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giovedì 4 agosto 2011

Sorella Radio: Macbeth da Salisburgo. Tremate tremate le streghe son tornate!!!

Doveva essere un trionfo e i cronacisti della Rai tale lo hanno definito nei loro, in ogni senso, pietosi commenti. A sentire bene l’unico della pessima compagnia di canto, che abbia riscosso applausi di un certo peso è stato il baritono. Passati, per contro, quasi sotto silenzio i luoghi topici della luciferina protagonista e le oasi di canto del basso e del tenore.

E poi abbiamo il problema principale ovvero il direttore d’orchestra. Riccardo Muti, di anni 70 applicato a Macbeth da oltre quaranta, disponeva di una delle migliori orchestre del mondo. E allora quando si dispone di tale compagine non basta, per essere Muti e per essere riconosciuto come un grande direttore verdiano per non dire il direttore verdiano, cavare un suono genericamente bello, morbido e rotondo. Perché dai Wiener non ci si accontenta di un coro dei sicari, che rievochi corte mantovana o di Boston, non si suonano danze delle streghe, che evocano un salotto parigino in attesa di Eugenia de Montijo Bonaparte o per contro si dia in clangori all’incipit del concertato atto primo o della festa dopo l’omicidio di Banquo. Colori sinistri, richiami d’averno, apparizioni di deità ctonie, colori nebbiosi e spettrali in orchestra (quale occasione migliore che l’introduzione al sonnambulismo) sembrano non appartenere alla scelta interpretativa di Riccardo Muti in questo Macbeth. Abbiamo sentito il solito Muti, che imperversò unico esecutore verdiano in Scala per un ventennio, che nei momenti drammatici e di tensione pesta e rumoreggia ( il famoso bim barabum ) ed in quelli di canto, di riflessione risulta inerte e abulico anzi loffio per usare un termine che iersera nella nostra chat è girato alquanto. A condimento di questo sta la filologia del Maestro, che mescola senza logica e senso le due versioni dell’opera e come un tempo si faceva con la sinfonia della Forza, posta fra primo e secondo atto, antepone al coro delle streghe le danze. Eseguire l’aria di Macbeth della versione 1847, sacrificando la spettacolare chiusa corale prevista nella versione 1865, non ha giustificazione. Potrebbe, ma non è la logica di Muti ,averne per aderire al desiderata di un interprete e vocalista esimio. Battistini, Galeffi, Schlusnus, Tagliabue e fors’anche un Bruson redivivi. Qui Muti disponeva di un cantante inadeguato sotto ogni punto di vista. Invece.
Il cast era indecente ed impresentabile non solo a Salisburgo, ma in qualsivoglia oscuro teatro di provincia. Posso anche concedere a Muti che taluni tempi e talune sonorità siano nate dall’esigenza di non affossare ed affondare vieppiù i cantanti ( anche se simili premure appartengono a direttori ben differenti dal nostro) come ad esempio il tempo garibaldino del sonnambulismo, la piattezza assoluta della arie di Banco e di Macduff, ma in generale la regia vocale latitava. E non la fanno risorgere un paio di frasi, che potrebbero rivelare quanto meno qualche ora spesa al piano con gli interpreti.
Poi anche le quaranta ripetizioni del duetto o del sonnambulismo, che Verdi inflisse a Felice Varesi e Marianna Barbieri – Nini ben poco potrebbero con i due protagonisti. Difficile dire chi fosse peggio. Alla prima frase della Lady erano già urla incontrollate in alto, suoni afoni in basso, leziosaggini vocali ed interpretative per camuffare una carenza di professionalità di base. Se vogliamo fare l’elenco non abbiamo sentito gli staccati del duetto con Macbeth, le agilità del brindisi erano penosa pasticciate, nell’aria aggiunta “La luce langue” ai suoni sordi ed opachi della prima sezione -piuttosto bassa di tessitura- sono seguite le urla laceranti di “o voluttà del soglio“. La scena del sonnambulismo, poi, non merita commento perché ad una esecuzione vocale sgangherata e mal messa se n’é sovrapposta una interpretativa ben peggior con suoni plebei, aperti in basso, stonature continue in zona medio alta (“il sir di Fiffe” una vera perla di malcanto) e un gusto che rende la Varnay sobria, controllata e castigata. Insomma una vergogna. Vergogna condivisa in coppia perché dal “mi si affaccia un pugnal" in poi il signor Lucic ha urlato, afoneggiato e parlato senza pietà e misericordia per il proprio organo vocale e per le orecchie del pubblico. Anche qui l’elenco dei topoi del peggio (le apparizioni al banchetto o l’accesso di Macbeth per ricevere il secondo oracolo, perché la tessitura è acuta e Macbeth dovrebbe declamare e invece grida) non servono per un triste, quando astratto gioco al peggior suono, ma per ricordare che il personaggio debole, allucinato in balia di moglie e streghe (per certi versi molto simili) richiede legato, canto a fior di labbro, rispetto dei segni di espressione. Nulla una poltiglia di lontano sapore verista, nel senso peggiore del termine.
Anni fa, precisamente novembre 1977, la Rai trasmise da Torino un Macbeth dove, un non più all’apogeo, Carlo Bergonzi cantò l’aria di Macduff con un legato, un’espansione, un senso della frase, una nobiltà di fraseggio che sono ricordo incancellabile, esempio e modello. Ve lo posto ed invito gli ascoltatori (gli sventurati ascoltarono!!! Direbbe Manzoni) a paragonare l’esecuzione dell’esausto Giuseppe Filianoti con quella del commendator Bergonzi che di anni ne contava 53 e da venticinque macinava Aida, Ballo, Forza, trovatore. Non serve altro. Anzi serve una sola cosa negare che Carlo Bergonzi, ma anche Gino Penno, Flaviano Labò, Bruno Prevedi e Veriano Luchetti siano mai esistiti , mai abbiano calcato le scene!
L’ablazione della memoria, il rinnegare il passato, cari signori che stamani giocate a Radio Osanna e voi pubblico, che seguite questi pifferai magici può salvare capre e cavoli oggi e domani, ma per il dopodomani non garantisce nulla. Il piatto è vuoto!!!



Gli ascolti

Verdi - Macbeth


Atto I

Regna il sonno su tutti...Fatal mia donna! un murmure - Leyla Gencer & Kostas Paskalis (1975)






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mercoledì 2 marzo 2011

Tosca International

Come di consueto, un poco di "rassegna stampa" in lingua straniera.


Am 22. Februar haben wir der zweiten Vorstellung der Mailänder „Tosca“ mit Jonas Kaufmann beigewohnt, die für den deutschen Startenor eigentlich die vierte sein sollte. Diese neue Produktion des Meisterwerks von Puccini hat sich seit dem Tag der Premiere am 15. Februar an der Scala als eine Fehlgeburt erwiesen. Nicht nur die konzeptuell inkongruente, oft lächerliche, und auch visuell völlig unattraktive Inszenierung von Luc Bondy oder die äußerst unpräzise, lahme und für die Sänger nicht besonders freundliche Leitung des jungen Barenboim-Schützlings Omer Meir Wellber hat die Produktion auf fatale Weise markiert, sondern auch die chaotischen Umstellungen in der Besetzung der Hauptdarsteller. Dass seit einiger Zeit vor jeder Mailänder Premiere ein Großteil der Hauptdarsteller erkrankt, nimmt der Geschichte der gleichzeitigen Erkrankung von Jonas Kaufmann (Cavaradossi des „first cast“), Oksana Dyka (die Tosca des „first cast“), Marco Berti (Cavaradossi des „second cast“) und, last but not least, des Interpreten der Nebenrolle des Sciarrone, jede Glaubwürdigkeit ab. So hat am 15. Februar statt der vorgesehenen Oksana Dyka die Amerikanerin Sondra Radvanovsky (sonst Protagonistin des „second cast“) auftreten müssen und hat damit die einzig wertvolle musikalische Leistung nicht nur der Premiere, sondern auch der nachfolgenden Aufführungen einkassiert.

Herr Wellber wurde nach jeder der bisher realisierten vier Vorstellungen vom Publikum für seine unzulängliche Leistung ausgebuht. Die sowohl stimmlich unakzeptable als auch interpretatorisch platte Tosca der Oksana Dyka sorgte am 20. und 22. Februar nicht nur am Ende, sondern schon gleich nach der berühmten zentralen Arie „Vissi d’arte“ des zweiten Aktes für einen Protestausbruch bei einem Teil des Publikums. Man fragt sich, wie die Leitung der Mailänder Scala eine Partie wie die der Tosca einer Sopranistin anvertrauen konnte, die noch vor einem Monat als Nedda im „Bajazzo“ von Leoncavallo heftige Buuhs geerntet hatte. Neben der totalen Abwesenheit jeglicher eleganten Phrasierung, sind die hohen Noten von Oksana Dyka meistens nichts als Geschrei, im von Natur aus etwas leeren Mittelregister neigt sie zu künstlichen Aufblähungen sowohl der Farbe als auch des Volumens der Stimme, und die wenigen Passagen der Tosca, die im unteren Register kreisen, wird von der ukrainischen Sopranistin auf eine komplett vulgäre Weise eingesetzt. Ihre dürftige Atemtechnik hindert sie außerdem daran, Legato zu singen, und bricht und verblasst gleich beim ersten Versuch eines Piano. Oksana Dyka gehört eindeutig zur überlangen Reihe von Sängern, die an die Mailänder Scala nicht wegen ihrer stimmlichen Begabung und Leistungen berufen werden, sondern weil sie verschiedenen mächtigen Opernagenturen angehören, die durch die starren Kriterien des sogenannten „star system“ jegliche qualitative Differenz zwischen anständigem Singen und reiner Marketing-Produktion verwischen.

Und nun zum Cavaradossi von Jonas Kaufmann. Es mag sein, dass er ein gewisses darstellerisches Talent besitzt und damit weltweit die unmittelbare Sympathie eines Teils des Publikums verdient. Dass er über eine bestimmte Gesangsmethode verfügt und nicht ohne jegliche Stimmtechnik singt, ist ebenfalls hörbar. Dass aber gerade diese Methode völlig falsch ist und dem italienischen Stimmideal (das im italienischen Opernrepertoire a priori vorausgesetzt ist) auf die krasseste Weise widerspricht, bezeugen die folgenden Hauptmerkmale der Gesangsmethode des deutschen Tenors. Die gesamte Stimme ist ganz in der Kehle positioniert und wird künstlich verdunkelt, um ihr eine dramatischere Farbe zu verleihen. Auch die berühmten kaufmann‘schen „mezze voci“ sind letztendlich nichts anderes, als ein Produkt einer noch tieferen Verlegung der Stimme in die Kehle, weswegen dabei die Stimme stets an Farbe und Gewicht einbüßt und zu einem körperlosen Falsetto degradiert. Wenn im Gesang Forte verlangt wird, neigt der Tenor dazu, der Stimme ein größeres Volumen mittels einer gewaltsamen Kontraktion in der Kehle abzuzwingen, anstatt sie durch das Einsetzen der notwendigen Atemtechnik zu einer klanglichen Expansion zu führen. Dies ist besonders bemerkbar, wenn Kaufmann im höheren Register singt. Die hohen Noten entbehren jeden strahlenden Charakters (dem sogenannten „squillo“), da ihr Volumen und ihre Farbe nicht durch eine Platzierung der Stimme in der „Maske“ und den Druck des Atemapparats erlangt wird. Diese generelle gutturale Herangehensweise an die Stimmführung wird bei Jonas Kaufmann zum Ersatz der eigentlichen Technik der italienischen Schule und manifestiert sich auf besonders schrille Weise in seiner Unfähigkeit, den „passaggio“ (den Übergangsregister) zu meistern und oberhalb des „passaggio“, statt der Produktion eines gedeckten, in der Maske abgerundeten Tons, nicht einem „offenen“, d.h. vulgär kehligen Tonproduktion zu verfallen.

Nach den beiden Arien – kein Zeichen von Beifall, den bei der Premiere sogar der Ersatz-Cavaradossi Aleksandrs Antonenko geerntet hatte. Am Ende der Vorstellung – ein mit Buuhs vermischter beträchtlicher Beifall. Man fragt sich, nachdem man ein Phänomen wie Jonas Kaufmann im Theater erlebt hat, was die Lebensdauer einer Karriere sein kann, die auf einer äußerst fragwürdigen Stimmtechnik aufgebaut ist und durch eine künstliche Verdunkelung der Stimme sich in einem immer schwereren Repertoire zu behaupten sucht. Das Problem ist letztendlich, wie bei den meisten der heutigen Star-Sänger, dasselbe: Wie weit kann diese Stimme als physiologische und stimmtechnische Einheit den Ansprüchen der in der Opernindustrie ständig mächtiger werdenden Marketing-Interessen gerecht werden, die doch alles andere als die naturgegebenen Qualitäten der jeweiligen Stimme als auch ihre technische Vorbereitung in Rücksicht nehmen? Im Falle von Jonas Kaufmann stellt man sich diese Frage nicht ohne großes Bedauern, da es sich um einen Sänger handelt, der a priori doch eine gewisse Musikalität und schätzenswerte interpretatorische Absichten besitzt.

Giuditta Pasta



Martes 22 de Febrero 2011: Tosca en el Teatro Alla Scala. Cantan Jonas Kaufmann y Oksana Dyka, en los papeles principales. No niego que fue una noche de gran intensidad y tension no solo por lo que pasò adentro del teatro entre algunos “loggionisti” despues de diversos abucheos al terminar el “Vissi d’arte”, si no tambien, y sobre todo, por lo que ocurriò afuera.
Empezamos hablando de los dos protagonistas de esta Tosca milanesa.
Oksana Dyka, como Tosca, no diò mejor pureba que la de Pagliacci pocas semanas antes en la misma sala lirica: ya se habia dicho que el canto no es el arte de la Cabala, hablando de su Nedda, que con esa calidad vocal no lograria hacer mas de dos o tres noches como Tosca. Puntual, a la tercera representacion, escuchamos una voz excesivamente dura, rugosa, sin “legato” y muy muy gritona en la escena de la tortura, sin elegancia en el “Vissi d’arte”, descompuesta en los diversos registros. Merece una nota el cuento de la muerte de Scarpia en donde dicha cantante tuvo que arrastrarse hasta el final sin tecnica vocal y medios expresivos.
El verdadero cuerno de la discordia fue Jonas Kaufmann.
Invito a escuchar como su voz sonaba en el tubo al principio de su carrera Kaufmann y cómo suena ahora. No es la maduración normal de una voz, que desde el principio tenia serias limitaciones técnicas, si no el cantar en la zona baja con sonidos con una técnica precisa parecida a la de Vickers y Domingo, sin el apoyo de la respiración, con emisión de “falsettini” en la zona central, gritando en la zon alta, con una monotonía absoluta de énfasis, ya que el método no permite dar ni modulacion ni colores en su voz, que resulta siempre en la garganta, y no en la posicion corecta. Estas fueron las caracteristicas que nos demonstrò Herr Kaufmann en “Recondita armonia”, en la escena con Angelotti, y bueno, en todo el III acto.
Muy mal el director, que pasò de ser, la primera noche, una revelacion en su ambito, a ser considerado un joven sin experiencia si capacidad de relacionarse con las orquestas e incapaz de dar el color adecuado en cada momento de la partitura.

Pasamos al lo que sucediò fuera del teatro: todo empezò con una agresion, gritos ofensivos y amenazas contra un joven que habia abucheado pocos minutos antes. Cuando estos 20/30 “loggionisti” lograron que el joven se fuera, concentraron su coraje, su rabia y su enojo contra los que seguian alli llenandolos de “buu” y mas amenazas. Treinta contra cuatro. Fue una clara y evidente demonstracion de la poca educacion del publico milanes, de su poca capacidad de respetar las reglas universales de la convivencia y del respeto.
Cuando nuestros atacantes lograran ponerse en posición vertical, como los primates, para unir con el meñique el pulgar? La palabra, de hecho, ya la han perdido.
Los que nos atacaron, ha demostrado que sólo quieren arrogarse el derecho de decir lo que es bueno y lo malo, han demostrado que sólo quieren imponer sus puntos de vista sobre lo que la opinión de la galería. Esto también puede ser agradable a los cantantes y sus agentes, que con esta ayuda, puede continuar para colocar sus productos, pero no aparece oficialmente compartida por el teatro.

Hipolito Lazaro




Puccini - Tosca

Atto II


Vissi d'arte - Lotte Lehmann (1929)

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mercoledì 16 febbraio 2011

Tosca alla Scala

Dialogo tra regista e cantante, tra modernismo e passatismo:



Eravamo in coda per la ripresa, ripulita, del brutto Idomeneo del regista Luc Bondy più di un anno fa quando da New York giugeva l’eco del megaflop al Met della nuova produzione di Tosca, firmata dal medesimo regista e coprodotta anche dal nostro teatro milanese.

Un‘ondata “passatista” si riversò sul teatro americano a favore della trentennale produzione zeffirelliana e per la dismissione del nuovo prodotto d’avanguardia. Pare che la direzione del Met avesse pure indetto una conferenza stampa per spiegare al pubblico la novità dell’incompreso spettacolo, ma senza ottenere effetto. Grande polverone mediatico, con tanto di dichiarazioni di fuoco di Franco Zeffirelli…..insomma, uno degli spettacoli più discutibili e perciò criticati di cui si sia mai sentito parlare.
E noi ci domandammo se era proprio il caso di continuare nell’impresa facendo arrivare fino a qui una Tosca, che si diceva all’insegna della volgarità, a tratti anche del ridicolo, contraria alla poetica dell’opera pucciniana. Decisi a non farci mancare nulla, nessuna delle chicche registiche à la page che gravano pesantemente sui bilanci dei teatri d’opera, abbiamo compiuto anche ieri sera il rito modernista, in uno spettacolo pure questo “limato “ e “accomodato”, depurato dal sommo gesto registico della fellatio ad inizio del secondo atto e da altre “novità” affini, ma comunque sempre brutto, volgare, nel migliore dei casi insignificante. Anzi, anche insensato, come il cambio d’abito che Tosca compie dopo avere ammazzato Scarpia, presentandosi all’esecuzione di Castel Sant’Angelo diversamente vestita dal secondo atto. Ieri sera la gente ha riso nel momento della morte di Scarpia, come pure al terzo atto, quando il soprano viene costretta a mimare la morte di Cavaradossi sulle parole “ E cadi bene- Come la Tosca in teatro-così—così” perché a volte il riso è consolatorio. Una parola speciale, però, và anche spesa per lo “scenografo-muratore” (perdonatemi la battuta ma…) Richard Peduzzi, che da trent’anni “mura” ripetitivamente ogni produzione con i suoi fondali in mattoni: è dal Lucio Silla del 1984 che vediamo queste quinte, sempre la medesima variazione sul tema, fattesi un po’ troppo frequenti in questi anni di Tristano ed Isotta, Carmen, ed ora Tosca. Questa l’ha pure murata male, tra l’altro, dato che il soggetto dell’opera non si presta affatto ad essere trasferita in un non-luogo dal sapore industriale. Ieri, il primo atto, più che la chiesa di Sant’Andrea della Valle pareva un brutto scorcio, troppo buio, della metafisica Chandigart di L. Kahn e il secondo atto l’ufficio di un questurino di un paese dell’agro romano degli anni ’30, arredato modestamente con gusto vintage.
Roma è dappertutto nella Tosca, è nella musica, Puccini la crea e la pretende anche in scena, dato che questa è la poetica dell’opera, che non può e non deve essere annientata, perché sennò si annienta l’autore, che fino, a prova del contrario, è il protagonista, colui che detta la cifra del testo. E Tosca, da questo punto di vista, è opera determinatissima, che lascia assai poco spazio alla novità, che non sia registica. Zeffirelli, Ronconi, De Ana, Bolognini, loro si che han messo in scena “la Tosca”. Ieri sera abbiamo sopportato una bruttura gratuita ed incongrua.
Ha sopportato il pubblico, ma hanno sopportato anche i cantanti, che oggi più che mai hanno bisogno di essere aiutati, coadiuvati, corroborati in ciò che fanno, perché non sono in grado di andare lontano con le proprie gambe.

Alla produzione sciagurata si è unita la prova mediocre del maestro Wellber, che udivamo per la prima volta. Al signor Wellber è mancato semplicemente una minimale conoscenza ed aderenza al titolo, non alla sola tradizione, fondamentale per opere come questa, il suo colore romano, l’atmosfera grandiosa e perversa del Te Deum, come quella dell’agro romano ad inizio del terzo atto (ma che fracasso quelle campane fuori scena!). E’ mancata anche certa tensione drammatica al secondo ( alludo alla scena della tortura, ove l’orchestra non era in grado di suonare il ritmo incalzante dei “ Più forte - più forte…” di Scarpia e Tosca ), ma anche al duetto del terzo, dove assieme a lui sono mancati pure i cantanti, visibilmente stanchi. Insomma, una direzione che non ha mai preso il pubblico né creato la dovuta atmosfera, che sarebbe stata tanto necessaria al cast. Già, perché nel teatro accade anche che quando il cast canta poco, il direttore si faccia “ cantante”, e la Tosca a questo si presta moltissimo. Ma ieri sera non è stato proprio così.

Quanto ai protagonisti, non si commentano le rocambolesche avventure del “virus” scaligero, perché, lo abbiamo già osservato altre volte, i virus nell’opera paiono gli esseri viventi, che brillano per tempismo e coordinamento con gli eventi e le difficoltà organizzative degli enti lirici. Fatto sta che il teatro si è aggrappato alla signora Radvanovsky, causa defezioni varie, ed ha rimediato un tenore, quello sì, imprevisto, il signor Antonenko, spiazzando tutte le chiacchiere sul tototenore, che preconizzava rimpiazzi con alcuni . Ed il pubblico ha apprezzato la loro disponibilità nel soccorrere la serata, il loro non tirarsi indietro di fronte ad una produzione, che li esponeva a dei rischi.

Parliamo di canto, quello vero.
Il cast vocale, in realtà, non è piaciuto al pubblico, che ha avuto parole positive per la sola qualità vera apprezzabile in campo: una serie di intenzioni musicali, di fraseggio, fatte udire dalla signora Radvanovsky, che, ad onta di una voce sgradevole al centro soprattutto per limiti tecnici, ha però avuto saputo porsi da cantante di rango, che deve “dire”, cioè esprimere.
Ha costruito un personaggio plausibile anche sul piano scenico, mai volgare ( qualche notaccia di petto al secondo atto, al momento dell’assassinio di Scarpia, ma come di prammatica….), con bel fraseggio nell’aria, che le è valso il solo applauso della serata. Abbiamo apprezzato la sua preparazione musicale, meno quella tecnica. La voce è importante per volume, estesa in alto, non certo bella di natura. Sopratutto e versiamo nei limiti tecnici al centro è fortemente tubata, vibrata e “di fibra”, “chevrotante” come dice il gergo francese. Al centro i suoni sono spesso presi “da sotto” e corretti nell’intonazione, con difficoltà di legato, causa un uso del fiato non di scuola. In un‘opera come Tosca, di scrittura centrale nei cantabili e che guizza all’acuto prevalentemente nei momenti drammatici, il difetto ha grande rilevanza, soprattutto in una voce di grande volume, ed il pubblico ha faticato ad accettare questa voce, giunta anche molto affaticata al terzo atto. Ed in fondo è Tosca, non Aida o Ballo.

Quanto ai due protagonisti maschili nulla di speciale. Il tenore, signor Antonenko, ha una voce spessa e non a fuoco. Ha cantato con solidità ma anche con cali di intonazione sensibili, fraseggiando pochissimo e portando a termine la sua serata con una “solidità” poco elegante ed inespressiva, ma che lo ha messo al riparo dalle reazioni suscitate dai protagonisti del dittico verista. Il secondo, signor Lucic, è stato uno Scarpia greve, anche volgare a tratti, dalla voce insufficiente in volume e dagli acuti sistematicamente indietro, tanto da essere in difficoltà nel Te Deum, ove ha faticato a farsi udire. Complice la regia, il suo Scarpia di baronale aveva assai poco, e più che elegantemente laido e perverso, è parso assai triviale e truculento. Le "limature" di regia quasi che il pubblico milanese sia moralista e facile allo scandalo hanno aggravato la situazione. Anche per lui l’efficacia di chi esegue il proprio compito al riparo dai disastri, ma anche lontano dal cantare con arte.

Leggiamo or ora le dichiarazioni di stampa e direzione del teatro, che meritano qualche chiosa anche da parte nostra.
Che la produzione sarebbe stata fischiata lo si sapeva da mesi, ha ragione il signor Lissner. Ma questo non per un progetto di deliberato danno al teatro, ma semplicemente perché si trattava notoriamente di uno spettacolo brutto, sbagliato in partenza, e contestatissimo ab origo, per giunta trasmesso nelle recite di Monaco anche dalla televisione. Sono state tolte le escursioni nel pornografico gratuito ma l’essenza è rimasta invariata. Al pubblico non spetta entrare nel merito della gestione delle cose, dei costi, dell’acquisto fatto molti mesi addietro, ma solo l’espressione del proprio apprezzamento. E così è stato:abbiamo dovuto vederla per forza? L’opinione è stata quella espressa ieri sera, controversa.
In fatto di cantanti, non la penso però come la maggior parte del pubblico di ieri sera.
La Scala ha peccato di leggerezza al momento della dipartita della signora Serafin dalla produzione, per motivi personali, avventurandosi in una promozione al primo cast di una cantante che forse andava meglio soppesata nelle sue qualità. I milanesi ben sapevano del Trovatore comasco in cui era incappata la signora Dyka non molto tempo fa e gli audio disponibili in internet proprio di Tosca suggerivano una maggiore prudenza. Il teatro, però, è corso ai ripari, anche con fortuna, recuperando una protagonista, originariamente chiamata per supplire solo alcune recite, che è comunque la massima Tosca oggi presente sul mercato. O meglio, sul mercato dei “divi”, perché, ad onta di alcuni miei vecchi compagni di loggione, la signora Radvanovsky ha fior di carriera e curriculum professionale e non è, come alcuni han creduto, “un secondo cast” recuperato alla bell’è meglio. Il virus tempista ha fatto il resto, e il teatro ci ha comunque esibito la Tosca più blasonata di oggi, ed in questo ha fatto, almeno sulla carta, il suo dovere.
Mentre forse non l’ha fatto nella scelta della bacchetta e nel perseverare con una produzione che non può piacere a nessuno.
Il teatro ha anche subito il forfait di Jonas Kaufmann, peraltro previsto in cartellone a Monaco di Baviera sino al giorno 13 febbraio in Carmen, recita cancellata all’ultimo, in coincidenza della prova generale di Tosca a Milano. Ammalatosi il secondo tenore designato, signor Berti, si ammala anche Kaufmann, e la Scala resta senza tenori. Ed il pubblico rispetta la prova del signor Antonenko giunto all’ultimo, perché così funziona il teatro da che mondo è mondo. Certo, se poi la recita del 17 viene cancellata per assenza di tenori, come ha annunciato oggi su un quotidiano il signor Soprintendente, nessuno ne ha colpa, men che meno il pubblico, che ha applaudito l’uscita del cast vocale.
Certo, continuare ad organizzare scritture di cantanti che per calendario arrivano all’ultimissimo minuto, andando in scena senza prove, è esporsi a questi rischi, perché i cantanti di oggi non sono quelli di ieri. Non è più il tempo dei Domingo, delle Caballè, dei big “last minute”, in grado di cantare sempre e comunque. I cantanti di oggi non hanno più la stessa preparazione tecnica, quella che consentiva ad alcuni di loro, i big appunto di cantare ogni sera, e talora cancellano semplicemente perché….non ce la fanno. Nessuno è esente da questi problemi, salvo le vecchie signore nominate Gruberova, Devia, o signori nominati Nucci etcc, che possono andare in scena sempre.

Cosa è opportuno dire a questo punto?
Che assieme alle scelte imprudenti o errate, la Scala paga anche lo scotto dell’adeguamento inevitabile (davvero?) ad un sistema, il cosiddetto “star system”, che è arrivato al capolinea. I cantanti sono cambiati perché è cambiato il modo di cantare: il loro bagaglio tecnico si è impoverito oltre il limite consentito per reggere ritmi e repertori che sino agli anni ’80 erano ritenuti normali. Eppure a questo dato lampante, che tutti constatano ogni sera, il sistema non sa trovare il giusto rimedio. La Scala è in crisi? Assediata dai bu e dai fischi? La qualità che il teatro sta esprimendo vi pare davvero inferiore a quella espressa da un teatro come il Met ? Il problema è che un teatro esprima la propria opinione, sempre fondata tra l’altro, o che, a furia di storture, di un sistema di falsi valori extravocali, ci si sia ridotti a non poter allestire perfino la Tosca, che da che mondo è mondo si allestiva nei massimi teatri di tutto il mondo come in quelli di provincia? Parliamo di fischi o di qualità artistica intrinseca agli spettacoli?
Il problema và ben oltre la dualità passatisti –modernisti, ma sta nel modo in cui si operano le scelte artistiche ma sta anche nel rimettere a fuoco quali debbano essere le qualità tecniche di chi và in scena ed alza la bacchetta, e dove andare a recuperare quegli strumenti di lavoro perduti.
Ieri sera il pubblico è stato molto giusto, almeno a mio avviso, perché ha detto di no là dove si poteva far meglio, ed ha lasciato andare dove il teatro non poteva, lì per lì, metter rimedio.
Avremo comunque occasione di riparlare di questi temi al più presto.
E partiremo dalla considerazione di un'altra "sopravvissuta"della vecchia generazione Miss June Anderson, che ci ha ricordato come un tempo si fosse divi dello stars system per scelta e decreto del pubblico, mentre oggi i divi dello stars system sono quelli che per tali vengono propagandati ed imposti.
E questa la regola che MAI il pubblico italiano, scaligero in particolare, potrà accettare e condividere. Alla prossima!

Puccini - Tosca

Atto III


Io de' sospiri...Mario Cavaradossi?...E lucevan le stelle...Franchigia a Floria Tosca...O dolci mani...Trionfal di nova speme - Antonietta Stella & Richard Tucker - dir. Dimitri Mitropoulos - Met 1958

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domenica 22 giugno 2008

Rigoletto in televisione da Dresda

Il Rigoletto, trasmesso ier sera dal canale Arté dal Teatro di Dresda ed atteso dalla folla degli ammiratori di Flórez, quale ulteriore epifania dell’arte sempre in ascesa del divino Diego, è assolutamente imperdibile. Non per Flórez, ma per comprendere quale sinistro vento spiri da un grande teatro straniero che proponga una nuova edizione di un titolo italiano, con la presunzione che nuova produzione sia produzione grande e storica. E non solo per la compagnia di canto.

L’aspetto deleterio e più censurabile è proprio la arte visiva affidata ai signori Lehnhoff, Bauer e Walter. La corte è nera, la casetta di Rigoletto evoca luoghi di cura per malati mentali, la tavernaccia di Sparafucile un equivoco piano bar, tutti indossano capotti da Brecht, Gilda al terzo atto richiama Notorius fra nebbie da Fronte del porto, il Duca, al primo atto, imita maldestramente John Travolta, Rigoletto, nel corso del breve preludio, si trucca come Canio ( e allora tanto valeva interpolare, anche alla luce del gusto del title role “Vesti la giubba”) E per proseguire nell’autentica antologia di brutture mettiamoci le maschere zoomorfe alla festa, occhi cerchiati da eroinomani per spiegare che la corte è laida e, naturalmente Ceprano con maschera munita di protuberanze cheratinose, Giovanna con aria da Kapo, Gilda, dapprima bamboleggiante ed ingenua (con sospetto di ritardo mentale) e, dopo la conoscenza con il Duca, trasformata in ninfomane, tanto ninfomane da sognare l’ultimo amplesso con il Duca, nel corso del quartetto, sino a diventare una sorta di apparizione nel finale.
Il tutto a provare che fra romanticismo italiano e attuale cultura tedesca i rapporti sono improntati alla assoluta incomunicabilità. E siccome Brecht e l’espressionismo sono di un secolo successivi al nostro romanticismo, è semplice attribuire lo svarione.
Quanto all’esecuzione musicale certo l’attacco del preludio ci fa sentire la qualità del suono della Staatskapelle di Dresda, poi i semplici accompagnamenti al canto ispirano suoni e sonorità da organetto. Per giunta con alcuni tempi lentissimi alle riprese o tagli riaperti come “padre non più parole”, che, impietosi, esibiscono le difficoltà della compagnia di canto prescelta.
Quanto al protagonista, il signor Zeljco Lucic, siamo al solito erede della tradizione becera dei Gobbi e Bastianini, senza i loro mezzi in natura privilegiati, e i loro strascicamenti, portamenti, mezze voci abortite, acuti strozzati. E’ tempo perso armarsi di spartito e segnare i luoghi dove i difetti enunciati per sommi capi, compaiono. Possiamo solo sperare che i responsabili della programmazione dei nostri teatri, sempre molto sensibili ai venti germanici, non ci offrano in Verdi siffatto paradigma di malcanto e cattivo gusto.
Tale il padre, tale la figlia, Diana Damrau, che si vorrebbe accreditare quale erede della Gruberova e che, in primo luogo, scentra completamente la definizione del personaggio che non è un’oca e neppure una ninfomane. Si potrebbe anche passare sopra alla definizione sfalsata del personaggio se cantasse professionalmente. Purtroppo il sostegno e la proiezione del suono sono precari, staccati e picchettati imprecisi (esecuzione parziale nel senso che Verdi ne scrive quattro e ne sentiamo due o tre), la dinamica limitata (nei piani e pianissimi il suono va indietro) e l’unico sovracuto interpolato, ovvero il mi bemolle al duo della Vendetta, è uno strillo. E si che parliamo di una cantante che nel canto strumentale in zona acuta e sovracuta si dice abbia la propria parte migliore.
Quanto al sovracuto stridulo e teso il Duca è pari all’amata, con un suono bianchiccio, piccolo e stimbrato, che Flórez interpola alla fine della cabaletta Possente amor mi chiama. Il che non è affatto un problema. Il problema è ben altro, ossia l’inadeguatezza naturale dei tenori di mezzo carattere come gli Alva, i Benelli, i Giménez al canto verdiano. Non si tratta di note, che a Flórez non mancherebbero, ma della mancanza di cavata e ampiezza, accompagnati da un vibrato insistente e pronunciato, che impediscono la dinamica essenziale al canto d’amore del Duca, alla soddisfazione di un rapporto soddisfacente fra palcoscenico ed orchestra. Flórez risulta piatto, affaticato ed in debito di ossigeno nelle frasi lunghe richieste all’amoroso verdiano, sia sinceramente innamorato come Riccardo ed Ernani o perverso come il Duca. Amoroso verdiano che, scusate la ripetizione, non è il protagonista di un lavoro di mezzo carattere di Cimarosa e Paisiello o di un opéra comique di Adam o Boieldieu. Anche la sua “maniera” scenica è poco pertinente.
I due fratelli che lavorano al piano bar, salvo poi agire come tutti gli Sparafucile e Maddalena (Georg Zeppenfeld e Christa Mayer), che abitano la stamberga lungo il Mincio, sono un falso basso ed un falso mezzo soprano, oltre che i falsi ospiti, indispensabili al compimento della maledizione di Monterone.

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