Verso la fine del 1776, il bel mondo culturale parigino, venne “scosso” da una nuova
querelle (che ricordava, per certi versi, quella da poco conclusa, detta
des buffones, che vedeva contrapposti i sostenitori della
nuova opera italiana – simboleggiata da Pergolesi e dai “buffi” napoletani – agli strenui fautori della tradizionale e paludata musica della Francia illuminata che aveva in Rameau il suo
re sole). Questa volta l’occasione di scontro venne data dall’arrivo a Parigi di Niccolò Piccinni (l’autore della celebre
Cecchina), nel quale una certa parte dell’intellettualità francese vide la bandiera della “resistenza” del classicismo al dilagare apparentemente irrefrenabile della “riforma” del più potente e ben introdotto Gluck (che all’epoca godeva della protezione della regina Maria Antonietta).
Com’è noto, i due compositori non vollero mai entrare esplicitamente nella polemica che li riguardava (anche se Gluck – si suppone – utilizzò tutta la sua influenza per ritardare il più possibile la rappresentazione dell’Iphigénie en Tauride di Piccinni, impedendo così che entrasse in diretta competizione con la sua opera omonima ed evitando che il confronto ravvicinato potesse adombrare il successo di quest’ultima). Altrettanto noto il fatto che detta contrapposizione fu più supposta e chiacchierata che reale: Gluck stesso aveva da tempo abbandonato l’originaria intransigenza della sua “riforma” (secondo la prima formulazione, nel periodo viennese), sacrificandone la “purezza” – assai pragmaticamente – alle esigenze e al gusto del nuovo (e redditizio) pubblico d’oltralpe, “imbastardendola” con il recupero di gran parte di quegli elementi decorativi legati alla tradizione francese (Lully, Rameau e Charpentier). Così pure Piccinni non era certo rigidamente ancorato ai vecchi e ormai logori schemi dell’Opera Seria, e neppure era quel baluardo inossidabile dell’ortodossia contro un preteso “progresso” (basterebbe l’ascolto di Roland, Didon e della stessa Iphigénie en Tauride – cioè le opere del suo periodo francese – per rendersi conto di come il linguaggio della tragédie-lyrique risultasse già profondamente rinnovato rispetto ai modelli e come certe soluzioni di Piccinni risultino talvolta più “moderne”, già protese ad un approccio embrionalmente protoromantico, rispetto a quelle dello stesso Gluck, che appare ancora saldamente fermo alle marmoree idealizzazioni illuministe). L’episodio – così come tutta la questione della “riforma” – al di là della sua reale portata, venne poi ingigantito e utilizzato a sproposito, enfatizzato da certa critica posteriore, scientemente frainteso e, infine, usato a pretesto nell’unico intento di mostrare una presunta superiorità di Gluck rispetto alla musica del suo tempo (Mozart incluso), in quanto epigono del futuro “dramma musicale” wagneriano. In tal senso appare assai condivisibile la riflessione del Dent che nel suo saggio “Il teatro di Mozart” scrive: “La storia dell’opera del XVIII secolo è stata in buona misura mal compresa per il fatto che tutti i nostri testi hanno tratto le loro informazioni da fonti tedesche; ed è stata tendenza invariabile degli storici tedeschi quella di esagerare l’importanza di Gluck, suggestionati dal fatto che Gluck è un compositore tedesco. Non voglio per un solo istante affermare che Gluck in quanto musicista sia stato sopravvalutato, ma è del tutto sbagliato immaginare che egli abbia distrutto in un soffio la vecchia immagine dell’Opera Seria e aperto la via a Wagner e a Richard Strauss”. Proprio a causa di questa lettura critica orientata e partigiana (quella tedesca) l’importanza di Gluck è stata largamente sopravvalutata. Così come pure è stata eccessivamente considerata la reale portata storica della sua cosiddetta “riforma”. Anche rispetto alla musica dello stesso Gluck. Infatti se si scorre la cronologia della vita e delle opere dell’autore, si vedrà che solo una piccolissima parte della sua considerevole produzione è coerente con i dettami delle sue teorie musicali. Possono essere individuati tre distinti periodi nella sua carriera: un primo periodo che va dal 1741 al 1762 in cui, compositore tra i tanti di drammi metastasiani (e neppure baciato da grande fantasia e padronanza tecnica), non si discosta dalla mediocritas degli operisti minori dell’epoca, modellata, senza neppure sfiorare l’originale, sulla falsariga di Haendel (che – ci riferisce l’impagabile Burney – dopo aver conosciuto Gluck a Londra nel 1745 confidò con spregio: “Non sa di contrappunto più del mio cuoco Waltz” – di tutt’altro tenore il medesimo fatto raccontato dal povero Gluck che, ignaro degli “apprezzamenti” del Caro Sassone parlò dell’incontro in termini assai più lusinghieri); un secondo periodo – a Vienna tra il 1762 e il 1770 – è quello della “riforma”, ma di essa gli unici risultati compiuti, in mezzo ad altri titoli che seguivano pedissequamente gli stilemi dell’Opera Seria, si limitano in effetti, a tre lavori (Orfeo ed Euridice, Alceste, Paride ed Elena): solo in essi hanno trovato una reale e completa applicazione, le teorie elaborate di concerto con Ranieri de’ Calzabigi (mediocre intellettuale di fede intransigentemente razionalista e con velleità letterarie, i cui risultati più interessanti – anche se non del tutto originali– non vanno ricercati tanto negli imbarazzanti libretti gluckiani, quanto nelle prefazioni agli stessi, testimonianza della temperie culturale dell’epoca – richiamando per certi versi, gli autori del futurismo italiano: tanto prolifici in proclami e manifesti estetici ed artistici, quanto inconcludenti nei modesti, quando non pessimi, risultati letterari). Infine un terzo ed ultimo periodo, quello dei trionfi parigini, dal 1767 al 1779, l’anno del tonfo di Echo et Narcisse e del conseguente ritiro dalle scene musicali: in questa ultima fase Gluck, com’è noto, rivedrà e disattenderà, almeno in parte, i motivi programmatici della sua “riforma”, rinnegandone l’originaria severità ed intransigenza, dandosi alla rielaborazione dei suoi successi viennesi e componendo nuovi lavori nel recupero di quegli elementi puramente decorativi, danze, balli, effetti strumentali, divertissement – ed indulgendo pure in abbellimenti vocali – contro cui tanto aveva combattuto a Vienna.
Gli elementi chiave della riforma gluckiana sono noti: essi riguardano tanto la struttura dell’opera, quanto il trattamento vocale e il ruolo dell’orchestra. Come si legge nella celebre prefazione all’Alceste (che ricalca, però, molte delle teorizzazioni di Francesco Algarotti) i principali punti programmatici sono: l’abolizione delle arie col da capo e la conseguente eliminazione di cadenze e di ogni altra libertà di improvvisazione virtuosistica (limitando così l’esibizione dell’interprete, da sempre fulcro e protagonista dell’opera, a fedele esecutore della pagina scritta), l’attenuazione dello stacco tra recitativo (non più secco, ma accompagnato) e aria, ampliamento del ruolo del coro (nell’intento di richiamare la funzione di quello delle antiche tragedie greche), una sinfonia iniziale tendenzialmente ridotta (rispetto a quelle in tre tempi, della tradizione haendeliana) e finalizzata ad introdurre l’ascoltatore nel clima dell’opera ricalcandone, quindi, il tono (eroico, pastorale, drammatico etc…). Ovviamente tutto ciò non è “apparso dal nulla” nella storia del mondo, frutto della superiore genialità di compositore e librettista, ma, come sempre accade, deriva da un processo più lungo e sedimentato nel tempo (si pensi ad esempio agli oratori di Haendel, che già – senza alcun bisogno di dichiarare riforme o rivoluzioni – presentano molte delle caratteristiche suddette): merito di Gluck e Calzabigi è certo quello di averlo teorizzato in modo sistematico, tuttavia vanno riconosciuti, in tale operazione, i tanti debiti contratti con predecessori e contemporanei e la reale incidenza di tali teorizzazioni (al di là, quindi, delle forzature che la critica tedesca – imbevuta di wagnerismo – ci ha inculcato). A ben guardare, infatti, ben più incisivi nell’evoluzione dell’opera, sono stati i lavori teatrali di Mozart, e non soltanto la trilogia dapontiana (che da sola basterebbe a smentire gli assunti di tali posizioni ideologiche), ma anche e soprattutto Idomeneo e La Clemenza di Tito, per non parlare delle grandi Arie da concerto. Eppure ancora oggi certa critica (e non solo germanica) ripete la vulgata di un Gluck riformatore che in un soffio distrugge l’Opera Seria e getta le basi della “musica dell’avvenire”, mentre Mozart si accoda, influenzato e soggiogato dal modello, senza mai riuscire – soprattutto nei lavori seri – ad avvicinarvisi. La realtà è ben diversa. Mozart vive sì in un ambiente musicale che deve giocoforza confrontarsi con la “riforma” gluckiana, la Vienna della seconda metà del ‘700, tuttavia fin da subito si allontana da questo presunto modello per seguire una strada assolutamente originale e priva di dogmatismi. L’Idomeneo, per fare un esempio, non ha nulla da spartire con le teorizzazioni di Gluck/Calzabigi, sia per il trattamento del soggetto, sia per la realizzazione musicale: esso, anzi, si rifà costantemente alle grandiose costruzioni haendeliane, operistiche e oratoriali (i grandi cori e i recitativi accompagnati ne sono una esemplificazione). E’ un’opera italiana e metastasiana, ma rivista attraverso il linguaggio personale e geniale dell’autore. Mozart rivoluziona l’Opera Seria dall’interno delle sue forme e strutture. Le forza, le porta al limite estremo, senza mai scardinarle esplicitamente. Senza rigidità dogmatiche, senza ideologie, senza schematismi programmatici. Non abolisce, ad esempio, il virtuosismo vocale tout court, in nome di una non meglio precisata verosimiglianza drammatica (se è vero che le persone normalmente non “gorgheggiano” è pur vero che, nella vita di tutti i giorni neppure dialogano cantando: ergo l’opera lirica non potrà mai essere “realistica”), semplicemente lo rende evocativo ed espressivo di per sè, attribuendogli significati ulteriori che non il mero esibizionismo vocale. Ma non vi rinuncia in base a preconcetti e teorizzazioni. Non si assume l’incarico, o la missione, di rivoltare il mondo dell’arte per riportare in vita la tragedia greca (evidentemente i tedeschi non riescono a concepire sé stessi senza sacre missioni da compiere o reich millenari da costruire: ma si sa come è andata a finire…). Per lungo tempo però la critica, troppo occupata a immaginare improbabili parallelismi Gluck/Wagner, non ha avuto il tempo, l’occasione e, soprattutto, la voglia di accorgersi di come l’evoluzione dell’opera lirica in generale, sia debitrice dell’austriaco Mozart più che delle intellettualistiche teorizzazioni del collega tedesco e di come il primo, in realtà, non possa in alcun modo essere considerato un emulatore del secondo (e restando a Idomeneo, gli unici episodi in cui può ravvisarsi una certa influenza gluckiana, vanno circoscritti al lungo Intermezzo tra primo e secondo atto, di natura essenzialmente decorativa con cori, danze e marce, ed al Balletto finale: cioè le parti meno significative dell’opera).
Un esempio rilevatore delle differenze tra i due approcci – dovute non tanto al breve spazio temporale che separa i due autori, quanto piuttosto alla incolmabile diversità di sensibilità, abilità e concezione musicale, va ravvisato nel trattamento che entrambi riservano all’aria “Popoli di Tessaglia”. L’Alceste di Gluck (1767), da cui è tratto il brano, è forse l’opera che più di tutte applica rigorosamente gli assunti della “riforma”. Tuttavia il confronto con l’Aria da concerto KV 316 di Mozart (1779) ne rivela tutti i limiti. Già a partire dal recitativo iniziale: secco e scarno in Gluck, laddove Mozart lo veste di uno straordinario accompagnamento orchestrale: un vigoroso sostegno sinfonico di incredibile varietà e movimento ad una altrettanto movimentata linea vocale. A distanza ancora più incolmabile le due arie: mentre la prima non si discosta da un’algida e plastica compostezza formale, con uno strumentale ordinato e schematico che si limita ad accompagnare la retorica del fraseggio vocale, la seconda, nel suo alternarsi di tempi (andantino sostenuto e cantabile, allegro assai), di inserti strumentali e di scalate vertiginose in cadenze ed agilità (di gusto e valore totalmente “nuovo” rispetto alla mera esibizione vocalistica, che pure non manca) sino alla vertiginosa altezza del Sol5, assume un carattere di tale grandiosità e complessità, di fronte al quale impallidisce il preteso e pesunto modello gluckiano. Eppure la solita critica ha ripetuto e ripete ancora, l’inferiorità drammatica e musicale dell’aria di Mozart. Cos’altro, se non l’esagerazione dell’incidenza e della reale importanza della “riforma”, ha potuto portare alla mala fede di un tale pregiudizio?
Questa sopravvalutazione ha spiegato, poi, i propri effetti anche nei confronti del catalogo dello stesso Gluck: in particolare quello non riformato che, abbastanza rapidamente, ha conosciuto un oblio pressocché totale. Spesso giustificato dalla evidente modestia e mancanza di ispirazione di quei lavori (se confrontati con i grandi capolavori francesi), in alcuni casi, almeno a giudicare da quei pochi segni che sembrano ultimamente riemergere, resta però un oblio ingiusto. Preso atto della convenzionalità di quei lavori, infatti, neppure riscattata da una particolare abilità tecnica (che Gluck non padroneggiò mai compiutamente) né da una costante e felice ispirazione (se confrontata ad altri suoi colleghi, senza scomodare il sommo Haendel, quali lo stesso Piccinni, Galuppi, Jommelli), si tratta comunque, di opere che, talvolta, ben possono essere accostate ai titoli più celebrati del periodo riformato. Nonostante certa critica abbia sempre considerato con imbarazzo quei lavori (che occupano la maggior parte del catalogo gluckiano). L’Ezio, ad esempio – sia nell’essenziale versione praghese del 1749, sia nella radicale revisione approntata per Vienna nel 1763 – ha pagine di grande bellezza (penso alle grandi arie di Fulvia – la vera protagonista dell’opera – e su tutte “Misera, dove son! …Ah! Non son io che parlo” che, pur non distaccandosi dal modello haendeliano, si evidenzia per la levigatezza formale, di neoclassica purezza screziata da agilità anche impegnative, e per la ricerca di un Bello Ideale che anticipa le pagine più riuscite dei suoi capolavori francesi) che nulla hanno da invidiare all’interminabile sequela di scarni recitativi e accenni di ariosi (ancor più scarnamente accompagnati) che costituisce l’Alceste (prima versione), dove la medesima costruzione musicale (seppur di plastico e sublime declamato classicheggiante), rigidamente ancorata al tono elegiaco, si ripete per le 3 ore di durata dell’opera, sortendo, alla fine, un senso di innegabile monotonia. Le stesse osservazioni si possono ripetere per La Clemenza di Tito o per L’Innocenza Giustificata (in particolare l’aria di Flavia “D’atre nubi” con il suo virtuosismo “barocco” oppure la suggestiva cavata di Claudia “Fiamma ignota”). Ma anche per titoli oggi misteriosi come Semiramide Riconosciuta, Il Re Pastore, Antigono. Una seconda conseguenza la rileviamo oggi: l’assenza nei teatri e nel mercato discografico del Gluck pre-riformato. Con poche eccezioni, infatti, ci si è esclusivamente concentrati sulla produzione in francese (che in effetti è la più interessante) o sul solo Orfeo ed Euridice (pur in versioni “spurie”) ignorando quasi del tutto le opere precedenti. In questi ultimi anni tuttavia, si assiste ad un rinnovato interesse verso i titoli antecedenti la “riforma”, anche se, purtroppo, vengono affidate quasi esclusivamente a compagini baroccare e soffrono, soprattutto dal punto di vista vocale, delle carenze più vistose (e dal momento che spesso l’ipotetico interesse per quei lavori risiede solo nell’eccellenza dell’esecuzione, si comprende quanto siano rilevanti le deficenze dei cantanti). Oggi sono disponibili entrambe le edizioni di Ezio (ma entrambe presentano un controtenore come protagonista, oltre a tutti i vezzi delle esecuzioni barocchiste), Aristeo e Bauci e Filemone (per le cure di Roussett che, pur con grande sforzo e impegno, non riesce a rimediara alla scelta di un cast del tutto inadeguato a restituire un minimo di linfa vitale a quelle due assai poco ispirate feste teatrali). Si può agevolmente reperire, L’Innocenza Giustificata: anche qui il cast è squilibrato (soprattutto il tenore è censurabile e rovina la bellezza della prima aria di Valerio “Sempre è maggior del vero”, eseguita mostrando ogni sorta di problema, dalla pronuncia pessima ai fiati corti, dalle agilità pasticciate agli acuti difficili, all’approssimazione di fraseggio). Di altrettanto facile reperibilità vi sono altri titoli editi da Orfeo (La Corona, La Danza, Le Cinesi, I Pellegrini della Mecca): non sono incisioni recentissime e tradiscono una certa pesantezza esecutiva di insopportabile marca teutonica. I cantanti impiegati, poi, sono quasi tutti estranei all’estetica belcantista (e alla lingua italiana). Non c’è molto altro. Ovviamente si tratta di lavori minori, spesso modesti, poco ispirati e noiosi. Ma anche questo è Gluck. Ed è indispensabile conoscerlo per valutare senza le facili suggestioni di certa agiografia interessata e partigiana. Lungi da me l’idea di sostenere che siano migliori delle grandi opere del periodo parigino, ma resta il fatto che la comprensione dell’autore resta parziale qualora non si voglia considerare anche quei titoli (che costituiscono, poi, la maggior parte del suo catalogo): titoli in cui il preteso “riformatore” appare molto più ancorato a stilemi usurati e stanchi (e pure mediocremente maneggiati, quanto a qualità musicale e freschezza di invenzione) dei presunti “conservatori”, oggetto critico delle sue teorizzazioni estetiche. Solo riflettendo su questo - abbandonando le facili verità della vulgata ufficiale, tanto comode e rassicuranti, quanto ingiuste e preconcette - si può comprendere quell'universo variegato e multiforme che è l'Opera Seria nella sua stagione estrema: un periodo di profondi cambiamenti che porteranno le forme di quel modello ad espandersi e ad estremizzarsi, fino a Mozart (La Clemenza di Tito ne è un superbo ed ancora frainteso esempio) e fino a Rossini (cosa sono Semiramide o Guglielmo Tell se non due Opere Serie, le cui strutture sono portate sino al “punto di rottura”, ma senza mai perderne il controllo?). Ed in questa evoluzione (c'è chi dice lunga decadenza, ma non sono d'accordo) Gluck non è certo la chiave di volta, non è certo il “distruttore”, non è certo colui che prepara il terreno a Wagner e Strauss (questo lasciamolo credere ai critici tedeschi et similia). Le radici della trasformazione vanno individuate in Haendel, nel belcanto, negli “sconfitti” di quella storica querelle e nei figli più illustri ed eterodossi di quella tradizione (sempre Mozart e Rossini), che senza dogmi, ideologie e costruzioni quasi metafisiche, hanno, magari controvoglia e con diffidenza, aperto la strada al protoromanticismo, al melodramma e a tutto ciò che ne è conseguito (Wagner incluso...). Scriveva Goethe: “grigia è ogni teoria, verde è l'albero della vita”.
Gli ascolti
Ch. W. Gluck - Alceste
Atto I: Divinità infernal - Ebe Stignani
Atto II: A' vostri lai - Leyla Gencer
N. Piccinni - Didon
Atto II: Ah! que je fus bien inspirée - Yvonne Brothier
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