Caratteristica di certa parte della critica contemporanea pare essere un’attività di scardinamento dei principi basilari su cui la critica militante si è da sempre basata da che esiste l’opera lirica. A che scopo? Cambiare le regole del gioco, in modo tale da poter avallare, giustificare ed incensare uno stato dell’arte corrente insostenibile con i parametri tradizionalmente applicati al recitar cantando, perlomeno sino alla metà degli anni ’80 del ‘900.
Assistiamo perciò alla produzione, su certe riviste divulgative, di saggini e saggetti correnti, nei quali le penne si cimentano in digressioni confusionarie, disinformate e prive di rigore metodologico al fine di tirare acqua al mulino del “ Tutto bello, tutti bravi, finalmente il vero stile”. Saggetti che suscitano, nel lettore minimamente informato, un certo disgusto, non tanto per la mancanza di rigore che trasudano, quanto per l’evidente strumentalità delle affermazioni messe in campo. Il velo del silenzio potrebbe facilmente scendere questa farragine cartacea, se non fosse che poi certe papere marchiane e certe concezioni dozzinali si diffondono tra il pubblico, soprattutto se giovane ed inesperto, finendo col creare disinformazione, disorientamento, se non addirittura ignoranza diffusa.
Quanto sopra è esemplificato in un articolo apparso qualche tempo fa sulla rivista l’Opera, n° 199 anno 2005, a cura di G. Landini ed intitolato “La partitura è un libro dei sogni?”.
Testo che, sostenuto da un apparente rigore metodologico e da un tasso di erudizione pure quello apparentemente notevole, è in realtà un guazzabuglio di fraintendimenti e nozioni imprecise se non false, tutto teso a dimostrare che il canto, in buona sostanza, si evolve, il gusto cambia, i riferimenti forniti dalla storia del canto non sarebbero poi né così chiari né così univoci come certa corrente di pensiero ( quella cui noi apertamente ci ispiriamo ) vorrebbe far credere, che lo “stile” è un concetto indefinibile (….in effetti, da lui non definito ) e forse addirittura inesistente, e che ci sono ampi ed indefiniti margini di libertà per l’interprete che, alla fine, risolverebbe tutto in virtù della sua personalità. Il documento principe, quello dei 78 giri, sarebbe poco usato da critici e pubblico per approfondire quelle nozioni in fatto di “stile”: “ La più parte degli ascoltatori e dei critici non li conoscono e se li conoscono spesso inorridiscono. Ciò che li fa inorridire è proprio lo stile. In molti casi il loro orrore è sacrosanto. Come si possono avallare le affascinanti soluzioni stilistiche di Fernando De Lucia nella cavatina dell’Ernani? Affermano dunque che quello che si ascolterebbe non sarebbe lo stile voluto dai compositori ma il capriccio dei cantanti” .
La tecnica di canto è una, afferma Landini, il gusto è mutevole, lo stile forse nemmeno esiste, ergo il cantante può fare tutto ciò che gli pare, a patto che sia un grande cantante. E come si stabilisca chi sia grande cantante, secondo il signor Landini, Dio lo sa, dato che la tecnica di canto compare in primo enunciato del pezzo, relativamente alle affermazioni di Alagna circa la piena libertà dell’interprete una volta rispettate le regole della tecnica, ma subito viene buttata fuori dalla finestra e dimenticata nel prosieguo dell’articolo. Il gusto, poi, muta col mutare del pubblico, è “volatile” ( come i gas?!), ma pure questo parametro scompare subito dall’articolo anche laddove avrebbe dovuto essere chiamato in causa per forza di cose. Lo stile, stando a Landini, sarebbe concetto aleatorio ed infondato nella storia, come vuol provarci con una serie di note ed esempi storici che , analizzati da vicino, si rivelano errati e mal posti.
Una comoda “disinformatia”, che consente al critico l’agitar di turiboli e lo spargimento di incensi per i cantanti preferiti, dato che una volta abbattuto ogni criterio minimamente oggettivo di giudizio, tutto ed il contrario di tutto diventa sostenibile.
Vediamo prima il tenore della disinformazione sul piano storiografico delle asserzioni landiniane in oggetto, quindi un’applicazione al caso pratico, ossia la Norma di Fiorenza Cedolins, destinataria privilegiata di recensioni ricche di riferimenti storiografici strumentali e strumentalizzati. Caso scelto in omaggio all’esplicito riferimento di Landini alla sottoscritta nella recensione al dvd della Norma di Barcellona, quasi che io sola ironicamente indicata “in rapporto medianico con la tecnica del primo Ottocento”, e non una moltitudine di persone, avessi rilevato l’imbarazzante prova della signora.
PAROLE E PAPERE
Con l' assunto precedente, che in pratica riconosce al cantante il diritto di far quel che vuole e di essere apprezzato, stimato ed applaudito se in grado di rendere qualche cosa ed emozionare in qualche modo il pubblico, si arriva a negare l’irrinunciabilità della tecnica di canto e a ridurre lo stile ed il gusto ad un aspetto assolutamente personale. Così son tutti salvi, indulgenza plenaria perpetua per dilettanti e principianti del canto.
Davanti al genio che si esprime libero dai freni inibitori di tecnica, stile e gusto, la tradizione interpretativa, la trattatistica, che raccoglieva e codificava la prassi del tempo, le opinioni degli autori e della critica, si trasformano magicamente in……… Foxy doppio velo.
Quanto alla storia del canto e della vocalità, ad esse Landini non riconosce, stando agli esempi citati ed al senso generale dell’articolo, titolo di guida critica per il presente, perché storia fatta di contraddizioni insanabili e basata su parametri alla fine forse anche inesistenti, come detto in precedenza. L’anarchica espressione dell’io cantante è il perfetto puntello alla “Logica del nome” tanto cara a chi detiene oggi le chiavi del potere nei teatri, perfetta declinazione del tutto per tutti e tutti per tutto!
Sul piano del metodo, però, si contraddice allorquando và a ricercare precedenti storici per avallare il presente. Una tautologia compiuta, dove ci si serve di ciò che si vuole demolire per dimostrare le proprie tesi, alla faccia del rigore del pensiero. E alla faccia di quelli che come me sarebbero, ironicamente, in contatto mediatico con i cantanti del passato!
Il giochino potrebbe anche funzionare se non fosse che la sfortuna vera di Landini è quella di proporre esempi discutibili, anche nei fatti spiccioli, per sostenere sua tesi-assunto finale. Esempi:
Tiberini, tenore di grazia chiamato a cantare la Forza al debutto a Milano che finirebbe, al paradosso, per avallare la scelta di Florez per il medesimo ruolo verdiano. Si tratta chiaramente di un esempio impreciso e poco documentato. Il tenore di grazia nell’Ottocento non è esattamente il nostro tenore di grazia, ossia un tenorino. Florez sarebbe stato definito tenore di mezzo carattere e non di grazia, come il debuttante Rubini. Può avere ed ha avuto voce lirica di ben altra pienezza, a cominciare da Garcia che fu Almaviva al pari di Tiberini e Florez, esattamente come Gianni Raimondi fu Idreno ma tenore verdiano per carriera. Tiberini, in realtà, ebbe carriera che mosse da Idreno, ma finì con Verdi, in particolare Ballo e Don Carlos ed il fatto che cantasse la Shabran ed il Barbiere come Florez non dimostra nulla perché quelle opere erano appannaggio di tenori con voce di maggior peso lirico di Florez. Hermann Jadlowker, in quei 78 gg che il nostro asserisce sconosciuti ( e con ragione, evidentemente, stando a quanto scrive! ) alla maggioranza della critica ed orripilanti per la maggioranza del pubblico, è, al contrario, la prova che regge l’assunto opposto al suo, ossia che un tenore dalle caratteristiche vocali ben diverse da quelle di Alva o di Florez poteva cantare Rossini, il Grand Operà e Verdi. Un Pavarotti o un Gigli educati al canto di agilità potevano ben compiere il percorso di Tiberini .Il caso citato, dunque, prova, al contrario, come la definizione “tenore di grazia” da noi oggi adottata sia diversa rispetto a quella originaria, e che il problema stia in una lettura approssimativa del passato.
L’esempio successivo, quello del protagonista maschile degli Ugonotti, non decampa da questa problematica. Secondo Landini il passaggio del ruolo da Nourrit a Duprez quindi ai tenori di forza, avrebbe via via eliminato le sfumature del personaggio appesantendone l’esecuzione. Si interroga sulla maggiore adeguatezza di un Blake per motivi stilistici rispetto ad un Corelli, improprio sul piano dello stile e che affrontò il ruolo tagliando le sezioni fiorite; un Corelli che, però, il nostro ammette di preferire a Blake perché ben più elettrizzante. Il punto che a Landini sfugge è che Duprez non cantava certo come Corelli, che in Lucia sortì esito disastroso né mai affrontò Fernando di Favorite, DomSebastien, Jerusalem, ruoli scritti per Duprez.. Le differenze tra Corelli e Duprez sarebbero ancor maggiore pensando al Duprez della fase in cui imitava Rubini. Non c’è alcuna confusione di “stile” nel dato storico, ed ancora i 78 gg tanto vituperati ce lo provano chiaramente, con tenori come Wittrish, Urlus, Jadlowker, Slezak . Corelli resta un tenore di stampo tardo verdiano e verista imprestato, per motivi cogenti (mancanza di altri e gusto del tempo) , ad un canto di cui non praticava correttamente gli stilemi espressivi, ossia non ne possedeva lo “stile”, e forse nemmeno la tecnica. Quanto a Blake, dubito che nell’Ottocento avrebbe mai potuto esibirsi in una grande sala in quel ruolo. Cosa che del resto ha fatto in carriera, coerentemente, divertendosi ad essere Raoul in periferia solo poco prima del ritiro, e ben guardandosi dal continuare con il Meyerbeer tragico dopo il Robert Le Diable parigino. Di Guglielmo Tell Blake mai ne parlò nemmeno per caso.
Altra improprietà del nostro, quella relativa alla questione dello stile di Azucena, per quale Verdi avrebbe scritto singolarmente dei trilli, che le Azucene tradizionali mai eseguono. Certo, quello della Horne fu l’esperimento di una belcantista prestata a Verdi, ma il caso di Sigrid Onegin, che incise il ruolo, spesso interpretato in teatro, conferma di nuovo che non c’è alcuna contraddizione tra l’esecuzione esatta della fiorettatura ed una voce di tonnellaggio ed accento davvero verdiano. Posto che tra una Azucena composta e non belcantista, ed una sguaiata corre molta differenza, basti sentire la Stignani e la Castagna. La Onegin ce ne dà una assoluta e spettacolare dimostrazione: siamo noi che nel ’900 abbiamo cessato di preparare le voci importanti al canto di agilità, per ragioni legate al cambiamento radicale portato dalla vocalità verista.
Che il dato storico richieda una minimale contestualizzazione, poi, e non una manichea e meccanica trasposizione, soprattutto laddove questo apparentemente appaga la tesi che si vuole dimostrare, viene dall’esemplificazione della Traviata di Toscanini. Le Violette toscaniniane citate, Dalla Rizza e Albanese, è vero che erano carenti sul piano vocale e “stilistico”. A parte che se fossi in Landini darei una scorsa a quanto scrive Lauri Volpi circa l’esito che Toscanini conseguì, a dispetto di tutti, con la Dalla Rizza, ma credo che comunque occorra domandarsi quali possano essere state le ragioni ed i condizionamenti delle sue scelte, che, al contrario, in fatto di soprani spinti e drammatici, ricadevano su cantanti assolutamente opposte, quali l’Arangi Lombardi o la Rethberg. Chi fossero le Violette disponibili per Toscanini in quel momento è pensiero che chi voglia davvero comprendere le ragioni delle scelta dovrebbe porsi. A parte la Muzio, che stava in America, verso quali soprani diversi avrebbe potuto indirizzarsi Toscanini, che di certo non voleva un soprano di coloratura, dato il suo giudizio negativo sulla Tetrazzini, ad esempio famosissima ed espressiva Traviata del suo tempo?...Forse quel gusto del tempo così “volatile” di cui parla Landini avrebbe un ruolo in questo caso, a pensarci bene, ed è fatto assai diverso dalla deroga dall’ABC del canto….
Che Tamagno, poi, cantasse il Tell non è fatto per nulla contraddittorio sul piano dello stile, dato che il Tell ( e ne abbiamo già parlato più volte proprio nel blog ) da subito fu appannaggio dei tenori drammatici alla Tamberlick, lo si eseguiva tagliato etc….Come impropria è la precedente asserzione che Verdi fosse in ambasce circa l’affidamento del ruolo di Otello a Tamagno perché limitato tecnicamente ed incapace di eseguire i passi di canto a fior di labbro del monologo del III atto, mentre , al contrario, sappiamo dalle fonti documentarie che i dubbi di Verdi erano relativi alle libertà che il tenore era solito prendersi in fatto di tempi e di agogica e sulla possibilità di eseguire il duetto del primo atto ed il finale.
La successione degli esempi, poi, si fa davvero rocambolesca ed incontrollata sul finire del pezzo, laddove ritiene di identificare contraddizioni nel fatto che la Callas avesse ripristinato lo stile della Pasta, che veniva, via Grassini, dalla scuola dei castrati, mentre era allieva di un soprano come la De Hidalgo, che era, comunque, un soprano con solida base tecnica. Si abbandona all’interrogazione retorica che la Callas “accanto a Norma eseguiva Medea e Tosca e che c’entra Tosca con lo stile della Pasta e con quello della Gioconda?”, confondendo lo “stile “ delle singole opere con le capacità tecniche e vocali per eseguirle tutte nel rispetto dell’autore e del suo tempo. Nemmeno quanto sta affermando in prima persona, ossia che si possono cantare opere profondamente diverse tra loro rispettandone la poetica ed i caratteri stilistici, spinge il nostro Landini a fare dietro front dalla sua crociata sullo stile soggettivo, o perlomeno a riflettere sulla correttezza metodologica del suo ragionamento, per ricordarsi proprio di quel primo concetto della triade, l’unicità della tecnica vocale, precocemente scaricato fuori dallo scritto, perché pericolosamente…. cellettiano. Landini si dimentica che la Callas è come la Lehmann, capace di affrontare repertori disparati per sensibilità e soprattutto per preparazione tecnica, al pari del buon Jadlowker, della Onegin e di tutti quegli orrendi signori, che hanno mostruosamente inciso le loro voci nei 78 giri. La strada intrapresa verso l’assunto che vuole aprioristicamente provare, lo conduce all’assurdo, cioè ritenere la Callas una anomalia incomprensibile ad onta della sua…reale esistenza e normalità se rapportata a quanto venne prima di lei. E la povera Sutherland con lei, naturalmente. La più perfetta, colta e razionale costruzione di un cantante secondo la lezione della storia del canto, quella che Bonynge alla perfezione conosce, finisce catalogata come "Semiramide liberty", lontana dall’essenza del canto rossiniano originario. Dimentica il nostro che la Colbran cantò ancora dieci sere dopo le tumultuose recite del debutto ove si esibì a pezzi e con un marito che ben sapeva che quella linea di canto, diversa da tutte le precedenti scritte per la moglie, era destinata ad altri e diversi soprani. Dimentica il nostro che al Des Italiens a Parigi, proprio Rossini sostituì per Semiramide un soprano assoluto come la Sontag con un altro soprano assoluto, la Grisi (!) destinata ed essere l’interprete paradigmatica del secolo sino all’arrivo della Patti, altro soprano assoluto, per la quale Rossini stesso scrisse pure delle varianti, a riprova di quanto poco adatto fosse per Rossini in persona un soprano assoluto come la Sutherland in Semiramide! E ci dimentichiamo di Carlotta Marchisio, autrice di fantasmagoriche cadenze che vennero elogiate da Rossini con il famoso “avete resuscitato un morto!”.
Ed a questo punto sono anche stanca di enumerare le scivolate, che continuano ancora, per mettere l’accento sull’affermazione, questa si fedifraga, circa la Norma della signora Cedolins. Cito il pezzo, perché merita:”…Fiorenza Cedolins sarebbe fuori stile per Norma. Eppure chiedo di spiegarmi perché la Cedolins sarebbe fuori stile: omette qualche nota? Non esegue le agilità? Non si comporta come la Sutherland? Ma la Sutherland canta Norma come la Pasta o come la Patti o come la Melba, cioè con uno stile floreale che dal romanticismo si sposta al fin de siécle; la Norma della Sutherland è più distante da Bellini di quella della Cedolins? La Cedolins non è più aderente allo stile di Norma di quanto non fosse la Sutherland? Non è più rispettosa della partitura di quanto lo fosse la Sutherland che faceva violenza con il fasto liberty della coloratura aggiunta? ”
Caro Landini, ma la Sutherland non avrebbe mai cantato o pensato di cantare la Norma ispirandosi alla Patti o alla Melba perché queste non cantarono mai la Norma ( la Patti ha solo inciso il Casta Diva ), semmai avrebbe pensato a Giulia Grisi ( che destino il mio, vero??). Dopo di me l’opera divenne appannaggio di soprani spinti, quali la Titiens, la De Giuli Borsi, la Barbieri Nini, la Lehmann, la Russ, la Raisa etcc.. e non di lirici di coloratura, se mi permette la dicitura sintetica. Credo che Bonynge lo abbia detto più volte nelle sue interviste, e non c’è proprio nulla di liberty nell’interpretazione di Norma della Sutherland. Solo il tentativo di ripristinare un gusto che toglieva alla Callas quel filo di veridicità realista, che ancora conteneva ( penso a “ I Romani a cento a cento” ) per avvicinarsi ad un modello meramente belcantistico, direi puramente “mimetico” dell’opera. Quanto poi al fasto liberty della coloratura aggiunta di cui lei parla, e che apertamente ha censurato nella recensione all’edizione londinese dal vivo a Londra, con Marilyn. Horne del 1967, vorrei puntualizzare che di diverso dalle sue tradizionali variazioni compare solo al secondo duetto l’esecuzione di una corposa cadenza, che immagino essere stata la causa della sua stroncatura ( L’Opera, n° 199, 2005 ). La performance è perfettamente in linea con lo standard, immutabile, della Sutherland in teatro, a meno dell’esecuzione di un fantastico mi bem in chiusa al duetto con Pollione. La stroncatura dell’esecuzione, tacciata di eccessi liberty, non ha alcun fondamento né motivo di essere condivisa. Piuttosto, era dovere del recensore ricordare il valore documentario della cadenza stessa, proposta dalle due primedonne in omaggio alle sorelle Marchisio, che ne furono autrici, che però precedettero il Liberty di almeno 30 anni!
Insomma, quasi in fin d’articolo ci accorgiamo di essere in braghe di tela, grazie al dott. Landini, perchè il nostro presente risulta incapace di conoscere come si canti Norma, quali siano i requisiti vocali, stilistici e tecnici; non siamo più nemmeno in grado di leggere le note sullo spartito, dato che il rispetto della partitura nel solfeggio, come vedremo in seguito, non è più dato oggettivo e sensibile!!! Si domanda retoricamente se la Cedolins, quale cantante, sia fuori stile nella Norma e se sia più o meno aderente ad esso della Sutherland in una confusione di “stili”, quello della cantante e quello dell’opera,in cui finisce per perdersi. Se basta lo stile del cantante a risolvere, che importa appurare quale sia lo stile di Norma o istituire confronti con l'inarrivabile Dame? Se invece esiste ( come di fatto esiste ) un parametro stilistico per Norma, perché non lo definisce e non analizza il canto della Cedolins rispetto a questo? Il fatto che la Cedolins non ometta note nel canto ( fatto tutto da verificare e comunque le eseguiva tutte anche Zinka Milanov...a suo modo ) non significa che la signora canti con attentibilità stilistica, perfezione vocale ed adeguatezza di accento. Conta si eseguire tutte le note, ma conta anche COME le si eseguono, e quale significato e pregnanza drammaturgica si riesca a conferire ad esse con la voce. Dunque il dato tecnico, scomparso opportunamente dall’analisi landiniana del canto della Cedolins, avrebbe un peso assai notevole, e dovrebbe essere aspetto degno dell’interesse del critico, nel belcanto soprattutto, al pari di quello stilistico, nelle varie accezioni che ho indicato prima. Avrebbe ma non ha, dato che al giorno d’oggi da un lato fa comodo non procedere su questo terreno a causa del livello tecnico medio di chi canta; dall’altro il farlo richiede anche la capacità del critico di sentire, capendo, come un cantante usi il suo strumento. E le critiche alle Norme della signora Cedolins ci danno prova di questo stato delle cose.
LA NORMA DI FIORENZA CEDOLINS SECONDO G. LANDINI VS G. GRISI
Partiamo dalla recensione al dvd di Tokyo del 2003, su L’opera, n°184, 2004. Preoccupazione primaria del critico è da subito quella di collocare la Norma della Cedolins nell’alveo di una qualche tradizione consolidata, al fine di storicizzarla, ancor prima di averne dimostrato la validità. Non potendo sistemarla né tra i soprani spinti né tra le belcantiste pure, non avendo la Cedolins né un mezzo poderoso né un virtuosismo travolgente, la pone all’interno di una fantomatica e confliggente linea Cerquetti - Scotto. Linea di continuità inesistente, dato che si tratta di due cantanti del tutto opposte e differenti nella concezione di Norma, la prima fondata sulla sontuosità del timbro, l’ampiezza del mezzo e l’aulicità dell’accento, la seconda tutta costruita e pensata artificialmente sino all’impossibile, in perenne carenza di peso e di pienezza timbrica, tanto da risultare stucchevole e deviata sul piano stilistico oltre che vocale. Poco importerebbe l’esistenza di un’ascendenza se la cantante fosse efficace sul piano tecnico stilistico e del personaggio, in omaggio al decantato ruolo che Landini stesso attribuisce alla personalità ri-creatrice dell’artista e di cui abbiamo parlato in precedenza.
Il punto, però, è che la cantante, certo in quell’occasione nella sua migliore prova in Norma, era già allora deficitaria in primo luogo sul piano tecnico ed anche su quello del mezzo, non abbastanza importante per supplire, con virtù di accento, alla carenza tecnica.
Quest’ultimo problema non verte tanto sulla capacità di eseguire in modo assolutamente fluido la coloratura, fatto che lo stesso Landini riconosce nella poco sciolta e brillante, quanto nella capacità di cantare correttamente sul fiato con il vero appoggio, in modo tale da conferire alle grandi frasi del personaggio, a cominciare da “Casta diva”, legato e penetrazione del suono. Con una voce dolce e lirica, naturalmente di bel timbro, ma idonea a personaggi meramente lirici appunto, il soprano non può mai esprimere in modo convincente il lato aggressivo come quello astratto del personaggio, se non sforzando il mezzo o perdendo in nobiltà e compostezza di accento.
I la nat ribattuti che Landini tanto decanta nella cavatina sono suoni poco pieni, scarsamente penetranti, talora malfermi nella tenuta e spuri ( si faccia il confronto con la Callas, la Sutherland o anche l’inadatta Gruberova ), idem dicasi per i fa puntati tenuti che precedono la cadenza in chiusa. In mancanza di penetrazione la cantante, all’occorrenza, spinge, violando un altro luogo sacro del belcanto. Alla scarsa penetrazione in alto, poi, si unisce un altro problema chiave della vocalità della signora Cedolins, quello dei suoni aperti al centro e sul passaggio superiore, in particolare la zona mi-sol. Si comincia con i sol –fa di “Casta diva, casta diva…” ad inizio aria, e si va via così sino alla fine. La perfezione dell’emissione, l’omogeneità di tutti i suoni della gamma, che devono essere sempre perfettamente tondi, avanti e immascherati, viene meno continuamente, tradendo un altro presupposto basilare del belcanto. Non è dunque nemmeno questione di eseguire tutte le note, come afferma Landini, se nemmeno là dove questo tipo di soprano dovrebbe avere il suo punto di forza della serata, l’esito è di grande qualità. O per lo meno, di una qualità tale da giustificare gli sfottò del critico verso quelle “interpreti celebrate” che eseguono “ lussureggianti verzure tardo barocche o pre-liberty “, e rispetto alle quali la Cedolins avrebbe ridato “un’austera bellezza che le virtuose in vena di pavoneggiarsi spesso sacrificano”, laddove è sua intenzione giustificare le mende evidenti sul piano dell’esecuzione della coloratura o di passi nelle quali proprio le stesse cui allude per il “Mira, o Norma” hanno fatto la storia del canto. La partitura di Bellini riprenderebbe, dunque, in virtù della signora Cedolins la sua “austera bellezza”, che non saprei proprio dire quali delle grandi Norme di riferimento della storia abbia violato o mancato di renderci.
Il suono scoperto e sbiancato del soprano, evidente anche nei duetti a fianco della piccola voce della signora Palacios, cui finisce per essere pressoché equivalente per peso vocale e drammatico a furia di alleggerire il suono, si trasforma in una voce acida e stimbrata quando compare il lato aggressivo del personaggio. La naturale bellezza timbrica svanisce nello sforzo di dare accento all’ “Oh di qual sei tu vittima..”, eseguito con centro scoperto e querulo, inadatto alla spinta drammatica del momento. Landini lo definisce “fraseggiato con uno strazio segreto e profondo”, mentre io lo definirei stentatamente cantato, oltre che insufficiente sul piano drammaturgico. Per non parlare del precedente “No, non tremare o perfido…”, dove il soprano aveva già ben aspirato e/o cempennato le agilità, come quelle discendenti, che precedono l’esecuzione dei do scoperti a piena voce, in un mix dal sapore anni ’40, se non fosse che quei vituperati soprani di marca verista possedevano una ampiezza vocale ed una genuina forza tragica, sopra le righe e poco stilizzata, comunque efficace, mentre qui mancano sia una grande tecnica di canto, lo stile ed un’effettiva adeguatezza al testo, che il vigore, ossia tutti i parametri della succitata triade proposta da Landini. E potrei proseguire ancora per l’intera opera, se non fosse che il caso della Norma della signora Cedolins non è il centro dei miei fervidi pensieri di oggi, bensì il modo di pensare e di fare di certa critica militante. Quello che conta, in questo caso, è considerare come una prova, a mio modo di vedere, in bianco e nero, potesse essere presentata in modo più credibile ed accettabile per il pubblico se la recensione si fosse incentrata, anziché su affermazioni indimostrabili e mirabolanti, presentando la prova come quella assolutamente onesta e volenterosa di un soprano che, in un orizzonte deserto o fatto al più di soprani leggeri inadatti al ruolo, aveva avuto il coraggio di cimentarsi con una delle parti tecnicamente e drammaturgicamente più difficili della storia dell’opera. Perché pur con parecchi limiti, la signora Cedolins non era stata sopraffatta da un ruolo cui è manifestamente inferiore per capacità tecniche, mezzo naturale e stile. E senza l’ambizione di volercela passare per una esecuzione storica o eccellente, addirittura competitiva con le prove di colossali figure quali la Sutherland, regolarmente chiamata in causa a vanvera ( e dopo di allora ancora varie altre volte ed intermini espliciti, in saggi e recensioni successive ), a suon di distorsioni. Quasi che la via percorsa della Cedolins avesse mai alcunchè a che fare con quella inimitabile della grande australiana, tutta basata sulla perfezione tecnica, lo slancio in acuto, etc... Perché andare a cercare confronti tremendi quanto impossibili?
Altra sfortuna del signor Landini è stato il fatto che la signora Cedolins, a differenza di Blake con il Raoul degli Ugonotti, non abbia inteso la sua performance giapponese come prova d’appello per un esperimento, uno sfizio di quelli che gli artisti intendono cavarsi nella carriera, ma abbia, al contrario, perseverato e messo il ruolo in repertorio. A Tokyo seguirono Ancona, Genova, Barcellona e Bilbao, con esiti variegati, e son note le vicende tumultuose della carriera della signora, che di fatto “svoltò” proprio al Liceu, nel 2007, in occasione di una ripresa disastrosa, anche per l’amplificazione portata dalla presa tv, proiezione in maxischermo e diretta radio, che anche noi seguimmo. Basiti.
La catastrofe spagnola era prossima ad avverarsi quando Landini, nel marzo del 2007, sempre sulla medesima rivista, uscì con la recensione al cd realizzato durante le recite di Ancora del 2004, nella quale precisava, sola vera differenza con quanto scritto in precedenza, che la Norma della Cedolins “ sembra ricollegarsi alla tradizione italiana di Anita Cerquetti, Maria Caniglia e Gina Cigna. In realtà, si tratta di suggestioni, dal momento che siamo in presenza di voci diverse e che la Cedolins le supera tutte per le competenze con cui onora la coloratura. Non si può dire che la Cedolins sia una vocalista in senso stretto. Risolve i passi fioriti però con invidiabile sicurezza…..trae maggior profitto dai passi in stile grande agitato che da quelli estatici….” ( L’opera, n° 214, 2007 ) Asserzioni, queste, non così facilmente dimostrabili, in particolare nel caso del confronto con la Cerquetti ( criticabile sempre per gli acuti, invece ), soprattutto in fatto di qualità di canto legato ed estatico. Nemmeno con signore che si tolsero lo sfizio di eseguire Norma una volta in carriera, come l’omessa Stella, il confronto sarebbe favorevole per la signora Cedolins, perché si tratta di cantante dai mezzo vocale ben più sontuoso, seducente e pieno.
Le recite barcellonesi sono note a tutti, e ve n’è ampia documentazione su You Tube. Della bella voce della signora Cedolins non vi era più che rara traccia. I falsetti ed i pianini arrabattati della cavatina non si contano nell’audio. La voce è una vocina acida, l’”Ah bello a me ritorna” difficilissimo, ed un personaggio restituito in chiave talora isterica e fuor delle righe, oltre che dello stile. Con buona pace di Landini, quando si canta e si recita un “Già mi pasco dei tuoi sguardi..” come questo si è fuori non solo da Norma e dalla poetica di Bellini, ma anche dal belcanto, e non c’è nemmeno lo stile dell’artista, quella di Tokyo 2003, che renda compatibile musica, parole del testo, situazione drammaturgica con siffatta resa vocale, inadatta persino alla parodia di Francesca Bertini. Non mi addentro nei dettagli del canto gridato, con voce al lumicino e talora afonoide di tutto il finale dell’opera, o la cattiva esecuzione delle quartine del “No, non tremare o perfido “ come della fiorettatura del “Vanne deh mi lascia indegno”del I atto, la miriade di suoni bianchi ed esangui del” Mira, o Norma”, il confronto con un mezzosoprano che la sopravanza per accento e spessore in ogni momento in cui cantano assieme.
” Nelle differenze di accento, fraseggio, colore, timbro passa l’originalità di una lettura e qualche violenza stilistica, per paradosso, può mostrarci qualche lato inedito della pagina che stiamo ascoltando” aveva affermato Landini in testa all’articolo del 2005.
E questo si è forse realizzato a parer suo in occasione della Norma di Barcellona, per la quale ha avuto modo di affermare ancora nella positiva recensione al dvd sul n° 240 del 2009: “ So solo che la resa del personaggio e della vocalità è completa, soprattutto se si pensa che la Cedolins riporta Norma, deragliata sui binari di un fronzuto vocalismo, all’interno del suo alveo che è quello di una forte drammaticità, cioè di una tragedie-lirique all’italiana…….una dalle caratteristiche della vocalità di Norma consiste nel rapporto totale con la parola da cui la melodia nasce…” ?
A volte non è meglio ammettere una prova negativa, ricordare lo stato vocale ed, immagino, anche fisico della cantante, che procede con la forza ammirevole dei nervi ( se proprio era il caso di esibirsi così ) e non perseverare follemente a sostenere l’insostenibile?
“Ora se prendo la partitura di Norma e mi accingo ad usarla per cercare capi di accusa, occasioni per incriminare la Cedolins e in qualche modo poterla trascinare sul banco degli imputati di un Bellini leso o peggio ancora tradito, devo proprio dirlo che non riesco affatto a reperirle, con buona pace di Giulia Grisi e di chi è in rapporto medianico con la tecnica del primo Ottocento ”.
Caro signor Landini, io non ho rapporti medianici con la tecnica del primo Ottocento, come lei asserisce. Ho solo una maggiore libertà di fronte al presente ed ai suoi protagonisti. E ritengo che si debba avere un atteggiamento profondamente diverso di fronte alla storia del canto, ai suoi documenti scritti e sonori ed alla sua lezione.
Gli ascolti
Rossini - Il barbiere di Siviglia
Atto I
Ecco ridente in cielo - Hermann Jadlowker
Meyerbeer - Les Huguenots
Acte I
Plus blanche que la blanche hermine - Jacques Urlus
Bellini - Norma
Atto I
Casta Diva - Antonietta Stella (1956)
Fine al rito...Ah! Bello a me ritorna - Anita Cerquetti (1957), Fiorenza Cedolins (2004)
Atto II
Dormono entrambi - Anita Cerquetti (1958)
Deh! Con te, con te li prendi...Mira, o Norma...Sì, fino all'ore estreme - Joan Sutherland & Marilyn Horne (1967)
In mia man alfin tu sei - Antonietta Stella & Mario Del Monaco (1956), Anita Cerquetti & Franco Corelli (1958)
Finale - Joan Sutherland, Franco Tagliavini, Joseph Rouleau (1967)
Assistiamo perciò alla produzione, su certe riviste divulgative, di saggini e saggetti correnti, nei quali le penne si cimentano in digressioni confusionarie, disinformate e prive di rigore metodologico al fine di tirare acqua al mulino del “ Tutto bello, tutti bravi, finalmente il vero stile”. Saggetti che suscitano, nel lettore minimamente informato, un certo disgusto, non tanto per la mancanza di rigore che trasudano, quanto per l’evidente strumentalità delle affermazioni messe in campo. Il velo del silenzio potrebbe facilmente scendere questa farragine cartacea, se non fosse che poi certe papere marchiane e certe concezioni dozzinali si diffondono tra il pubblico, soprattutto se giovane ed inesperto, finendo col creare disinformazione, disorientamento, se non addirittura ignoranza diffusa.
Quanto sopra è esemplificato in un articolo apparso qualche tempo fa sulla rivista l’Opera, n° 199 anno 2005, a cura di G. Landini ed intitolato “La partitura è un libro dei sogni?”.
Testo che, sostenuto da un apparente rigore metodologico e da un tasso di erudizione pure quello apparentemente notevole, è in realtà un guazzabuglio di fraintendimenti e nozioni imprecise se non false, tutto teso a dimostrare che il canto, in buona sostanza, si evolve, il gusto cambia, i riferimenti forniti dalla storia del canto non sarebbero poi né così chiari né così univoci come certa corrente di pensiero ( quella cui noi apertamente ci ispiriamo ) vorrebbe far credere, che lo “stile” è un concetto indefinibile (….in effetti, da lui non definito ) e forse addirittura inesistente, e che ci sono ampi ed indefiniti margini di libertà per l’interprete che, alla fine, risolverebbe tutto in virtù della sua personalità. Il documento principe, quello dei 78 giri, sarebbe poco usato da critici e pubblico per approfondire quelle nozioni in fatto di “stile”: “ La più parte degli ascoltatori e dei critici non li conoscono e se li conoscono spesso inorridiscono. Ciò che li fa inorridire è proprio lo stile. In molti casi il loro orrore è sacrosanto. Come si possono avallare le affascinanti soluzioni stilistiche di Fernando De Lucia nella cavatina dell’Ernani? Affermano dunque che quello che si ascolterebbe non sarebbe lo stile voluto dai compositori ma il capriccio dei cantanti” .
La tecnica di canto è una, afferma Landini, il gusto è mutevole, lo stile forse nemmeno esiste, ergo il cantante può fare tutto ciò che gli pare, a patto che sia un grande cantante. E come si stabilisca chi sia grande cantante, secondo il signor Landini, Dio lo sa, dato che la tecnica di canto compare in primo enunciato del pezzo, relativamente alle affermazioni di Alagna circa la piena libertà dell’interprete una volta rispettate le regole della tecnica, ma subito viene buttata fuori dalla finestra e dimenticata nel prosieguo dell’articolo. Il gusto, poi, muta col mutare del pubblico, è “volatile” ( come i gas?!), ma pure questo parametro scompare subito dall’articolo anche laddove avrebbe dovuto essere chiamato in causa per forza di cose. Lo stile, stando a Landini, sarebbe concetto aleatorio ed infondato nella storia, come vuol provarci con una serie di note ed esempi storici che , analizzati da vicino, si rivelano errati e mal posti.
Una comoda “disinformatia”, che consente al critico l’agitar di turiboli e lo spargimento di incensi per i cantanti preferiti, dato che una volta abbattuto ogni criterio minimamente oggettivo di giudizio, tutto ed il contrario di tutto diventa sostenibile.
Vediamo prima il tenore della disinformazione sul piano storiografico delle asserzioni landiniane in oggetto, quindi un’applicazione al caso pratico, ossia la Norma di Fiorenza Cedolins, destinataria privilegiata di recensioni ricche di riferimenti storiografici strumentali e strumentalizzati. Caso scelto in omaggio all’esplicito riferimento di Landini alla sottoscritta nella recensione al dvd della Norma di Barcellona, quasi che io sola ironicamente indicata “in rapporto medianico con la tecnica del primo Ottocento”, e non una moltitudine di persone, avessi rilevato l’imbarazzante prova della signora.
PAROLE E PAPERE
Con l' assunto precedente, che in pratica riconosce al cantante il diritto di far quel che vuole e di essere apprezzato, stimato ed applaudito se in grado di rendere qualche cosa ed emozionare in qualche modo il pubblico, si arriva a negare l’irrinunciabilità della tecnica di canto e a ridurre lo stile ed il gusto ad un aspetto assolutamente personale. Così son tutti salvi, indulgenza plenaria perpetua per dilettanti e principianti del canto.
Davanti al genio che si esprime libero dai freni inibitori di tecnica, stile e gusto, la tradizione interpretativa, la trattatistica, che raccoglieva e codificava la prassi del tempo, le opinioni degli autori e della critica, si trasformano magicamente in……… Foxy doppio velo.
Quanto alla storia del canto e della vocalità, ad esse Landini non riconosce, stando agli esempi citati ed al senso generale dell’articolo, titolo di guida critica per il presente, perché storia fatta di contraddizioni insanabili e basata su parametri alla fine forse anche inesistenti, come detto in precedenza. L’anarchica espressione dell’io cantante è il perfetto puntello alla “Logica del nome” tanto cara a chi detiene oggi le chiavi del potere nei teatri, perfetta declinazione del tutto per tutti e tutti per tutto!
Sul piano del metodo, però, si contraddice allorquando và a ricercare precedenti storici per avallare il presente. Una tautologia compiuta, dove ci si serve di ciò che si vuole demolire per dimostrare le proprie tesi, alla faccia del rigore del pensiero. E alla faccia di quelli che come me sarebbero, ironicamente, in contatto mediatico con i cantanti del passato!
Il giochino potrebbe anche funzionare se non fosse che la sfortuna vera di Landini è quella di proporre esempi discutibili, anche nei fatti spiccioli, per sostenere sua tesi-assunto finale. Esempi:
Tiberini, tenore di grazia chiamato a cantare la Forza al debutto a Milano che finirebbe, al paradosso, per avallare la scelta di Florez per il medesimo ruolo verdiano. Si tratta chiaramente di un esempio impreciso e poco documentato. Il tenore di grazia nell’Ottocento non è esattamente il nostro tenore di grazia, ossia un tenorino. Florez sarebbe stato definito tenore di mezzo carattere e non di grazia, come il debuttante Rubini. Può avere ed ha avuto voce lirica di ben altra pienezza, a cominciare da Garcia che fu Almaviva al pari di Tiberini e Florez, esattamente come Gianni Raimondi fu Idreno ma tenore verdiano per carriera. Tiberini, in realtà, ebbe carriera che mosse da Idreno, ma finì con Verdi, in particolare Ballo e Don Carlos ed il fatto che cantasse la Shabran ed il Barbiere come Florez non dimostra nulla perché quelle opere erano appannaggio di tenori con voce di maggior peso lirico di Florez. Hermann Jadlowker, in quei 78 gg che il nostro asserisce sconosciuti ( e con ragione, evidentemente, stando a quanto scrive! ) alla maggioranza della critica ed orripilanti per la maggioranza del pubblico, è, al contrario, la prova che regge l’assunto opposto al suo, ossia che un tenore dalle caratteristiche vocali ben diverse da quelle di Alva o di Florez poteva cantare Rossini, il Grand Operà e Verdi. Un Pavarotti o un Gigli educati al canto di agilità potevano ben compiere il percorso di Tiberini .Il caso citato, dunque, prova, al contrario, come la definizione “tenore di grazia” da noi oggi adottata sia diversa rispetto a quella originaria, e che il problema stia in una lettura approssimativa del passato.
L’esempio successivo, quello del protagonista maschile degli Ugonotti, non decampa da questa problematica. Secondo Landini il passaggio del ruolo da Nourrit a Duprez quindi ai tenori di forza, avrebbe via via eliminato le sfumature del personaggio appesantendone l’esecuzione. Si interroga sulla maggiore adeguatezza di un Blake per motivi stilistici rispetto ad un Corelli, improprio sul piano dello stile e che affrontò il ruolo tagliando le sezioni fiorite; un Corelli che, però, il nostro ammette di preferire a Blake perché ben più elettrizzante. Il punto che a Landini sfugge è che Duprez non cantava certo come Corelli, che in Lucia sortì esito disastroso né mai affrontò Fernando di Favorite, DomSebastien, Jerusalem, ruoli scritti per Duprez.. Le differenze tra Corelli e Duprez sarebbero ancor maggiore pensando al Duprez della fase in cui imitava Rubini. Non c’è alcuna confusione di “stile” nel dato storico, ed ancora i 78 gg tanto vituperati ce lo provano chiaramente, con tenori come Wittrish, Urlus, Jadlowker, Slezak . Corelli resta un tenore di stampo tardo verdiano e verista imprestato, per motivi cogenti (mancanza di altri e gusto del tempo) , ad un canto di cui non praticava correttamente gli stilemi espressivi, ossia non ne possedeva lo “stile”, e forse nemmeno la tecnica. Quanto a Blake, dubito che nell’Ottocento avrebbe mai potuto esibirsi in una grande sala in quel ruolo. Cosa che del resto ha fatto in carriera, coerentemente, divertendosi ad essere Raoul in periferia solo poco prima del ritiro, e ben guardandosi dal continuare con il Meyerbeer tragico dopo il Robert Le Diable parigino. Di Guglielmo Tell Blake mai ne parlò nemmeno per caso.
Altra improprietà del nostro, quella relativa alla questione dello stile di Azucena, per quale Verdi avrebbe scritto singolarmente dei trilli, che le Azucene tradizionali mai eseguono. Certo, quello della Horne fu l’esperimento di una belcantista prestata a Verdi, ma il caso di Sigrid Onegin, che incise il ruolo, spesso interpretato in teatro, conferma di nuovo che non c’è alcuna contraddizione tra l’esecuzione esatta della fiorettatura ed una voce di tonnellaggio ed accento davvero verdiano. Posto che tra una Azucena composta e non belcantista, ed una sguaiata corre molta differenza, basti sentire la Stignani e la Castagna. La Onegin ce ne dà una assoluta e spettacolare dimostrazione: siamo noi che nel ’900 abbiamo cessato di preparare le voci importanti al canto di agilità, per ragioni legate al cambiamento radicale portato dalla vocalità verista.
Che il dato storico richieda una minimale contestualizzazione, poi, e non una manichea e meccanica trasposizione, soprattutto laddove questo apparentemente appaga la tesi che si vuole dimostrare, viene dall’esemplificazione della Traviata di Toscanini. Le Violette toscaniniane citate, Dalla Rizza e Albanese, è vero che erano carenti sul piano vocale e “stilistico”. A parte che se fossi in Landini darei una scorsa a quanto scrive Lauri Volpi circa l’esito che Toscanini conseguì, a dispetto di tutti, con la Dalla Rizza, ma credo che comunque occorra domandarsi quali possano essere state le ragioni ed i condizionamenti delle sue scelte, che, al contrario, in fatto di soprani spinti e drammatici, ricadevano su cantanti assolutamente opposte, quali l’Arangi Lombardi o la Rethberg. Chi fossero le Violette disponibili per Toscanini in quel momento è pensiero che chi voglia davvero comprendere le ragioni delle scelta dovrebbe porsi. A parte la Muzio, che stava in America, verso quali soprani diversi avrebbe potuto indirizzarsi Toscanini, che di certo non voleva un soprano di coloratura, dato il suo giudizio negativo sulla Tetrazzini, ad esempio famosissima ed espressiva Traviata del suo tempo?...Forse quel gusto del tempo così “volatile” di cui parla Landini avrebbe un ruolo in questo caso, a pensarci bene, ed è fatto assai diverso dalla deroga dall’ABC del canto….
Che Tamagno, poi, cantasse il Tell non è fatto per nulla contraddittorio sul piano dello stile, dato che il Tell ( e ne abbiamo già parlato più volte proprio nel blog ) da subito fu appannaggio dei tenori drammatici alla Tamberlick, lo si eseguiva tagliato etc….Come impropria è la precedente asserzione che Verdi fosse in ambasce circa l’affidamento del ruolo di Otello a Tamagno perché limitato tecnicamente ed incapace di eseguire i passi di canto a fior di labbro del monologo del III atto, mentre , al contrario, sappiamo dalle fonti documentarie che i dubbi di Verdi erano relativi alle libertà che il tenore era solito prendersi in fatto di tempi e di agogica e sulla possibilità di eseguire il duetto del primo atto ed il finale.
La successione degli esempi, poi, si fa davvero rocambolesca ed incontrollata sul finire del pezzo, laddove ritiene di identificare contraddizioni nel fatto che la Callas avesse ripristinato lo stile della Pasta, che veniva, via Grassini, dalla scuola dei castrati, mentre era allieva di un soprano come la De Hidalgo, che era, comunque, un soprano con solida base tecnica. Si abbandona all’interrogazione retorica che la Callas “accanto a Norma eseguiva Medea e Tosca e che c’entra Tosca con lo stile della Pasta e con quello della Gioconda?”, confondendo lo “stile “ delle singole opere con le capacità tecniche e vocali per eseguirle tutte nel rispetto dell’autore e del suo tempo. Nemmeno quanto sta affermando in prima persona, ossia che si possono cantare opere profondamente diverse tra loro rispettandone la poetica ed i caratteri stilistici, spinge il nostro Landini a fare dietro front dalla sua crociata sullo stile soggettivo, o perlomeno a riflettere sulla correttezza metodologica del suo ragionamento, per ricordarsi proprio di quel primo concetto della triade, l’unicità della tecnica vocale, precocemente scaricato fuori dallo scritto, perché pericolosamente…. cellettiano. Landini si dimentica che la Callas è come la Lehmann, capace di affrontare repertori disparati per sensibilità e soprattutto per preparazione tecnica, al pari del buon Jadlowker, della Onegin e di tutti quegli orrendi signori, che hanno mostruosamente inciso le loro voci nei 78 giri. La strada intrapresa verso l’assunto che vuole aprioristicamente provare, lo conduce all’assurdo, cioè ritenere la Callas una anomalia incomprensibile ad onta della sua…reale esistenza e normalità se rapportata a quanto venne prima di lei. E la povera Sutherland con lei, naturalmente. La più perfetta, colta e razionale costruzione di un cantante secondo la lezione della storia del canto, quella che Bonynge alla perfezione conosce, finisce catalogata come "Semiramide liberty", lontana dall’essenza del canto rossiniano originario. Dimentica il nostro che la Colbran cantò ancora dieci sere dopo le tumultuose recite del debutto ove si esibì a pezzi e con un marito che ben sapeva che quella linea di canto, diversa da tutte le precedenti scritte per la moglie, era destinata ad altri e diversi soprani. Dimentica il nostro che al Des Italiens a Parigi, proprio Rossini sostituì per Semiramide un soprano assoluto come la Sontag con un altro soprano assoluto, la Grisi (!) destinata ed essere l’interprete paradigmatica del secolo sino all’arrivo della Patti, altro soprano assoluto, per la quale Rossini stesso scrisse pure delle varianti, a riprova di quanto poco adatto fosse per Rossini in persona un soprano assoluto come la Sutherland in Semiramide! E ci dimentichiamo di Carlotta Marchisio, autrice di fantasmagoriche cadenze che vennero elogiate da Rossini con il famoso “avete resuscitato un morto!”.
Ed a questo punto sono anche stanca di enumerare le scivolate, che continuano ancora, per mettere l’accento sull’affermazione, questa si fedifraga, circa la Norma della signora Cedolins. Cito il pezzo, perché merita:”…Fiorenza Cedolins sarebbe fuori stile per Norma. Eppure chiedo di spiegarmi perché la Cedolins sarebbe fuori stile: omette qualche nota? Non esegue le agilità? Non si comporta come la Sutherland? Ma la Sutherland canta Norma come la Pasta o come la Patti o come la Melba, cioè con uno stile floreale che dal romanticismo si sposta al fin de siécle; la Norma della Sutherland è più distante da Bellini di quella della Cedolins? La Cedolins non è più aderente allo stile di Norma di quanto non fosse la Sutherland? Non è più rispettosa della partitura di quanto lo fosse la Sutherland che faceva violenza con il fasto liberty della coloratura aggiunta? ”
Caro Landini, ma la Sutherland non avrebbe mai cantato o pensato di cantare la Norma ispirandosi alla Patti o alla Melba perché queste non cantarono mai la Norma ( la Patti ha solo inciso il Casta Diva ), semmai avrebbe pensato a Giulia Grisi ( che destino il mio, vero??). Dopo di me l’opera divenne appannaggio di soprani spinti, quali la Titiens, la De Giuli Borsi, la Barbieri Nini, la Lehmann, la Russ, la Raisa etcc.. e non di lirici di coloratura, se mi permette la dicitura sintetica. Credo che Bonynge lo abbia detto più volte nelle sue interviste, e non c’è proprio nulla di liberty nell’interpretazione di Norma della Sutherland. Solo il tentativo di ripristinare un gusto che toglieva alla Callas quel filo di veridicità realista, che ancora conteneva ( penso a “ I Romani a cento a cento” ) per avvicinarsi ad un modello meramente belcantistico, direi puramente “mimetico” dell’opera. Quanto poi al fasto liberty della coloratura aggiunta di cui lei parla, e che apertamente ha censurato nella recensione all’edizione londinese dal vivo a Londra, con Marilyn. Horne del 1967, vorrei puntualizzare che di diverso dalle sue tradizionali variazioni compare solo al secondo duetto l’esecuzione di una corposa cadenza, che immagino essere stata la causa della sua stroncatura ( L’Opera, n° 199, 2005 ). La performance è perfettamente in linea con lo standard, immutabile, della Sutherland in teatro, a meno dell’esecuzione di un fantastico mi bem in chiusa al duetto con Pollione. La stroncatura dell’esecuzione, tacciata di eccessi liberty, non ha alcun fondamento né motivo di essere condivisa. Piuttosto, era dovere del recensore ricordare il valore documentario della cadenza stessa, proposta dalle due primedonne in omaggio alle sorelle Marchisio, che ne furono autrici, che però precedettero il Liberty di almeno 30 anni!
Insomma, quasi in fin d’articolo ci accorgiamo di essere in braghe di tela, grazie al dott. Landini, perchè il nostro presente risulta incapace di conoscere come si canti Norma, quali siano i requisiti vocali, stilistici e tecnici; non siamo più nemmeno in grado di leggere le note sullo spartito, dato che il rispetto della partitura nel solfeggio, come vedremo in seguito, non è più dato oggettivo e sensibile!!! Si domanda retoricamente se la Cedolins, quale cantante, sia fuori stile nella Norma e se sia più o meno aderente ad esso della Sutherland in una confusione di “stili”, quello della cantante e quello dell’opera,in cui finisce per perdersi. Se basta lo stile del cantante a risolvere, che importa appurare quale sia lo stile di Norma o istituire confronti con l'inarrivabile Dame? Se invece esiste ( come di fatto esiste ) un parametro stilistico per Norma, perché non lo definisce e non analizza il canto della Cedolins rispetto a questo? Il fatto che la Cedolins non ometta note nel canto ( fatto tutto da verificare e comunque le eseguiva tutte anche Zinka Milanov...a suo modo ) non significa che la signora canti con attentibilità stilistica, perfezione vocale ed adeguatezza di accento. Conta si eseguire tutte le note, ma conta anche COME le si eseguono, e quale significato e pregnanza drammaturgica si riesca a conferire ad esse con la voce. Dunque il dato tecnico, scomparso opportunamente dall’analisi landiniana del canto della Cedolins, avrebbe un peso assai notevole, e dovrebbe essere aspetto degno dell’interesse del critico, nel belcanto soprattutto, al pari di quello stilistico, nelle varie accezioni che ho indicato prima. Avrebbe ma non ha, dato che al giorno d’oggi da un lato fa comodo non procedere su questo terreno a causa del livello tecnico medio di chi canta; dall’altro il farlo richiede anche la capacità del critico di sentire, capendo, come un cantante usi il suo strumento. E le critiche alle Norme della signora Cedolins ci danno prova di questo stato delle cose.
LA NORMA DI FIORENZA CEDOLINS SECONDO G. LANDINI VS G. GRISI
Partiamo dalla recensione al dvd di Tokyo del 2003, su L’opera, n°184, 2004. Preoccupazione primaria del critico è da subito quella di collocare la Norma della Cedolins nell’alveo di una qualche tradizione consolidata, al fine di storicizzarla, ancor prima di averne dimostrato la validità. Non potendo sistemarla né tra i soprani spinti né tra le belcantiste pure, non avendo la Cedolins né un mezzo poderoso né un virtuosismo travolgente, la pone all’interno di una fantomatica e confliggente linea Cerquetti - Scotto. Linea di continuità inesistente, dato che si tratta di due cantanti del tutto opposte e differenti nella concezione di Norma, la prima fondata sulla sontuosità del timbro, l’ampiezza del mezzo e l’aulicità dell’accento, la seconda tutta costruita e pensata artificialmente sino all’impossibile, in perenne carenza di peso e di pienezza timbrica, tanto da risultare stucchevole e deviata sul piano stilistico oltre che vocale. Poco importerebbe l’esistenza di un’ascendenza se la cantante fosse efficace sul piano tecnico stilistico e del personaggio, in omaggio al decantato ruolo che Landini stesso attribuisce alla personalità ri-creatrice dell’artista e di cui abbiamo parlato in precedenza.
Il punto, però, è che la cantante, certo in quell’occasione nella sua migliore prova in Norma, era già allora deficitaria in primo luogo sul piano tecnico ed anche su quello del mezzo, non abbastanza importante per supplire, con virtù di accento, alla carenza tecnica.
Quest’ultimo problema non verte tanto sulla capacità di eseguire in modo assolutamente fluido la coloratura, fatto che lo stesso Landini riconosce nella poco sciolta e brillante, quanto nella capacità di cantare correttamente sul fiato con il vero appoggio, in modo tale da conferire alle grandi frasi del personaggio, a cominciare da “Casta diva”, legato e penetrazione del suono. Con una voce dolce e lirica, naturalmente di bel timbro, ma idonea a personaggi meramente lirici appunto, il soprano non può mai esprimere in modo convincente il lato aggressivo come quello astratto del personaggio, se non sforzando il mezzo o perdendo in nobiltà e compostezza di accento.
I la nat ribattuti che Landini tanto decanta nella cavatina sono suoni poco pieni, scarsamente penetranti, talora malfermi nella tenuta e spuri ( si faccia il confronto con la Callas, la Sutherland o anche l’inadatta Gruberova ), idem dicasi per i fa puntati tenuti che precedono la cadenza in chiusa. In mancanza di penetrazione la cantante, all’occorrenza, spinge, violando un altro luogo sacro del belcanto. Alla scarsa penetrazione in alto, poi, si unisce un altro problema chiave della vocalità della signora Cedolins, quello dei suoni aperti al centro e sul passaggio superiore, in particolare la zona mi-sol. Si comincia con i sol –fa di “Casta diva, casta diva…” ad inizio aria, e si va via così sino alla fine. La perfezione dell’emissione, l’omogeneità di tutti i suoni della gamma, che devono essere sempre perfettamente tondi, avanti e immascherati, viene meno continuamente, tradendo un altro presupposto basilare del belcanto. Non è dunque nemmeno questione di eseguire tutte le note, come afferma Landini, se nemmeno là dove questo tipo di soprano dovrebbe avere il suo punto di forza della serata, l’esito è di grande qualità. O per lo meno, di una qualità tale da giustificare gli sfottò del critico verso quelle “interpreti celebrate” che eseguono “ lussureggianti verzure tardo barocche o pre-liberty “, e rispetto alle quali la Cedolins avrebbe ridato “un’austera bellezza che le virtuose in vena di pavoneggiarsi spesso sacrificano”, laddove è sua intenzione giustificare le mende evidenti sul piano dell’esecuzione della coloratura o di passi nelle quali proprio le stesse cui allude per il “Mira, o Norma” hanno fatto la storia del canto. La partitura di Bellini riprenderebbe, dunque, in virtù della signora Cedolins la sua “austera bellezza”, che non saprei proprio dire quali delle grandi Norme di riferimento della storia abbia violato o mancato di renderci.
Il suono scoperto e sbiancato del soprano, evidente anche nei duetti a fianco della piccola voce della signora Palacios, cui finisce per essere pressoché equivalente per peso vocale e drammatico a furia di alleggerire il suono, si trasforma in una voce acida e stimbrata quando compare il lato aggressivo del personaggio. La naturale bellezza timbrica svanisce nello sforzo di dare accento all’ “Oh di qual sei tu vittima..”, eseguito con centro scoperto e querulo, inadatto alla spinta drammatica del momento. Landini lo definisce “fraseggiato con uno strazio segreto e profondo”, mentre io lo definirei stentatamente cantato, oltre che insufficiente sul piano drammaturgico. Per non parlare del precedente “No, non tremare o perfido…”, dove il soprano aveva già ben aspirato e/o cempennato le agilità, come quelle discendenti, che precedono l’esecuzione dei do scoperti a piena voce, in un mix dal sapore anni ’40, se non fosse che quei vituperati soprani di marca verista possedevano una ampiezza vocale ed una genuina forza tragica, sopra le righe e poco stilizzata, comunque efficace, mentre qui mancano sia una grande tecnica di canto, lo stile ed un’effettiva adeguatezza al testo, che il vigore, ossia tutti i parametri della succitata triade proposta da Landini. E potrei proseguire ancora per l’intera opera, se non fosse che il caso della Norma della signora Cedolins non è il centro dei miei fervidi pensieri di oggi, bensì il modo di pensare e di fare di certa critica militante. Quello che conta, in questo caso, è considerare come una prova, a mio modo di vedere, in bianco e nero, potesse essere presentata in modo più credibile ed accettabile per il pubblico se la recensione si fosse incentrata, anziché su affermazioni indimostrabili e mirabolanti, presentando la prova come quella assolutamente onesta e volenterosa di un soprano che, in un orizzonte deserto o fatto al più di soprani leggeri inadatti al ruolo, aveva avuto il coraggio di cimentarsi con una delle parti tecnicamente e drammaturgicamente più difficili della storia dell’opera. Perché pur con parecchi limiti, la signora Cedolins non era stata sopraffatta da un ruolo cui è manifestamente inferiore per capacità tecniche, mezzo naturale e stile. E senza l’ambizione di volercela passare per una esecuzione storica o eccellente, addirittura competitiva con le prove di colossali figure quali la Sutherland, regolarmente chiamata in causa a vanvera ( e dopo di allora ancora varie altre volte ed intermini espliciti, in saggi e recensioni successive ), a suon di distorsioni. Quasi che la via percorsa della Cedolins avesse mai alcunchè a che fare con quella inimitabile della grande australiana, tutta basata sulla perfezione tecnica, lo slancio in acuto, etc... Perché andare a cercare confronti tremendi quanto impossibili?
Altra sfortuna del signor Landini è stato il fatto che la signora Cedolins, a differenza di Blake con il Raoul degli Ugonotti, non abbia inteso la sua performance giapponese come prova d’appello per un esperimento, uno sfizio di quelli che gli artisti intendono cavarsi nella carriera, ma abbia, al contrario, perseverato e messo il ruolo in repertorio. A Tokyo seguirono Ancona, Genova, Barcellona e Bilbao, con esiti variegati, e son note le vicende tumultuose della carriera della signora, che di fatto “svoltò” proprio al Liceu, nel 2007, in occasione di una ripresa disastrosa, anche per l’amplificazione portata dalla presa tv, proiezione in maxischermo e diretta radio, che anche noi seguimmo. Basiti.
La catastrofe spagnola era prossima ad avverarsi quando Landini, nel marzo del 2007, sempre sulla medesima rivista, uscì con la recensione al cd realizzato durante le recite di Ancora del 2004, nella quale precisava, sola vera differenza con quanto scritto in precedenza, che la Norma della Cedolins “ sembra ricollegarsi alla tradizione italiana di Anita Cerquetti, Maria Caniglia e Gina Cigna. In realtà, si tratta di suggestioni, dal momento che siamo in presenza di voci diverse e che la Cedolins le supera tutte per le competenze con cui onora la coloratura. Non si può dire che la Cedolins sia una vocalista in senso stretto. Risolve i passi fioriti però con invidiabile sicurezza…..trae maggior profitto dai passi in stile grande agitato che da quelli estatici….” ( L’opera, n° 214, 2007 ) Asserzioni, queste, non così facilmente dimostrabili, in particolare nel caso del confronto con la Cerquetti ( criticabile sempre per gli acuti, invece ), soprattutto in fatto di qualità di canto legato ed estatico. Nemmeno con signore che si tolsero lo sfizio di eseguire Norma una volta in carriera, come l’omessa Stella, il confronto sarebbe favorevole per la signora Cedolins, perché si tratta di cantante dai mezzo vocale ben più sontuoso, seducente e pieno.
Le recite barcellonesi sono note a tutti, e ve n’è ampia documentazione su You Tube. Della bella voce della signora Cedolins non vi era più che rara traccia. I falsetti ed i pianini arrabattati della cavatina non si contano nell’audio. La voce è una vocina acida, l’”Ah bello a me ritorna” difficilissimo, ed un personaggio restituito in chiave talora isterica e fuor delle righe, oltre che dello stile. Con buona pace di Landini, quando si canta e si recita un “Già mi pasco dei tuoi sguardi..” come questo si è fuori non solo da Norma e dalla poetica di Bellini, ma anche dal belcanto, e non c’è nemmeno lo stile dell’artista, quella di Tokyo 2003, che renda compatibile musica, parole del testo, situazione drammaturgica con siffatta resa vocale, inadatta persino alla parodia di Francesca Bertini. Non mi addentro nei dettagli del canto gridato, con voce al lumicino e talora afonoide di tutto il finale dell’opera, o la cattiva esecuzione delle quartine del “No, non tremare o perfido “ come della fiorettatura del “Vanne deh mi lascia indegno”del I atto, la miriade di suoni bianchi ed esangui del” Mira, o Norma”, il confronto con un mezzosoprano che la sopravanza per accento e spessore in ogni momento in cui cantano assieme.
” Nelle differenze di accento, fraseggio, colore, timbro passa l’originalità di una lettura e qualche violenza stilistica, per paradosso, può mostrarci qualche lato inedito della pagina che stiamo ascoltando” aveva affermato Landini in testa all’articolo del 2005.
E questo si è forse realizzato a parer suo in occasione della Norma di Barcellona, per la quale ha avuto modo di affermare ancora nella positiva recensione al dvd sul n° 240 del 2009: “ So solo che la resa del personaggio e della vocalità è completa, soprattutto se si pensa che la Cedolins riporta Norma, deragliata sui binari di un fronzuto vocalismo, all’interno del suo alveo che è quello di una forte drammaticità, cioè di una tragedie-lirique all’italiana…….una dalle caratteristiche della vocalità di Norma consiste nel rapporto totale con la parola da cui la melodia nasce…” ?
A volte non è meglio ammettere una prova negativa, ricordare lo stato vocale ed, immagino, anche fisico della cantante, che procede con la forza ammirevole dei nervi ( se proprio era il caso di esibirsi così ) e non perseverare follemente a sostenere l’insostenibile?
“Ora se prendo la partitura di Norma e mi accingo ad usarla per cercare capi di accusa, occasioni per incriminare la Cedolins e in qualche modo poterla trascinare sul banco degli imputati di un Bellini leso o peggio ancora tradito, devo proprio dirlo che non riesco affatto a reperirle, con buona pace di Giulia Grisi e di chi è in rapporto medianico con la tecnica del primo Ottocento ”.
Caro signor Landini, io non ho rapporti medianici con la tecnica del primo Ottocento, come lei asserisce. Ho solo una maggiore libertà di fronte al presente ed ai suoi protagonisti. E ritengo che si debba avere un atteggiamento profondamente diverso di fronte alla storia del canto, ai suoi documenti scritti e sonori ed alla sua lezione.
Gli ascolti
Rossini - Il barbiere di Siviglia
Atto I
Ecco ridente in cielo - Hermann Jadlowker
Meyerbeer - Les Huguenots
Acte I
Plus blanche que la blanche hermine - Jacques Urlus
Bellini - Norma
Atto I
Casta Diva - Antonietta Stella (1956)
Fine al rito...Ah! Bello a me ritorna - Anita Cerquetti (1957), Fiorenza Cedolins (2004)
Atto II
Dormono entrambi - Anita Cerquetti (1958)
Deh! Con te, con te li prendi...Mira, o Norma...Sì, fino all'ore estreme - Joan Sutherland & Marilyn Horne (1967)
In mia man alfin tu sei - Antonietta Stella & Mario Del Monaco (1956), Anita Cerquetti & Franco Corelli (1958)
Finale - Joan Sutherland, Franco Tagliavini, Joseph Rouleau (1967)
20 commenti:
Splendida trattazione. Ma come si fa a paragonare la Sutherland e la Cedolins? Si difende l'indifendibile... Landini, mi duole dirlo, è in malafede perchè REALMENTE ignorante...
Ho amici di rara cultura musicale che da anni hanno smesso di acquistare riviste musicali come "L'opera", oramai autentici bollettini di agenzia sotto mentite spoglie.
Vorrei aggiungere altri due esempi a firma Landini alla meravigliosa trattazione della signora Grisi. Due casi che testimoniano la malafede e il conseguente opportunismo, quando non la sordità, di certi pezzi, ridotti a ingranaggi della SOLITA macchina del consenso a firma dei sempre SOLITI guardiani del di loro interesse.
Lucia di Lammermoor a Parma 2009
"Nella cabaletta Quando rapita in estasi la virtuosa si va valere, danza sulle roulades, trilla con proprietà, piega i passi fioriti con esiti drammatici" (nel senso che fan piangere?). E poi, ancora, se la prende coi contestatori poiché, d'altra parte, non si è perfetti regolatori del plauso se non si lanciano strali alle esigui teste dotate d'udito: "Ha bene eseguito la cadenza di Ardon gli incensi e il risultato sarebbe stato migliore, se il clima fosse stato più disteso". E, per chiudere: "la Rancatore si configura come Lucia credibilissima, cresciuta nell'interpretazione scenico vocale, al punto da essere oggi l'unico soprano italiano capace di inserirsi a pieno titolo in una lunga tradizione" (n° 235, marzo 2009). Tace Landini dei suoni fissi, senza appoggio, spesso calanti che tale "virtuosa" produce. Una voce ridotta al lumicino, troppo leggera per la parte, vuota al centro e sotto, degna giusto a una Sophie di periferia.
Per chi non crede alle favole http://www.youtube.com/watch?v=9jufNcFNe_M
In un'altro pezzo, Landini, su Micaela Carosi a Parma (2009) dice che "sono proprio i passi sfogati, il finale del I atto, [...] la convulsa disperazione del II atto [...] a colpirci con una forza che oggi è raro ascoltare e che ti fa pensare a talune grandi interpreti italiane d'antan". Tebaldi e Olivero in primis, vero dott. Landini?
E poi, ancora: "il canto è sorretto da una bella tecnica che le permette di giocare sui colori e di illuminare la melodia di pregevoli chiaroscuri che catturano il pubblico e, complice l'irresistibile appeal del pezzo, lo spingono a chiedere il bis, subito concesso, del Vissi d'arte". Parlare di chiaroscuri e sicurezza in acuto per un soprano dal vibrato spappolato che sbraita in alto e cala interi versi mi sembra un po' ridicolo. Come ridicole sono certe prese di distanza da parte della signora Carosi nei confronti del Corriere perché, la facebookomane reclutatrice di battimani afferma, "non è una rivista musicale, quindi peso nullo".
Sempre per chi non crede alle favole http://www.youtube.com/watch?v=W1F_SI_MThM
Bellissimo articolo.Complimenti.
E' risaputo, comunque, che il giornale citato non è attendibile proprio perchè vive praticamente di pubblicità, visto l'effettiva scarsa tiratura. Il picco nelle vendite credo sia quando pubblica i calendari delle stagioni teatrali.
Sottoscrivo tutto quanto così ben enunciato da Giulia Grisi.
Però se il nostro peso è nullo, come mai Landini si è preso il disturbo di citarci?
Se il peso è nullo, perchè aprire un thread su di noi su Facebook?
Se il peso è nullo, come mai la Carosi ed i suoi adep... ehm fans ci leggono avidamente?
Se il peso è nullo, come mai, molto signorilmente e con grande gentilezza, Fabio Armiliato è intervenuto addirittura sulla chat assieme ad altri "insospettabili" critici e conduttori radiofonici, o Gazale ci ha addirittura pubblicati sulla sua pagina di Facebook?
Se parliamo male il peso è nullo, se parliamo bene abbiamo peso evidentemente!
Il problema secondo me è che il Landini dimentica che oggi grazie ad internet, radio, tv e quant'altro tutto ciò che viene recensito passa prima dalle ochecchie del pubblico che va a teatro o che "scarica" o che assiste agli eventi con le cuffie o comodamente seduto sul divano di casa sua davanti allo schermo (del pc o del televisore!).
Ovvio che davanti a certe letture la gente, anche quella di bocca buona, sobbalzi sulla sedia pensando "Ma abbiamo visto e sentito la stessa cosa? Mi prende in giro?" da qui i "cattivi pensieri"...
Ed è altrettanto facile procurarsi uno o più spartiti per controllare note e contronote... sempre perchè il pubblico è smaliziato e tecnologico e magari vuole anche fare una verifica sul pentagramma...
Marianne Brandt
PS. se poi per "stile" basta avere le note e personalità (e oggi anche un buon microfono), allora meritiamo veramente il basso livello odierno che ci vogliono far passare per "Tutto bello, tutto è rosa, tutto è amor!", perchè allora chiunque può interpretare/cantare qualunque cosa fregandosene bellamente di "Stile", "Tecnica" e "Fraseggio", tanto basta "Emozionarsi"... questa è l'Opera?
Marianne Brandt
Concordo su tutto!
Si sapeva da tanto tempo l'andazzo di certe persone e certe riviste.
Forse pecco di presunzione, ma io mi fido ancora delle mie orecchie, di quello che ho sentito e di quello che ascolto oggi.
Continuo a credere nel passato come grande insegnamento da capire e seguire e non come storia cattiva da eliminare.
Scusate se lo dico, ma il confronto della grande Dame Joan Sutherland con l'insignificante Cedolins mi ha fatto fare una grande e grossa bellissima risata. Questo esempio da solo fa capire che tipo di persone sono e che tipo di persone sostengono!
Je viens de rentrer d'un Parsifal absolument mediocre et même mauvais à la Deutsche Oper am Rhein, un spectacle pourtant, où on a applaudi follement une Kundry qu'on n'entendait pas, un Gurnemanz complètement inexpressif et un orchestre aggressif ainsi que tous les autres artistes tout au moins aussi mediocres. C'était un "triomphe". Tous était très "ému".
Pour cela, la lecture de votre article après mon retour de ce cirque m'a d'autant plus soulagé.
Mais ça reste quand même un secret pour moi, comment il est possible qu'une exécution aussi mediocre comme celle à laquelle je viens d'assister, peut avoir un tel succès? Tous ces gens qui viennent à l'opéra ont lus des articles des critiques comme Landini? La salle est pleine des opportunistes comme Landini? Qu'est-ce qui est la cause et qu'est-ce qui est la conséquence dans ce "cercle vicieux"?
Ha ragione Landini quando afferma che con il tempo cambiano i gusti e gli stili. Infatti i soprani della prima metà del 900, con il verismo, usavano quello stile per tutto. Fortuna ha voluto che giungesse sulla scena Maria Callas e po ancor piu' Joan Sutherland e suo marito Richard Bonynge, per riportare il BELCANTO sulla retta via di stile e gusto secondo l'autore e la sua scrittura. E' anche vero che un do è comunque un do sempre uguale sullo spartito. Anche una scarpa è sempre una scarpa, ma indossarla dipende dalla misura del piede. Per capire Norma è semplice. Basta ascoltare due esecuzioni: Maria Callas a Londra diretta da GUY 1952 e Joan Sutherland sempre a Londra 1967. Due Norme diverse, è vero,per la personalità delle due signore. Ma egualmente due Norme dea Manuale. Io posso definirmi testimonial per ragioni di età, anche se la Callas in Norma l'ho vista solo nel 65 a Parigi, quando ormai la carriera era alla fine.
Al termine dell'opera il pubblico non usciva da teatro ed in piedi in platea gridava Callàs Callàs- Fu necessario abbassare il sipario antincendio per liberare la sala dal pubblico comunque entusiasta.
Con la Sutherland è stato fatto un passo avanti. Bonynge studioso ed appassionato di belcanto ha realizzato nel 1967 un capolavoro indimenticabile.
La voce di Joan, stupenda, potente, incisiva, ha creato in Norma la donna, la madre l'amante, senza usare modi veristi che con Bellini hanno poco a che fare. Poi quel belcanto superbo, ineguagliabile e ineguagliato. Con lei una Horne fantastica. Andate ad ascoltare il MIRA o NORMA. Prima di SI,fino all'ore, Bonynge ha inserito variazioni delle sorelle Marchisio di tale suprema difficolta che solo due fenomeni così, potevano eseguire in modo sbalorditivo.
E tutta la Norma è a quel livello.
Quante altre Norme ho sentito. Mi sono entusiasmato per la Caballè Scala prova generale e prima ed Orange, ho ammirato la grande Leyla Gencer, brava Norma ma entrambe non al livello di Callas-Sutherland. Sia ben chiaro: Callas 1952 e Sutherland 1967.
Il tempo logora anche le voci e Joan anni 80 non era quella degli anni 60-70. Ho avuto modo anche di sentire Renata Scotto a Torino direttamente e per radio a Firenze. Voleva cantare Norma. Come per le scarpe, il suo piede non si adattava allo spartito sia per la
quantità della voce che per le esecuzioni belcantistiche spesso approssimate. E la Scotto è e resta una grande cantante. Le altre Norme sono passate senza lasciare tracciano quasi.
Oggi non si puo' piu' ritornare all Cigna, ma nemmeno alla Milanov. Anch'esse grandi cantanti ma......per quanto riguarda il belcanto il loro stile puo' essere paragonato alla lettera 22 della Olivetti, gloriosa è vero, ma nulla oggi di fronte al computer.
Forse Landini non ha mai sentito Maria 1952 Londra e Joan 1967 Londra.
Ascolti pure la Cedolins. E' un suo diritto. In fondo nCHI SI ACCONTENTA GODE.
Grazie a domenico per la bella testimonianza.
Solo un appunto: nelle Norme del pre-Callas non ci sono solo "le veriste" (comunque tutt'altro che disprezzabili, come del resto riconosce domenico). C'è anche, e scusate se è poco, una Norma come Lilli Lehmann, di cui resta un'ampia selezione (Casta Diva, duetti con Adalgisa, finale) e che fece scrivere al critico Eduard Hanslick: "La divisione ora convenzionale dei ruoli femminili in soprani di coloratura e drammatici è di origine relativamente recente... una Norma eccellente è rarissima... i soprani di coloratura non hanno la voce e non sanno recitare; i drammatici non hanno tecnica. Lilli Lehmann ci ha riavvicinato agli effetti che può ottenere una voce educata al virtuosismo quando si combina con l'espressione drammatica ed appassionata". Quindi la Callas ha ella stessa restaurato, sull'esempio di grandissimi modelli documentati anche dal disco. Alla faccia di Landini.
Tommaso Moro così rispose all'inviato del re che lo pregava di non parlare a lungo sul patibolo: "Solo le menti grossolane possono pensare di essere ascoltate nella misura della lunghezza dei loro discorsi".
Marco Ninci
E, scusate se è poco, le parole della Lilli Lehmann, "Meglio [Piu facile...] cantare le tre Brunhilde in una serata che una Norma."!
Marco: si può dimostrare mente grossolana anche in poche parole. Grazie per avercelo ricordato con l'esempio.
Ringrazio anche io Domenico per il suo bellissimo ricordo, anche in merito a quella Norma che Landini stronca in virtù dell'orrore provocato dall'aver udito la cadenza delle sorelle Marchisio che evidentemente lui ignora.
Inviterei Marco ad approfondire il suo punto di vista.
La citazione, senza un dovuto approfondimento dice poco ed ha il sapore di un insulto capzioso, grossolano e poco argomentato.
Se invece Marco esternasse ciò che c'è dietro a "menti grossolane" o a tutta la citazione potremmo ampliare il dibattito e conoscere il suo pensiero.
Marianne Brandt
CAro Marco,
grazie della tua tradizionale reprimenda.
Quello che non si capisce è cosa tu pensiin merito ai contenuti, al di là della lunghezza.....
Talvolta le osservazioni sulla forma celano il vuoto della sostanza e la gratuità dell'insulto.
Data la tua preparazione, credo che in fatto di metodo storico qualcosa da eccepire al buon Landini tu dovresti averlo...o almeno spero, data la tua professione
saluti
marco io penso che se Tommaso Moro avesse letto quello che ha scritto Landini avrebbe risposto "l'unica risposta degna di questa mente,è il silenzio"
P.S.
Silenzio inteso come non stare dietro a quello che scrive,non vale la pena.
Articolo molto interessante e molto condivisibile.
Landini mi è sempre parso un gran pasticcione e un fiero ignorantone. Come quei cuochi che non conoscendo la giusta ricetta improvvisano e inventano sul momento.
Per quanto riguarda Landini posso essere anche d'accordo, anche se negli anni passati a volte l'ho letto con piacere e mi era parso con profitto. Certo adesso la lunga trattazione della signora Grisi mi mette un pò in crisi:forse, da quell'ignorante che sono ho creduto di apprendere qualcosa che invece non era esattamente corretto. Comunque da alcuni anni ho smesso di comprare le così dette riviste specializzate, proprio perchè non mi fidavo più. Io penso, alla fine che questi critici siano un pò dei disperati: sono costretti a volte a difendere l'indifendibile perchè, rendendosi conto del vuoto in cui si trovano a dovere agire, che fanno? chiudono bottega? "Tutti tengono famiglia". E' la globalizzazzione bellezza, il denaro, la decadenza di tutto, di tutti i valori (e noi in Italia ne abbiamo dei begli esempi). Si è cominciato più di 20 anni fa, a Milano ad esempio, la Milano da bere, dove tutto era un evento, tutto era meraviglioso...Vi ricordate? Mi ricordo, mi pare dopo i Vespri di Muti alla Scala , una giornalista di una TV privata, che faceva il servizio in diretta dall'interno del palcoscenico. C'era il sipario semi-chiuso perchè i cantanti entravano e uscivano per i ringaziamenti, dall'esterno si udivano selve di fischi e di boati, Muti usciva scuro in volto, e la presentatrice (fra l'altro truccata come una baldraccona-ma secondo lei probabilmente in modo elegante data la serata mondana) la presentatrice che continuava, ignara, giuliva, completamente ebete " Ecco siamo qui, dietro il sipario alla fine di questa memorabile serata...sentite il pubblico in delirio (e intanto dall'esterno arrivavano i fischi e i Buuu)- ma lei continuava imperterrita-trinfo per tutti gli artisti in questa grande serata...ecc" Io ero sbalordito, non potevo crederci...E' da lì che sono cominciati i guai e col tempo tutti (pubblico compreso) si sono abituati
Vorrei rispondere alla gentile Pasta a proposito dell'orribile Parsifal a cui ha assistito. Anni fa a Parigi, all'Operà mi accadde qualcosa di analogo ad una recita di "Le nozze di Figaro". Spettacolo assolutamente anonimo (nonostante l'allestimento di Strehler..), cantato mediocremente da tutti...insomma era come vedere il nulla. Durante l'esecuzione non un applauso, la noia o l'indifferenza si tagliava col coltello. Dopo il primo atto un beve applauso di cortesia poi tutti al bar. Alla fine dell'opera...l'apoteosi!!! Tutto il pubblico come un sol uomo ad applaudire come matti, come se avessero assistito a qualcosa di assolutamente unico...Un applauso di compattezza e intensità tale che ai miei tempi (ai nostri?) avrebbe significato almeno mezzora di altri applausi...Ebbene, trà il mio sbalordimento, il tutto è durato il tempo di 2 chiamate (giuro 2), poi ancora una volta, tutti, come obbedendo ad un comando interno, hanno cessato di applaudire e...via al ristorante. Io rimasi basito da un simile comportamento. Secondo voi cosa significa tutto ciò? Secondo me, come minimo, che non c'era assolutamente un pensiero, c'era stato un "rito" alla quale tutti avevano aderito, tutti avevano applaudito col massimo entusiasmo (erano all'OPERA' perbacco!!! e quindi tutto non poteva che essere meraviglioso) ma ben pochi erano stati veramente interessati a ciò che avevano visto, ne tanto mano avevano capito qualcosa, l'importante era esserci, presenziare...e poi via...al ristorante dove finalmente ci si diverte...Io ho interpretato così questo episodio. E ciò avviene ormai anche alla Scala...Ecco perchè non ci voglio più andare,
Saluti a tutti, Antonio
Antonio, siamo in disaccordo sull'Olivero ma... dopo il tuo commento farei a te una mezz'ora di applausi "vecchio stile"! Purtroppo chi applaude senza ascoltare, o senza avere idea di quello che ascolta... applaude troppo, ma applaude poco. Triste ma vero.
Grazie Tamburini per le belle parole. Vedo che mi hai capito. Circa la Olivero, non ci crederai forse, ma mi è sempre dispiaciuto di non riuscire ad aprrezzarla come forse si sarebbe meritata. Certo quando mi è capitato di sentire il suo finale del 1° atto della Traviata non ho potute che restare a bocca aperta...Certo ne ho sempre ammirato la tecnica, la tenuta dei fiati, la straordinaria longevità della sua voce ma c'era qualcosa che non mi ha mai preso completamente. Negli anni riflettendoci ho poi concluso che era una questione di timbro. Ne ho già accennato su questo blog. Io mi sono andato convincendo che apprezzare o meno un certo cantante sia un fatto di "cognizione uditiva". Mi sono convinto che ognuno di noi ha un modo di udire (udire, non sentire) tutto suo particolare, per cui ognuno è sensibile o meno a certi suoni. Io per esempio non amo i cantanti tedeschi in genere per i suoni fissi (per questo non riesco ad amare compiutamente la Anderson, che pur ritenendo sia una eccellente cantante, abbia in certe zone delle fissità e delle stonature che per me sono antimusicali.) Eppure mi sono reso conto che molti non sentono le stesse cose che sento io, come siuramente io non sento le stesse cose che sentono loro. Insomma io mi sono fatto queste idee, davanti a certi giudizi che a me sembravano del tutto evidenti. Anche per la Callas, io ritengo sia stata la stessa cosa:molti non tolleravano il suo timbro di voce così particolare. E dal loro punto di vista avevano ragione, io credo. Certo, poi bisognerebbe avere l'umiltà di riconoscere i pregi andando oltre le nostre idiosincrasie. Io per esempio non ho mai amato molto il timbro della voce della Sutherland (pensa un pò!), sostenevo (e sostengo) che cantasse tutte le vocali sulla "u", questo non mi ha impedito però di adorarla in qualche modo (devo dire grazie anche a Domenico, un amico che frequenta il vostro blog, e che ha contribuito non poco a farmela conoscere ed apprezzare...grazie Domenico). Però il suo timbro di voce continua a non convincermi nell'opera italiana, mentre la trovo inarrivabile, assoluta nell'opera francese . E' questione, ne sono convinto, del modo in cui uno "sente".
Ciao a tutti, Antonio
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