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giovedì 4 agosto 2011

Sorella Radio: Macbeth da Salisburgo. Tremate tremate le streghe son tornate!!!

Doveva essere un trionfo e i cronacisti della Rai tale lo hanno definito nei loro, in ogni senso, pietosi commenti. A sentire bene l’unico della pessima compagnia di canto, che abbia riscosso applausi di un certo peso è stato il baritono. Passati, per contro, quasi sotto silenzio i luoghi topici della luciferina protagonista e le oasi di canto del basso e del tenore.

E poi abbiamo il problema principale ovvero il direttore d’orchestra. Riccardo Muti, di anni 70 applicato a Macbeth da oltre quaranta, disponeva di una delle migliori orchestre del mondo. E allora quando si dispone di tale compagine non basta, per essere Muti e per essere riconosciuto come un grande direttore verdiano per non dire il direttore verdiano, cavare un suono genericamente bello, morbido e rotondo. Perché dai Wiener non ci si accontenta di un coro dei sicari, che rievochi corte mantovana o di Boston, non si suonano danze delle streghe, che evocano un salotto parigino in attesa di Eugenia de Montijo Bonaparte o per contro si dia in clangori all’incipit del concertato atto primo o della festa dopo l’omicidio di Banquo. Colori sinistri, richiami d’averno, apparizioni di deità ctonie, colori nebbiosi e spettrali in orchestra (quale occasione migliore che l’introduzione al sonnambulismo) sembrano non appartenere alla scelta interpretativa di Riccardo Muti in questo Macbeth. Abbiamo sentito il solito Muti, che imperversò unico esecutore verdiano in Scala per un ventennio, che nei momenti drammatici e di tensione pesta e rumoreggia ( il famoso bim barabum ) ed in quelli di canto, di riflessione risulta inerte e abulico anzi loffio per usare un termine che iersera nella nostra chat è girato alquanto. A condimento di questo sta la filologia del Maestro, che mescola senza logica e senso le due versioni dell’opera e come un tempo si faceva con la sinfonia della Forza, posta fra primo e secondo atto, antepone al coro delle streghe le danze. Eseguire l’aria di Macbeth della versione 1847, sacrificando la spettacolare chiusa corale prevista nella versione 1865, non ha giustificazione. Potrebbe, ma non è la logica di Muti ,averne per aderire al desiderata di un interprete e vocalista esimio. Battistini, Galeffi, Schlusnus, Tagliabue e fors’anche un Bruson redivivi. Qui Muti disponeva di un cantante inadeguato sotto ogni punto di vista. Invece.
Il cast era indecente ed impresentabile non solo a Salisburgo, ma in qualsivoglia oscuro teatro di provincia. Posso anche concedere a Muti che taluni tempi e talune sonorità siano nate dall’esigenza di non affossare ed affondare vieppiù i cantanti ( anche se simili premure appartengono a direttori ben differenti dal nostro) come ad esempio il tempo garibaldino del sonnambulismo, la piattezza assoluta della arie di Banco e di Macduff, ma in generale la regia vocale latitava. E non la fanno risorgere un paio di frasi, che potrebbero rivelare quanto meno qualche ora spesa al piano con gli interpreti.
Poi anche le quaranta ripetizioni del duetto o del sonnambulismo, che Verdi inflisse a Felice Varesi e Marianna Barbieri – Nini ben poco potrebbero con i due protagonisti. Difficile dire chi fosse peggio. Alla prima frase della Lady erano già urla incontrollate in alto, suoni afoni in basso, leziosaggini vocali ed interpretative per camuffare una carenza di professionalità di base. Se vogliamo fare l’elenco non abbiamo sentito gli staccati del duetto con Macbeth, le agilità del brindisi erano penosa pasticciate, nell’aria aggiunta “La luce langue” ai suoni sordi ed opachi della prima sezione -piuttosto bassa di tessitura- sono seguite le urla laceranti di “o voluttà del soglio“. La scena del sonnambulismo, poi, non merita commento perché ad una esecuzione vocale sgangherata e mal messa se n’é sovrapposta una interpretativa ben peggior con suoni plebei, aperti in basso, stonature continue in zona medio alta (“il sir di Fiffe” una vera perla di malcanto) e un gusto che rende la Varnay sobria, controllata e castigata. Insomma una vergogna. Vergogna condivisa in coppia perché dal “mi si affaccia un pugnal" in poi il signor Lucic ha urlato, afoneggiato e parlato senza pietà e misericordia per il proprio organo vocale e per le orecchie del pubblico. Anche qui l’elenco dei topoi del peggio (le apparizioni al banchetto o l’accesso di Macbeth per ricevere il secondo oracolo, perché la tessitura è acuta e Macbeth dovrebbe declamare e invece grida) non servono per un triste, quando astratto gioco al peggior suono, ma per ricordare che il personaggio debole, allucinato in balia di moglie e streghe (per certi versi molto simili) richiede legato, canto a fior di labbro, rispetto dei segni di espressione. Nulla una poltiglia di lontano sapore verista, nel senso peggiore del termine.
Anni fa, precisamente novembre 1977, la Rai trasmise da Torino un Macbeth dove, un non più all’apogeo, Carlo Bergonzi cantò l’aria di Macduff con un legato, un’espansione, un senso della frase, una nobiltà di fraseggio che sono ricordo incancellabile, esempio e modello. Ve lo posto ed invito gli ascoltatori (gli sventurati ascoltarono!!! Direbbe Manzoni) a paragonare l’esecuzione dell’esausto Giuseppe Filianoti con quella del commendator Bergonzi che di anni ne contava 53 e da venticinque macinava Aida, Ballo, Forza, trovatore. Non serve altro. Anzi serve una sola cosa negare che Carlo Bergonzi, ma anche Gino Penno, Flaviano Labò, Bruno Prevedi e Veriano Luchetti siano mai esistiti , mai abbiano calcato le scene!
L’ablazione della memoria, il rinnegare il passato, cari signori che stamani giocate a Radio Osanna e voi pubblico, che seguite questi pifferai magici può salvare capre e cavoli oggi e domani, ma per il dopodomani non garantisce nulla. Il piatto è vuoto!!!



Gli ascolti

Verdi - Macbeth


Atto I

Regna il sonno su tutti...Fatal mia donna! un murmure - Leyla Gencer & Kostas Paskalis (1975)






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domenica 23 agosto 2009

Moïse et Pharaon a Salzburg

La ORF ha trasmesso in questi giorni il grande successo salisburghese di Riccardo Muti in Moïse et Pharaon di Rossini, opera in cui lo avevamo già ascoltato a Milano, al Teatro Arcimboldi.
L’evento musicale è stato accompagnato da svariate interviste al Maestro, certo affascinato da quest’opera, nella quale ha affermato di ritrovare certe ascendenze di Cherubini, Spontini e Gluck, sue antiche passioni.

L’ascolto dell’audio è di grandissima suggestione, soprattutto in alcune pagine consone all’indole di Muti: lo hanno assecondato in ogni intento un coro (Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor) ed un'orchestra eccezionali (Wiener Philharmoniker) nella loro perfezione esecutiva, tocco, colore.
I punti di forza di questa direzione, a parte l’ouverture, sono stati le grandi scene corali o gli ensemble, come l’inizio dell’atto II ( la cosiddetta scena delle Tenebre ), la successiva grande preghiera di Moise, “Ô toi dont la clémence”, oppure quella al IV atto, “Des cieux où tu résides ”, o il finale dell’opera, con la cavalcata dei cavalieri egiziani travolti dalle onde del Mar Rosso.
Muti nulla ha tolto alla solenne monumentalità di queste pagine di Rossini, assecondandone ed amplificandone l’aspetto mistico o descrittivo, ora con tempi larghi e cantabili, ora con grandiosa drammaticità (finale), mentre le arie sono state accompagnate con il vigore tragico di sempre (scena di Sinaïde, scena di Anaï) finalmente prive delle nevrosi e degli scatti furibondi che avevano caratterizzato gli accompagnamenti dell’edizione di Milano.
La concezione che Muti ha di Rossini, però, è ciò che lo limita in altri importanti momenti dell’opera, quelli lirici ed elegiaci in primis. In una visione tragica di ispirazione neoclassica di quest’opera, Muti ha finito per trascurare la vicenda amorosa di Anaï e Aménophis, che non è affatto marginale nell’opera. La vicenda amorosa, a ben vedere, connoterà sempre gli affreschi storici del successivo Grand Opéra di cui Moise costituì un indiscusso modello e non sarà mai situazione drammaturgicamente secondaria all’affresco storico. In questo aspetto invece, Muti ha mancato di languore e di lirismo, rifugiandosi in accompagnamenti meccanici, come nel grande duetto oppure nel momento della fuga degli amanti. La stessa direzione delle danze, momento formalizzato di questo genere di opera, forse ha lasciato a desiderare in fantasia e varietà.

Limite vero di questa produzione, però, è stato il cast vocale, in parte rimaneggiato all’ultimo ma di certo inferiore a quello dell’edizione milanese. Ed il cast in Rossini regge lo spettacolo.
A raggiungere gli effetti voluti da Muti sarebbe stato necessario un basso di voce ben più ampia e di qualità timbrica superiore all’Ildar Abdrazakov di oggi, che ha perso parte di quella morbidezza che avevamo udito a Milano. Il suo canto fatica ad essere solenne, ieratico e sacerdotale come la parte richiede, e non bastano la correttezza e l’accento compassato per dar vita ad un Moise in sintonia con orchestra e coro che gli fanno da straordinario sfondo.
Anche Nicola Alaimo è lontano dall’impressionante Faraone scaligero di Erwin Schrott. Gli fanno difetto slancio e aggressività, mordente e precisione nel canto di agilità, in una linea buona ma inerte, sempre sulla difensiva. Faraone è personaggio negativo, ma personaggio grandioso, a tutto tondo e…a tutta forza, forse lontano dalle corde di questo cantante.
Eric Cutler (Aménophis) non possiede nulla della qualità timbrica e della freschezza esibite dal Filianoti del 2003 a Milano. La voce è perennemente strozzata negli acuti e fibrosa, per modestia tecnica; anche l’esecuzione della coloratura è parsa approssimativa, mentre J.F. Gatell (Eliézer) ha cantato allo stesso modo di quanto udito nel Viaggio a Reims scaligero, cioè modestamente e con voce asfittica.

Nel reparto femminile ha raccolto molti consensi Marina Rebeka, con una prova che in un teatro italiano avrebbe destato, come già nell’Anna Erisso pesarese, parecchie perplessità. Se già aveva sofferto il peso tragico di Anaï una voce lirica come Barbara Frittoli, non poteva non uscirne acciaccata una voce più leggera come la Rebeka, per il semplice motivo che Anaï, al pari della Mathilde del Tell, non è soprano di coloratura. Alla grande scena finale, diretta da Muti anche in modo più pacato di quanto fatto a Milano, il soprano lettone è uscito provato. Non basta una buona punta della voce per gestire questo ruolo, che, per forze di cose, porta un soprano di coloratura a forzare sul centro per reggere il confronto con il robusto orchestrale ed il ritmo incalzante e, per conseguenza, a perdere di fuoco negli acuti, troppo spesso forzati o gridati. Anche il canto di agilità ne ha risentito, con un’esecuzione aspirata ed imprecisa di quanto prescritto da Rossini. Sin dal duetto d’amore col tenore, che prevede un incipit di reale contenuto tragico, il soprano manca del giusto peso vocale che le consenta di essere credibile nell’accento. Una prova ben diversa da quella del recente Viaggio a Reims di Milano e più vicina a quella del Maometto II dell’anno passato, caratterizzata da un senso di approssimazione anche musicale. E queste sono le conseguenze di carriera (di certo felici per lei, un po’ meno per il compositore ed il pubblico) regalate proprio del Festival Rossini, artefice del suo avvallo (e non solo del suo) quale soprano tragico. Ci spiace, perché nei ruoli idonei al suo reale tonnellaggio vocale ed alle sue capacità espressive, la Rebeka sarebbe soprano davvero interessante.
Nino Surguladze, in sostituzione di Sonia Ganassi, non è cantante da belcanto per emissione e preparazione tecnica. Per quanto giunta all’ultimo, è parsa più preparata della collega sul piano musicale, forse perché intimorita dall’arduo compito, ma questo non le è bastato in una sede prestigiosissima quale Salzburg per essere all’altezza del compito. Le hanno fatto difetto, oltre all’emissione, che nel belcanto è primo requisito, gli acuti, troppo gridati, ed il canto di agilità. La sua Faraona, alla fine, è uscita abbastanza estranea agli stilemi espressivi del belcanto.
E dire che la tradizione esecutiva di quest’opera fino agli anni ‘50 fornisce chiari parametri per la corretta scelta delle voci di Anaï e Sinaïde, la prima solitamente affidata a soprani drammatici o quantomeno spinti, la seconda a voci più liriche quando non a mezzosoprani acuti, soluzione che garantiva maggiore adeguatezza alle caratteristiche drammaturgiche e di scrittura vocale dei due ruoli.
Senza infamia e senza lode la Marie di Barbara di Castri, anche se un timbro più morbido nell’attacco della preghiera del IV non avrebbe guastato.
In conclusione, un grande Maestro, con grandi coro ed orchestra, che però da solo non bastano in Rossini.


Gli ascolti

Rossini - Moïse et Pharaon


Atto I

Si je perds celle que j'aime - Eric Cutler & Marina Rebeka (2009)

Atto II

Désastre affreux! - Nicola Alaimo, Nino Surguladze & Eric Cutler (2009)

Moment fatal - Eric Cutler & Nicola Alaimo (2009)

Ah! d'une tendre mère - Nino Surguladze (2009)

Atto IV

Quelle horrible destinée! - Marina Rebeka (2009)

Des cieux où tu résides... Quel bruit!...Que sont-ils devenus! - Ildar Abdrazakov, Juan Francisco Gatell, Barbara Di Castri, Marina Rebeka, Nicola Alaimo & Eric Cutler (2009)

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domenica 27 luglio 2008

Della necessità e utilità dei festival

L’estate è da più di un secolo la stagione dei festivals.
I festival nacquero con la nobile ed encomiabile idea di consentire ad autori reietti in altri teatri l’esatta rappresentazione delle loro opere o per consentire la nuova e corretta circolazione ad altri adulterati, maltrattati e malmenati nelle allora coerenti ed invernali stagioni.
Sono questi, dicevo, nobili ed alti intenti. Rimangono, però, intenti perché quel che conta è la realizzazione pratica degli stessi ed il rispetto dell’arte e l’evitare di trasformare, snaturandolo, l’evento artistico in evento mondano e commerciale.
I primi a partire furono Oltralpe. Anzi nel caso del “consentire ad autori reietti in altri teatri l’esatta rappresentazione” vi provvide il reietto autore medesimo. Wagner, erigendo a sé ed alla sua produzione musicale Bayreuth. Come tutti i manager Wagner non tenne conto che sempre le aziende cadono in successione e spesso gli eredi sono cagione di disastri e dissesti. Spesso irreparabili. Non mi addentrerò nelle vicende ereditarie, ma è chiaro che sin dall’avvento di Cosima Liszt vedova Wagner le cose (ossia gli intendimento artistici) presero una piega non preventivata dal Maestro. Dalle scelte della vedova più allora che oggi (viste le condizioni obitoriali del canto wagneriano e soprattutto della tradizione direttoriale) due separate scuole di esecuzione fra loro non certo in antitesi hegeliana, ma i guerra aperta, l’una transfuga negli altri teatri germanici ed anglossassoni soprattutto, l’altra di stretta osservanza e assolutamente improponibile altrove.
L’episodio di Cosima Wagner ed Ernestine Schumann_Heink che vennero, in pratica, alle mani è significativo più di ogni parola. Inutile dire che con il nostro paradigma di esecuzione stiamo dalla parte di Frau Ernestine, con cui studiò Tristano persino Lauritz Melchior. Il Tristano per antonomasia, che le odierne Cosime bollano come negazione di canto ed interpretazione wagneriana. Noi ignoranti e passatisti, invece, lo consideriamo modello insuperato, confortati in questa opinione dai più eminenti direttori d’orchestra, che se lo contendevano per tutte le parti di tenore wagneriano.
Quanto al secondo intento “consentire nuove e corretta circolazione a musicisti maltrattati, adulterati” fu il criterio ispiratore di Salisburgo. Non dimentichiamo che all’epoca di fondazione del festival di Mozart circolavano in pratica Flauto magico e Don Giovanni. Va anche detto che altre e non tedescofone istituzioni furono quelle che permisero una più massiccia e persuasiva diffusione dell’autore salisburghese. Alludo al festival di Glyndebourne.
Quello che è divenuto il festival di Salisbugo dagli anni 1960 in poi è sotto gli occhi di tutti e, quel che è peggio, nelle orecchie di tutti. Una cosa è certa che se ai primi del ‘900 la crociata volta a riportare Mozart in stabile repertorio aveva alti fini (!), oggi gli stessi li avrebbe quella per allontanare o ridurre drasticamente le rappresentazioni dei titoli del genio salisburghese. Ma ormai l’azienda Salisburgo è in produzione sia pur con qualche ausilio della cassa integrazione e deve andare avanti a produrre.
Certo è che comparando un don Giovanni in lingua tedesca del 1936 con un cast capitanato da Maria Reining ed Julius Patzak e molte delle attuali esecuzioni nello spirito festivaliero sorge qualche pesante dubbio sulla tenuta nel tempo degli ideali festivalieri.
Dicevo di due scopi condivisibili. E credo siano gli unici coerenti e spendibili per pensare, organizzare ed allestire un festival nel tempo con il corollario –obbligatorio- di esecuzioni vocali e strumentali di qualità.
Queste esigenze, venendo a casa nostra, mettono in dubbio che abbiamo necessità stringenti e credibili di manifestazioni festivaliere dedicate ad autori come Verdi e Puccini, il cui catalogo, fra l’altro, non è sterminato, atteso che i due autori stanno, al pari di Mozart, in dosi massicce nei teatri di tutto il mondo.
Quanto, poi, a Puccini mi domando l’utilità se non puramente accademica (o peggio l’interesse economico) di riproporre pagine come quelle di Edgar che finirono non tagliate, ma rottamate dallo stesso autore o inventarsi le versioni di Butterfly (manco fosse Macbeth o Don Carlos) quando è chiaro per prossimità dei fatti e la loro documentazione che l’opera è, sia pur uscita a puntate dallo studio di Puccini, quella che da sempre circola a stampa ed è proposta nei teatri.
Anche perchè la prassi teatrale ed esecutiva di Butterfly, piuttosto che di Tosca non è certo quella di Semiramide o Tancredi. Titoli questi che riportano alla mente quello che sembra essere la “collina” attuale dell’industria festivaliera italiana. L’intento che fondò il ROF era inoppugnabile: restituire rappresentazioni teatrali di un autore tanto divinizzato in vita quanto perso nella realtà esecutiva.
Idea, ripeto, condivisibile e resa ancor più intrigante dal corollario di restituire anche una prassi esecutiva fatta di interventi di testo e soprattutto di compresenza di svariate versioni.
Però Rossini è l’autore che più di ogni altro richiede in termini di esecuzione. Allora sia chiaro che nella terra promessa di Rossini dei rossinisti e dei rossiniani non abbiamo mai sentito una grande direzione rossiniana. Preciso che ritengo che modello della direzione rossiniana, rimanga quella di Schippers nell’Assedio scaligero.
Quanto ai cantanti è documentale che i maggiori e storici siano stati pochi come pochi furono all’epoca della composizione di quelle opere, hanno patito tutti di sottoccupazione.
Il festival, allora, ovvero quando disponeva di forze vocali di levatura storica non ha mai ragionato come ragionava Rossini, ossia offrendo a quegli elementi straordinari e realmente rossiniani l’opportunità di titoli o di versioni, magari differenti da quelli della prima versione (ma approvati da autore e tradizione coeva), comportamento e scelta che con riferimento a Rossini è un errore, prima che musicale, di filologia. Di quella filologia di cui tanto il Rof si fa merito e vanto. Tanto fatuo da meritare nella mente e nei sogni di chi scrive un vero e proprio contro festival.

Mozart - Don Giovanni

Atto I: Don Ottavio, son morta!...Or sai chi l'onore - Maria Reining (con Julius Patzak)

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