la cui ripetizione non ispira a Cencic che nuove "prodigiose" scorribande in acuto, mentre nella coda l'esecuzione assai incerta delle scale discendenti e delle note ribattute è pietosamente sovrastata dalle voci del coro.

Per riassumere il contributo offerto da un celebre e celebrato esponente della new wave controtenorile al Belcanto rossiniano: una voce malferma, a disagio nel canto di agilità e senza la cavata necessaria ai passi declamati, stridula in acuto e inesistente nel grave, un interprete indifferente alle indicazioni espressive, estremamente cauto - per non dire latitante - quanto a variazioni e di conseguenza inesistente sotto il profilo interpretativo. Che dire? Avanti così!!!

.............odioso funesto
è il disco omai..........


Gli ascolti

G. Rossini

Tancredi

Atto I: Oh patria! Dolce e ingrata patria - Anna Reynolds

Aureliano in Palmira
Atto II: Perché mai le luci aprimmo - Helga Müller-Molinari

La donna del lago
Atto I: Mura felici - Jane Henschel

Semiramide
Atto I: Eccomi alfine in Babilonia - Lauris Elms
Atto II: Sì, vendetta - Monica Sinclair

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sabato 5 luglio 2008

Stagioni prossime venture: Parigi & Londra

Dopo aver ampiamente discusso della assai deludente stagione 2008/09 del nostro sedicente maggior teatro lirico, e fatte le debite considerazioni sui cartelloni e sulle proposte di altri importanti istituzioni teatrali della penisola (a cui presto si aggiungeranno i commenti agli appuntamenti estivi di Pesaro e alla stagione autunnale bergamasca), è ora il momento di allargare lo sguardo ad altre realtà europee ed internazionali, a partire da Parigi (Opéra National, Theatre des Champs-Elysées e Opéra-Comique) e da Londra (Royal Opera House).
E’ opportuna una premessa: dando solo una rapida lettura ai diversi cartelloni, non si può che rimanere favorevolmente colpiti dalla quantità e varietà dei titoli proposti. Certo il confronto con l’amara realtà italiana (di cui abbiamo dato altrove contezza) è sconsolante e ci mostra impietosamente come il nostro sia un problema ormai strutturale di incapacità non solo di scelta meramente musicale, ma anche di imbastire una qualsiasi politica culturale sensata, logica e concludente. Detto questo – e dopo essere passati ad una più approfondita lettura dei cast dichiarati – vien da dire “non è tutto oro quello che luccica”. Infatti, pur dando atto della grande ricchezza della proposta musicale, non si può che rilevare come l’impiego di certi cantanti, il continuo ricorrere di certi titoli e autori (che pare siano divenuti di moda), il confermarsi di certe scelte registiche (ormai rispondenti ad un esclusivo ed univoco approccio), mostrino i segni evidenti di un’omologazione di idee e contenuti meritevole di destare (o di acclarare) una concreta preoccupazione per il futuro prossimo del teatro lirico.
Prima di entrare nello specifico delle diverse stagioni però, è bene chiarire quali siano questi segni diffusi di evidente decadenza (comuni, pur con connotazioni differenti, a tutte le realtà teatrali italiane ed estere, non solo a quelle qui commentate). La questione può essere riassunta in pochi punti:
a) l’ormai preponderante importanza data all’allestimento scenico e alla firma del regista (tanto da essere, spesso, il primo nome che si incontra sulla locandina, appena dopo il titolo dell’opera e l’autore) a discapito di cantanti e direttore d’orchestra – fatto, questo, assai curioso, dal momento che pur sempre di opera lirica si tratta ed in cui i valori musicali dovrebbero essere preminenti;
b) l’utilizzo di cantanti inadeguati al ruolo (per carenze tecniche, per caratteristiche naturali o per sopravvenuti limiti d’età) che già hanno abbondantemente dimostrato come certi personaggi gli stiano o troppo stretti o troppo larghi, ma che si ostinano comunque a perpetuare scelte dissennate di repertorio – da un teatro all’altro, da un continente all’altro – che alla lunga non potranno che risolversi in un prematuro sfascio vocale;
c) la presenza sempre più ingombrante di una specie di marketing pubblicitario che – complici media e case di produzione – tende ad imporre il proprio prodotto a prescindere dalle reali attinenze vocali, sfruttando anche elementi extra musicali e costruendo successi a tavolino attraverso campagne stampa e uscite discografiche mirate;
d) l’imposizione da parte delle agenzie più potenti, non solo del divo o della diva di punta, ma dell’intero entourage (direttori d’orchestra, registi, partner, comprimari) quasi si trattasse di un unico pacchetto promozionale: se vuoi Tizio devi prendere pure Caio, Sempronio e Filano;
e) infine la diffusione ormai incontrollabile delle compagini di specialisti del barocco e delle prassi esecutive d’epoca, con i loro strumenti pseudo originali e i loro dogmi para filologici (di cui spesso ho parlato e su cui non mi soffermo). Con l’aggravante dell’invasione di repertori non propriamente attinenti all’oggetto della loro specializzazione, ma di cui ormai si sono già forzatamente, e quasi stabilmente, appropriati (Mozart) o di cui si stanno impunemente appropriando (Rossini, Beethoven, Donizetti, ma si può arrivare fino a Weber, Berlioz, Wagner, Bizet, Rimskij-Korsakov).
L’Opéra National di Parigi apre la stagione con l’Eugenio Onegin, ospitando i complessi del Bolshoi di Mosca (che passeranno pure, nel luglio del prossimo anno, alla Scala di Milano), e prosegue con un assai poco invitante Rigoletto affidato a Oren e ad un cast di scarso interesse (Juan Pons è il gobbo, Secco è il Duca e Syurina è Gilda). Dopo La Sposa Venduta di Smetana pure l’Opéra paga pegno alla “moda” di Janaceck: La Piccola Volpe Astuta e L’Affare Makropulos. C’è da dire che, perlomeno, la scelta del compositore ceco non è spalmata in un decennio come a Milano. Certo resta curioso il fatto della improvvisa diffusione di certe opere che spuntano identiche in diverse città europee. E se la circostanza sarebbe in qualche modo comprensibile qualora si utilizzassero gli stessi allestimenti o se si trattasse di coproduzioni internazionali (che avrebbero almeno il vantaggio di un abbattimento dei costi), diviene del tutto inspiegabile se si considera che ogni teatro presenta un suo proprio allestimento. A seguire Tristano e Isotta, affidato alla alterna bacchetta di Bychkov e all’ormai veterana Waltraud Meier (che nonostante gli evidenti problemi vocali replicherà pure alla Scala – in tal senso mi riferivo a scelte artistiche fatte senza tener conto della realtà e dei precedenti). Poi Il Flauto Magico (la cui unica ragion d’essere pare sia la messinscena curata dalla circense Fura dels Baus, che tanto piace all’intelligencija europea…e nostrana naturalmente), Fidelio con la Leonore della Denoke (cadendo come al solito nell’equivoco che vede nell’opera di Beethoven quasi un prototipo del dramma musicale, con una specie di valchiria ante litteram in un ruolo essenzialmente vocalistico – con l’aggravante che la Denoke “bazzica” principalmente ruoli la cui vocalità resta agli antipodi di quella di Leonore: oltre a Wagner e Janaceck penso a Wozzeck) e il Florestan di Kaufmann (con i soliti ed insormontabili problemi nell’aria), e La Lady Macbeth del Distretto di Mzensk. Dopo la parentesi contemporanea di Yvonne, di Philippe Boesmans, si passa alla Madama Butterfly con un cast di serie C (ma la star è ovviamente il regista – ormai divenuto il motivo essenziale dello spettacolo lirico – in questo caso il “geniale” Robert Wilson), un Idomeneo di pari livello e Werther: star della serata è Rolando Villazòn. E non credo vi sia da aggiungere altro. Dopo i “trionfi” scaligeri l’Opéra ha il “coraggio” – o meglio, la faccia tosta – di riproporre la Lady Macbeth della Urmana, ad ennesima dimostrazione di quanto la preparazione di un cantante e la sua inidoneità al ruolo (in questo caso conclamata) siano circostanze del tutto superflue nella scelta del medesimo. Auguro a Violeta che il pubblico parigino sia più indulgente o più distratto di quello milanese. Segue a cotanto Macbeth, un altro importante titolo verdiano che, a giudicare dal cast, potrebbe essere lo spettacolo più sballato della stagione parigina: Un Ballo in Maschera per le cure letali di Palumbo, con il Riccardo di Ramon Vargas (ruolo che nella sua sconsiderata conversione da interessante tenore adatto a certi ruoli di Rossini, Bellini e Donizetti a mediocre tenore verdiano, affrontò già, con risultati censurabili, a Firenze, e che ripeterà, imperturbabile, dopo Parigi, a Londra) e l’Amelia della Voigt: chi ha scelto gli interpreti probabilmente non ha la più pallida idea di cosa sia il canto verdiano. Ennesima conferma che le opere si allestiscono senza curarsi dei cantanti. Si torna a Puccini, con una Tosca degna da recita in piazza organizzata dalla pro loco di una qualsiasi cittadina della provincia lombarda. Fa sorridere leggere tra gli interpreti lo Scarpia di James Morris. A seguire Demofoonte di Jommelli, con l’Orchestra Cherubini diretta da Muti, che qui ritorna al suo repertorio più congeniale. Titolo indubbiamente interessante (anche se non ci è dato conoscere il cast) e che appartiene ad un’importantissima stagione dell’opera italiana (Jommelli fu uno dei più celebrati compositori della sua epoca) che proprio in Italia si vorrebbe venisse più degnamente celebrata, magari inserendo in cartellone qualcuno di quei tanti capolavori, in allestimenti ben studiati e preparati, piuttosto di relegarli – come avviene quasi sempre – in festival e rassegne estive, con cast più o meno volenterosi e orchestre raffazzonate all’ultimo momento. Ma ora in Italia si preferisce, all’opera italiana e napoletana, Britten o Janacek. Si chiude con Re Ruggero di Szymanowski.
Parigi però, non è solo l’Opéra. Il Theatre des Champs-Elysées presenta una stagione ricca di titoli, di per sé assai interessanti, incentrata sul repertorio settecentesco, sia in forma scenica che in veste concertante. Scorrendo il cartellone, però, si rileva come il teatro sia una sorta di “tempio” degli specialisti del barocco, più o meno integralisti e itransigenti. Inaugura l’Armide di Lully con i complessi de Les Arts Florissants diretti dal William Christie. Niente da dire. Più discutibile il secondo titolo: Così Fan Tutte, diretta dal barocchista Spinosi (che ha inciso diversi lavori vivaldiani). Il problema è il solito: l’assurda, ma ormai ineluttabile, barocchizzazione di Mozart. Spinosi si caratterizza per un approccio fatto di tempi veloci, contrasti esasperati, sovrabbondanza di ornamentazioni, evita certe asprezze sonore e l’aridità di molti suoi colleghi, ma resta comunque mortificante per il teatro mozartiano. Il cast poi, tra cui il Ferrando di Meli (che già ci ha lasciato non poco perplessi a Vienna e a Parma) è la diretta conseguenza di queste scelte estetiche. Stesso discorso per Le Nozze di Figaro: ancora un Mozart barocchizzato, questa volta per opera di Marc Minkowski e i suoi Musiciens du Louvre. Accanto a questi lavori, che vengono allestiti scenicamente e che presentano un buon numero di repliche, vi è un altro e parallelo cartellone di opere e musica vocale presentati in forma oratoriale: molti titoli e poche repliche. E direi anche scarsa fantasia se si inizia ancora con Mozart e nuovamente con Le Nozze di Figaro, ovviamente barocchizzate, anzi strabarocchizzate: se ne occupa Emmanuelle Haim con Le Concert d’Astrée, compagine di rara aridità musicale, perfettamente congeniale, peraltro, al livello della direzione (un mistero, per me, il successo di cui gode). A seguire il Gluck di Orphée et Eurydice e Anna Bolena. La curiosità è molta per quest’ultimo titolo: sia per le difficoltà della partitura (se eseguita integralmente, come sarebbe doveroso, anche se dopo la Norma bolognese – tagliata come usavasi negli anni ’50 – temo che anche qui Pidò opti per un lavoro di sartoria) sia per l’ombra ineluttabile di certi interpreti storici. A vestire i panni della regina (ritagliati dall’autore su misura per la Pasta) troviamo Ermonela Jaho, avvenente soprano albanese, che ha all’attivo diverse Violette e Mimì (tutte o quasi in secondo cast), poco altro (che spazia senza alcun criterio intelleggibile da Haendel a Rimskij-Korsakov, da Bellini a Mascagni) e un solo ruolo donizettiano serio, la Stuarda, che poco o nulla ha da spartire con Bolena. Resto perplesso. Addirittura esterrefatto, invece, mi lascia Percy: scritto per le siderali altezze della voce di Rubini, qui è affidato a quel Dario Schmunk che in Scala ha annaspato nel ruolo secondario di Leicester nella Maria Stuarda. C’è il forte sospetto di aggiustamenti radicali e di omissioni nelle (o delle) due arie. La stagione prosegue con oratori e musica vocale: Elias, La Creazione, due differenti edizioni del Messiah (entrambe baroccare), la Messa in Si minore e in Sol minore di Bach, le due Passioni (di cui quella secondo Matteo condotta – e immagino massacrata – da Malgoire), il Requiem di Mozart, lo Stabat Mater di Pergolesi (che schiera, ahimè, il controtenore Scholl come contralto), La Resurrezione (ancora la Haim…), Jephta, Athalia (diretta dal pesantissimo Bolton), Le Stagioni (Rousset), Laelio (Muti/Depardieu), Il Martirio di San Sebastiano (col sopravvalutatissimo Gatti) e Juditha Triumphans. Ma vi sono altri appuntamenti operistici. Alessandro e Tolomeo di Scarlatti, con i complessi di Curtis (in vista di una probabile uscita discografica), Ercole sul Termodonte (Fabio Biondi) e King Arthur. Infine alcuni titoli non barocchi o barocchizzati (almeno per ora, ma…mai dire mai): Il Cavaliere della Rosa con la Fleming (dirige Thielemann), Beatrice et Benedict diretto dal solito Davis ed infine L’Opera da Tre Soldi: Ian Bostridge è Macheath (e sicuramente il ruolo è molto più alla sua portata di Idomeneo).
Vale la pena infine, soffermarsi sulla stagione dell’Opéra-comique. Innanzitutto appare poco comprensibile la scelta di presentare accanto a titoli appartenenti al genere per cui quel teatro è stato fondato, lavori riconducibili ad altri mondi musicali e ad altre culture nazionali: che senso ha allestire lì due opere inglesi come Dido and Aeneas e Albert Herring di Britten o Zoroastre di Rameau (scritta per l’Académie royale de musique, istituzione la cui classica seriosità stride con le finalità proprie dell’Opéra-comique, nata proprio in contrasto e per reazione alla prima)? Più giusto, dunque, occuparsi degli altri titoli, rilevando, fin da subito, che purtroppo anche qui soffia irresistibile il vento baroccaro. Ben cinque, infatti, degli otto lavori presentati, si avvalgono di compagini di specialisti con strumenti pseudo originali. E se la circostanza può essere comprensibile per i già citati Zoroastre e Dido and Aeneas, non lo è più per Zampa di Herold e Fra Diavolo di Auber. Ma è addirittura una autentica sciocchezza l’utilizzo di orchestre di tal fatta per la Carmen. Zampa, che ha avuto la sua prima rappresentazione il 31 maggio del 1831, è diretta da William Christie con i suoi Les Arts Florissants: orchestra decisamente barocca che suona solitamente su copie di strumenti del ‘600 e ‘700, con organici ridotti e diapason abbassato. E magari pure con un bel fortepiano come continuo. Cosa c’entri tutto questo con la musica di Herold (che coniuga opera italiana, Rossini, alla leggerezza spumeggiante della musica francese) qualcuno dovrà pur spiegarlo! Peggio ancora per Fra Diavolo (datato 1830), eseguito dal Giardino Armonico, complesso italiano avvezzo soprattutto a suonare Vivaldi (ma anche Albinoni, Marcello, Bach, Fux e pure Monteverdi). Mi chiedo se utilizzeranno gli stessi strumenti che impiegano per eseguire L’Estro Armonico. Auber fu tra i fondatori del grand-opéra francese, aprendo la strada a certo romanticismo musicale, il suo Fra Diavolo fu una delle opere più rappresentate dell’800, soprattutto nella revisione che ne fece l’autore nel 1857 (in italiano e con i recitativi a sostituire i dialoghi parlati). Qui è affidata ad esecutori che hanno più familiarità con il barocco veneziano che con l’opera italiana e francese tra Rossini, Donizetti e Meyerbeer (ed è questione di approccio e sensibilità, prima ancora che di filologia o prassi esecutiva). Semplicemente assurdo. Ma al peggio non c’è fine: dopo la contemporanea Lady Sarashina e Le Roi malgré lui di Chabrier, si arriva all’opera che chiude la stagione, Carmen di Bizet. Titolo tra i più popolari dell’intero teatro lirico, ebbe la sua prima – e travagliata – rappresentazione il 3 marzo del 1875, proprio sul palcoscenico della stessa Opéra-comique. Nel 1875 Wagner aveva già quasi esaurito la sua carriera musicale (Parsifal, già in lavorazione, sarebbe stato rappresentato solo 7 anni dopo), Verdi era reduce dal successo di Aida, Brahms e Bruckner erano in piena attività, Richard Strauss aveva 11 anni e Schoenberg era appena nato. Eppure, l’Opéra-comique affida una partitura nata nell’ultimo quarto del XIX secolo a Sir John Eliot Gardiner (che nella stagione in corso si è occupato dell’Etoile di Chabrier, anno 1887, con i medesimi complessi) e alla sua Orchestre Révolutionnaire et Romantique, con tutto quel che comporta in termini di diapason, strumenti impiegati, organico, tempi etc.. e soprattutto, ribadisco, di approccio interpretativo. Appare chiaro a chiunque come un’opera come Carmen non possa assolutamente essere ricondotta né al romanticismo né, tanto meno, al classicismo post Rivoluzione Francese (da complessi, poi, che hanno costruito la propria carriera – e quindi il proprio modus di rapportarsi alla partitura – sulle esecuzioni filologiche di Monteverdi, Haendel, Bach: con nome differente, English Baroque Soloists e con un ricambio di strumenti, certo, ma le mani che li suonano restano le stesse). Ma tant’è! Del pari censurabile è la scelta della protagonista: Anna Caterina Antonacci. Comunque molti di questi eventi (soprattutto quelli del Theatre des Champs-Elysées e dell’Opera-comique) verranno trasmessi radiofonicamente (e alcuni – credo, almeno guardando le composizioni dei cast – verranno prodotti discograficamente). Così da non correre il rischio di perderli. Se si oltrepassa la Manica i problemi rimangono gli stessi, anzi si aggravano. Se Atene piange, Sparta non ride. La stagione della Royal Opera House presenta ben 27 titoli (di cui due abbinati in un solo spettacolo, un recital vocale e due concerti di musica sacra). Anche qui, come per l’Opéra, c’è molta varietà e ricchezza, tuttavia, dopo l’iniziale entusiasmo nel leggere l’elenco delle opere rappresentate, subentra la delusione (e in taluni casi lo sconforto) per le discutibilissime scelte di cast. Si apre con Don Giovanni: sul podio si alternano Mackerras e l’onnipresente Pappano (una sorta di Muti del Covent Garden), per il resto nulla di sconvolgente: il seduttore dell’algido Keenlyside, il Leporello di Regazzo e poi la Ciofi/Donn’Anna e la Di Donato/Donna Elvira, il linfatico Bostridge, che contribuirà nella tradizione anglosassone dei Don Ottavio femminei ed evanescenti, il Masetto dell’inudibile Esposito e la Zerlina di una debuttante. A seguire quello che sarà sicuramente uno spettacolo “indimenticabile”: La Fanciulla del West. Opera molto difficile (soprattutto per l’orchestra e il direttore – Mitropoulos ne eseguiva l’atto I, senza cantanti, nei concerti sinfonici) affidata alla bacchetta di Pappano (of course) e con un cast da “brividi”: la semi debuttante Eva-Maria Westbroek (il cui sito internet si apre su di un’immagine di lei nell’atto di sbraitare: speriamo che ciò non voglia essere un’esemplificazione del suo stile di canto...), Josè Cura (sul quale, invece, non si nutre alcun dubbio circa le urla che molti si ostinano a considerare tecnica vocale) e, dulcis (?) in fundo, Silvano Carroli. Null’altro da aggiungere. Si prosegue con La Calisto (diretta da Bolton con cast baroccaro e vasto assortimento di controtenori), una Boheme in salsa coreana (visti i protagonisti), e Matilde di Shabran (ennesimo trionfo annunciato per il divo Florez). E poi Elektra, War Requiem e Les Contes d’Hoffmann: ancora Pappano. Star della serata Villazòn. Anche qui, niente da aggiungere: basta la parola. Dopo Hansel und Gretel è il turno di Turandot, probabile palcoscenico del duello all’ultimo strillo tra Cura e Botha, che si alterneranno nel ruolo di Calaf. “Arricchisce” il cast un redivivo Paata Burchuladze. A seguire: The Beggar’s Opera, Die Tote Stadt e Rigoletto: con Nucci, Syurina e Francesco Meli (il cui continuo saltare da un repertorio all’altro, senza cognizione di causa e con risultati sempre deludenti, dal Rossini serio a Mozart e Donizetti, fa sorgere più di un dubbio sulla lungimiranza delle sue scelte, lanciando un’ombra inquietante sul prosieguo della sua carriera, visti i notevoli problemi vocali, che paiono acuirsi e aggravarsi opera dopo opera). Dopo L’Olandese Volante è il turno di Capuleti e Montecchi: Netrebko, Garanca e Schmunk, ovvero “il belcanto, questo sconosciuto”. Ma il successo è comunque garantito. Segue il Requiem verdiano condotto da Pappano (davvero un uomo per tutte le stagioni) e il dittico barocc(ar)o Dido & Aeneas/Acis & Galatea: dirige Christopher Hogwood. Verdi ritorna con Trovatore, con il metronomico Rizzi e Roberto Alagna (ci si augura sia in condizioni più decenti rispetto all’Orfeo bolognese), Sondra Radvanovsky e Dmitri Hvorostovsky. Ancora Wagner con Lohengrin (protagonista Botha) e poi L’Elisir d’Amore diretta dal vetero baroccaro Hickox. Dopo Donizetti, Lulu, dirige ancora Pappano. Nome di cartello Jennifer Larmore: non male per chi si ritiene cantante rossiniana, sbarcare nella dodecafonia. Per lo meno in Berg non ci sono agilità da pasticciare con la gola... Di nuovo Verdi con Traviata (protagonista la Fleming e il solito Pappano) e Un Ballo in Maschera (ancora Vargas nel ruolo di Riccardo). Il 24 giugno serata di gala: Rolando Villazòn in concerto, accompagnato da Pappano, programma da definire. Pappano ancora con Il Barbiere di Siviglia (Florez, Di Donato e l’improbabile Figaro di Keenlyside) e si chiude con Tosca. God save the Queen...

Gli ascolti

V. Bellini - I Capuleti e i Montecchi
Atto I: Eccomi in lieta vesta... O quante volte - Renata Scotto

G. Donizetti - Anna Bolena
Atto II: Coppia iniqua - Joan Sutherland

G. Bizet - Carmen
Atto III: Mêlons! Coupons! - Teresa Berganza, Nan Christie & Alicia Nafé
Atto IV: Entr'acte - Dimitri Mitropoulos

R. Strauss - Elektra
Atto unico: Ich kann nicht sitzen und ins Dunkel starren - Ljuba Welitsch (direttore: Sir Thomas Beecham)

R. Strauss - Der Rosenkavalier
Atto III: Marie Theres'! ... Hab' mir's gelobt - Marilyn Horne, Frederica Von Stade & Reri Grist

G. Puccini - Turandot
Atto III: Tu che di gel sei cinta - Leontyne Price

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