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lunedì 6 settembre 2010

Rigoletto a Mantova

Se non fosse stato per rispetto a Marianne Brandt ed Antonio Tamburini, con i quali ci eravamo preventivamente accordati, avrei tagliato dal planning la recensione di questo Rigoletto, indegno anche di qualche riga sommaria.
Che sia stato un flop di ascolti non lo so, ma che sia stato un flop musicale è certo.
E' stata l'ulteriore dimostrazione di come l'opera in TV continui ad oscillare tra il teletrash di concorsi vocali improvvisati e lussuosi Luna Park senza alcuna qualità musicale.



Premetto che non amo molto l’opera in dvd, men che meno queste produzioni live “nei luoghi e nelle ore” delle opere. Anzi, trovo che confliggano intimamente con ciò che sia l’opera in teatro, ossia con il senso che ha il teatro d’opera, poiché ci restituiscono, anche nei casi migliori, prodotti che sanno di “cinema musicale” più che di “opera al cinema”.
Il cinema è altro dal recitar cantando sul palcoscenico, e non solo perché gli attori cinematografici hanno modi e forme di espressione diverse da quelle del cantate lirico, ma perché lo spazio dell’opera, i luoghi, fantastici o realmente esistenti che siano, non sono mai luoghi della realtà documentaria e cinematografica, anche quando si tratti di luoghi “storici”, come nel caso della Mantova di Rigoletto appunto.
Intendo dire che il Castel Sant’Angelo della Tosca non è il vero Castel Sant’Angelo che si visita Roma, con i muri scrostati, le macchie di umidità, architettura straordinaria, ma anche danneggiata ed “imperfetta” per i secoli, che le sono trascorsi sopra. Il Castel Sant’Angelo di Tosca è, comunque, un luogo sempre rivisitato, la rappresentazione di una architettura storica esistente e prima di tutto, il luogo ove si svolge un’azione scenica. Se così non fosse, se il teatro non funzionasse per rappresentazioni, ma per realtà oggettive e fisse, non potremmo e dovremmo ricostruire ad ogni produzione di Tosca un Castel Sant’Angelo sempre diverso, anche stilizzato al limite, ma sempre variamente collocato e diversamente riprodotto. E lo stesso può valere per le altre scene di Tosca, piuttosto che per la Ferrara di Lucrezia Borgia e Parisina o la Parigi degli Ugonotti.

Il cinema ha influenzato l’opera, ma a volte l’ha anche danneggiata. La commistione tra generi è inevitabile oggi come oggi e può contribuire ad arricchire forme d’arte tra loro diverse ( penso al rapporto fotografia - pittura ), ma questa produzione è stata un manifesto di invadenza del cinema sull’opera, tanto da danneggiarla, senza peraltro ottenere buon cinema.
Il Rigoletto di Bellocchio è stato posto nei luoghi ( esatti, poi? perchè Rigoletto non è un personaggio realmente esistito) dell’azione del libretto, nel senso che la troupe si è ivi installata, senza, però, sfruttarne la forza suggestiva ed evocativa. Con buona pace del genio di Storaro abbiamo visto assai poco della Mantova cinquecentesca perchè è stata adottata una regia tutta focalizzata sui primi piani dei cantanti che, già di per sè bruttini da vedere, causa i movimenti facciali che il canto impone loro, non ha giustificazione alcuna in mancanza di attori cinematografici, abituati ad esprimersi anche col volto. Placido Domingo non ha certo l’intensità espressiva di uno Sean Penn, anzi, gli capita pure di sputacchiare schifosamente mentre canta; né Ruggero Raimondi ha il ghigno ieratico di Al Pacino, anche se entrambi mi pare che abbiano denti installati di recente; né Grigolo mi pare avere il look di uno sciupafemmine padano del Cinquecento. A poco è valso il pittoricismo evidente cui Bellocchio è ricorso nel metter in posa da ritrattistica lombarda il Borsa di Leonardo Cortellazzi o il Marullo di Giorgio Caoduro, che parevano usciti delle mani di un Moroni o di un Lotto. Insomma, Bellocchio ha scelto la via che Chéreau percorse con la sua Reine Margot, senza però averne gli attori e depurando la storia dal suo crudo realismo. E tralasciamo la coerenza con l'idea di fondo Rigoletto nei luoghi di Rigoletto. A questo punto andava benissimo una via di Pavia o di Cremona ed un qualsiasi cortile cinquecentesco in buono stato.
In compenso certe architetture sensibili e rilevanti sono state messe a dura prova dal trambusto portato dalla produzione che avrebbe ben potuto essere realizzata in studio per tanto così.
Certi svarioni, poi, come l’orchestrina della festa del I atto, composta, incredibilmente, da violini e violoncelli oltre che munita di leggii “Aiazzone”; il “Pari siamo” cantato per intero davanti ad un pluviale in pvc; l’interno della casa di Rigoletto arbitrariamente collocato nella Groota degli Innamorati e nel giardino Segreto del Tè, con tanto di grottesche e stucchi; la taverna di Maddalena linda ed ordinata, potevano esserci risparmiati, a tutto vantaggio della plausibilità della ricostruzione storica. “Rigoletto nei luoghi e nelle ore” ? Direi che dell’obbiettivo dell’operazione si sono ben scordati ……sempre ammesso che l’obbiettivo fosse questo......e più genericamente che un obbiettivo diverso da quello di Figaro o don Basilio, tanto per restare nell'opera, vi fosse.

Tralasciamo, pietosamente, di addentrarci sul sospetto, più che fondato perché suscitato in molti, che la diretta fosse, invece, almeno in parte un playback in certi momenti, aria del tenore al II atto ad esempio, per giunta anche mal realizzato perché le bocche di protagonista e coristi non erano sincronizzate con la musica. Ma forse è stata colpa del nostro chattare furibondo in diretta, quello si!, a renderci poco attenti e un filo strabici….

Se poi mi addentrassi nella disamina delle prestazioni attoriali dei protagonisti, dovrei star qui un secolo a cercare perifrasi idonee ad una descrizione lieve e gentile di un disastro di varie proporzioni.
Gli interpreti più blasonati son usciti con le ossa rotte, per non dire ridicolizzati, dall’impietosa registrazione ed amplificazione che la macchina da presa, soprattutto se vicina, fa di loro, anziani signori travestiti come in una scherzosa sagra storica paesana. I giovani sono andati meglio, ma l’insieme, da un punto di vista meramente cinematografico, è risultato improbabile ed incredibile. Nessuna logica in questo modo di tagliare la produzione, ripeto. Era meglio affidarsi ai luoghi, collocare i cantanti lontano, fare regia vera, e non movimenti stereotipati e smaccatamente falsi di protagonisti, coro e comparse.

Scelte di fondo e svarioni assortiti ci hanno dato l’idea di una produzione improvvisata, poco pensata, montata con abbondanza di mezzi ma assenza di idee e buon gusto, un’opulenta iniziativa senza contenuti né registici, né, ahinoi, musicali, come vi diranno ora Marianne Brandt, Antonio Tamburini e Domenico Donzelli.

Giulia Grisi

Alla fine del primo atto in realtà si esclama: “che spreco!”
Spreco assoluto di denaro pubblico l’ingaggio del regista Marco Bellocchio e del direttore della fotografia Vittorio Storaro!
Peccato venale grave, perché per mettere in scena questo film d’opera sarebbe bastato un bravo montatore in sala di regia che coadiuvasse le 30 telecamere, le 4 regie digitali, i 7 chilometri di cavi in fibra ottica ed una lampadina gialla perennemente accesa ad illuminare gli ambienti.
Bellocchio apprezzato, abile, talentuoso regista cinematografico di film celebrati come “I pugni in tasca”, “La Cina è vicina”, “Nel nome del padre”, “Addio del passato”, “Buongiorno, notte”, “L’ora di religione”, “Vincere” etc. già nel Marzo 2004 fu chiamato a dirigere la medesima opera al Teatro Municipale di Piacenza ambientandolo in una Italia anni ’50 carnevalesca e felliniana che viveva di citazioni pittoriche (le collezioni farnesiane, la pala d’altare della Madonna Sistina) e suggestioni cinematografiche del neorealismo di quegli anni, che però lasciò perplessi pubblico e critica e poco soddisfatto lo stesso regista a causa della “rigidità della dimensione scenica”.
Magari avesse approfondito e raffinato tali idee invece di perdersi in una ingenua, statica, provinciale dimensione registica di maniera che sarebbe stata giudicata “vecchia” anche 30 anni fa.
Inutile trasformare l’orgia del primo atto in una pacchiana balera in cui manca solo la presenza della gloriosa Titti Bianchi; inutili le vogliose Duca-Girls presenti al solo scopo di sottolineare quanto focoso sia il tenore; inutili i costumi che vorrebbero ispirarsi ad una presunta filologia ed ai quadri di Caravaggio, La Tour, El Greco, ma che evocano feste paesane e sagre della porchetta; inutile il comico tira e molla durante l’addio tra il Duca e Gilda; inutile e micidiale la presenza dei rapitori ad un metro da Gilda al termine del “Caro nome”; inutile la totale mancanza di azione o di tensione cinematografica che annulla ogni tentativo di coinvolgimento.
Così come completamente smidollata si presenta la lettura di Mehta il quale dirige dal Teatro Bibiena l’Orchestra Sinfonica della RAI. Ammiro molto Zubin Mehta, apprezzo la volontà di creare un suono ovunque morbido e omogeneo, di cercare la bellezza delle note e di avvolgere i cantanti nella melodia verdiana come se fosse una dolce protezione, ma mai che il direttore voglia esprimere qualcosa, mai che l’orchestra ed il suo gesto scatenino la tensione emotiva e strumentale. Tutto è rigorosamente annacquato, assurdamente dilatato fino alla paralisi e espressivamente gelido fino alla banalità. L’orgia del I atto è semplicemente tirata via alla buona, ancora peggio vanno le cose con l’insipido duetto con Sparafucile o il narcolettico dialogo con Gilda. Praticamente inesistente la presenza dell’orchestra nel duetto d’amore tra Duca e Gilda o nel finale, quanto micidiale l’interminabile “Caro nome”. In tutto questo i cantanti si arrangiano come possono per riuscire ad andare a tempo con una agogica tanto molle e inespressiva.
Dopo il “trionfale” esordio come Simon Boccanegra, il “giovane baritono” Plácido Domingo aggiunge al suo repertorio, avendolo sperimentato in forma di concerto, il ruolo di Rigoletto.
Scherzi a parte, Domingo anche qui non è un baritono e dovrebbe mettersi l’anima in pace su questo punto: lo rivelano il colore chiaro e schiettamente tenorile del timbro, il tipo di canto nella tessitura centrale, l’emissione degli acuti e la carriera anche recente che sta li per testimoniarlo.
Il tremore e l’usura naturale della voce lo fanno partire male nel I atto e si nota anche un non ottimale studio delle prime frasi; manca l’ironia sadica nella prima scena e l’accento è molto vecchio stile anteguerra inficiato da un birignao maldestro e invadente. Il duetto con Sparafucile è generico e manca di mistero, ma qualche zampata soprattutto nel fraseggio riesce a regalarcelo nel monologo “Pari siamo” trasformato nella versione anziana di “Forse la soglia attinse e posa alfin” dal “Ballo in maschera”; stesso dicasi per il duetto con Gilda praticamente identico negli accenti alla scena d’amore nell’orrido campo con Amelia: sembra di assistere infatti al corteggiamento tra un vegliardo attempato, ma non domo ed una fanciulla poco più che adolescente; orrido e ridicolo il “gildare” alla fine dell’atto. Si apprezza il carisma innato, l’artista, la robustezza dello strumento pieno di crepe, ma ancora intatto nella timbratura e nel suo sostegno, eppure tutto è finto, costruito, volutamente strappa applauso, molto vecchio e risaputo. Domingo monumento di se stesso; Domingo che a fine carriera (quando?) si toglie gli sfizi inventandosi baritono; Domingo onore e rispetto alla carriera; Domingo lezione di canto e di carisma; Domingo, basta così!

Con Julia Novikova, vincitrice del primo premio all’ “Operalia 2009 Plácido Domingo The World Opera Competition” a Budapest, il personaggio di Gilda passa un brutto quarto d’ora; si, perché il soprano ha il dono di portarci indietro nel tempo di oltre 100 anni.
Vocetta bianca, bianca, esile, esile quella della Novikova, poggiata praticamente sul niente, o meglio, sostenuta da un falsetto etereo, vetroso soprattutto nel registro acuto e da un accento interpretativo talmente vecchio, zuccheroso, generico da mutare Gilda nella solita insignificante oca con gli occhi a cuore e la boccuccia paralizzata in un eterno fastidioso sorrisetto compiaciuto.
Quindi sia il duetto con il padre, sia il duetto con il Duca, in cui semplicemente sparisce, sia il “Caro nome”, sono momenti che oltre ad essere annegati in un mare di melassa, dimostrano come una voce miagolante e con problemi di intonazione uccida anzitempo il personaggio.

Su un livello simile il Duca di Vittorio Grigolo, super-tenore in ascesa.
Grigolo fa parte di quella schiera di cantanti belli da guardare, meno da ascoltare e non per mende timbriche, quanto per mende puramente tecniche e vocali.
Per quale motivo Grigolo deve fingere di essere un tenore spinto scurendo artificiosamente il timbro in “Questa o quella” per poi cantare il resto dell’atto con la sua vera voce? Forse per mascherare una voce piccola ed evanescente, dotata in natura di una certa gradevolezza, ma lanciata allo sbaraglio, perché priva di appoggio ed una adeguata respirazione.
Perché contorcersi o mettersi sulle punte dei piedi per l’emissione degli acuti? Forse perché l’unico modo per raggiungere le note sopra al rigo in tali condizioni è ghermirli forzando e spingendo usando non il diaframma, non la maschera, ma le sole corde vocali e gli innaturali movimenti del corpo. Perché emettere suoni sbadiglianti e facilmente confondibili con i falsetti della Novikova? Forse, perché non si hanno i pianissimi, e forse per mascherare il vibrato del registro centro-acuto come dimostra il duetto con Gilda. Insomma, Grigolo avrebbe la voce giusta, sempre se aggiustasse l’emissione, per Broadway, per la grande tradizione della commedia musicale italiana, ma per un’opera come “Rigoletto” c’è bisogno di altro oltre al fisico.

Terribile l’amichevole presenza di Ruggero Raimondi nei panni di Sparafucile.
Il duetto con Domingo sembra uscito direttamente da “La notte dei morti viventi” di Romero; la voce usurata è al limite della decenza e si sfilaccia di continuo cercando di prendere corpo attraverso inflessioni bieche ed emissioni gutturali; inesistente poi il registro grave ridotto ad un inudibile sbuffo d’aria. Quando parla della “sorella” si ha paura che al terzo atto spuntino a sedurre il Duca la Cossotto o la Obraztsova odierne nei panni di Maddalena vista l’età anagrafica del signore, poiché la povera Surguladze potrebbe al limite impersonare la nipote del buon Raimondi. Va bene il rispetto per la grande carriera e per il grande basso, ma anche il rispetto per le orecchie del pubblico (pagante!) ha la sua importanza!

Discreti tutto sommato sia il coro sia i comprimari, con una menzione speciale per il tonante Monterone di Gianfranco Montresor e la Giovanna con il quadruplo della voce della Novikova di Caterina di Tonno.

Marianne Brandt

Un tempo si riteneva l’aria del Duca all’inizio del secondo atto, e segnatamente il cantabile “Parmi veder le lagrime”, il brano ideale per saggiare un tenore in sede di concorso ovvero di audizione. L’attacco (un sol bemolle) permette di valutare se, e come, il tenore sappia risolvere il passaggio di registro superiore. Un’esecuzione come quella proposta in mondovisione avrebbe suscitato reazioni perplesse, per non dire di peggio, in una qualsiasi commissione esaminatrice d’antan. Fin dal recitativo “Ella mi fu rapita” Grigolo gonfia le gote e spinge, onde conferire alla voce (una voce adatta in natura al più a Camillo de Rossillon) un supposto spessore drammatico, con il brillante risultato di gridacchiare malamente in acuto (“Ma ne avrò vendetta”), di “grattare” in basso (“e la magion deserta”) e di falsettare nei punti in cui lodevolmente si sforza di rispettare le indicazioni “dolce” e “cantabile” (“quell’angiol caro”). L’aria è affrontata con numerose e abusive riprese di fiato, che però non bastano a mascherare un canto che è fibra purissima, ignaro di qualsiasi nuance o smorzatura. Il che è torto capitale per un Duca che non ha certo nella protervia dello squillo o nel fascino timbrico le proprie doti peculiari. Molto provato dalle frasi di scrittura centrale della cabaletta “Possente amor mi chiama”, il tenore opta per il tradizionale taglio del da capo. Vista anche la dimensione molto tradizionale (e pesantemente provinciale) dell’allestimento e della direzione d’orchestra (da mal di mare le sbandature del coretto, musicalmente elementare, dei cortigiani), oltre che del canto, non sarebbe stato fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di cassare del tutto la seconda parte dell’aria.
La grande scena del baritono mostra un Domingo vocalmente allo stremo, di voce dura e legnosa anche e soprattutto in acuto, zona che per natura dovrebbe essergli propizia, ma che in effetti sottolinea impietosamente l’età avanzata del tenore, specie nelle note tenute, fra cui il sol su “dei figli l’onor” che il cantante ben pensa d’inserire in luogo del mi bemolle scritto. Concitazione tutta esteriore, da Canio in età pensionabile, e urla scomposte caratterizzano l’invettiva, mentre la disperata perorazione mette in evidenza la mancanza di un autentico legato, sostituito da suoni tutti e invariabilmente nella bocca e nel naso. Nessuna vibrazione, nessuno scavo d’interprete, anzi, a tratto nemmeno le parole, per tacere delle note, spesso d’incerta intonazione. Vergogna, signor Domingo.
Julia Novikova, timbricamente indistinguibile dal paggio della Duchessa (dolente di contraddire la collega Brandt, ma un secolo fa, e per limitarci all’area esteuropea, Gilda poteva avere la voce di una Boronat o di una Nezhdanova, senza contare che né la scrittura della parte né l’orchestrale del terzo atto saprebbero tollerare un sopranino), dimostra nell’arioso “Tutte le feste al tempio” una preparazione e una musicalità superiore a quelle dei signori uomini, ma non sufficienti a conferire carattere e polso a una Gilda a dir poco inerte, scolastica nel fraseggio, di voce larvale e bianca, stridula e sempre al limite dell’intonazione nei parchi acuti dispensati, mi bemolle della vendetta incluso. Se non altro il soprano, a differenza del neobaritono, non ha dovuto cassare buona parte delle battute precedenti per concedersi la puntatura di tradizione.
La regia e la direzione proseguono, nel secondo atto, sulla strada tracciata nel primo.
Per la serie “il bello della diretta” va segnalato il microfono incautamente rimasto aperto dopo l’uscita di scena di Rigoletto e Gilda, grazie al quale sentiamo l’orchestra… applaudirsi da sola! O era un tentativo di infondersi coraggio in vista del terzo atto?

Antonio Tamburini

E siamo al terzo atto. Si svolge in una locanda che aspira alle stelle Michelin, pulita, ordinata posta in una struttura antica, anzi anticata. Un bel falso cinquecento il cui più pregante simbolo è il lampione pendente all'ingresso.
Rigoletto, i cui compensi presupponiamo, vista anche la casa in cui ha "sequestrato" la figlia per difenderne, invano l'onore, sono da star di Hollywood vi giunge in barca.
Che l'esercizio commerciale renda bene è manifesto dal magnifico impianto dentario nuovo di pacca del titolare il Signor Sparafucile, i cui capelli unticci, invece, confermano la diceria del rapporto conflittuale fra i francesi e l'acqua corrente. Il successivo conflitto è con l'apparizione della sorella Maddalena, che fa presuppore in capo al padre dei due più matrimoni e potenza sessuale in tardissima età. Ma è un conflitto apparente perchè allorquando l'adescatrice apre bocca rivela età vocale assai prossima a quella del fratello e, quindi, siamo in un episodio della "Morte ti fa bella" e la Maddalena è chiaramente un capolavoro di chirurgia estetica stile Nip e Tuck.
Non ritorno sulla prestazione indecorosa dei cantanti che si erano già prodotti negli atti precedenti salvo precisare che Vittorio Grigolo è stato, come è giusto per un principiante del canto, in difficoltà nelle frasi che al quartetto chiamano in causa la zona del passaggio, che Julia Novikova ignora per la serie di suonini flautati che emette dal do centrale in che consistano appoggio e sostegno che Ruggero Raimondi non abbia cantato una sola nota, parlando con la dizione artefatta da diva dei telefoni biaaaaaanchi. Non posso però tacere dei suoni gutturali, aperti e sgraziati che emette costantemente la Maddalena di Nino Surgulazde. Non me la sento neppure di tirar fuori la difesa d'ufficio che Maddalena è un contralto e la Surgulazde un soprano, bastando a smentire una siffatta difesa una lunga serie di Maddalena di fatto soprani o mezzi acuti, tipo Fiorenza Cossotto e a livelli più normali Adriana Lazzarini, Franca Mattiucci e tante oneste professioniste.
Le oneste professioniste mi consentono di ricordare che il terzo atto ha confermato la carenza di tale dote in capo a Palcido Domingo ed a Zubin Mehta. Quanto a quest'ultimo sempre presente agli eventi, sempre preparato da eventi basta ricordare un quartetto slentato ed incoerente, una bandaccia orrenda al tragico terzetto, che precede l'ingresso di Gilda in quella che diviene la sua ara sacrificale. E tanto per infierire una canzone del duca a tempo di romanzetta da salotto o canzonetta.
Ma il peggio è venuto sempre dal protagonista, che sfida leggi del tempo, regole della tecnica, decoro professionale e pazienza del pubblico.
Le frasi del Rigoletto giustiziere davanti il sacco che conterrebbe il Duca, il trapasso fra la gioja del raggiunto scopo e la macabra scoperta, che darebbero al cantante, anche vocalmente limitato o sconnesso o declinante la possibilità di essere personaggio sono state l'apoteosi del generico di cui Domingo, sono certo passerà alla storia per essere stato il più completo rappresentante.
Tutto questo offende e ferisce. Autore, tradizione interpretativa, colleghi e pubblico, giovane precipuamente.
Un buon Galeffi o un buon Tagliabue riconciliano e restaurano orecchie ed umore.

Domenico Donzelli

Cesare Siepi & Giuseppe Valdengo - La Stitichezza







Vignetta tratta da http://comingsoonvignettaio.splinder.com/

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sabato 4 settembre 2010

Placido Domingo, da tenore a baritono

Questa sera avrà luogo il debutto di Placido Domingo in Rigoletto.
Che quello del Boccanegra non fosse soltanto un esperimento ma un assaggio di preludio ad una futura carriera da baritono, lo sapevamo bene in tanti, non solo noi del Corriere. Il pensiero alla corda mediana per Don Placido risale almeno all’epoca dell’incisione del Figaro rossiniano, ciambella senza buco per l’immaturità dei tempi e lo scoglio dato dalla tessitura non acutissima e dal canto di agilità che la parte prevede.

Ma era solo questione di tempo perché il grande “Re del generico”, per dirla con Rodolfo Celletti, cambiasse registro vocale, senza peraltro mutare i modi del proprio canto, dell’accento, come il suo rapporto privilegiato col business.
Intelligente, poliglotta nel dialogo come nel canto, musicale, dotato di bel timbro, vocalmente robustissimo, esperto conoscitore di se stesso come dei colleghi, polivalente e flessibile, di bell’aspetto e fascino latino, intuitivo e sempre primo nell’interpretare il mutare dello star system, uomo di teatro come di business…..non credo di aver dimenticato nulla per indicare sinteticamente le qualità su cui il signor Domingo ha fondato una delle più grandi carriere che il mondo dell’opera conosca. Qualità che lo star system ha poi ricercato in altri dopo di lui, epigoni sempre mediocri e sempre peggiori, perché cotante qualità in uomo solo sono difficili da ritrovare.
I giovani colleghi sono affascinati da lui, lo chiamano confidenzialmente “Placido”, quasi a voler diminuire la distanza siderale che separa le loro carriere dalla sua, quasi a sperare che un po’ della sua fortuna e della sua polvere di stelle li tocchi.
E’ un modello, non c’è che dire, per ogni giovane che sogni una carriera, una grande carriera, di quelle pluridecennali, con tanto di dischi e fama popolare oltre le mura dei teatri, insomma una carriera di quelle che oggi……non si fanno più.
Copie bruttine e sbiadite gli Alagna, i Villazón, gli Alvarez, i Kaufmann, che, lo possiamo dire e provare con facilità, con lui hanno in comune i difetti ma solo qualche raro pregio.
Già perché Domingo, rispetto a costoro, aveva una robustezza fisica ed una capacità di non fallire i risultati, nemmeno quelli più improbabili, che questi signori si scordano. Recite interrotte, ricoveri per problemi alle corde vocali, debutti”bucati”, stecche……la carriera di Domingo è pressoché immacolata dalle mende che affliggono i divi di oggi, soprattutto a fronte del ritmo di lavoro impressionante.
Dunque, perché mai dovremmo dire “no!” al tenore che si fa baritono? Perché non concedergli anche questo, visto che ai suoi epigoni concediamo assai di più in proporzione, dato che nella Golden Era di don Placido non sarebbe mai stato possibile un comportamento come quello di Alagna nell’Aida scaligera, o cantare nelle ganasce alla Kaufmann, o cancellare recite e performances sbraitanti alla Villazón? In fondo a Domingo venne consentita solo una certa amplificazione artificiale, maestro tra i primi anche in questo, in tempi non ancora maturi come i nostri, quando finalmente discutiamo, ed in certi casi già ammettiamo, l’amplificazione delle voci nel canto lirico.

Perché dovremmo dire “no” al fatto che un tenore, nel mondo della carestia delle voci di baritono inauguri per se stesso un prassi, amplificata e sdoganata dai mass media come dalla stampa e che perciò farà certamente scuola, ossia che un tenore possa cantare in una corda della quale non possiede né il timbro, né il legato né l’ampiezza né il tipo di accento che quella corda medesima richiede? Perché dovremmo rifiutarci di apprezzare e lodare la sua vitalità di artista che non conosce barriere proprio adesso, dopo tutti gli anni in cui è stato applaudito quando cantava ruoli da fraseggiatore senza possedere un grande fraseggio analitico, dopo che ha cantato ruoli da tenore epico senza squillo, dopo che ha cantato Wagner senza avere il grande centro del tenore wagneriano, dopo aver cantato ruoli belcantistici senza averne l’aplomb vocale, dopo essere stato sempre soccombente a fianco di primedonne nomate Olivero, Caballé, Sills, Sutherland, Price, Freni, Kabaivanska, Scotto, Bumbry, Cossotto, Verrett, Berganza?
Negheremmo la nostra approvazione ad un fenomeno dell’opera, certo, e saremmo moralisti a ricordarvi che nell’opera ogni caso eccezionale ed ogni deroga fatta per un artista di grande nome ha finito per istituire una regola ( basta vedere la questione di Norma o di Donna Anna amministrate dai soprani leggeri… ), e che dopo di lui a fare come lui saranno i suoi epigoni di cui sopra, e dopo di loro qualunque nn che aprirà la bocca con voce maschile in qualunque corda, tanto sarà d’ora e per sempre “tutti per tutto e tutto per tutti”.
Saremmo ancor più moralisti a ricordare gli aspetti sensibilmente commerciali di queste faccende, che regolarmente arricchiscono qualcuno ( ma ne ha ancora bisogno?) e qualcun altro con lui, lasciando all’opera anche un patrimonio di danni arrecati al canto, alla tradizione del canto, insomma, un cattivo esempio ai giovani, perché se non si possiede la voce da baritono non si canta da baritono, laddove l’autore, in questo caso un certo Giuseppe Verdi, ha espressamente chiesto e scritto capolavori per corda di baritono.
Non siamo moralisti, dunque, non ci importa della questione monetaria, o di quelle di principio o astratte. Però Rigoletto, come già Boccanegra, è scritto per baritono e va cantato in un certo modo. Continueremo dunque ad aspettarci che la voce sia di un certo tipo, che il fraseggio sia come ha da essere, e chiunque canti, non importa quanto sia famoso, leggendario, abbia una voce imprestata o sia star, canti il Rigoletto come ha da essere cantato da che mondo è mondo, con il mezzo e le qualità espressive che servono per la parte.
Solo ed esclusivamente in base a questo potremo apprezzare o dissentire da ciò che andrà in TV e poi in teatro.

A commento dell’avventura di Placido Domingo in Rigoletto, vi alleghiamo un paio di casi di tenori che cominciarono da baritono, con la gioventù dalla loro, e poi divennero tenori.
A voi il confronto con l’esperienza del signor Domingo!

Gli ascolti

Verdi

Rigoletto

Atto I

Pari siamo - Renato Zanelli Morales (1919)

La traviata

Atto II

Di Provenza il mar, il suol - Lauritz Melchior (1913)

Otello

Atto II

Ora e per sempre addio - Renato Zanelli Morales (1929)

Atto III

Dio! mi potevi scagliar - Lauritz Melchior (1930)

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lunedì 3 maggio 2010

Finale del concorso Operalia alla Scala di Milano

Nel lontano 1914 ad un concorso (si facevano anche un secolo fa!) il presidente della commissione, Commendatore Alessandro Bonci da Cesena, tenore mitico per i passatisti come noi, dinanzi ad un giovane ragazzo di Recanati, figlio di campanaro e proveniente dalla Cappella Lauretana proclamò “habemus tenorem”. Poi gli capitò un pezzo di ragazzone di Corsico, un borgo alle porte di Milano, e seppure con minor entusiasmo ripetè l’affermazione.

I due tenori rispondevano al nome di Beniamino Gigli e di Francesco Merli. Nella stagione 1918 erano già alla Scala per rimanerci trent’anni circa.
Altre, non molte, volte si è ripetuto ad un concorso di canto un simile episodio.
Vorremmo noi poveri melomani che una sera ad una finale piuttosto che ad una semplice eliminatoria arrivasse un nuovo Gigli, un nuovo Merli o pure una nuova Anita Cerquetti, che, se la memoria non falla, venne pure rispedita a casa, preferititale la signorina Antonietta Stella.
Nulla di tutti questo è capitato ieri sera alla finale di Operalia, il concorso allestito da quasi venti anni da Placido Domingo e che ha laureato molti nomi dell’attuale star system.
Prima di un esame in dettaglio delle voci dei finalisti, premesse e corollari.
Basta vedere questi ragazzi cantare, salvo poche e sporadiche eccezioni: nessuno pratica una respirazione professionale. Dalle più o meno generose scollature femminili ieri sera mai è stato dato vedere l’ “alzarsi del petto” che per i trattatisti da Tosi e Mancini in poi configurava la prova della corretta respirazione. Analogamente nei signori, spesso anche di bell’aspetto (oggi Gigli nessuno lo vorrebbe perché era brutto!!) non si vede quel movimento che nel recente passato connotava lo sportivo canto di un Blake e di un Ramey.
Primo corollario: la respirazione professionale viene praticata dalle voci femminili quando la tessitura del brano sale ed allora la natura, sia pure generosa non basta! Solo che a respirare corrrettamente una tantum, significa non essere allenati e trasformare il canto in sforzo e fatica.
Conseguenza: carriere quinquennali nella più fortunata delle ipotesi.
Secondo corollario: Le voci sono di limitato volume, corte, ingolate, in difficoltà nella dinamica.
Conseguenza: le donne evitano pagine del Verdi spinto, piuttosto che di Wagner e del '900, gli uomini quando lo fanno sono assolutamente impari al compito.
Ad avviso di chi, come me, “conta niente” ai concorsi di canto la prima cosa che una competente commissione esaminatrice dovrebbe fare sarebbe chiedere al candidato di esemplificare come respira, poi di imporre brani uguali per tutti e che tutte le voci possano essere eseguire ( ad esempio la morte di Edgardo, la cavatina di Micaela), ma idonei a saggiare coerenza e preparazione tecnica del candidato. Ad un concorso, credo, nessuno cerca l’interprete sublime e di riferimento per un ruolo.
Ma poi la commissione esaminatrice dovrebbe anche avere la sicurezza ed univocità della risposta da offrire al candidato respinto. E se guardiamo i cast che i membri della giuria assemblano qualche dubbio circa la sussistenza della richiesta peculiarità, ad onta dei tempi grami, sorge.
Dirò subito, senza seguire l’ordine di esibizione ,che ha vinto chi a giudizio del pubblico doveva vincere ossia per le voci femminili Sonia Yoncheva, bulgara e per le maschili Stefan Pop.
La prima ha una vocetta e con un brano (Je marche sur tous les chemins da Manon di Massenet) da vocetta si è presentata. Ha fatto bene ed è stata premiata. Nel dettaglio a parte la dizione un poco confusa e qualche acuto un po’ spinto ha discreto volume perché sembra mettere la voce al posto giusto, sale e scende correttamente. Qualche acuto forse dovrebbe essere un po’ più proiettato. Per coloro i quali hanno interesse all’aspetto estetico è anche carina. Il tenore alle prese con la “gelida manina” ha cominciato maluccio con la solita voce ovattata che accomuna tutti questi cantanti, in zona acuta le cose vanno meglio (do della speranza compreso) anche se ogni tanto musicalità ed intonazione lasciano a desiderare.
Gli altri in ordine.
Ievgen Orlov (Ucraina) basso ha eseguito la scena di Filippo dal Don Carlos. Accompagnato da un’orchestra che suonava davvero male suona tubato e con la voce bassa come tutti i bassi slavi che imitano i due genii loci ossia Christoff (per la dizione artefatta) e Ghiaurov (per la collocazione “bassa”). All’ascoltatore attento non sfugge che è arrivato stanco e già ridotto di volume alla fine. Il volume non sarebbe poco.
Emilya Ivanova (Bulgaria) anche lei ha subito gli splendori dell’orchestra esempio di come si canta oggi , suona fissa, falsetta e appena sale alle “faci ferali" del recitativo grida, per giunta con poca voce.
Ne approfitto per una postilla. Da giovane Maria Callas ascoltava per radio Rosa Ponselle ed Amelita Galli-Curci, a sua volta Joan Sutherland consumò i dischi della Callas e del soprano milanese, oggi una ragazzina, che si avvicini al canto può reperire e consumare le registrazioni di una Netrebko, di una Fleming o di una Bartoli. Non abbiamo, quindi, il diritto di lamentarci per come canti, ma avremmo l’obbligo di regalarle un cd di Joan Sutherland o anche di Mariella Devia e sperare che abbia disposizione per cogliere gli aspetti positivi delle donate registrazioni.
Giordano Luca (Italia) si è lanciato nella romanza di Rodolfo: voce piccola (da Paolino) e vibrata. Diagnosi: se respirasse come si deve e per conseguenza sostenesse avrebbe un po’ più di volume e non mostrerebbe il vibrato. Basta sentire per capire la frase “talor dal mio forziere”.
Sarah Brandon (Sud Africa) fisico da soprano di una volta dedita a Gioconda, voce da paggio Oscar. Canta con la sordina o con il cuscino sulla bocca tanto è ovattata. Per giunta ha scelto la scena, bellissima, da Thais “Dis-moi que je suis belle” dove ci vuole il centro e il fatto che un paio di acuti siano decorosi, sempre da paggio Oscar, è irrilevante.
Andrej Bondarenko (Ucraina) ingolato e opaco. Ha cantato la morte di Posa che nella sezione conclusiva mette alla frusta i baritoni che non sanno eseguire il passaggio di registro, non solo, ma nel curriculum allegato dichiara di cantare Mozart, Marcello di Bohème. Che senso ha l’esecuzione di un’aria da grande baritono? Grande per ampiezza di voce ed interpretazione.
Dinara Alieva (Russia). Anche lei voce indietro, con il vibrato slavo, è decente se canta piano (ovvio!) ma in basso non sa proprio dove si mette la voce così i suoni in alto suonano aciduli e tirati. Ha chiuso con il mi bem, ma il vero problema come sempre erano i do della cabaletta.
Nathaniel Peake (Usa) si lanciato in uno dei must del canto tenorile soprattutto a 78 giri, l’assolo di Vasco de Gama “O paradis”: potremmo dire “O parodie”. Per la cronaca è belloccio, quindi potrebbe anche fare carriera!
Margarita Grytsokova (Russia) qui la voce sarebbe se messa al posto giusto quella di Cherubino è talmente indietro ed ingolata che non si sente. L’orchestra ha suonato benino, qui. In fondo era il suo assolo!
Chae Jum Lim (Corea) voce modesta, senza nessuna caratteristica timbrica, anche il fraseggio è piuttosto inerte e scolastico, però non bercia, è corretto, non sembra spingere la voce (che non è di basso) un paio di acuto sono suonati un po’ stimbrati e spinti. Peccato veniale.
Ryan Mc Kinny (USA) ha cantato il monologo dell’Olandese, poi un brano dalla zarzuela “La cancion del Olvido”, che ha dimostrato come Wagner non serva a giudicare la voce, nella fattispecie e come di costume limitata di sonorità ed ampiezza e grigia.
Rosa Feola (Italia) anche lei si è lanciata nella scena di Violetta, sarebbe adatta alle servette del settecento napoletano. Alle prese con Violetta (ed anche con la Zarzuela, il famoso Barbero de Sevilla caro alle Barrientos, Capsir e Caballé) la voce stenta, suona piccola e falsettante è in difficoltà nell’ottava alta, tanto che omette il mi bem e pasticcia molto i vocalizzi che portano nell’allegro al do acuto (calante).
Lo ammetto: non era facile scegliere e trovare qualche cosa di buono!



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sabato 1 maggio 2010

Simone Boccanegra alla Scala e nei cinema. Repetita iuvant!

Non c’è più dubbio ormai: quello tra Barenboim ed i fischi scaligeri è una sintonia completa, piena e totale, una sorta di affinità elettiva, ben superiore a quella del maestro con l’orchestra della Scala. Dategli la direzione di una serata diversa dal Tristano ed il teatro risponderà con una tale pienezza di suono, universale cavata di loggione palchi e platea, perfetta scelta di tempo di buu e fischi da fare invidia ai Berliner Philharmoniker!

Solo il maestro Barenboim è riuscito a collezionare siffatto poderoso filotto di insuccessi, violentemente rimarcati dal pubblico scaligero, anche quello più mite e tollerante, sempre più irritato dalla sue stravolgenti performance sul repertorio. E dire che al suo debutto alla Scala venne accolto quasi come un profeta, un messia finalmente giunto a traghettare il conservatore teatro milanese all’interno della modernità, nell’opera del futuro.
In meno di due anni il rapporto si è apertamente incrinato, la credibilità del genio è precipitata di fronte alla manifesta incapacità di gestire qualunque autore diverso da Wagner.
Dopo la contestazione fortissima avvenuta la sera della prima rappresentazione, seguita dalla terza recita passata in una diretta radio impietosa, durante la quale nemmeno i caritatevoli giornalisti RAI hanno potuto ignorare il tumulto uditosi durante la comparsa del maestro alle singole finali, anche ieri sera, in mondovisione shiftata di mezz’ora, la Scala ha contestato fortemente il suo direttore stabile in pectore, al rientro dall’intervallo e platealmente alla singola finale.
La foglia di fico dei titoli di coda opportunamente passati sull’uscita del maestro al proscenio cade davanti allo spettatore youtubino, che ha prontamente caricato il documento live della disfatta, a provare la rivolta di un teatro intero e non di quattro semplici riottosi, come si vorrebbe far credere al mondo.
Non parliamo qui della prova del cast, della contestazione lieve alla stonatissima Harteros (desaparecida, non si sa bene perché, durante la diretta RAI della terza recita…), di quella tremenda all’inudibile Furlanetto, della prostrazione anche fisica di Domingo, applauditissimo, che ha gestito una serata ove è stato spesso in aperto debito di ossigeno.
Ci limitiamo solo a manifestare a chiare lettere l‘interrogativo, ormai non più tanto latente e sommesso, circa l’opportunità di questa direzione musicale “de facto” per un teatro come la Scala. Direzione musicale che ha anche un’ampia ricaduta in termini numerici di presenze vocali e non solo provenienti dal teatro berlinese di Barenboim, incluse quelle familiari in programma. La sua estraneità all’universo del belcanto come al canto barocco, all’opera italiana come a quella francese, al nostro verismo etc. non può essere compensata né giustificata dalle mere prestazioni wagneriane, ed è stato il Maestro stesso a darcene le prove oggettive. Occorre maggiore eclettismo, maggior senso del canto, maggiore conoscenza della vocalità, ossia capacità di accompagnare i cantanti per la direzione di un teatro d’opera di tradizione, perché le scelte direttoriali nell’opera lirica si compenetrano per forza di cose con le peculiarità dei cantanti di cui si dispone, e non, al contrario, costringendo i cantanti ad adattarsi a ciò cui non possono adeguarsi per loro stessa natura. Ma chi non sa fraseggiare con la buca nella maggior parte della produzione lirica, come può capire il canto, la grande ed italianissima arte del “recitar cantando”? E’ certo che il Maestro difetta in questo laddove ormai come lui difettano anche parecchie altre bacchette di pari blasone, basti ricordare il recente Tannhäuser di Mehta, ove il maestro per rispetto verso il pubblico avrebbe dovuto protestare mezzo cast; la prova disastrosa di Maazel in Traviata etc. Tutti esempi preclari di disinteresse per il canto, di disattenzione per il palcoscenico. Al loro fianco, poi, abbiamo giovani di belle speranze e grandi capacità, come i Dudamel o gli Harding, direttori stabili del futuro, pure loro evidentemente inesperti ed estranei, per interessi ed anagrafe, al canto,come ci hanno mostrato con chiarezza dirigendo Don Giovanni o Bohéme. Ma perché non sono interessati all’opera al pari di noi melomani? Ma perché mai non conoscono nulla della storia del canto e delle sue grandi bacchette? Eppure ieri sera il maestro Panizza avrebbe fatto furore... eh, avessimo avuto Panizza! (... magari lo pensava pure il cast, con gli occhi fissi sul maestro….sempre col fiato al limite o corto!!!!) Il disco comunque è ancora in catalogo e non passa i 20 Euro... si può comprare!
Al di là delle battute, la questione Scala, a nostro avviso, sta tutta qui, ossia nella concezione di fondo che si ha dell’opera, e, quindi, nella tipologia di figure professionali che si scelgono per ispirare i cartelloni ed il modo di andare in scena.
Se quello di iersera è un successo ed il Maestro è stato pizzicato o contestato solo da quattro balordi, giudicatelo un po’ voi!



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sabato 17 aprile 2010

Simon Boccanegra alla Scala: l'amaro Verdi di Barenboim & C.

Nuova produzione del Simon Boccanegra verdiano al Teatro alla Scala, opera quanto mai cara e amata dal pubblico milanese, mai dimenticata nella storica edizione, più volte replicata, firmata dal duo Abbado – Strehler. Indimenticata dal pubblico ma evidentemente ignota a chi ha pensato di poter andare in scena in tutta serenità ieri sera davanti allo stesso pubblico con una produzione che nemmeno in un teatro della provincia tedesca avrebbe potuto passare indenne. Un serata di fatto mai decollata a causa della direzione e concertazione di Daniel Barenboim e dell’allestimento di Federico Tiezzi, in secondo luogo per le mende vocali del cast. Il maestro, duramente contestato al rientro in sala dopo la pausa tra primo e secondo atto, è stato, assieme al regista, il bersaglio della forte contestazione finale, che ha investito, anche se in misura assai minore F. Furlanetto e P. Domingo.

Continua la rivoluzione INculturale che dall’Unter den Linden si allarga sulle tavole del palcoscenico milanese. Una volta la Scala esportava produzioni straordinarie per qualità e successo di pubblica e critica come, appunto, il Simone del ’71-‘72. Oggi importa e cooproduce allestimenti come questo, privi di idee e contenuti musicali e registici quando non di trovate al limite del ridicolo ( si veda il trasporto della mummietta di Maria accompagnata da un ombrellino parasole o la navicella giocattolo della finestra d’acqua davanti a cui Amelia canta la sua cavatina mentre due coppie di ancelle agitano pashmine azzurre, parodia dei mari setosi di Pizzi ) affidandosi ad una bacchetta del tutto estranea a Verdi ed al canto italiano, incapace di rendere i colori, le suggestioni ambientali, l’esatta cifra drammaturgica del testo. L’opera era praticamente irriconoscibile ieri sera, grazie a questa bacchetta insensibile alla bellezza ed alla ricchezza di questa partitura, che consente persino agli “accompagnatori” di mestiere, come il Panizza della storica edizione del Met che vi abbiamo offerto più volte, di trovare momenti di gloria personale. E’stato un disastro in scia con la prestazione dell’Aida, ma stavolta senza gli svarioni e i fuori tempo marchiani ( nel palazzo del Abati a dire il vero qualche cric e crac si è sentito…) a far da alibi ad un’orchestra quasi sempre ferma, mortifera, senza tensione, o al più fracassona ed ordinaria. Abbiamo udito un Simone senza il senso ottocentesco della rievocazione storica, senza atmosfere, da quelli foschi del prologo a quelli della congiura, senza il pathos che segna in partitura la morte di Simone, senza canto amoroso, senza lo struggimento dolente ed austero che accompagnerebbe il canto dei due vegliardi, senza l’epica dei guizzi di Adorno, senza la concitazione e la magniloquenza della grandiosa scena del Consiglio. La noia è venuta dai tempi lenti se non lentissimi, mai ben sostenuti e che i cantanti hanno perlopiù subito, l’Harteros in primis, ma anche dall’inadeguatezza del cast, senescente o modesto. Inadeguatezza perfezionata da scelte insensate come quella di chiedere al soprano, al limite per tonnellaggio nella vocalità spinta di Amelia, di cantare in piano le frasi discendenti del finale,“ No, non morrai, l’amore vinca di morte il gelo”, quando deve scendere dal si bem al sol con note pergiunta scritte accentate e che non hanno senso se eseguite con i pianini di un soprano da Lucia; lo stacco del tempo della stretta del duetto Boccanegra Amelia, tanto lento da sfilacciare il canto e squassare il ritmo del passo; come il tempo larghissimo dell’aria di Fiesco, che deve essere retto da un cantante che non ha più alcuna qualità timbrica e di legato, anche qui con esiti imbarazzanti; per non parlare dell’evidente servile “coperchio” messo all’orchestra in quella che è l’infuocata introduzione al “Plebe, patrizi popolo” di Simone, dove nemmeno durante le intensisissime frasi “ e vo’ gridando pace e vò gridando amor “ su cui si inserisce il coro, abbiamo avuto il bene di udire una buca con cavata, intensità emotiva, canto. Il duetto finale dei due bassi, poi, un capodopera dell’universo verdiano che da solo varrebbe la serata, è passato via senza alcuna sottolineatura drammatica ed emotiva da parte della buca, ed i protagonista avrebbero avuto bisogno di essere aiutati e coadiuvati, perché entrambi inferiori al compiti; ma la tragedia di frasi come “ Gran Dio! Compiuto è alfin di quest’anima il desio” di Boccanegra, o il pianto di Fiesco nello straordinario passo“ Piango, perché mi parla in te del ciel… “ possono essere “cantati “ fino a farci piangere da maestri come Mitroupoulos, non certo dai Barenboim, che ieri sera pareva non conoscere nemmeno la trama dell’opera. Noi siamo solo poveri melomani ignoranti, e non musicisti, ma ieri abbiamo avuto la sensazione che mancasse proprio la conoscenza e la comprensione della partitura.
Di Tiezzi vi ho in parte già detto. Scenografie al più grigie, prismi variamente accatastati, qualche architettura minima e bruttina nel palazzo degli Abati, tendaggi minimi per Amelia, e costumi abbastanza tradizionali. Nessuna regia. La semplice e grandiosa prospettiva della marina di Strehler, con la nave in fondo e le luci studiate, se confrontata con la peschiera presso cui Tiezzi colloca Amelia, la barchetta giocattolo, il fondale vuoto e senza atmosfera, le agitatrici di pashmine, rendono bene il cambio dei tempi e lo stato dell’”arte” presente. Come già all’epoca del Don Carlo, ci si domanda se abbia senso o meno continuare a produrre allestimenti senza idee come questo o se non valga la pena, in riconosciuta carestia di denaro oltre che senso del teatro e fantasia, riproporre lo storico allestimento di Strehler, certamente superiore a questo anche se vecchio di trent’anni.

Ma veniamo al canto.

Simone era l’attesissimo Plácido Domingo in veste di baritono, anzi,diciamo meglio, in nuova corda di baritono. Dato che non si tratta di cimento occasionale, ma di un piano di produzioni, Berlino, New York, Milano, Londra etc ed avendo già annunciato anche il debutto in Rigoletto, dobbiamo per forza di cose considerare Domingo un baritono e come tale recensirlo.
Ha cantato, ad onta dell’età, con una sonorità variabile, ora buona ora insufficiente, come al già citato “Plebe patrizi popolo”, mancando in primo luogo del colore del baritono ( la sua voce era assai simile a quella del tenore…) oltre che dell’ampiezza e del volume necessari al grande canto nobile ed aulico nella zona del baritono. Il centro è vuoto, spesso aperto e privo di legato, con ovvie conseguenze sui cantabili oltrechè nei recitativi ( penso a certe frasi del prologo, davvero troppo aperte sgangherate o a quelle che aprono la scena degli Abati.. ). Ha cantato con solidità ma pochisimi colori, mai un vero fraseggio ed una vera dinamica nella voce, sempre sul mezzoforte. Il che ha reso un Simone monotono, noioso, poco sfaccettato, incapace di spiccare scenicamente e vocalmente per ergersi a protagonista della sera, oltre che a leader del cast.. Però è un cantante celeberrimo, amato, ed il pubblico lo copre di affetto, pur riconoscendone l’inadeguatezza al ruolo. La sua lezione, mentre è in arrivo in questo teatro la finale del suo Operalia, è sempre più quella del tutto per tutti, tutti per tutto, basta che faccia audience……..perchè ormai così va il mondo.
Però una sonora pizzicata non gli è stata sottratta, forse perché quando si eccede così tanto …..…

Fiesco era F. Furlanetto. Il peggiore in campo secondo opinione di tutti. Il personaggio dovrebbe essere austero, aulico, ieratico, dolente, ma è risultato becero, a tratti farneticante, come al recitativo di ingresso. Voce dura, tubata, ormai impossibilitata a legare, fraseggiare e smorzare, sgradevolissima. Il più riprovato del cast vocale.

Gabriele Adorno era F. Sartori. Voce già inadatta già a Jacopo Foscari, era del tutto fuori luogo anche qui. La parte richiede accento epico, eroico, capacità di squillare ma anche canto morbido e legato, fraseggio scolpito e nobile. Sartori è al più quadrato musicalmente, ma del tutto incolore ed insapore, limitato anche nella presenza scenica. La voce è poco sonora, quando canta sul passaggio, spessissimo in questa parte, o in alto, il suono si chiude e và indietro. E’sicuro, ma non può svettare. Per giunta non c’è fraseggio, mai un accento, mai una parola con una intenzione che spicchi, mai una frase, nemmeno un’incisiva dizione…del tutto anodino, insomma. E’ sopravvissuto sino all’aria, ma poi al terzetto con Simone ed Amelia gli è mancata la benzina per dare la giusta ampiezza al canto che il momento richiede. Incolore in scena, incolore anche nelle uscite, è scivolato via così…..senza infamia e senza lode.

Amelia era Anja Harteros, la migliore del cast e la più gradita ai loggionisti. Migliore nel senso che ha fondato la sua prova, che mi ha lasciata assai perplessa, su una certa sonorità, che di natura possiede, ed alcune belle intenzioni musicali, soprattutto al primo atto, ma sulla cui resa vocale ci sarebbe da discutere. Premesso che in seconda parte di serata è parsa decisamente meno tonica, con fissità della zona acuta molto insistenti, ha cantato senza alcuna magia l’entrata ( tra l’altro introdotta ed accompagnata orrendamente da Baremboim…), con bella linea di canto ed intenzioni nei due duetti con Gabriele e Simone, per arrabattasi nel monologo concitato della scena degli Abati, dove non ha avuto l’adeguato spessore tragico che il momento richiede. Meglio il secondo atto, poco convincente al terzetto, decisamente pigolante e senza peso nel finale. Che devo dirvi di diverso rispetto ad Alcina o a Tannhauser? Si tratta di voce lirica appena appena, con una bella punta, ma priva di appoggio e quindi di vero spessore. Gonfia il centro, ora scurisce in bocca, ora apre, ora da di naso; gli acuti o li spinge sul forte, dove suona sgraziata, oppure li flauta, ed allora tende a stonare perché non appoggia, altrimenti suona fissa; in basso non c’è nulla e si arrabatta anche male, fatto che in questa parte, che sotto ci và spesso e con forza, si sente. Canta, è bella da vedere, e può anche convincere bacchette o direttori di teatro che le voci non le sentono, ma non è gran cosa. Amelia è un soprano spinto per scrittura vocale, anche se di temperamento lirico, e perciò occorre che i lirici che l’affrontano abbiano almeno la solida e sonora colonna di suono della signora Freni. E qui siamo ben lontani dall’obbiettivo, per quanto in siffatto contorno abbia assai ben figurato.

Paolo Albiani era Massimo Cavaletti, ex accademico della Scala, bello a vedersi ma non certo sentirsi. Ed ho condiviso questa opinione con tutti quelli con cui ho parlato.

Insomma, una serata mortifera e …..triste, perché davvero mala tempora currunt.


Gli ascolti

Verdi - Simon Boccanegra


Atto I

Come in quest'ora bruna - Leyla Gencer (1958), Ilva Ligabue (1965), Margaret Price (1980)

Cielo di stelle orbato...Vieni a mirar la cerula - Giovanni Martinelli & Elisabeth Rethberg (1935)

Favella il Doge ad Amelia Grimaldi? - Mario Zanasi & Maria Chiara (1970)

Ferma!...Plebe, patrizi, popolo - Tito Gobbi, Ilva Ligabue, Renato Cioni, Raphael Arié, Renato Cesari (1965)

Atto II

O Inferno!...Cielo pietoso - Giovanni Martinelli (1935), Richard Tucker (1950), Carlo Bergonzi (1960)

Figlia!...Sì afflitto, padre mio?...Perdon, perdono Amelia - Lawrence Tibbett, Elisabeth Rethberg & Giovanni Martinelli (1935), Mario Zanasi, Maria Chiara & Nicola Martinucci (1970), Piero Cappuccilli, Martina Arroyo & Carlo Cossutta (1974)


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venerdì 11 dicembre 2009

Le celebrazioni per il quarantennale di Plácido Domingo

Veramente il quarantesimo cadeva la sera del sette di dicembre, ma si sa, altro urge per quella serata e, quindi, le celebrazioni per Domingo sono state posticipate alla prima data disponibile.

Qualcuno ha scritto che è un avvenimento di tale rilevanza che non si possono fare recensioni, ma ringraziare e gioire perchè vi è stato.
Potremmo anche sposare questa tesi a due precise condizioni, non verificatesi, ossia che l'ingresso fosse stato libero, come appunto accade per celebrazioni, commemorazioni, distribuzioni di onorificenze e che fosse costume del massimo teatro milanese celebrare nel medesimo modo con la medesima solennità tutti gli artisti che hanno servito quel palcoscenico. Penso a Mirella Freni e più ancora alla prossima centenaria Maria Maddalena Olivero Busch, per la quale, oltretutto, una apoteosi nel massimo teatro milanese sarebbe la riparazione per quanto il teatro all'artista in carriera ha negato.
E, quindi, dobbiamo rilevare come il proposto programma fosse tagliato sulle attuali possibilità vocali di Domingo, che, almeno nella abbandonanda corda di tenore, impongono parsimonia, ossia il primo atto di Walküre. Nessun bis, neppure di quelli popular come un'aria di zarzuela o canzone, che, pure, hanno costituito l'ossatura dei famosi e remunerati concerti dei tre tenori.
Quanto all'illustre e poliedrica bacchetta si capisce che Wagner lo ispira o gli ispira reverenza più di Bizet e Verdi, atteso che ha dato gli attacchi all'orchestra.
La quale ha esibito un suono greve e poco tondo nel preludio del Tristano, ben diverso da quello dell'inaugurazione di due stagioni or sono, suono migliorato nella seconda sezione della morte di Isotta, dall'ingresso, massiccio, degli archi. Per la cronaca la morte di Isotta è stata eseguita quale brano orchestrale. Non nascondo un poco di stupore e perplessità, antecedente l'ascolto, in quanto sodale della celebrazione era Frau Nina Stemme, che ormai è stata avviata alla carriera di hochdramatischer Sopran (insomma come la Flagstad e la Nilsson, per essere chiari).
Udita, poi, nella parte liricheggiante e centrale di Sieglinde ho ben compreso il motivo della scelta. Anzi mi meraviglio e non posso che rinnovare lo stupore manifestato all'epoca del concerto scaligero, perchè siamo innanzi ad un soprano corto in alto e corto in basso di limitata ampiezza e di nessun colore e dinamica. In buona sostanza una potenziale corretta Zerlina, Susanna, Eva dei Maestri cantori e poco altro, al massimo in serata la Contessa. Va rilevato come la povertà di colori e dinamica venga impietosamente evidenziata dalle scelte direttoriali. Nell'affrontare Wagner su un malinteso altare che nel passato nessuno (si chiamasse anche Furtwängler o Clemens Krauss) capisse alcunchè, tutte le bacchette hanno scordato che, se non altisonante, il maestro di Lispia rimane epico e solenne, mette in scena eroi e semidei la cui poetica e vocalità confligge con timbri e sonorità massenetiane e pucciniane. Chi avesse avuto la ventura di essere in sala la sera del 9 dicembre avrà percepito nella prima sezione del duetto sonorità ridotte, tempi lentissimi. L'idea potrebbe anche funzionare a condizione, qui non avveratasi, di disporre di un soprano e di un tenore dalle mille capacità coloristiche, che so una Leontyne Price ed un Richard Tucker, un Carlo Bergonzi ed una Caballé prima maniera. Nulla di tutto questo e quando, poi, si arriva allo slancio erotico di "Du bist der Lenz" o quello eroico dell'estrazione della spada ampiezza, vigore, accento scandito mancano per limiti tecnico naturali (Nina Stemme), implementati da quelli anagrafici per il celebrando Placido Domingo. Celebrato, applaudito, ma sempre generico nell'accento e nel fraseggio. Complimenti, però, è quarant'anni che ce la dà a bere in questo modo. E questa è la sua più pura cifra artistica!
Per scrupolo e perchè a quelli del Corriere piace motivare, offriamo l'ascolto di un pari età alle prese con identico brano musicale, un quasi pari età (Heinrich Knote), che, non pago di avere registrato all'epoca dell'acustico i più rilevanti passi delle opere wagneriane, si prese la rivincita su se stesso riproponendoli dopo l'avvento dell'elettrico.


Gli ascolti

Wagner

Tristan und Isolde

Preludio - Bruno Walter (1950)

Atto III

Mild und leise - Maria Jeritza (1927)

Die Walküre

Atto I

Siegmund: Lauritz Melchior
Sieglinde: Dorothy Larsen
Hunding: Mogens Wedel

Danish National Radio Symphony Orchestra
Direttore: Thomas Jensen

Danish National Radio, 31 Marzo 1960
Esecuzione radiofonica in occasione del 70esimo compleanno di Lauritz Melchior

Eine Waffe lass' mich dir weisen...Der Manner Sippe - Maria Mueller (1943)

Dich, selige Frau...Wintersturme...Du bist der Lenz - Walter Widdop & Gota Ljungberg (1927), Max Lorenz & Maria Reining (1942)

Winterstürme wichen dem Wonnemond - Heinrich Knote (1929)

Du bist der Lenz - Lilli Lehmann (1907)

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domenica 30 novembre 2008

Don Carlo: sei personaggi in cerca di cantanti. Quinta puntata: Don Carlo(s)

Ma in questo dramma, splendido per forme e per concetti generosi , tutto è falso. Don Carlos, il vero Don Carlos, era scemo, furioso, antipatico…..”
Così Giuseppe Verdi stigmatizzava di proprio pugno la distanza tra il suo Don Carlo e quello della verità storica. Invenzione teatrale pura, sebbene non originale, derivata notoriamente da Schiller (1787), a sua volta inseritosi in una tradizione teatrale di matrice protestante, che favoleggiava di un principe Carlo eroico e passionale, in conflitto con l’imperatore.


Il Carlos innamorato della matrigna Elisabetta di Valois, concorrente per amore con il padre Filippo, era leggenda diffusasi per propaganda politica antispagnola, al fine di denigrare la figura dell’imperatore, dipinto come personaggio cupo e geloso, e la corte, attraversata dalle trame ordite a danno del figlio ribelle. Si trattava di romanzi storici come il Don Carlos di Vishard, del 1672, o di quello più noto di Otway, del 1676, ove gli amanti morivano per volontà del terribile Filippo. Anche Vittorio Alfieri, nella sua tragedia “Filippo”, pubblicata nel 1783, aveva ripreso il tema della rivalità amorosa tra Carlos e l’imperatore, ma non tanto in accezione politica quanto per descrivere le ossessioni dell’uomo preda dalla volontà assoluta di dominio e potere, capace di spingersi sino al delitto del figlio e della moglie. Solo Schiller, però, aveva tratto da quello stesso spunto fantastico una tragedia politica, religiosa ed umana di eccezionale forza teatrale, con esiti di critica e pubblico trionfali, che intrecciava ideali d’amore, amicizia, libertà, ragion di stato e storia. Ogni personaggio possiede, nella tragedia schilleriana, una dimensione gigantesca e statuaria, che fuse con la verosimiglianza storica, ben la rendeva idonea alle esigenze dei soggetti da Grand’Operà.

Fedelissimo al personaggio di Schiller, il Carlos di Méry e Du Locle è, dunque, una mera invenzione letteraria, che non lascia spazio ad una dimensione del personaggio diversa da quella del principe erede al soglio imperiale, destinato alla sconfitta sentimentale e politica di fronte all’inflessibilità della ragione di stato. Nessun taglio interpretativo aderente alla verità storica del vero figlio di Filippo, che mai ebbe alcuna relazione amorosa con la matrigna e per giunta mentalmente instabile, inadatto, perciò, alla successione imperiale, può aver spazio per un interprete. Il personaggio è amoroso e passionale, con continue alternanze di sentimenti tra il lirico e l’eroico: pienamente romantico, Don Carlos è certo il meno regale e statuario delle figure protagoniste, il meno “Grand’Operà”, se così si può dire. In Schiller come in Verdi è un principe per natali, che durante tutta l’opera è in contrasto con il proprio stato sociale e le regole che questo impone alla sua condotta. E’, dall’inizio alla fine del libretto, il vero sconfitto dell’opera. Da un punto di vista teatrale, inoltre, Carlo non ha i connotati per emergere sugli altri con la forza spaventosa e ieratica di un Filippo o dell’Inquisitore; né la straordinaria nobiltà e forza di ideali politici ed umani di Posa; né con la dirompente e sensuale aggressività di Eboli.

Quanto al lato vocale, poi, Don Carlo possiede i caratteri tipici del tenore verdiano maturo come del tenore da Grand Operà, su modello di Prophéte e, prima ancora, Juive. La tessitura non è acuta, certo, ed oscilla costantemente tra il centro e la zona cosiddetta di passaggio di registro acuto ( mi-fa diesis ), con svariati acuti da eseguire ormai solo“di petto”, che non passano il si nat ( la-la bem in particolare ), nessun ornamento, a meno di un paio di trilli nell’aria di ingresso della versione in 5 atti. La scrittura, in compenso, è ricchissima di segni di espressione, indicazioni di piani, forti, messe di voce e smorzature, corone. Descrivendolo in modo sintetico e a grandi linee, si può dire che il personaggio ha due lati sostanziali, uno lirico e amoroso, che canta in zona pressoché centrale, ed uno eroico, che canta di slancio e squillo, in zona di passaggio ed immediatamente sopra, sui primi acuti. Talvolta anche certe frasi amorose, però, si fanno concitate e di slancio, ed in quelle occasioni la tessitura tende ancora a salire.
Ruolo idoneo sia ai tenori lirici che a quelli cosiddetti “di forza”, dunque, ha subito nel tempo una certa evoluzione interpretativa, in particolare durante l’affermazione del tenore spinto alla fine del XIX secolo e con l’opera verista. Ad ogni modo, un ruolo che presuppone una grande facilità a cantare sul passaggio alto e a squillare, per ogni genere di voce e di interprete, sebbene non abbia mai costituito un must tenorile, almeno sino all’età moderna.

La storia degli interpreti di Carlos, infatti, parla chiaro: a parte la scarsa circolazione dell’opera, per molto tempo un Grand’Operà sensibilmente meno attraente di altri come Prophéte, Huguenots, Africaine…., Carlo non ha saputo attrarre incondizionatamente tutti i più grandi tenori della storia, forse perché il lato vocale, al di là di quello drammaturgico, non apparve un cimento irrinunciabile per coloro i quali ambivano collocarsi in cima all’universo tenorile. A qualificare un tenore superstella erano altri ruoli. Di qui assenze vistose, come i nomi di Caruso, di Pertile, Gigli, Lauri Volpi oppure le frequentazioni men che occasionali di altre celebrità, sebbene fondamentali, come Tamagno ec.. E la storia delle incisioni discografiche parla altrettanto chiaro: agli albori del disco la grande aria del 1 atto, quella della versione dell’opera in 4 atti in italiano, è stata incisa soltanto da Bernardo De Muro e da Hermann Jadlowker ( nel 1913 ), mentre esistono due leggendarie incisioni del duetto Carlo- Posa, una Caruso – Scotti, l’altra Martinelli – De Luca. Un nonnulla di fronte alle incisioni relative alle parti di Posa e Filippo, tanto che anche il “Dio che nell’alma infondere“ vien da pensare che siano stati i baritoni, e non i tenori, a volerlo incidere.

Jean Morére, interprete di Carlos alla prima del 1867 all’Operà di Parigi, non era una celebrità assoluta dei suoi tempi. Fu artista di prima compagnia solo dal 1861 al 1869. Morì pazzo nel 1871 poco dopo la sua fuoriuscita dal palcoscenico parigino. Sappiamo che aveva in repertorio La Muette de Portici, Ebrea e Trovatore, ma anche che non fu uno dei più famosi tenori dell’Operà, non godendo, nelle cronache del tempo, degli onori tributati ai vari Gueymard, Roger, Achard. Fu una delle note negative del criticato cast della prima, tanto che la sua inadeguatezza portò Verdi ad abbandonare, durante le prove, le bozze di una seconda aria di Carlo da inserire in capo al V atto e a sostituirla con il “Tu che le vanità” di Elisabetta.
Alla prima londinese del Covent Garden del 1867, Don Carlo fu un tenore di levatura superiore, Emilio Naudin, già primo interprete di Africaine nel ’65 all’Operà di Parigi, per espresso desiderio di Meyerebeer. Aveva una voce lirica, di bel timbro, ed ampiezza di fraseggio unite a capacità sceniche. Famosissimo Duca di Mantova, cantava Luisa Miller, Puritani, Poliuto, Fra Diavolo.
I primi interpreti di Don Carlo, su modello di Naudin, furono tenori non ancora di vocalità lirico spinta quale oggi siamo abituati a sentire. Coniugavano ancora il belcanto, quello di Bellini e Donizetti soprattutto, con le parti del Grand Operà.
Carlo Mongini (1829-74), di timbro baritonale, ma esteso e ricco di squillo. Aveva in repertorio Ugonotti, Profeta, Forza del Destino, ma anche Barbiere, Flauto magico, Figlia del Reggimento e Marta. Giuseppe Capponi, di timbro metallico e squillo, stando al Monaldi, fu Don Carlo a Torino nel 1867, alla Scala nel ’68 dietro a Fancelli, a Padova nel ’69, a Cremona nel ’74. Giuseppe Fancelli ( 1833-88 ), una sorta di Pavarotti ante litteram stando alle descrizioni sia della voce come del cantante e dell’interprete. Aveva in repertorio Lucia, Dom Sebastién, Trovatore, Africana, Aida, Lohengrin. Fu uno dei Don Carlos delle recite scaligere del 1868, poi a Torino e Venezia nel ’70, di nuovo a Torino nel 1877. Su questa scia altro interprete di Don Carlos fu Mario Tiberini (1826-80), tenore contraltino da Linda Chamounix, Matilde Shabran, Puritani, Lucia, Sonnambula, quindi Ugonotti, Favorita, che approdò anche al Ballo in maschera. Tutti interpreti, però, della prima versione parigina in 5 atti, voci liriche ed estese in alto.

La messa a punto della versione in 4 atti, con lo spostamento dell’aria del tenore prima del duetto con Posa, rimaneggiata ed abbassata di un tono in modo da poterla inserire nella scena del convento, pare costituire una svolta nella storia interpretativa di Don Carlo. La versione dell’84 andò in scena alla Scala di Milano, protagonista Francesco Tamagno. A quell’epoca Tamagno non era ancora il cantante straordinario che passò alla storia grazie alla creazione del primo Otello verdiano. Sempre il Monaldi ci descrive un tenore di voce formidabile, ma ancora privo, in quella data, di ogni qualità di cantante ed attore. Una sorta di Fancelli, si disse, dalla voce possente e saldissima, ma ....greve. Tamagno non passò senza lasciar traccia sul ruolo di Carlos, almeno a ben vedere i tenori che lo seguirono immediatamente nel ruolo. O forse il tempo ed il gusto erano ormai maturi perché Carlo passasse a tenori meno lirici e più spinti. Negli anni ’80-’90, a cavallo del remake verdiano dell’opera, fu Francesco Signorini (1861-1927) ad impersonare Carlo con maggior frequenza nei teatri italiani: a Modena nel 1886, Genova nel 1887, a Parma nel 1889, a Trieste nel 1895, a Milano nel 1897, Roma ancora nel 1910. Era allievo di Tamberlick, dotato di voce di grande qualità e squillo, elegante e sapiente fraseggiatore. Aveva in repertorio Ebrea e, Tell, Trovatore ed Aida, Ernani e Profeta, Cavalleria ed Ugonotti, secondo il modello di quegli anni di tenore cosiddetto “di forza”.

Alla Scala di Milano, nella ripresa del 1912, si esibì poi quello che è passato alla storia come il primo epigono di Francesco Tamagno, cioè Bernardo De Muro (1881-1955), tra i primissimi a lasciarci una documentazione audio (disco acustico) dell’aria di Carlo. Non certo aiutato dalla presenza fisica, più adatta al Don Carlo della realtà storica che non a quello reinventato dal teatro, De Muro fu un cantante straordinario sul piano dello squillo, del timbro ma anche del fraseggio, soprattutto in prima fase di carriera, quando il gusto non era ancora contaminato dagli eccessi veristi. (L’aria incisa è bellissima per lirismo ed accento. Esegue le forcelle scritte con grandissima espansione lirica ma sempre nella misura del gusto: direi che forse nessuno mai ( nemmeno quello che a me pare essere stato il più completo Don Carlo, ossia R. Tucker ) le abbia eseguite come lui. De Muro non spinge, non singhiozza, non urla, espandendo progressivamente la voce con dolcezza e slancio al contempo. Se questa testimonianza può rappresentare il gusto dei tenori di forza di inizio secolo, possiamo ritenere che i loro Carlo fossero assai più stilizzati ed eleganti di quelli dispensatici dai nostri moderni tenori lirici.)
In quello stesso anno a Berlino fu Hermann Jadlowker, ad impersonare Carlos forse per la prima ed unica volta nella sua carriera, occasione nella quale incise l’aria.
Un elemento è certo le prime registrazioni testimoniano che don Carlos rientrava nelle corde dei cosiddetti tenori drammatici o di forza.
Categoria alla quale appartenevano senza dubbio Francesco Merli e Giovanni Martinelli, il primo in Italia fu il protagonista dell’opera tra il ‘26 ed il ’47 a Roma, Bologna, Venezia e Napoli. Il secondo vestì i panni dell’Infante nella prima al Metropolitan ( versione in 5 atti ) del 1920 e poi nel 1922.

Le scelte propiziate da grandi direttori circa il protagonista furono un poco differenti circa la tipologia vocale del protagonista. Il Don Carlo di Toscanini alla Scala fu un tenore francese, Antonin Trantoul (1887-1966) nelle produzioni del ’26 e del ’28. Di Toulouse come già Morére, era stato allievo di Jean de Reszke. Cantava Manon, Trovatore, Lohengrin,Rigoletto, Carmen, poi Otello e persino Nerone. Criticato per limiti di estensione e volume, ad onta del repertorio praticato, pare che fosse abile nelle mezze voci ed elegante interprete.
Anche Franz Voelker, il don Carlos di Bruno Walter e di Clemens Krauss a Vienna nel 1936, non era a stretto rigore un tenore drammatico, anche se nella seconda parte della carriera eseguiva Otello e Siegmund. Aveva però una voce bellissima, timbrata e cantava con grandissimo gusto.
All’immagine vocale ottocentesca di don Carlos si attenne il bulgaro Teodor Mazaroff l’altro don Carlos di Walter (che sia detto a smentire il disinteresse delle grandi bacchette gli insegnò la parte personalmente) dalla voce squillante, facilissima in alto tanto da interpolare in vero stile grand-opera alla chiusa del duetto con Posa uno scintillante do acuto. Sul podio, ripeto una grandissima bacchetta Bruno Walter, sostenitore e complice dell’arbitrio, stilisticamente lecito, teatralmente esaltante.

Il dopoguerra vede una ripresa cospicua e costante dell’opera di Verdi. Vede anche l’abbandono progressivo dei tenori di forza di questo ruolo a vantaggio di tenori classificati come lirici o, al più lirico spinti. Ma forse la verità è altra e differente. I tenori di forza del dopoguerra che rispondono ai nomi di Ramon Vinay, Mario del Monaco e tutti i suoi epigoni erano in realtà tenori centrali impostati sul gusto e sulla scrittura vocale verista (il confronto fra l’Otello di Merli e quelle de due sopra citati ne è la dimostrazione) che nulla per vocalità e gusto di fraseggio avevano a che dividere con il cosiddetto tenore di forza di stampo ottocentesco che come Martinelli spaziava dal Tell all’Otello passando per tutto o quasi il repertorio Verdiano
Il 1950 vede due grandi riprese quella del Maggio Musicale con Mirto Picchi e al Met quale opera di debutto dell’era Bing, protagonista Jussi Bjoerling, una voce pienamente lirica, di gran timbro, ma comunque facilissimo a squillare negli acuti.
Picchi, Don Carlos per un decennio in quasi tutti i teatri italiani, non brillava per qualità vocale, ma per finezza di espressione e fraseggio che si addice al personaggio.
Il Metropolitan proseguì con i limiti del mercato delle voci nella tradizione del tenore di forza sul ruolo di Carlos soprattutto con Rickard Tucker dal ’51 al ‘72, e Franco Corelli. Forse Tucker, il tenore più versatile di cui abbia disposto il massimo teatro americano, richiamava per lo squillo i tenori drammatici di stampo ottocentesco, mentre Corelli, titolare del ruolo sin dall’epoca del debutto italiano ed al Met nel 1964, 1970, 1972, era più vicino ai modelli post romantici.
Ma al Met come in tutti i teatri italiani l’Infante passò a tenori lirici o poco più, spesso tenori lirici di “seconda fila”, talora imprestati al repertorio spinto, come Eugenio Fernandi ( voce superba ma poco stile ed eleganza anche scenica, stando alle critiche ), Bruno Prevedi, Sandor Konya, Flaviano Labò.
E anche quanto negli anni settanta riprese il gusto di proporre l’opera in cinque atti il protagonista ebbe sempre la voce e soprattutto il fraseggio di un tenore lirico o al più lirico spinto, ma idoneo a Puccini e Cilea, piuttosto che a Verdi
Il riferimento può avere ad oggetto Giuseppe Giacomini, protagonista al Met nel 1979 delle riproposta versione in cinque atti dopo che l’anno precedente in Scala lo erano stati Placido Domingo e José Carreras e, prima Veriano Lucchetti a Venezia nel 1973 in un tentativo di proporre l’originale del 1867 (tradotto in italiano, però). Migliore tra i lirici, a mio avviso, certamente Jaime Aragall, Don Carlos innumerevoli volte, che univa qualità timbrica, lirismo, nonchè facilità negli acuti come nell'accento di forza, oltre che bellissima presenza scenica.( Per i suoi ascolti vi rimandiamo direttamente agli estratti presenti su You Tube. )

Ad illustrazione degli ascolti proposti ( vi inviato anche a rifrequantare le pagne dedicate ad Elisabetta, Eboli e Posa ), qualche appunto circa i contenuti vocali della parte di Don Carlo.

Aria Carlos
In 5 atti
Aria in do maggiore. Il recitativo ha carattere lirico. Alcuni passaggi sono da cantare dolci ed estatici già sul passaggio. L’aria, andante poco mosso, è scritta prevalentemente sul passaggio o immediatamente a ridosso. Sono scomode le frasi in chiusa “Dio sorridi al nostro affetto…ah benedici..“ con forcelle che obbligano a messa di voce e smorzatura, portando la voce anche all’acciaccatura sul si nat - la nat. Sul si nat centrale di “Casto amor “ e corona sul re centrale in chiusa per cadenza o altro.

In 4 atti
L’aria, rimaneggiata e trasportata un tono sotto a quella della versione in 5 atti, ossia in si bem maggiore, si differenzia per un recitativo da subito concitato e disperato. Vi son frasi ampie, che richiedono capacità di esecuzione di lunghe messe di voce, come quella già prescritta in recitativo sulla “ foresta di Fontainbleu”. L’aria è un andante cantabile, più corta di quella originaria, ma che ha la peculiarità di salire decisamente in chiusa in passaggi come quello “ vita il triste albor m’hai rubato… “ con messa di voce e portamento scritto sol-la. Subito dopo di nuovo su “amor m’hai rubato” la salita legata con messa di voce fa – si bem, discesa sul fa con smorzatura sino al pp; in chiusa le battute disperate “Ahimè. Io l’ho perduta , io l’ho perduta”, con smorzatura scritta iniziale su “ahimè”, forte sul primo” Io “, tre ppp con messa di voce e smorzatura sull’ultimo “perduta” .Vi è maggiore concitazione da parte di Carlo nella scena così concepita rispetto a quella scritta per Parigi.

Duetto Elisabetta Carlo, versione 5 atti.
Allegro moderato assai Re bem magg che poi diventa un allegro giusto nella stessa tonalità. Recitativo tra i due che conversano: la scrittura è centrale, con frasi che tendono a salire sino al la nat solo in chiusa “…al vostro più lo giuro….”. Verdi prescrive già nel recitativo forcelle .
La chiusa è allegro moderato assai, in mi maggiore “Sparì l’orror della foresta…”, di scrittura meno centrale, densa di messe di voce e smorzature, segni di pp e FF.( come quello sul si bem acuto tenuto di “…il cor lo fece…” ), p e dolce, dolcissimo, con salite al si bem o al la acuto. La zona del passaggio acuto è battuta con frequenza dalla scrittura In questa parte del duetto Carlo canta sopra Elisabetta, per poi tornare di nuovo all’allegro come in precedenza e cantare all’unisono.

Duetto Carlo –Rodrigo
In do diesis min. Allegro giusto poi poco più mosso ( “Mio salvator mio fratel..”). Tessitura centrale che poi si impenna ( “Tristo me tu stesso tu stesso, mio Rodrigo t’allontani…” salto di ottava si bem centr-si bem alto ) e che poi scende in certe frasi come “Ti seguirò fratello “( mi bem in 1 rigo). Il “Dio che nell’alma infondere “ allegro moderato 4/4 in do magg. Qui il canto è eroico, con note accentate sulla zona do centrale-sol acuto. E’ prescritto un segno di corona sul la nat di “tu dei di libertà”, mentre la battuta che unisce la prima alla seconda strofa sull’ “Ah..” prevede ben due segni di corona , il primo sul do centrale ed il secondo sul fa con messa di voce e smorzatura, ossia lasciando ai due interpreti la libertà di tenere le note a piacere e forse anche di interpolare qualche piccola cadenza, stile Grand’Operà. Altro segno coronato in chiusa, sul la di “…DEI di libertà..”.
La tessitura di Carlos batte continuamente sul passaggio alto di registro, che deve essere perfettamente in ordine per consentire al tenore di avere la voce sonora, alta ed in grado di eseguire gli accenti che Verdi espressamente richiede.
Poi di nuovo alla fine del duetto, allorquando il coro dei Frati passa con il Re e la Regina, il canto di Carlos si fa disperato sulle frasi “Ei sua la fe. Io l’ho perduta….ei sua la fè! Ah Gran Dio….io t’ho perduta…”, dove sale sul FF prima al la diesis e quindi al si nat sul F dopo avere eseguito la forcella prevista sui fa in 5 rigo.

Duetto Elisabetta –Carlos, 2.
Inizio del duetto, con il recitativo, largo e poi subito allegro agitato.
Carlo inizia composto ma subito si agita ( "Quest’aura m’è fatale…") e con veemenza, secondo prescrizione di libretto (" Tal nome no.."); quindi quando arrivano le frasi più intense e con disperazione , da cantare forte FF, la tessitura si fa scomoda, dal mi bem al la acuto, insistendo anche qui sul passaggio di registro ( “Il cielo avaro un giorno…”). Nel successivo andante Carlo ha di nuovo frasi scomode sul passaggio che prescrivono anche la messa di voce sulla zona re-la acuto ( “Ah perché mai parlar non sento…”) ed altre da eseguire di vero slancio sul FF ( “ Insan piansi pregai nel mio delirio…” ) in zona sol-si bem acuto. Il canto amoroso ha una scrittura appena più bassa, ma sempre espressamente legata e con forcelle.
Di nuovo il canto lirico e estatico delle frasi “Qual voce a me dal ciel”, che partono dalla zona bassa fa-mi in primo rigo per poi salire lentamente sino al la bem in “… come ti vidi un dì..” con messa di voce, e poi la naturale, poco dopo, in “…bell’adorata, bell’adorata..”; quindi la chiusa con l’allegro agitato in do minore di “Sotto il mio piè si dischiuda la terra…” che non varia di molto la tessitura di passaggio della prima parte del duetto, insistito sui “ Io t’amo. Io t’amo Elisabetta..” do-fa, do-sol, sol-la bem.Il duetto da solo potrebbe bastare a descrivere la vocalità di Carlo, con il suo alternarsi di stati d’animo ora lirici ora concitati.

Scena del Giardino: duetto Carlo- Eboli e terzetto con Posa.
Di nuovo Carlo canta un allegro agitato in re bem magg “Sei tu, sei tu bell’adorata”, che dovrebbe essere eseguito “sottovoce” e “sempre a mezza voce”, su una scrittura legata abbastanza centrale, che di nuovo si alza nelle frasi, sempre prescritte “ di slancio”, “L’universo obliam! te sola cara io bramo!....” che arrivano sino al si bem acuto. Sull’andante mosso che segue la scrittura è centrale o sale più dolcemente su frasi come “…Ah nol credete ad ora ad ora….”, sino al momento più acuto del si bem tenuto di “Qual mistero a me si rivelò..”.

Le frasi del terzetto prevedono che il tenore esegua i primi acuti con grandissima facilità e squillo, per svettare sulle due voci che fanno pedale. Le frasi “Stolto fui. Oh destin spietato….” lo portano ad eseguire sul F la bem tenuti, quindi il canto concitato a tre, introdotto dal tema in mi min “Trema per te falso figliuolo…” di Eboli, che sale in chiusa sulle frasi accentate “Ah questo suolo, ah questo suolo si schiuderà….” in zona scomoda re-mi-fa, sino al si nat tenuto in chiusa. La fine della scena, insieme a Posa, nella ripresa del tema del loro duetto, non muta la necessità di squillo e di accento epico.

Scena sulla piazza di Nostra Dona de Atocha
L’ensemble dopo l’entrata dei fiamminghi e l’intervento di Filippo II “ Su di lor stenda il Re la sua mano..” attacca proprio con una serie di mi bem ripetuti, ampie messe di voce su re bem e mi bem ( “….duol, pietà….” ) , per poi passare ai primi acuti sol-la bem e poi si bem di “Signor pietà…”, il tutto sul FF, per poi ridiscendere verso il centro nelle frasi di mezzo “ Signor trovi pietà il Fiammingo nel duol…”, quindi di nuovo risale con la messa di voce sul re bem-mi bem di “ ..l’estremo sospir…”, ed il la bem tenuto e scritto smorzato di …”ah pietà..”…etc…e via così sino alla fine, con un interminabile sequenza mi-fa-sol-la di “….signor pietà del Fiammingo…” .
E’ inutile descrivere le frasi concitate in cui Carlo minaccia Filippo davanti a tutti, con la famosa salita d’impeto al si naturale di ”…sarò tuo salvator…”, perché arcinoto, come pure quelle che seguono la morte di Rodrigo e rivolte da Carlo a Filippo. In questo momento dell’opera, più che altrove, la vocalità di Carlos riecheggia la grande scena del IV atto del Prophéte nel Duomo di Muenster, quando Jean de Leyda rinnega la madre.


Duetto Carlos-Elisabetta 3.
E’ dessa.Un detto un sol “ in sol minore. Dopo le prime battute centrali arriva presto una frase ampia sul passaggio, che parte dal do e sale sino al si bem, da cantare “con entusiasmo” eseguendo una messa di voce scritta: “Io vo che a lui si innalzi sublime eccelso avel…”. Di nuovo Carlo deve poi alternare frasi da eseguire “in dolcissimo” sul passaggio (“Vago sogno…”) con altre centrali (“e nell’affanno un rogo…”) con presagi di morte e quindi la visione finale di vittoria (“..a lui ne andrò beato…..plauso o pianto ne avrò dal tuo memore cor…”) sempre sul passaggio superiore sino al la nat. Ancora sul passaggio le frasi esaltate del Marziale successivo….” …e se morrò per lei la mia morte fia bella…etcc”. Ritornano anche i portamenti di voce scritti, già presenti all’inizio dell’opera: è il gusto del Grand’Operà che impone al tenore di salire, in questo caso nel passaggio scomodissimo fa diesis- la nat, eseguendo l’ennesima ampia messa di voce e seguente smorzatura nella ridiscesa verso il centro.
La sezione finale del duetto, lirica e quasi estatica, che immagina una felicità ultraterrena per i due protagonisti, “Ma lassù ci vedremo” in si magg., è uno dei punti più adatti ed amati dai tenori lirici. ” Tutti i nomi scordiam degli affetti profondi…” sta quasi interamente nella zona re –la della voce, che deve essere sonora perché contemporaneamente il soprano esegue una lunghissima messa di voce sino al FF.


Gli ascolti

Verdi - Don Carlo

Atto I

Fontainebleau...Io la vidi - Mirto Picchi (1950), Giuseppe Giacomini (1979), Placido Domingo (1983), Dano Raffanti (1990)

Atto II

Io l'ho perduta!...Io la vidi e il suo sorriso - Bernardo de Muro, Jussi Bjorling (1950), Mirto Picchi (1951), Franco Corelli (1961), Richard Tucker (1964), Bruno Prevedi (1969)

Il duolo della terra...La sua voce!...E' lui! desso! l'Infante! - Todor Mazaroff, Piero Pierotic & Carl Bisutti (1937)

Dio che nell'alma infondere - Enrico Caruso & Antonio Scotti (1912), Giovanni Martinelli & Giuseppe de Luca, Todor Mazaroff & Piero Pierotic (1937)

Io vengo a domandar grazia - Jussi Bjorling & Delia Rigal (1950), Mirto Picchi & Maria Pedrini (1950), Eugenio Fernandi & Sena Jurinac (1961)

Atto III

A mezzanotte...Sei tu, sei tu, bella adorata - Todor Mazaroff & Piroska Tutsek (1937), Franz Völker & Viorica Ursuleac (1933), Bruno Prevedi, Shirley Verrett & Vicente Sardinero (1971), Franco Corelli, Grace Bumbry & Sherrill Milnes (1972)

Ed io che tremava al suo cospetto - Viorica Ursuleac, Franz Völker & Emil Schipper (1933)

Sire, egli è tempo ch'io viva - Richard Tucker & Nicolai Ghiaurov (1964), Franco Corelli & Nicolai Ghiaurov (1966), Pedro Lavirgen & Nicolai Ghiaurov (1970), Giuseppe Giacomini & Nicolai Ghiaurov (1979), Corneliu Murgu & Ruggero Raimondi (1983)

Atto V

E' dessa...Ma lassù ci vedremo - Giuseppe Giacomini & Renata Scotto (1979), Corneliu Murgu & Eva Marton (1983)

Vago sogno m'arrise! ei sparve - Franz Völker & Hilde Konetzni (1936)

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