Doveva essere un trionfo e i cronacisti della Rai tale lo hanno definito nei loro, in ogni senso, pietosi commenti. A sentire bene l’unico della pessima compagnia di canto, che abbia riscosso applausi di un certo peso è stato il baritono. Passati, per contro, quasi sotto silenzio i luoghi topici della luciferina protagonista e le oasi di canto del basso e del tenore.
E poi abbiamo il problema principale ovvero il direttore d’orchestra. Riccardo Muti, di anni 70 applicato a Macbeth da oltre quaranta, disponeva di una delle migliori orchestre del mondo. E allora quando si dispone di tale compagine non basta, per essere Muti e per essere riconosciuto come un grande direttore verdiano per non dire il direttore verdiano, cavare un suono genericamente bello, morbido e rotondo. Perché dai Wiener non ci si accontenta di un coro dei sicari, che rievochi corte mantovana o di Boston, non si suonano danze delle streghe, che evocano un salotto parigino in attesa di Eugenia de Montijo Bonaparte o per contro si dia in clangori all’incipit del concertato atto primo o della festa dopo l’omicidio di Banquo. Colori sinistri, richiami d’averno, apparizioni di deità ctonie, colori nebbiosi e spettrali in orchestra (quale occasione migliore che l’introduzione al sonnambulismo) sembrano non appartenere alla scelta interpretativa di Riccardo Muti in questo Macbeth. Abbiamo sentito il solito Muti, che imperversò unico esecutore verdiano in Scala per un ventennio, che nei momenti drammatici e di tensione pesta e rumoreggia ( il famoso bim barabum ) ed in quelli di canto, di riflessione risulta inerte e abulico anzi loffio per usare un termine che iersera nella nostra chat è girato alquanto. A condimento di questo sta la filologia del Maestro, che mescola senza logica e senso le due versioni dell’opera e come un tempo si faceva con la sinfonia della Forza, posta fra primo e secondo atto, antepone al coro delle streghe le danze. Eseguire l’aria di Macbeth della versione 1847, sacrificando la spettacolare chiusa corale prevista nella versione 1865, non ha giustificazione. Potrebbe, ma non è la logica di Muti ,averne per aderire al desiderata di un interprete e vocalista esimio. Battistini, Galeffi, Schlusnus, Tagliabue e fors’anche un Bruson redivivi. Qui Muti disponeva di un cantante inadeguato sotto ogni punto di vista. Invece.
Il cast era indecente ed impresentabile non solo a Salisburgo, ma in qualsivoglia oscuro teatro di provincia. Posso anche concedere a Muti che taluni tempi e talune sonorità siano nate dall’esigenza di non affossare ed affondare vieppiù i cantanti ( anche se simili premure appartengono a direttori ben differenti dal nostro) come ad esempio il tempo garibaldino del sonnambulismo, la piattezza assoluta della arie di Banco e di Macduff, ma in generale la regia vocale latitava. E non la fanno risorgere un paio di frasi, che potrebbero rivelare quanto meno qualche ora spesa al piano con gli interpreti.
Poi anche le quaranta ripetizioni del duetto o del sonnambulismo, che Verdi inflisse a Felice Varesi e Marianna Barbieri – Nini ben poco potrebbero con i due protagonisti. Difficile dire chi fosse peggio. Alla prima frase della Lady erano già urla incontrollate in alto, suoni afoni in basso, leziosaggini vocali ed interpretative per camuffare una carenza di professionalità di base. Se vogliamo fare l’elenco non abbiamo sentito gli staccati del duetto con Macbeth, le agilità del brindisi erano penosa pasticciate, nell’aria aggiunta “La luce langue” ai suoni sordi ed opachi della prima sezione -piuttosto bassa di tessitura- sono seguite le urla laceranti di “o voluttà del soglio“. La scena del sonnambulismo, poi, non merita commento perché ad una esecuzione vocale sgangherata e mal messa se n’é sovrapposta una interpretativa ben peggior con suoni plebei, aperti in basso, stonature continue in zona medio alta (“il sir di Fiffe” una vera perla di malcanto) e un gusto che rende la Varnay sobria, controllata e castigata. Insomma una vergogna. Vergogna condivisa in coppia perché dal “mi si affaccia un pugnal" in poi il signor Lucic ha urlato, afoneggiato e parlato senza pietà e misericordia per il proprio organo vocale e per le orecchie del pubblico. Anche qui l’elenco dei topoi del peggio (le apparizioni al banchetto o l’accesso di Macbeth per ricevere il secondo oracolo, perché la tessitura è acuta e Macbeth dovrebbe declamare e invece grida) non servono per un triste, quando astratto gioco al peggior suono, ma per ricordare che il personaggio debole, allucinato in balia di moglie e streghe (per certi versi molto simili) richiede legato, canto a fior di labbro, rispetto dei segni di espressione. Nulla una poltiglia di lontano sapore verista, nel senso peggiore del termine.
Anni fa, precisamente novembre 1977, la Rai trasmise da Torino un Macbeth dove, un non più all’apogeo, Carlo Bergonzi cantò l’aria di Macduff con un legato, un’espansione, un senso della frase, una nobiltà di fraseggio che sono ricordo incancellabile, esempio e modello. Ve lo posto ed invito gli ascoltatori (gli sventurati ascoltarono!!! Direbbe Manzoni) a paragonare l’esecuzione dell’esausto Giuseppe Filianoti con quella del commendator Bergonzi che di anni ne contava 53 e da venticinque macinava Aida, Ballo, Forza, trovatore. Non serve altro. Anzi serve una sola cosa negare che Carlo Bergonzi, ma anche Gino Penno, Flaviano Labò, Bruno Prevedi e Veriano Luchetti siano mai esistiti , mai abbiano calcato le scene!
L’ablazione della memoria, il rinnegare il passato, cari signori che stamani giocate a Radio Osanna e voi pubblico, che seguite questi pifferai magici può salvare capre e cavoli oggi e domani, ma per il dopodomani non garantisce nulla. Il piatto è vuoto!!!
Gli ascolti
Verdi - Macbeth
Atto I
Regna il sonno su tutti...Fatal mia donna! un murmure - Leyla Gencer & Kostas Paskalis (1975)
E poi abbiamo il problema principale ovvero il direttore d’orchestra. Riccardo Muti, di anni 70 applicato a Macbeth da oltre quaranta, disponeva di una delle migliori orchestre del mondo. E allora quando si dispone di tale compagine non basta, per essere Muti e per essere riconosciuto come un grande direttore verdiano per non dire il direttore verdiano, cavare un suono genericamente bello, morbido e rotondo. Perché dai Wiener non ci si accontenta di un coro dei sicari, che rievochi corte mantovana o di Boston, non si suonano danze delle streghe, che evocano un salotto parigino in attesa di Eugenia de Montijo Bonaparte o per contro si dia in clangori all’incipit del concertato atto primo o della festa dopo l’omicidio di Banquo. Colori sinistri, richiami d’averno, apparizioni di deità ctonie, colori nebbiosi e spettrali in orchestra (quale occasione migliore che l’introduzione al sonnambulismo) sembrano non appartenere alla scelta interpretativa di Riccardo Muti in questo Macbeth. Abbiamo sentito il solito Muti, che imperversò unico esecutore verdiano in Scala per un ventennio, che nei momenti drammatici e di tensione pesta e rumoreggia ( il famoso bim barabum ) ed in quelli di canto, di riflessione risulta inerte e abulico anzi loffio per usare un termine che iersera nella nostra chat è girato alquanto. A condimento di questo sta la filologia del Maestro, che mescola senza logica e senso le due versioni dell’opera e come un tempo si faceva con la sinfonia della Forza, posta fra primo e secondo atto, antepone al coro delle streghe le danze. Eseguire l’aria di Macbeth della versione 1847, sacrificando la spettacolare chiusa corale prevista nella versione 1865, non ha giustificazione. Potrebbe, ma non è la logica di Muti ,averne per aderire al desiderata di un interprete e vocalista esimio. Battistini, Galeffi, Schlusnus, Tagliabue e fors’anche un Bruson redivivi. Qui Muti disponeva di un cantante inadeguato sotto ogni punto di vista. Invece.
Il cast era indecente ed impresentabile non solo a Salisburgo, ma in qualsivoglia oscuro teatro di provincia. Posso anche concedere a Muti che taluni tempi e talune sonorità siano nate dall’esigenza di non affossare ed affondare vieppiù i cantanti ( anche se simili premure appartengono a direttori ben differenti dal nostro) come ad esempio il tempo garibaldino del sonnambulismo, la piattezza assoluta della arie di Banco e di Macduff, ma in generale la regia vocale latitava. E non la fanno risorgere un paio di frasi, che potrebbero rivelare quanto meno qualche ora spesa al piano con gli interpreti.

Poi anche le quaranta ripetizioni del duetto o del sonnambulismo, che Verdi inflisse a Felice Varesi e Marianna Barbieri – Nini ben poco potrebbero con i due protagonisti. Difficile dire chi fosse peggio. Alla prima frase della Lady erano già urla incontrollate in alto, suoni afoni in basso, leziosaggini vocali ed interpretative per camuffare una carenza di professionalità di base. Se vogliamo fare l’elenco non abbiamo sentito gli staccati del duetto con Macbeth, le agilità del brindisi erano penosa pasticciate, nell’aria aggiunta “La luce langue” ai suoni sordi ed opachi della prima sezione -piuttosto bassa di tessitura- sono seguite le urla laceranti di “o voluttà del soglio“. La scena del sonnambulismo, poi, non merita commento perché ad una esecuzione vocale sgangherata e mal messa se n’é sovrapposta una interpretativa ben peggior con suoni plebei, aperti in basso, stonature continue in zona medio alta (“il sir di Fiffe” una vera perla di malcanto) e un gusto che rende la Varnay sobria, controllata e castigata. Insomma una vergogna. Vergogna condivisa in coppia perché dal “mi si affaccia un pugnal" in poi il signor Lucic ha urlato, afoneggiato e parlato senza pietà e misericordia per il proprio organo vocale e per le orecchie del pubblico. Anche qui l’elenco dei topoi del peggio (le apparizioni al banchetto o l’accesso di Macbeth per ricevere il secondo oracolo, perché la tessitura è acuta e Macbeth dovrebbe declamare e invece grida) non servono per un triste, quando astratto gioco al peggior suono, ma per ricordare che il personaggio debole, allucinato in balia di moglie e streghe (per certi versi molto simili) richiede legato, canto a fior di labbro, rispetto dei segni di espressione. Nulla una poltiglia di lontano sapore verista, nel senso peggiore del termine.
Anni fa, precisamente novembre 1977, la Rai trasmise da Torino un Macbeth dove, un non più all’apogeo, Carlo Bergonzi cantò l’aria di Macduff con un legato, un’espansione, un senso della frase, una nobiltà di fraseggio che sono ricordo incancellabile, esempio e modello. Ve lo posto ed invito gli ascoltatori (gli sventurati ascoltarono!!! Direbbe Manzoni) a paragonare l’esecuzione dell’esausto Giuseppe Filianoti con quella del commendator Bergonzi che di anni ne contava 53 e da venticinque macinava Aida, Ballo, Forza, trovatore. Non serve altro. Anzi serve una sola cosa negare che Carlo Bergonzi, ma anche Gino Penno, Flaviano Labò, Bruno Prevedi e Veriano Luchetti siano mai esistiti , mai abbiano calcato le scene!
L’ablazione della memoria, il rinnegare il passato, cari signori che stamani giocate a Radio Osanna e voi pubblico, che seguite questi pifferai magici può salvare capre e cavoli oggi e domani, ma per il dopodomani non garantisce nulla. Il piatto è vuoto!!!
Gli ascolti
Verdi - Macbeth
Atto I
Regna il sonno su tutti...Fatal mia donna! un murmure - Leyla Gencer & Kostas Paskalis (1975)