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domenica 8 maggio 2011

Trilogia (im)popolare al Regio di Torino e al Met

In epoca di mercato delle voci mal messo e magro per le bacchette le dirigenze dei teatri, con assoluto anacronismo, si attaccano al cosiddetto repertorio, animati dal sogno di così non perdere pubblico, anzi di conquistarne per il solo richiamo, che il repertorio esercita. In fondo è la soluzione più comoda e per certi versi la meno rischiosa. Ve lo immaginate oggi allestire titoli come Poliuto, Rosmonda d’Inghilterra, Loreley o Medea in Corinto?

Meglio la solida trilogia popolare verdiana o, almeno, alcuni dei titoli che la compongono. Garantiscono il tutto esaurito e abbassano il rischio contestazioni per la presenza, appunto, di quel pubblico, pago del solo presenziare ed ascoltare il brindisi della Traviata o la Pira.
L’idea è diffusa perché, a breve distanza di tempo, Traviata e Rigoletto sono stati proposti dal teatro Regio di Torino e Trovatore dal massimo teatro americano. Il più fantasioso si è dimostrato con Rigoletto il teatro torinese. Le tre produzioni sono state radiotrasmesse, copiosamente commentate in chat e, quindi, queste mie altro non sono che un riassunto delle opinioni del pubblico. Anzi, in chiusa aggiungo quanto uno dei nostri più affezionati lettori ha scritto dopo una pomeridiana di Traviata. Scelta questa fatta non per abiurare il compito, che ci siamo dati, ma per confortare i nostri detrattori che non siamo ancora pronti per la tutela del WWF.

Cast all stars il Trovatore, come avrebbe potuto essere nel 1913 quello Slezak, Gadsky, Amato, Homer o nel 1935 uno Martinelli, Rethberg, Borgioli perché quanto a fama internazionale Sondra Rodvanowsky, Marcelo Alvarez e Dimitri Hvorostovsky competono con i colleghi, ormai defunti, sopra citati. Peccato che alla fama internazionale si fermi la competizione, salvo che per l’Azucena di Dolora Zajic. Veterana, anni cinquantanove ed inspiegabilmente assente dalla prossima stagione del teatro la Zajic è un soprano Falcon e, quindi, più versata per Eboli ed Amneris. La sua Azucena, non levigatissima nella zona medio grave, brilla per vigore nel “Condotta ell’era in ceppi”, nel duetto seguente con Manrico, per lo splendore degli acuti in particolare il si bem conclusivo dell’opera ed il do del “tu la spremi”, stenta, invece, in “Stride la vampa” di tessitura più centrale e –stranamente- nel “Giorni poveri vivea”. Rimane, però, l’unica professionista schierata. Tali non sono gli altri tre ossia Sondra Radvanosky, Marcelo Alvarez e Dimitri Horovstovsky, ben rappresentanti, però, da accreditate agenzie. Al limite del grottesco e del caricaturale la prestazione del soprano, reduce da una lunga sindrome influenzale, che l’ha costretta a cancellare l’ardua parte della duchessa Elena dei Vespri torinesi. Una dilettante che imbrocca gli acuti estremi, timbro né bello né brutto, ma, prima ancora indecifrabile a cagione di un’emissione tubata ed ingolfata, che compromette l’intonazione, impedisce il legato (“D’amor sull’ali rosee”, in primis), rende fissa la voce a partire dalle note centrali, difficoltosa l’esecuzione dei pochi passi di agilità e, più ancora, compromette la possibilità di reggere la tessitura acuta principalmente alla scena in cui Leonora tenta di prendere i voti o le alate frasi in cui Leonora muore nel più puro stile donizettiano, ovvero secondo i desiderata di Rosina Penco.
Gli uomini. Hovrostovky gode, mi risulta, fama e stima presso alcune residue falangi cappuccilliane sopravvissute in Scala. Non ho dubbi: è becero, volgare e, come tutti i cantanti di imposto mentale prima che vocale verista ignora che sia la grandeur e la solennità, che toccano, per giunta in tessiture astrali, al Conte di Luna, innamorato respinto, rivale non solo in amore, ma anche in politica di un ardimentoso giovinetto. Qui con Marcelo Alvarez di ardimentoso giovane al primo amore, al primo scontro neppure l’ombra. Eppure, se avesse saputo dove collocare la risonanza della voce Marcelo Alvarez avrebbe potuto raffigurare con aderenza vocale e stilistica il protagonista. Invece la voce si è accorciata (pira abbassata e scorciata nelle frasi, che precedono la puntatura conclusiva) appesantita (nessuna smorzatura nell'"Ah si ben mio", nel finale dell’opera o nel precedente duetto con Azucena, insomma non gli importa della mamma e della amata!!) un “Deserto sulla terra” squadrato e metronomico, e frasi arroventate come “infami sgherri vibrano colpi mortali” o “l’infame amor perduto” che di rovente poco hanno, molto avendo di volgare e verista. Lo slancio ed il vigore dell’eroe romantico, perché tale è Manrico, mal sopportano emissione prossima al parlato.
Il migliore in campo è stato il direttore Marco Armilliato, che ha portato a termine una simile compagnia di canto. Non è un merito da poco perchè i limiti tecnici di tre dei protagonisti si risolvono in pesanti limiti di resa musicale ed interpretativa.
La tradizione di andar di passo spedito, che può essere censurabile nel Trovatore alla fine, ad onta di legittimi dubbi si rivela la scelta, che salva lo spettacolo.

Alla stessa conclusione e scelta, infatti, deve essere giunto in quel di Torino Patrick Fournillier che, secondato da un’orchestra, che sembra in questo momento suonare meglio di tutte le altre patrie, ha imbroccato la strada dei tempi veloci, cari al Verdi stigmatizzato dei figli di Toscanini, che senza scendere in polemica certamente elide molto dell’aspetto notturno o intimistico, ma evita figuracce a cantanti, spesso mal messi quanto a tecnica. Solo che anche queste scelte se possono aiutare per certo non possono propiziare il miracolo di far cantare professionalmente chi tale non sia. Alludo in principalità alla protagonista di Traviata: Alessandra Kurzak. Chi ha deciso di farne una star, tanta è la proterva presenza con cui la cantante polacca viene inflitta nei teatri italiani anche nella prossima stagione, ha preso un abbaglio... . e che abbaglio! La voce è chiara, bianca, anzi sbiancata, come quella delle colorature dei paesi un tempo dell’Est, aggravata da una assoluta incapacità di sostenere la voce (già dimostrata nel concerto scaligero), che rende la voce tremula in tutta la gamma, aperta nella zona medio grave, spinta in quella successiva costantemente stonata. Tralasciamo le urla del mi bem fuori ordinanza della stretta del “Sempre libera”, le stecche del do diesis (questo scritto di "giojr") o dei vari do della cabaletta, ma soffermiamoci sulla difficoltà del la bem dei “solinga nei tumulti” alle note gravi inesistenti del “Gran Dio morir si giovine”, all’impossibilità di cantare sul fiato le frasi del duetto con Germont dove la Violetta soprano leggero deve sublimare dolore e sofferenza (vedasi Hempel, Galli-Curci, Pagliughi e Devia) per arrivare a concludere che una siffatta cantante potrebbe al più essere proposta quale Annina e non già come protagonista. Un’autentica presa in giro per il pubblico pagante e per il contribuente. Davanti ad una siffatta scelta la Gilda di Irina Lungu, afflitta pure lei da problemi costanti di intonazione, derivati da un sostegno del suono peregrino, complice la scrittura elevata e ornata di staccati e picchettati,
è, comunque di ben altra qualità.
Quanto ai signori uomini, Stefano Secco rispecchia nella qualità vocale il cognome. Non comprendo la scelta di interpolare il do (un autentico urlo) alla chiusa della cabaletta di Alfredo, per altro eseguita senza il da capo. Per altro un simile acuto è il coronamento di una voce che, come si dice in gergo “non gira”. All’ascoltatore attento non sfugge che tutte le volte in cui Alfredo a chiamato a cantare in zona re3 –fa3, ossia quella, che coincide con il passaggio il suono perde colore e smalto perché il cantante non sa dove collocare la voce. E siccome Alfredo quasi tutta la serata canta in quella zone e più ancora in quella zona deve cantare affettuoso e dolce, come si compete al giovane innamorato che per amore da scandalo, il risulto è protagonista maschile che non seduce, che non sospira e che neppure sfoggia impeto e vigore alla scena della borsa, occasione che gli Alfredo di scadente scuola non si lasciano mai sfuggire per vociare.

Quanto a vociare la coppia duca buffone proposta in Rigoletto è esemplare. Entrambi sarebbero anche dotati eccome, perché il colore di voce e il timbro di Franco Vassallo sarebbe quello di autentico baritono e Terranova, che canta solo con la dote naturale, anche lui, se correttamente impostato, reggerebbe senza sforzo non solo le tessiture del Duca, ma anche altre ancor più impegnative. Invece abbiamo un duca di Mantova che, crolla alle “sfere agli angioli” perché la frase che sta fra il re bem3 e il la bem3 non può essere cantata con la voce naturale, che è volgare e sudaticcio in tutto il quartetto ed arrivato al si bem di “pene consolar” non può che urlare, così come non è in grado di smorzare e colorire l’intera aria del secondo atto, dove la gamma dei sentimento del duca impone per essere interpreti, varietà di fraseggio. E la sequela delle lamentele è la medesima con riferimento al protagonista acuti indietro, nessun colore nei lunghi monologhi dal “pari siamo” a quello sul sacco contenente –tragica beffa del destino- il corpo di Gilda morente dove frasi come “un sacco il suo lenzuolo” devono essere dette non urlate, non buttate lì. Comprendo la logorante monotonia di queste osservazioni, comprendo che sono sempre le stesse, ma il canto di questi signori è sempre lo stesso di gola, duro forzato, senza colori, senza intenzioni interpretative perché in quella zona della voce per interpretare, per fraseggiare, per dire ci vuole una capacità tecnica oggi sconosciuta, e che sarà sempre più sconosciuta perché la giovane ragazza che cento anni or sono andava in teatro in cerca di un modello ascoltava Luisa Tetrazzini, ma anche solide professioniste come Ada Sari. oggi che ascolta? Alessandra Kurzak e che impara ? Nulla perché non può imparare alcunchè, neanche a declamare la lettera del terzo atto.
Cedo la parola alle opinioni di Pasquale, compagno di sventure:

Signora Grisi.
una mia impressione sulla recita di oggi pomeriggio 3 maggio ( naturalmente teatro esaurito )
Stesso allestimento dell'anno scorso con inizio con la scena dei funerali con del blocchi di dimensione e altezza diverse a simulare le lapidi, poi trasformate nell'arredamento della casa di Violetta insieme a un paio di pareti e dei gradini di una scalinata,stessi oggetti disposti diversamente per la casa di Flora, poi ricoperti con lenzuola ritornano a fare parte dell'arredamento della casa di Violetta morente con l'aggiunta di un letto.L'unica variante la seconda scena che simulava un po di campagna con un po di verde,e una specie di collinetta.
Sinceramente non ho mai assistito a una recita della Traviata noiosa e piatta come questa,con un cast non all'altezza di un teatro come il Regio di Torino.
Il soprano Kurzak inadeguata a un ruolo complesso come quello di Violetta se la prima parte poteva ancora dire qualcosa,ma parecchio calante nel strano e strano e ai limiti nel Sempre libera,ma completamente inadeguata nella seconda parte sia nel duetto con Alfredo sia e ancora e peggio prima nel duetto con Germont padre cantare questa parte richiede ben altra voce nel centro,e questo anche nel finale,insomma una Violetta insipida senza sale,noiosa.(al confronto la scorsa edizione ottobre 2009la Mosuc era tutto un altro livello,e anche la Lungu non mi è dispiaciuta nel secondo cast).
Per Secco un discorso tipo non è l'abito che fa il monaco,come non è un grande nome a cantare un buon Alfredo,dopo il brindisi in "Un dì felice, eterea" ha iniziato con una mezza stonatura e durante tutta la recita non è stato un Alfredo convincente leggerino poi spesso portato a forzare.
Capitanucci un baritono dalla voce chiara sinceramente sembrava piu il fratello di Alfredo che non il padre,"in Provenza... ha cominciato bene poi verso la fine ha forzato,forse per dare piu enfasi a quello che diceva,ma rovinando la linea di canto,meglio la successiva cabaletta,anche per lui un finale insignificante.
ll Regio di Torino (io sono un abbonato )ultimante ha fatto delle bellissime recite che si può dire che è diventato il primo teatro di Italia,ma spero che questa recita e questo cast sia solo un incidente di percorso
Il coro mi è piaciuto molto anche la direzione con Fournillier molto attento al palco,ma d'altronte se il materiale che ha a disposizione è questo non può fare miracoli.
Naturalmemte il pubblico ha molto applaudito, ma ormai qui è diventata la prassi,si applaude tutto e tutti.

Salve
Pasquale L.



Verdi - La Traviata

Atto I

E' strano - Lina Pagliughi (con Giacinto Prandelli - 1951)


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lunedì 21 febbraio 2011

Aleksandra Kurzak in concerto alla Scala

Quando un teatro offre ad un cantante di esibirsi in un concerto di canto dovrebbe farlo o per garantire una presenza a chi non disponga di un titolo operistico in stagione ovvero a chi di lì a poco si esibirà in uno dei titoli della stagione stessa, ma quel che è chiaro è che il cantante scritturato è sempre una delle presenze amate e sicure presso quel teatro.

All’attivo di Aleksandra Kurzak ci sono tre recite nel Rigoletto della passata stagione. Non solo, ma il concertista per essere tale deve offrire, sempre, un equilibrio fra doti vocali e quelle interpretative, anche se talora alcuni celebrati concertisti sono stati soprattutto voci ed altri invece soprattutto interpreti, inutile farne i nomi perché tanto ci verrebbe opposta la loro inesistenza. L’altra irrinunciabile peculiarità del concerto è che il cantante sia posto nella condizione di esibire il meglio della propria arte vocale o interpretativa. Che sarebbero stati i concerti della Olivero senza Tosti o quelli della Horne privi delle arie acrobatiche rossiniane? E invece la Scala, come abbiamo già avuto modo di verificare e non condividere l’anno passato impone ai cantanti chiamati programmi di educazione culturale a base di musica cameristica, preferibilmente in lingua tedesca o mitteleuropea. L’italiano e tutte le lingue neo latine sono terribilmente “out”. Non solo, ma nel concerto di questa sera ha inflitto al pubblico anche una cantante dalla voce modesta per qualità naturali, non supportata da alcuna risorsa tecnica che le consenta di non emettere acuti gridati, note medio-alte fisse e periclitanti di intonazione (secondo il costume diffuso delle imitatrici di Edita Gruberova), zona centrale vuota e di colore bianchiccio e naturalmente con tale bagaglio “tecnico” di distinguere i vari sentimenti espressi nei brani “Nachtigall” proposti nella prima parte. Non per fare della facile ironia ma gli usignoli della signora Kurzak erano affetti da aviaria, altri piuttosto spennacchiati (Alabiev) e comunque tutti di batteria.
Letti i testi della seconda parte del concerto dedicato ad artisti polacchi (ce ne sono tanti oltre Chopin) abbiamo avuto il fondato dubbio che i testi cantati con assoluta monotonia e suoni periclitanti in zona medio-alta dalla signora Kurzak fossero tutti del medesimo tenore, ovvero minestrine Knorr. Alla fine di siffatto bagno di cultura il pubblico, quello che applaude sempre, ha invocato Verdi, non sappiamo se per disperazione o per ironia. E’ stato ricompensato invece con due brani del repertorio tipico del soprano di coloratura: la cavatina di Lucia e quella di Rosina. Davanti ad un’esibizione con un sovracuto urlacchiato, una cadenza in formato “le mie prime cadenze”, agilità aspirate e spappolate e la velleità di riproporre persino le agilità cromatiche in chiusa ci sarebbe voluto un grido dal loggione tipo “Mariella perdono!”. Ma avremmo dovuto gridare anche un “Toti perdono!” dopo un’esibizione scolastica e parrocchiale della cavatina di Rosina con abbozzo delle variazioni di Matilde Juva, per l’occasione mutatasi in Matilde Ciucca.
Il Barbiere e la Lucia pubblicati dai fratelli Fabbri, con i quali sono stato iniziato all’opera, si trovano purtroppo in cantina e non ho tempo di andare a recuperarli per proporvi un ascolto. Ma la Rosina e la Lucia ivi registrate sono quantomeno oneste e solide professioniste!



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