venerdì 23 aprile 2010

Berg nel vaso di Pandora: Lulu alla Scala

Sesta produzione dell’internazionalissimo cartellone a firma Lissner, Lulu di Alban Berg mancava dal teatro milanese da poco più di trent’anni, dal maggio 1979, quando Pierre Boulez riproponeva al pubblico meneghino la nuova versione in tre atti curata da Friedrich Cerha e andata in scena il 24 febbraio 1979 all’Opéra di Parigi, sempre sotto la sua direzione. Fil rouge tra quella storica ripresa e quella corrente è la presenza sul palcoscenico di Franz Mazura, appena discreto dottor Schön all’epoca, ora grottesco Schigolch. Il resto del cast, l’allestimento e la lettura di Daniele Gatti concorrono alla resa altalenante di un’operazione che se da una parte riesce a convincere, dall’altra invece proietta più di un’ombra. In particolare sul comparto vocale.

Laura Aikin è per certo il soprano che negli ultimi anni è riuscito maggiormente a dare nuova luce a un personaggio labirintico come Lulu. La lettura che ne dà si aggiorna, si definisce e garantisce sempre più spessore a ogni nuovo confronto col capolavoro di Berg. E stupisce, di sicuro in termini “felici”, la sicurezza con cui la cantante americana riesce ad armonizzare la complessità ritmica della partitura con una salda padronanza delle sfaccettature interpretative, davvero infinite, che offre la parte. Non a caso diventa magnetica quando la musica decresce per sfumare nei recitativi (secchi, potremmo ancora dire per capirci), che risolve davvero con raro senso del teatro ed esaltanti doti attoriali. Va detto però che da un soprano di coloratura che ha in repertorio Lucia e la Regina della notte (e prossima Olympia a Parigi) ci saremmo aspettati qualcosa di più, in particolare nella salita agli acuti. Certo, risolve bene il re naturale in corrispondenza della terza ripetizione della parola «blind», durante la “sonata” che introduce il dottor Schön nella seconda scena del primo atto. Ma nel resto delle incursioni in alto risulta spesso stridula, acida. Il suono tende a stimbrarsi e l’acuto che ne vien fuori è sfibrato e pressoché privo di armonici. Tutti limiti che si son ripresentati puntuali nell’esecuzione del famoso Lied, durante il quale alcuni suoni fissi sono stati la prevedibile conseguenza di qualche conto in sospeso con la tecnica d’appoggio: valgano d’esempio gli acuti in successione in chiusura dell’assolo, tutti deficitari di pienezza e rotondità. Peraltro di suo la Aikin è dotata di un mezzo di limitatissimo volume, al centro come nei gravi, che talvolta rischia di inficiare anche la resa drammaturgica del personaggio: una Lulu svociata, esangue può (s)travolgere l’esistenza di cotanti signori?
A conti fatti una prova senza dubbio migliore di quella zurighese del 2002 e superiore alla latrante Christiane Boesiger o alla stonata Valentina Valente. Ma non è ancora completa e rimane lontana da altre, storiche interpreti della “sonnambula dell’amore” (K. Kraus), come la splendida Evelyn Lear dell’edizione berlinese diretta da Böhm nel ’67 o la pregevole Julia Mignes dell’’83, a Vienna, con Maazel o, perché no, la pur discreta Christine Schäfer londinese del ’96 (A. Davis). Tutte Lulu che andrebbero citate ben prima di una Teresa Stratas qualunque, interprete di riferimento invece per la sempre diabetica Radiotre.

Tremende invece le due parti maschili primarie.
Il dottor Schön (e quindi Jack lo sventratore nel contrappasso del terzo atto) di Stephen West è un baritono afono in prima ottava, l’emissione è tutta in bocca, indietro, e l’intonazione non sempre impeccabile. Avremmo poi ben preferito non udire una cavatina, in apertura di secondo atto, risolta con autentici berci, snocciolati a tambur battente (inquietante la salita su «belauscht!» e quella, di seguito, su «Familienkreis!»), e pressoché priva di appoggio in ogni zona del pentagramma. La discesa nel vuoto su «Der Schmutz… der Schmutz» (trad. it. «che sporcizia») sembra più un consapevole, lapidario commento sulla propria prestazione canora che non il freddo lamento di un uomo fallito. Urlati anche gli acuti nell’aria in cinque strofe, in particolare quelli in corrispondenza dei versi che introducono il Lied di Lulu. Un mangiafuoco, insomma. Un coerente preludio al serial-killer che impersonerà nel terzo atto.
Alwa invece è il tenore Thomas Piffka. Meno sgraziato del padre Schön ma in egual modo carico di limiti. Ad onta di un timbro caldo e penetrante è impossibile non rilevare subito un limitato volume e una costante difficoltà a mantenere un’intonazione corretta. Già nella seconda scena del primo atto, nel momento d’insieme che precede il suicido del Pittore, nuovo marito di Lulu, i suoni calanti non si contano. E l’effetto è quello di uno cacofonia esasperata, davvero faticosa all’ascolto, che va oltre le intenzioni di Berg, che era pur sensibile a suoni al di fuori delle maglie istituzionali e vicino a certe forme di valorizzazione del “rumore”. È stabile e ben eseguito il falsetto su «Mignon, ich LIEBE dich!», ma già in apertura di secondo atto Piffka si prodiga in un declamato poco elegante, bercia lo splendido verso «Eine Seele, die sich im Jenseits den Schlaf aus den Augen reisst» (trad. it «Un’anima che nell’aldilà si stropiccia via il sonno dagli occhi») e chiude con un più che volgare inno all’amore (stonatissimo, nel naso, duro, in estrema difficoltà nella modulazione dell’emissione) anticipato da una più che dubbia chiusa del Melologo precedente (o sale fibroso o grida). Sarebbe impietoso confrontare lo stesso inno cantato da David Kuebler alla Schäfer, a Londra... Ad ogni modo, verificate!

Che dire invece di Franz Masura? A fronte delle ottantasei primavere, cerca di arrabattare alla meglio uno Schigolch che, al di là di una coerenza fisica tra personaggio e interprete (il basso tedesco sembra davvero l’incarnazione di una figura ambigua, una sorta di lugubre prodotto onirico) non può far altro che farfugliare con voce malferma. Ma se da una parte sarebbe impietoso pretendere di più da un quasi nonagenario signore, consideriamo comunque infausta la decisione di chi l’ha reclutato, seppur con apparente intenzione onorante.
Notevole l’Atleta (e domatore, nel prologo) di Rudolf Rosen. Vera grana di basso e linea vocale sempre stabile. Ottima la capacità di modulare il suono (proprio laddove è carente Piffka), virtù quanto mai imprescindibile per poter approcciare un certo repertorio tedesco. Senza dubbio il migliore in campo.
Buona anche la contessa Geschwitz di Natascha Petrinsky. Le si può forse imputare qualche durezza e spigolosità, ma l’emissione è corretta, l’intonazione sempre precisa e la costruzione del personaggio sembra pendere verso una ricerca intimistica, magari dimessa, dell’innamorata respinta. Su tutto, bellissime le mezzevoci, complici i tempi sospesi di Gatti, che accompagnano e seguono la carneficina che chiude l’opera.
Più che discreto, per una volta, il comprimariato.

Gatti, appunto. Il maestro milanese, più a suo agio con questo tipo di repertorio che col melodramma verdiano, è capace di ricche sfumature che esaltano il lato sinfonico della partitura. L’intermezzo tra la seconda e la terza scena del primo atto sembra davvero caricarsi di quelle cupe venature che tradiscono lo sguardo personale del compositore sugli accadimenti in corso e che durante gli stessi atti paiono sospendersi. Il finale dell’opera, come accennato, è splendido. L’accompagnamento agli ultimi versi della Geschwitz morente è un grande momento di suggestione, il perfetto contorno musicale all’austerità della situazione. Forse andrebbe rilevato altresì qualche passaggio eccessivamente caricato qua e là, come l’esuberanza degli ottoni subito dopo l’omicidio di Schön, che spesso ha coperto le voci, piuttosto esangui già di loro, di buona parte del cast… Ma Gatti c’era. E l’abbiamo sentito.

Meraviglioso infine lo spettacolo firmato da Peter Stein, improntato su una sobrietà (che non è valore di per sé, lo ricordiamo sempre) di grande forza scenica ed efficacia drammaturgica. La prima e la seconda scena del primo atto (studio del pittore, salotto a casa del pittore e Lulu) sprofondano in un vuoto di accecante candore in linea con certe stranianti scenografie kubrickiane, coerente nell’accompagnare lo spettatore all’interno di un universo di sospensione morale (di amoralità, quindi, e non di immoralità!) in cui agisce la protagonista. La terza scena del primo atto (camerino del teatro) è la risultante di un’implosione spaziale di netta derivazione espressionistica (il lucido approdo formale della Lulu di Pabst): non soltanto per l’ombra lunga che si estende da un’apertura sotto il soffitto dello studiolo; le dimensioni ristrette di uno spazio sviluppato in altezza che fan sì che quasi sia esso stesso un’altra, esasperata proiezione. Interessanti anche le linee direzionali su cui si muovono i personaggi: la Aikin canta il suo Lied (spartiacque dell’opera) seduta al centro di una scala che già fende centralmente la scena, quasi a voler enfatizzare ancora una volta (e di più) la struttura simmetrica della partitura berghiana. Fedele al milieu descritto dal compositore anche il caschetto di Lulu, che prima di essere richiamo veloce alla Valentina di Crepax è un altro contributo iconografico che viene diretto da Pabst (e dall’attrice Louise Brooks), a cui il fumettista milanese si è ispirato.

Carlotta Marchisio



3 commenti:

scattare ha detto...

Ebbi il piacere di assistere nel 1980 alla Lulu fatta al Met di New York con Evelyn Lear nel ruolo della Contessa Geschwitz. Un'esperienza travolgente, credetemi.
Julia Migenes come Lulu diretta da Levine. Mazura come Schoen/Squarciatore.
Sembra non tanto tempo fa ma è già uno spettacolo di "altri tempi".

Carlotta Marchisio ha detto...

Non fatico a crederci, scattare. Averne oggi, pur con tutti i limiti vocali, di Carmen dalla personalità di Julia Migenes!
Per non parlare della sua autoironia. Virtù pressoché sconosciuta a tanti cantanti di oggi.

Francesco Benucci ha detto...

Cara Carlotta, sono appena tornato dalla quinta rappresentazione di questa lulu firmata gatti/stein.
sul canto non aggiungo altro, concordo pienamente con te soprattutto sulle voci maschili che stasera ci hanno anche onorato con qualche bel falsettone! al aikin è stata secondo me mediocre, voce piccolissima (e con un gatti carico e voluminoso, in certi punti non si sentiva proprio), ruvida, alla "gessetto sulla lavagna". ottima nell'incarnare il personaggio di lulu.
bella la regia: dopo un tannhauser e un simone piccoli e imbarazzanti quanto a regia, questa di stein è proprio una boccata di aria fresca.
positiva anche la direzione di gatti: dinamica, espressiva, colorata ma un po' troppo pestata. c'è da dire che in questa musica, come del resto nella sua recentissima e bellissima Sacre du Printemps con la Filarmonica, pestare un po' non nuoce, anzi.
insomma soddisfatto per regia e direzione.
certo, il pubblico dei palchi e della platea certo non aiutano a innalzare questa buona rappresentazione al successo: dopo il primo atto la platea ha fatto buchi da tutte le parti, gente che fuggiva con le mani nelle orecchie, con sguardi allibiti, i palchi si sono svuotati a vista d'occhio, e anche i turisti, soddisfatti per aver visto il teatro, cogliendo l'occasione propizia della pausa, hanno preferito una pizza in galleria al secondo atto di un'opera secondo me bellissima...
risultato: applausi flaccidi e smunti per una rappresentazione tutto sommato felice.