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sabato 2 ottobre 2010

Verdi Festival 2010: Trovatore.

Di cosa vale la pena parlare, dopo la brutta recita cui ho assistito ieri sera?
Direi solamente della condotta professionale del due Meli – Temirkanov e del soprano Norma Fantini, attesa al rientro in Italia.
I primi per avere propiziato il disastro della serata; la seconda per essere incappata in una prova infelice. Temirkanov e Fantini, le mie sole curiosità ( deluse ) in questa produzione.

“Errare humanum est, perseverare demoniacum” dice l’adagio. Esporre per ben due volte consecutive al pubblico in antigenerale e generale l’indecente signora Tarasova, Azucena priva non solo dei connotati del cantante professionista, ma anche del minimale buon gusto oltre che del curriculum necessario ad essere scritturata in produzione di livello, ed osare pure mandarla in scena alla prima inaugurale ad onta delle aperte riprovazioni del pubblico alle prove, è stata operazione irrispettosa del pubblico come dei colleghi, costretti a lavorare tra ululati, grida, e consimila. Ogni persona accanto a cui passavo nel recarmi al mio posto prima della recita parlava dell’indegna Azucena della Tarasova, ridacchiando ed interrogandosi su quale caina si sarebbe creata in teatro, e se pure i protagonisti ce l’avrebbero fatta, date malattie, defezioni, fumi improvvisi visti alla prove, a cavarsi dai guai.
Tutto quel poco di buono che vi poteva essere nella produzione non è stato nemmeno preso in considerazione da un pubblico, quello del loggione, alterato dal comportamento della direzione artistica come della bacchetta ( continui i borbottii, i commenti e gli sfottò del pubblico del loggione ), incapaci di procedere alla doverosa protesta e persino alla moderazione degli incredibili effettacci dell'Azucena in questione. Direzioni artistiche e bacchette odierne paiono incapaci del minimo suggerimento in questi frangenti, procedendo incauti ed indifferenti verso il disastro, in questo caso anche a detrimento del resto della compagnia: un esempio per tutti, il caso della signora Smirnova nella recente Aida scaligera, fatte le debite proporzioni tra le cantanti.
Il maestro Temirkanov, non contento della propria assenza di rigore, si è pure esibito in una direzione insignificante, non certo all’altezza del nome che porta: direzione accesasi solo a tratti, nei cori o in qualche punto qua e là, ma caratterizzata da accompagnamenti perlopiù fiacchi, senza suggestione, dall’ingresso di Ferrando, al duetto Manrico Azucena, sino a quello finale Leonora Conte, ad onta del bel suono dell’orchestra. Per giunta l’affiatamento tra buca e coro, in particolare, non è parso sempre ineccepibile, come pure certi scollamenti con i solisti.
Il pubblico ha perciò riprovato apertamente, in corso di serata come alla fine, direzione artistica e bacchetta, accolta da un’enorme salve di bu alla singola.Sacrosanti.

La prova deludente di Norma Fantini non giunge inattesa per questo blog ( le mie perplessità ve le esternai in giugno, allorquando commentai il cartellone del Verdi festival ), e non per disistima della cantante, o perchè ormai mi stia trasformando nel polpo Paul, quanto perché …..”il canto non è l’arte della cabala”, ma scienza parecchio esatta.
Due sono le prerogative necessarie che la difficilissima scrittura di donna Leonora richiede al soprano: confidenza assoluta con la parte alta della voce, dal passaggio in sù, dove questa deve aver ampiezza ma anche assoluto galleggiamento sul fiato, e bella affinità con un certo canto di agilità, trilli e staccati in primis ( sui gravi del Miserere si può anche transigere, a patto di barcamenarsi con gusto, perché quelle sono note che quasi nessun soprano ha mai avuto…).
Leonora è personaggio dalla componente belcantistica assai accentuata, psicologicamente astratto nei cantabili delle arie, nella scena del convento sino alle ultime altissime battute del ”Prima che d’altri vivere”, ora acceso dal “sacro fuoco” della primadonna verdiana nelle cabalette, nelle strette di terzetto e duetto come nel Miserere. Le arie, in particolare il terribile “D’amor sull’ali rosee”, non tollerano lo sforzo, la stimbratura, la durezza della voce: se si canta a piena voce, servono o un timbro straordinario alla Arroyo, o la brillantezza di una Sutherland; oppure se si sfuma, come di prammatica, occorrono o i piani, non dico della Caballè ma quelli sicurissimi e fascinosi alla Gencer; al limite i falsettini di chi bara, stile Ricciarelli o ultima Cedolins, perché anche così si può vincere la partita. Di qui non si scappa.
E qui la signora Fantini non poteva prendere partito alcuno: i suoi sono gli acuti di un soprano che spinge oltre il passaggio, vuoi per scuola vuoi perché appensantita da più di un decennio di opere spinte, amministrate bene ma senza avere la vera voce del soprano spinto. Le note possono arrivare da una certa altezza in su solo forte e dure, anche vibrate, completamente fuori luogo nel canto del IV atto. Ha lottato negli atti che precedono, cercando i piani e le nuances, che pure le costano fatica, riuscendovi bene sino ad un certo punto dell’opera. Poi tutto è cessato, il canto si è fatto difficile e macchinoso. Né la Fantini è cantante che sa barare, vuoi per carattere vuoi per modo di cantare.
Quanto al canto di agilità, avrebbe anche potuto mancare di leggerezza e di slancio nelle cabalette, perché sarebbe stato normale data la carriera che si porta sulle spalle, ma non eseguire del tutto i trilli o mancare parte della cadenza in fondo al “Tu vedrai che amore in terra” è stato un po’ eccessivo per il pubblico. Di qui l’esito poco felice di una prova che la Fantini ha preparato avendo cura delle intenzioni e del fraseggio, dalla sortita a tutte le battute rivolte a Conte e Manrico, sino al finale della prigione, ove, stringendo i denti, è riuscita a cantare ancora con gusto e lirismo. Lo sforzo profuso, però, non è bastato per convincere, né per piacere a me come a gran parte del pubblico che, và anche detto, ieri sera è stato in grado di udire i difetti oggettivi di questa cantante pur avendo sorvolato, in passato recente, su prove orribili come quelle della Theodossiou nel Nabucco, o la Dalla Benetta nel Corsaro ed altre. Prove ove erano mancate oltre alle note anche il gusto e le intenzioni musicali. Ecco perchè ieri sera più che mai, di fronte alla completa sordità per il non -canto di Nucci o la faticosissima prova di Alvarez, mi sono convinta che il pubblico di Parma sia difficile non perchè effettivamente selettivo come quello scaligero, ma perché alterno, talora umorale, di fronte ai cantanti. Se ti amano vai sempre e comunque, se non ti amano o non ti conoscono…dipende dalla sera.
Detto questo, però, non comprendo le ragioni per cui una cantante esperta, professionalissima ed oculata come la signora Fantini abbia deciso improvvisamente ( o chi per lei ) di cimentarsi in una parte altissima ed in punta di forchetta, essendo abituata da lungo tempo a tessiture più centrali come Aida, Valois, Chenier e Tosca. Una nota spinta in Aida non è una nota spinta in Trovatore, i vociomani lo sanno bene.
Spiace, perché dopo la vergognosa vicenda scaligera, questa cantante avrebbe meritato una riparazione italiana diversa, un ‘occasione per provare i cambiamenti effettuati sul proprio canto in questi anni trascorsi all’estero, ma il Trovatore non era proprio il titolo giusto.

Quanto al resto, vi ho in parte detto.
Il basso, signor Deyan Vatchkov, è uscito indenne da una serata nata male per tutti, cantando senza gloria o meriti speciali. La voce non è da basso vero, ma da baritono che la pecia e la ingola, more solito.
L’ennesimo Manrico del signor Alvarez ha deluso, come già all’Arena questa estate. Di questo tenore abbiamo parlato già altre volte. Ha cantato con monotonia e piattezza, di fibra ( seppure bella….bellissima fibra!). Ha avuto voce vera solo nei primi due atti, dato che dalla pausa è rientrato con volume ridotto, fiato cortissimo nell’ ”Ah si ben mio” ( con tanto di imbarazzanti tentativi di eseguire i quasi mai cantati trilli scritti ), una Pira faticosissima, ed il quarto atto senza benzina. Ha deluso parecchio i suoi numerosi fans parmigiani.
Nucci si è prodotto in una recita last minute per sostituire l’indisposto Sgura. Ha riscosso il solo vero successo della sera, lui solo, come al solito. Il suo canto ha deluso anche parecchi dei suoi fans, perché la voce non ha più legato, timbro né morbidezza alcuna, recitativi inclusi. Per me, inascoltabile. Ma a Parma per Nucci va così.
Produzione senza infamia e senza lode, gradevole da vedere, ma senza alcunché di nuovo o di particolarmente suggestivo. Regia quasi assente, se non banale, ma niente di grave o di dannoso ad una produzione nata male e ancor peggio gestita.

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mercoledì 22 settembre 2010

Mese verdiano XXII - Son giunta! Undicesima puntata: Deborah Voigt, Daniela Dessì, Norma Fantini

Sono Norma Fantini, Daniela Dessy e Deborah Voigt le ultime gran dame spagnole penitenti, principiate dall’impetuosa Gina Cigna, che arrivano all’immaginario convento della Madonna degli Angeli, che per un anno ha offerto motivo di riflessioni sul canto, sul personaggio e sulla vocalità verdiana del passato remoto, recente e del presente.
Sono i soprani, che, oggi, nei teatri del mondo si esibiscono nel repertorio verdiano.

La disamina delle loro esecuzioni offre l'opportunità di riflettere sui cambiamenti di gusto e di tecnica del canto. Voglio credere possa offrire elementi di riflessioni superiori alla sterile polemica a coloro che ci invitano a rinnegare il passato ed al tempo stessi a quelli che vorrebbero vedere le scene (tavole pittate, naturalmente) calcate da Rosa Ponselle piuttosto che Anita Cerquetti. Ognuno alla fine trarrà le proprie conclusioni.
Quando al convento arriva Deborah Voigt, accompagnata con energia dal maestro Noseda e destinata ad incontrare quel che resta della voce di Samuel Ramey, abbiamo la perfetta radiografia di una voce pronta per lo sfasciacarrozze. Basta sentire i suoni duri, spigolosi e privi di vibrazioni emessi sul fa di “son” o quelli ingolati e vuoti sul successivo sol di “giunta” per sincerarsi che riposo ed affetti familiari sarebbero la corretta attuale occupazione della cantante.
Quando, poi, arrivano le frasi orizzontali di “e mio fratel” insomma le medesime ove si spiegavano turgore ed opulenza vocale delle Cerquetti e Caniglia sentiamo una voce secca ed acida, che sa solo gridare. Stranamente in tutta la performance questa Leonora di Calatrava emette, sempre nel genere suoni stimbrati e di fibra, acuti decenti compreso il si nat, che chiude il recitativo di entrata.
Nell’aria per una voce in queste condizioni il direttore stacca, giustamente un tempo velocissimo, per evitare difficoltà e debiti di fiato; naturalmente cantante e direttore omettono il rispetto dei numerosi segni di espressione previsti da Verdi, segni che imporrebbero altra voce e soprattutto differente controllo del fiato. All’indicazione “con passione” che introduce il “deh non m’abbandonar” sarebbe opportuna la modifica “senza nessuna passione”, per rendere quel che viene eseguito. Quando arriva una frasetta medio alta “che come incenso ascendono a Dio sui firmamenti” ovvero il momento in cui Leonora comincia ad entrare nell’ottica della penitente e dove le solite Cerquetti, Stella e Ligabue profondevano tutta la pietosa retorica del caso sorge il dubbio che Mrs. Voigt non abbia capito il significato della frase o forse si trovi in difficoltà con il fiato e l'esigenza, non rispettata, delle due forcelle indicate dall'autore. Quando alla ripresa orchestrale, che coincide con la chiusa del brano “deh non m’abbandonar” Verdi indica “animando sempre più” la prescrizione è rispettata dalla sola orchestra: la cantante non riesce ad implementare ampiezza e volume e, persino, manca all’appuntamento con il piano e la smorzatura (questa di tradizione) del "pietà Signor”, che normalmente riesce anche a voci che di Leonora non hanno il tonnellaggio. Credo di ravvisare il motivo dell’omissione nel problema di individuare dove prendere fiato, ripresa che lo spartito, in effetti, non prevederebbe.
Le cosa non vanno certo meglio al duetto con il Guardiano che è, appunto, quel che avanza di Ramey, ballante e privo dell’ampiezza che canto e retorica verdiana della situazione scenica imporrebbero. Poi per la cronaca quando arrivano gli acuti possiamo anche verificare che è l’unico basso dopo Pinza, Pasero e Vaghi che sappia come emetterli.
Dirò subito, ripetendomi, che in tanta condizione vocale da ritiro la Voigt azzecca i si nat sparati della parte. Che siano, poi, suoni morbidi e rotondi proprio no, ma rispetto a quelli immediatamente precedenti ed alla ottava centrale vuota e da faringite cronica sembrano una meraviglia. Ovvio che le condizioni vocali della Voigt non consentano di rispettare l’indicazione di dolcissimo del “più tranquilla l’alma sento” o tutte le indicazioni di forcella e crescendo che dovrebbero condurre progressivamente la voce al fortissimo del secondo si nat “sua figlia”. Le difficoltà tecniche si trasformano (more solito) nell’inespressività della frase “ah si del ciel qui udii la voce”, che la cantante non riesce (e si tratta di omofonia) ad eseguire legata. Una voce priva di smalto, rotondità non può certo rendere per sola virtù di timbro e capacità di accento l’indicazione “sottovoce e misteriosamente”.
Quando alla chiusa del brano arriva una minima difficoltà vocale rappresentata dal “mi toglierà” conclusivo che prevede il passaggio della voce dal do 3 al la 4 per poi scendere al fa e l’indicazione “dolce poco rallentando e morendo” abbiamo un’esecuzione disastrosa e dilettantesca, tipica della cantante ormai priva e di dote vocale e di dote tecnica. E’ vero che per la prima volta in tutta la scena la Voigt si riscatta dicendo la frasetta “andiamo” che introduce la stretta. E’ proprio cercare il pelo nell’uovo a favore di una cantante, che trascina fra un urlo ed uno strillo la sezione conclusiva del duetto e che arrivata alla famosa Vergine degli Angeli, applaudita dal devoto pubblico del Met (ben diversa era devozione al rudere vocale di Zinka Milanov) rende felice l’ascoltatore che l’atto sia terminato e la penitente Leonora de Calatrava avviata alla volontaria espiazione.

La seconda penitente, che approda al convento virtuale è Daniela Dessy. I rapporti della signora Dessy con questo titolo verdiano sono stati limitatissimi. Anzi una sola recita nel teatro di limitae dimensioni di Montecarlo. Il soprano italiano ha avuto anche un rapporto occasionale con l’Amelia del Ballo in Maschera e la circostanza è assolutamente ovvia, atteso che la signora Dessy vero soprano da tardo Verdi, quello gagliardo per usare la terminologia di Giacomo Lauri-Volpi proprio non lo è. Il suo repertorio sarebbe stato quello, che in epoca di maggior disponibilità di cantanti e più ponderata scelte fu di Mafalda Favero. Non di più, anzi, qualche titolo pucciniano in meno. Invece oggi la Dessy è sistematicamente Tosca, Adriana, Francesca, occasionalmente Fedora, spesso Aida, sull’errato presupposto che la schiava etiope sia un lirico come Manon. Ha pagato questo repertorio pesante con acuti sempre progressivamente meno sicuri anche se, a differenza di molte colleghe, anche più giovani, conosce bene l’arte di destreggiarsi in ruoli al di sopra delle proprie possibilità tecniche e naturali.
Che si tratti di una Mimì neppure al massimo della freschezza vocale lo si percepisce dall’incipit il “son giunta” dove la cantante spinge per esibire il volume e l’ampiezza da soprano verdiano. Ma se il volume lo si può anche trovare e si riesce a rispettare il ff sul fa diesis di “cielo” è l’ampiezza del recitativo che è estranea alla Dessy, la quale spesso spinge, forza ed emette suoni aperti come accade sempre nel recitativo di ingresso. Che si tratti di una cantante che sappia come gestire l’accento è evidentissimo sul si nat che chiude il recitativo che è qualitativamente discreto e dove la Dessy, pur con una presa di fiato non prevista riesce anche nel tentativo di smorzare la nota. Nell’incipit dell’aria la voce suona un poco indietro ed ingolata e l’interprete, che non rispetta i copiosi segni di espressione, piatta. Credo che, in realtà sia in affanno per una scrittura vocale ed un peso orchestrale maggiori di quelli dei titoli congeniali, tanto è che quando cominciano le serie di “deh non m’abbandonar" la Dessy prende un paio di brutti fiati e se smorza emette suoni falsettanti. All’ultimo “pietà Signor” prima dell’ingresso del coro dei claustrali, però, canta piano e allora è colorita e varia e le riesce, pure, la frasetta “che come incenso ascendono”. Quando, però, alla chiusa dell’aria è irrinuciabile lo slancio si percepiscono su frasi medio alte suoni tesi (vedasi il “non ricuserà”) o addirittura lo sforzo del si bem di “pietà Signor”. Ovvio che il soprano da Manon sia, nonostante gli anni capace di smorzare come di tradizione il conclusivo “pietà Signor”, previa presa di fiato fuori ordinanza, peraltro.
Suonata la campana Daniela Dessy è accolta da uno sgraziatissimo Fra’ Melitone (Roberto de Candia), che imita maldestramente altro maldestro Frate Portinaio, ossia Bruno Praticò, con suoni malmessi, parlati, che fanno assurgere al rango di fini dicitori e stilisti persino Capecchi e Corena. Non è essere nostalgici, è sentirci!
Nel canto di conversazione la Dessy è proprio ispirata e nobile vedi “Mi manda il Padre Cleto”. Saper dire, quando la scrittura non comporta difficoltà, è una delle qualità del soprano bresciano in questa fase di carriera.
La vera ed assoluta disgrazia nella quale inciampa questa Leonora e che le dovrebbe consigliare altro romitaggio è lo sciagurato Padre Guardiano di Paata Burchalazde. Tutti i difetti che può avere l’esausta voce di un basso slavo, che canta nel basso ventre sono puntualmente presenti. E mi fermo, ma mi domando e giro la domanda per quale motivo debba essere concesso a simili can-tanti di calcare i palcoscenici.
Nell’allegro agitato “Infelice, delusa” puntuali compaiono e la difficoltà a cantare con vigore in zona medio grave e ad affrontare gli acuti di slancio (il solito si nat della “figlia a maledir”) nonché suoni non ben controllati e sostenuti nella frase “darmi a Dio”. Al di là delle condizioni sono le dimostrazioni che Daniela Dessy non è un soprano drammatico e neppure un lirico spinto. L’assunto viene ulteriormente confermato all’allegro mosso “se voi scacciate” per la carenza di quell’enfasi che la retorica verdiana esige mentre le cose vanno meglio sulle frasi, che richiedono accento ispirato e castigato come “salvati all’ombra” o alla chiusa della sezione “mi toglierà”. Va anche rilevato che certi attacchi sul do grave o addirittura sul si danno luogo a suoni aperti nelle note immediatamente successive e, perdonate la ripetizione, come la sezione conclusiva del duetto “Tua grazia” attaccato sul mezzo forte per dare senso e significato al successivo “plaudite o cori angelici” manchi di slancio e, pur con questa carenza, gli acuti estremi siano difficoltosi. Una chiosa, poi, che vale anche per la prestazione di Deborah Voigt. Tradizionalmente veniva tagliata la coda in modo da risparmiare alla Leonora di turno un paio di si bem e consentire, poi, di chiudere con volume il duetto. Sarà anche stata una delle tante manifestazioni della deprecata “forbice di Serafin”, ma quando il soprano stenta in alto ed è stanco per la lunghezza della parte non riesco a ravvisare (salvo nel fatto che oggi i direttori non sappiano lavor di forbice) la necessità dell’esecuzione integrale del passo.
Rivestita del saio della penitente Daniela Dessy trova il suo elemento naturale nella preghiera conclusiva, anche se talvolta, proprio per il repertorio pesante e non consono alle proprie doti naturali e capacità tecniche, non risulta spontanea e facile nell’attacco della Vergine degli angeli -un re centrale- e si sente una certa difficoltà a controllare il regolare flusso del fiato nelle frasi successive dove per il salto mi3-mi4 ricorre anche ad un portamento per facilitare l’esecuzione del passo nel corso del quale, però, rispetta i segni di espressione previsti.

Terza ed ultima penitente della rassegna Norma Fantini, che pur in carriera da vent’anni è una outsider dei teatri italiani o quasi e cantante dal repertorio tutt’altro che esteso.
Qui anticipo le conclusioni sulla voce e sull’interprete, poi, proverò ad esemplificare con questa Forza del destino. Doverosa premessa: ho sentito in teatro una sola volta Norma Fantini, per giunta annunciata malata, ma dotata di voce ampia e sonora. Quanto basta per Manon di Puccini.
Ho riascoltato, però, curioso più volte questa ed altre performance. Io credo che Norma Fantini sia un soprano lirico di quelli, per esemplificare stile Rosetta Pampanini ovvero con una voce di buon volume in natura. Questo oggi è sufficiente per essere applicate costantemente al tardo Verdi ed a certo Puccini come Tosca e Manon o alla Maddalena di Coigny, mentre quei soprani, fra il 1920 ed il 1940, avrebbero cantato Butterfly, Manon di Massenet, Mimì, le Margherite di Gounod e Boito, magari Traviata e oggi, invece, possono fare i drammatici nel repertorio fra Bellini ed il primo Verdi a condizione di eseguire senza difficoltà i passi di agilità.
Basta sentire quello che accade nel recitativo e nell’aria “Madre pietosa Vergine” in prima ottava Norma Fantini è composta e non emette suoni aperti (unico suono un po’ enfatico e spinto il si nat grave di “perdei”), ogni tanto si ha il sospetto che qualche nota, proprio per paura di enfasi e verismo, sia piuttosto chiusa. Ad un certo punto, però e sistematicamente, sul mi4 fa4 accade qualche cosa ovvero i suoni diventano spinti e per conseguenza vibrano in una voce che altrove non è vibrata. Basta sentire proprio l’attacco “sul giunta” il fa diesis mi di “sangue”, sempre al recitativo e ancora nell’aria al “vergine perdona al mio”. Moderando il suono “che come incenso ascendono a Dio sui firmamenti” piuttosto che alla chiusa “pietà Signor” il difetto si attenua e non poco.
Per contro nelle note immediatamente precedenti la fine del passaggio superiore il timbro è dolce e consente accento ispirato, consono al personaggio dolce e remissivo. Anzi qualche volta Norma Fantini eccede in dolcezza e mitezza e finisce con il richiamare personaggi da dramma borghese come in “alcun potria sorprendermi” o nelle battute che precedono il duetto con il Guardiano. Insomma una Mimì o una Butterfly, piuttosto che Leonora di Vargas, anche se gli acuti presentano in maniera molto ridotta il difetto dei mi e fa acuti. Tutto questo, però, non può che far concludere per una cantante che canta esibendo il volume a discapito della qualità del suono.
Esattamente lo stesso accade al duetto: durante tutta la prima sezione la cantante modera il volume e riescono solo un poco spinti (nella media di tutte le Leonore de Vargas) gli acuti estremi e l’accento per la penitente in nuce è quello giusto, come accade nelle differenti ripetizioni di “ah tranquilla l’alma sento”, stranamente eccede nella frase “voi mi scacciate”, che è pur vero prevede l’indicazione “declamato”, ma qui si declama un po’ di enfasi di troppo.
Alla sezione conclusiva, quella che richiede impeto e slancio, i mi ed i fa suonano spinti se cantati a piena voce e pregiudicano la qualità degli acuti estremi. L’attenuante è quella di sempre ovvero dell’inizio delle riflessioni: può essere che stia cantando Forza del destino piuttosto che Butterfly o Bohème. Mi domando però, anche se la riflessione esula dalla Forza del destino, che possa accadere cantando poderosamente e con compiacimento di certe zone della voce il repertorio del primo Romanticismo, che sappiamo è un vero ballo sulle punte.


Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli

2006 - Deborah Voigt (con Samuel Ramey & Juan Pons - dir. Gianandrea Noseda - Met, New York)

2007 - Norma Fantini (con Alexander Vinogradov & Enrico Marabelli - dir. Julien Salemkour - Staatsoper unter den Linden, Berlino)

2008 - Daniela Dessì (con Paata Burchuladze & Roberto de Candia - dir. Alain Guingal - Opéra, Monte-Carlo)

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martedì 29 giugno 2010

Stagioni 2010-11: Regio di Torino e Verdi Festival

Modello di efficienza teatrale italiana, il Teatro Regio di Torino ha già pubblicato la sua stagione 2010-11 in anticipo sugli altri teatri di pari livello. Il Regio di Parma, da parte sua, ha reso nota da qualche giorno, con una conferenza stampa romana, i titoli del Verdi festival autunnale. Commentiamo insieme le due stagioni perché quella sabauda contempla, di fatto, una sorta di mini festival Verdi al proprio interno, annoverando ben tre titoli del maestro di Busseto su sette produzioni in cartellone.

Come ben sapete, non siamo soliti indagare i perché alla base delle scelte dei titoli, ragioni artistiche e culturali ispirate da celebrazioni, progetti di scambio, disponibilità di cantanti etc. Fautori dell’antico principio che le scelte dei titoli debbano maturare attorno alle personalità dei cantanti disponibili ed alle loro caratteristiche vocali, riteniamo comunque degno qualunque principio muova una direzione artistica, a patto che dìa luogo a spettacoli in grado di funzionare.
Quello dell’allestimento di opere verdiane è problema senza soluzione, legato alla carenza di cantanti, di alcune corde in particolare, che ormai paiono estinte. Si va in scena consapevolmente zoppi nei cast, perché Verdi è un must del repertorio e non se ne potrebbe accettare la dismissione come accadde, tra la fine del XIX e gli inizi XX secolo, per certi autori o certi titoli fondamentali del repertorio belcantista e del Grand-Opéra.

Colpisce la presenza da entrambe le parti un titolo raro e difficilissimo da allestire, come i Vespri Siciliani, di fianco ai più comuni Rigoletto e Traviata Torino, Trovatore ed Attila a Parma.
Sempre di target popolare gli altri titoli torinesi, dal Boris inaugurale nella versione senza l’atto polacco, Butterfly, Parsifal e la Lucia di chiusura.
Nelle corde di basso osserviamo la dura realtà del mercato delle voci: o buoni cantanti delle generazioni recenti, come il bravo signor Adbrazakov, Procida torinese, ma di scarso peso ed ampiezza per forza di natura vocale, come pure il meno quotato signor Anastassov su Boris, oppure anziani cantanti blasonati ma senescenti, come Kurt Rydl Titurel/ Gurnemanz. Idem dicasi per i baritoni, dove forse la qualità media espressa è ulteriormente inferiore a quella dei bassi, con il senescente Nucci sul Monforte di Parma, oppure giovani di scarsa ampiezza vocale, come il signor Vassallo sul Rigoletto ed il Monforte torinesi, o il signor Capitanucci su Germont, se non addirittura inadeguati per ragioni stilistiche, come il signor Sgura sul Conte di Luna. Si canta in modo sempre più ingolato, ci si è adattati alle voci gravi maschili fibrose, spesse ed indietro, direi che si addirittura maturato un moderno gusto per questo tipo di canto e così, pian piano, si è arrivati a non avere più sul mercato cantanti dotati della necessaria ampiezza, oltre che morbidezza e capacità di sfumare, idonee al repertorio verdiano e non solo. Comunque si scelga, non si riesce più ad essere all’altezza dei requisiti della parte.

Con le voci acute maschili và forse un fio meglio, ma la razionalità non pare governare tutte le scelte, in Verdi soprattutto. Il signor Alvarez torna a Parma per la terza volta nel volgere di pochi anni come Manrico. Ha sempre mancato di squillo e di vera eleganza nel fraseggio, ma, sebbene un po’usurato dalle scelte di repertorio degli ultimi anni, non sarà certo di molto al di sotto delle sue performances passate. Diversi, invece, i casi del signor Kunde e del signor Armiliato sull’Arrigo dei Vespri, il primo perché in debito di smalto, di intonazione in zona di passaggio, oltre che di vero accento verdiano ( ma se la ricorda la figuraccia di Chris Merritt a Milano??); il secondo perché manifestamente usurato nelle prove recenti di Genova ( la facile Tosca ) e di Wien ( la centrale ma pesante Forza ). Follia dei cantanti o disperazione delle direzioni artistiche? Scelte confortate più dall’esito del pubblico che da vera idoneità ai ruoli o vera qualità artistica, invece, quelle di tenori come il signor Secco o il signor Terranova in Verdi, piuttosto che del sign. Meli quale Edgardo: assenza di fantasia e di capacità propositiva, piuttosto una tendenza a fare della ruotine che garantisca il teatro da incidenti.

Ci son però corde, come quella dei soprani, ove sarebbe ancora possibile, al contrario, maturare scelte oculate ed appropriate, e non errori marchiani.
La sig Radvanovsky, con buona pace del suo nome d’agenzia, sta sulla Elena torinese in virtù dell’ormai antica performance parigina e non per le sue attuali virtù vocali, delle quali peraltro ha dato prova ( stonata e fissa )in quel di Genova un paio di stagioni or sono. Si alterna poi con una improbabile signora Iveri, dalla voce piccola, priva dei gravi come degli acuti, di capacità acrobatiche ignote e che al massimo potrà sfarfalleggiare leggiadra per lo spartito. In quel di Parma, peraltro, si aggirerà per la scena, quale Elena, l’ombra di una grande cantante al capolinea ( non me ne voglia la signora Dessì, che molto stimo ma…), dalla voce ormai compromessa oltre misura, pergiunta in una parte che richiede estensione, capacità di fraseggio e virtuosismo. Questo è caso assai diverso dal precedente, perché di diversa caratura è la cantante in questione, ma l’età vocale è qualcosa che non si può vincere o nascondere in eterno. E quello di mettere il pubblico davanti a grandi cantanti del passato, chiedendo l’applauso di stima e di affetto, e non per merito artistico ( vero Leitmotiv del cast del Vespri parmigiani ), non è ricetta poi così onesta... verso Verdi in primis.
La suggestione del nome come della fama mediatica influenza evidentemente le direzioni artistiche in misura palpabile. La signora Fantini, oggi senza dubbio la migliore Aida, Leonora di Vargas ed Elisabetta di Valois in circolazione ( e metto nel conto pure le star di agenzia signore Urmana e Stemme ) viene con poca avvedutezza collocata sulla Leonora del Trovatore, parte di vocalità assai diversa da quelle che la signora è solita praticare, tutta incentrata sul canto aereo e strumentale in acuto e fiorettature ostiche in punta di forchetta ( e che la signora, dal canto suo, ha accettato per rientrare su un mercato in cui le spetterebbe un suo spazio dati i soprani "spinti", soprattutto quelli che non ho nominato, che lo animano.. ), perché sulle future Forza e Aida invernali pare proprio già stiano la medesime e meno qualificate signore Dessì e Carosi. Scelte che non si possono certo mettere all’insegna dell’aver opzionato il meglio disponibile in commercio, ma solo della mancanza di riflessione sulle effettive performances vocali delle cantanti in questione. Per giunta su ruoli verdiani, in quel di Parma, laddove tutto è incentrato sulla conservazione della tradizione del canto verdiano e la valorizzazione degli artisti più capaci e specializzati in questo repertorio.
Della stessa suggestione del nome, in questo caso di quelli cosiddetti “d’agenzia”, soffre anche la stagione torinese. Oltre alla suddetta sign. Iveri, si propone la Violetta della sig Kurzak, soprano leggero di nessuna speciale attrattiva tecnica, timbrica e dpersonalità. Si esibisce nei più grandi teatri del mondo, certo, ma non è che nell’universo dei soprano leggeri sia cantante tale da dispensare l’impeccabile e gelida arte di una Devia o la straordinaria emotività ed espressività di una Sills…Idem dicasi per la signora Hui He, che della sua grande voce di qualche anno fa non ha poi saputo farsene gran chè, alla luce del tempo che passa, e per la quale forse non valeva la pena allestire questo titolo che della protagonista vive. Alla solida routìne che potranno offrire in coppia la signora Mosuc ed il signor Meli inLucia, tale da garantire il certo successo della produzione al pari della Traviata u.s., non mi pare che i due cast di Rigoletto e Traviata annoverino nomi in grado di assumere su di sé l’onere della serata e traghettarla in porto felicemente. Il signor Armiliato è bacchetta brava e saggia, ma, si sa, la bacchetta da sola non può nulla in quei titoli. La sola piccola curiosità sarà vedere cosa combinerà la signora Lungu alle prese con i graziosi picchettati e staccati di Gilda.
Quanto al Parsifal ed al Boris, la cui versione monca ci ha francamente un po’ stancato per i motivi che vi abbiamo altrove illustrato, osserviamo la presenza della signora Marianelli, nel piccolo ruolo di Ksenjia, dopo i dimenticati “fasti” delle Fiorille di qualche anno fa: le carriere da “gambero” non ci piacciono, nonostante noi si passi per cattivi. Noi lo scrivemmo ma…nessuno ci ascoltò.
Tra le bacchette, incuriosiscono il signor De Billy alle prese con Parsifal, il signor Noseda alle prese, oltre che con il suo amato Boris, con la gestione dei problemi vocali e drammaturgici del cast del Vespri; il signor Temirkanov nel Trovatore parmigiano…se apparirà in teatro.
Circa gli allestimenti, non dirò nulla. Come sapete, poco ci interessano, e non parlarne sarà la nostra forma di rimostranza contro lo strapotere degli allestitori ed i loro insostenibili costi.

http://www.teatroregio.torino.it/stagione/2010-2011

http://www.beniculturali.it/mibac/opencms/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html?id=75435&pagename=129





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