Visualizzazione post con etichetta Filianoti. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Filianoti. Mostra tutti i post

giovedì 4 agosto 2011

Sorella Radio: Macbeth da Salisburgo. Tremate tremate le streghe son tornate!!!

Doveva essere un trionfo e i cronacisti della Rai tale lo hanno definito nei loro, in ogni senso, pietosi commenti. A sentire bene l’unico della pessima compagnia di canto, che abbia riscosso applausi di un certo peso è stato il baritono. Passati, per contro, quasi sotto silenzio i luoghi topici della luciferina protagonista e le oasi di canto del basso e del tenore.

E poi abbiamo il problema principale ovvero il direttore d’orchestra. Riccardo Muti, di anni 70 applicato a Macbeth da oltre quaranta, disponeva di una delle migliori orchestre del mondo. E allora quando si dispone di tale compagine non basta, per essere Muti e per essere riconosciuto come un grande direttore verdiano per non dire il direttore verdiano, cavare un suono genericamente bello, morbido e rotondo. Perché dai Wiener non ci si accontenta di un coro dei sicari, che rievochi corte mantovana o di Boston, non si suonano danze delle streghe, che evocano un salotto parigino in attesa di Eugenia de Montijo Bonaparte o per contro si dia in clangori all’incipit del concertato atto primo o della festa dopo l’omicidio di Banquo. Colori sinistri, richiami d’averno, apparizioni di deità ctonie, colori nebbiosi e spettrali in orchestra (quale occasione migliore che l’introduzione al sonnambulismo) sembrano non appartenere alla scelta interpretativa di Riccardo Muti in questo Macbeth. Abbiamo sentito il solito Muti, che imperversò unico esecutore verdiano in Scala per un ventennio, che nei momenti drammatici e di tensione pesta e rumoreggia ( il famoso bim barabum ) ed in quelli di canto, di riflessione risulta inerte e abulico anzi loffio per usare un termine che iersera nella nostra chat è girato alquanto. A condimento di questo sta la filologia del Maestro, che mescola senza logica e senso le due versioni dell’opera e come un tempo si faceva con la sinfonia della Forza, posta fra primo e secondo atto, antepone al coro delle streghe le danze. Eseguire l’aria di Macbeth della versione 1847, sacrificando la spettacolare chiusa corale prevista nella versione 1865, non ha giustificazione. Potrebbe, ma non è la logica di Muti ,averne per aderire al desiderata di un interprete e vocalista esimio. Battistini, Galeffi, Schlusnus, Tagliabue e fors’anche un Bruson redivivi. Qui Muti disponeva di un cantante inadeguato sotto ogni punto di vista. Invece.
Il cast era indecente ed impresentabile non solo a Salisburgo, ma in qualsivoglia oscuro teatro di provincia. Posso anche concedere a Muti che taluni tempi e talune sonorità siano nate dall’esigenza di non affossare ed affondare vieppiù i cantanti ( anche se simili premure appartengono a direttori ben differenti dal nostro) come ad esempio il tempo garibaldino del sonnambulismo, la piattezza assoluta della arie di Banco e di Macduff, ma in generale la regia vocale latitava. E non la fanno risorgere un paio di frasi, che potrebbero rivelare quanto meno qualche ora spesa al piano con gli interpreti.
Poi anche le quaranta ripetizioni del duetto o del sonnambulismo, che Verdi inflisse a Felice Varesi e Marianna Barbieri – Nini ben poco potrebbero con i due protagonisti. Difficile dire chi fosse peggio. Alla prima frase della Lady erano già urla incontrollate in alto, suoni afoni in basso, leziosaggini vocali ed interpretative per camuffare una carenza di professionalità di base. Se vogliamo fare l’elenco non abbiamo sentito gli staccati del duetto con Macbeth, le agilità del brindisi erano penosa pasticciate, nell’aria aggiunta “La luce langue” ai suoni sordi ed opachi della prima sezione -piuttosto bassa di tessitura- sono seguite le urla laceranti di “o voluttà del soglio“. La scena del sonnambulismo, poi, non merita commento perché ad una esecuzione vocale sgangherata e mal messa se n’é sovrapposta una interpretativa ben peggior con suoni plebei, aperti in basso, stonature continue in zona medio alta (“il sir di Fiffe” una vera perla di malcanto) e un gusto che rende la Varnay sobria, controllata e castigata. Insomma una vergogna. Vergogna condivisa in coppia perché dal “mi si affaccia un pugnal" in poi il signor Lucic ha urlato, afoneggiato e parlato senza pietà e misericordia per il proprio organo vocale e per le orecchie del pubblico. Anche qui l’elenco dei topoi del peggio (le apparizioni al banchetto o l’accesso di Macbeth per ricevere il secondo oracolo, perché la tessitura è acuta e Macbeth dovrebbe declamare e invece grida) non servono per un triste, quando astratto gioco al peggior suono, ma per ricordare che il personaggio debole, allucinato in balia di moglie e streghe (per certi versi molto simili) richiede legato, canto a fior di labbro, rispetto dei segni di espressione. Nulla una poltiglia di lontano sapore verista, nel senso peggiore del termine.
Anni fa, precisamente novembre 1977, la Rai trasmise da Torino un Macbeth dove, un non più all’apogeo, Carlo Bergonzi cantò l’aria di Macduff con un legato, un’espansione, un senso della frase, una nobiltà di fraseggio che sono ricordo incancellabile, esempio e modello. Ve lo posto ed invito gli ascoltatori (gli sventurati ascoltarono!!! Direbbe Manzoni) a paragonare l’esecuzione dell’esausto Giuseppe Filianoti con quella del commendator Bergonzi che di anni ne contava 53 e da venticinque macinava Aida, Ballo, Forza, trovatore. Non serve altro. Anzi serve una sola cosa negare che Carlo Bergonzi, ma anche Gino Penno, Flaviano Labò, Bruno Prevedi e Veriano Luchetti siano mai esistiti , mai abbiano calcato le scene!
L’ablazione della memoria, il rinnegare il passato, cari signori che stamani giocate a Radio Osanna e voi pubblico, che seguite questi pifferai magici può salvare capre e cavoli oggi e domani, ma per il dopodomani non garantisce nulla. Il piatto è vuoto!!!



Gli ascolti

Verdi - Macbeth


Atto I

Regna il sonno su tutti...Fatal mia donna! un murmure - Leyla Gencer & Kostas Paskalis (1975)






Read More...

giovedì 17 giugno 2010

Le cronache di Barbara e Carlotta Marchisio - «Tu ne chanteras plus?»: “Les contes d’Hoffmann” a Parigi

Il cartellone è acqua passata. Con amarezza, ne prendiamo atto. Prevedere l’esito di una serata operistica magari partendo dal cast scritturato è roba d’altri tempi, parte di quella frequentazione attiva dei teatri che risiede oramai nella memoria di nostalgici loggionisti e sinceri appassionati. Ora, per farsene un’idea, bastano gli aneddoti sui discorsi e le frasi rubati nei foyer, in coda ai costosissimi bar, oppure, se si è fortunati, origliando il commento del vicino di posto, durevole vezzo di anziane e giovani signore. Questa volta, al fianco mio e di Barbara, un giovane spettatore chiede alla compagna «Qui va jouer, ce soir?». Lapidario quando innocente interrogativo che la dice lunga sulla predominanza, nel gusto collettivo e general-generalizzato, del coté scenico e interpretativo su quello esecutivo e tecnico, tendenza per altro accentuata quando vengono allestite opere come Les contes d’Hoffmann, che hanno nella stessa partitura una consustanziale dose di “teatro”. Peccato che nell’opera lirica, per quanto possa sembrare accessorio, si debba anche cantare. Ed è qui che l’asino casca. Giù giù, questa volta, laddove poche volte gli è stato dato arrivare…

Gli interpreti… trasversali.
Giuseppe Filianoti ha vestito i panni dello sventurato narratore e poeta romantico E.T.A. Hoffmann, ruolo che riprenderà in autunno anche al Met. La resa drammaturgica del personaggio funziona, complice forse la regia di Carsen, che riesce a non farsi prendere la mano scalfendo da una parte la facile lettura gigionesca e costruendo dall’altra una più interessante variazione amabilmente grottesca, benché ancor più tragicomica rispetto alla vulgata, dello sfaccettato protagonista. Ma se sul versante interpretativo il tenore calabrese riesce appunto a essere credibilissimo nel dosare slancio patetico e leggerezza cameratesca (lo stesso timbro, caldo, penetrante, giovanile, sarebbe paradigma dell’eroe romantico, se non…), il canto, o quel che dovrebbe ancora definirsi tale, è una sequela di berci e suoni buttati lì, quasi fossimo finite a Zola Pedrosa, in piazza mercato, per il teatro dei pupi in espatrio padano.
Già dalla “Chanson de Kleinzach” percepiamo una sorta di declamato spinto che tradisce una preoccupante mancanza di legato in ogni zona del pentagramma. Gira bene, sebbene un po’ fibroso, negli acuti che toccano il la4 sulla corona in corrispondenza di «voilà!» - qualcosa che ci è parso strizzare l’occhio a certo “spirito” avvenente di impronta dominghiana – ma se aggiungiamo un portamento ascendente tiratissimo e l’assenza di sostegno, l’impressione rimane quella di una tecnica talmente brada da lasciare di sasso. Poco cambia nell’intermezzo amoroso, dalla tessitura più spianata. L’accento arroventato, nel tentativo di dare senso ai versi, come detto poco sopra, ben si addice ai moti del cuore del poeta appassionato, ma i problemi a legare i suoni e le rispettive difficoltà di modulazione si accentuano, mentre si fa chimera la speranza di sentire un suono immascherato come dio comanda. Tutti rilievi che, considerato il livello della performance, diventano purtroppo facilmente applicabili in toto al prosieguo della serata. Il peggiore in campo.

Le quattro declinazioni del male, che si incarnano rispettivamente in Lindorf, nelle due parti extratestuali della vicenda, in Coppélius, nel Dottor Miracle e in Dapertutto nei racconti successivi, sono state affidate a Franck Ferrari che, al di là delle evidentissime mende tecniche, si è distinto per la totale inerzia di sfumature interpretative, monocorde nella varietà dei ruoli tanto da far pensare più a un’unica, metafisica presenza demoniaca che a personaggi ben delineati e dalle molteplici potenzialità teatrali. E sarebbe un errore considerare tale mancanza come la conseguenza diretta di un carente senso scenico, perché come sappiamo alla base della povertà di fraseggio sta sempre un deficit tecnico, principale responsabile di tanta noia che serpeggia in buona parte delle serate operistiche cui si presenzia. Valga d’esempio l’aria del prologo, “Dans le rôle d’amoureux”, che dovrebbe introdurre il carattere malefico del consigliere Lindorf, segretamente innamorato della cantante Stella. Ferrari si esprime con foga ma senza peso vocale, le poche salite all’acuto sono tutte “indietro” (soffocatissimo il mi3 su «peur!»), mentre già in zona centro-acuta l’emissione si slabbra e ne vengono fuori suonacci tutti stimbrati. Nulla di nuovo nella ripresa: ancora tanta gola e un vibratino poco elegante e fuori tono rispetto all’austerità del momento. Infine, è pura prosa il “Voilà messieurs, voilà!” che inframmezza il coro degli studenti, ben propensi a baldorie inebrianti dai risvolti bacchici.
Salvo gli acuti, sempre impiccati, vien fuori meglio come Coppélius nel primo atto (“Je me nomme Coppélius”), laddove la scrittura vocale più incalzante gli permette di nascondere con garbo le magagne riguardo l’appoggio della voce e l’assoluta mancanza di legato. Il volume poi è sempre quello (limitato), ma sfideremmo chiunque a produrre suoni risonanti, in special modo in alto, quando il canto s’azzoppa in gola e muore in bocca.
Nel secondo atto Ferrari è un Dr. Miracle ancora ripetitivo, ancora senza ombra di colori, ancora lupesco in acuto. Il centro è a fuoco e rappresenta l’unica zona della tessitura baritonale con un buon tonnellaggio vocale. Però ogni frase viene lasciata orfana di idee, di qualsivoglia personale arabesco, come nell’assolo “Tu ne chanteras plus?”, indimenticabile, seppur breve, momento di autentico tedio.
Stessa solfa il suo Dapertutto nel terzo atto. Da segnalare il ruggito da annali al termine di “Scintille, diamant” sul sol3 in variante di mi3 in corrispondenza di «attire-LA!», con prevedibile forcella spianata.

La Musa e (quindi) il fido amico Nicklausse convergono nel canto della giovane Ekaterina Gubanova, che funziona molto bene nei momenti d’accompagnamento, per esempio in apertura di primo atto, quando suggerisce a Hoffmann di approfondire la conoscenza dell’inorganica pretendente. Ma già nel breve pezzo solista successivo “Voyez-là sous son éventail” inizia a tradire un’evidentissima leggerezza in volume (poco eleganti anche un paio d’attacchi duri e vetrosi).
Nel secondo atto, l’inno all’amore scivola via senza particolari vette, sia positive che negative. C’è il giusto abbandono, si percepisce l’intenzione di porgere con senno la parola e, ancora, di variare il fraseggio in consonanza al contesto. I gravi, in linea con un volume certamente non torrenziale, ci sono e non vengono mai soffocati o abbandonati al caso, attributi innegabili di un mezzosoprano a tutti gli effetti (per una volta, nessun soprano corto). E per tutto ciò siamo grate alla Gubanova. Rimane tuttavia la delusione per qualche acuto un po’ spinto, oltre che non privo di acidità («donne ton COEUR»), e per la perdita di corpo in corrispondenza del passaggio superiore («c’EST l’amour»).
In veste di Musa, nel prologo (“La vérité, dit-on”), ci sembra priva delle grandi arcate di fiato necessarie non solo nell’aria vera e propria ma anche nei recitativi d’entrata e di chiusura, in cui lancia pure un paio di acuti che non hanno altra parvenza se non quella di qualificati urli.

A Parigi...
Come Filianoti con Hoffmann, la stessa Laura Aikin vanta una considerevole frequentazione con il brevissimo ruolo della nota bambola meccanica. La forza scenica legata alla parte è notevole, tant’è che la coreografia di “Les oiseaux dans la charmille” (Olympia si muove con gesti meccanici maliziosi, impugnando un microfono), azzeccatissima nell’economia di senso dello spettacolo, ci ha strappato qualche risata. Un po’ meno l’esecuzione. La voce già non è splendida per natura, poi se a un trillo aggiungete una S come prefisso e se un la4 diventa un suono tutto tirato, quando non gridato, la frittata è fatta. I vocalizzi vengono eseguiti senza pulizia, alla bell’e meglio, sia per carenza di fiato sia per la presenza di troppa aria in bocca. E per non farci mancare nulla, guarniscono il tutto delle notevoli calate di intonazione davvero poco cordiali. Insomma, Lulu è una storia, Olympia un’altra. E tacciamo sul suo prossimo debutto a Montpellier come rossiniana regina di Babilonia…
Si staglia su tutti lo Spalanzani di Rodolphe Briand. Non solo perfetto nel delineare l’isteria del genio scientifico, ma anche bravo sia nel dosare il volume a fini espressivi che nella tenuta dell’emissione, addirittura sul fiato!

A Monaco…
Inva Mula, la vera delusione della serata, è la giovane tubercolotica Antonia. Al soprano albanese non mancano certo peso della parola e pregnanza d’interprete. Dimostra subito di avere l’inflessione giusta già nell’assolo di apertura (“Elle a fui, la tourterelle”), riuscendo a trasmettere quella mestizia d’amorosi sensi che il momento prevede. Peccato però che col canto non riesca a creare una seppur minima sinergia. Certo, se la prima frase viene eseguita senza un solido sostegno del fiato (fa4-do3-r4 stimbratissimi), la zona centro-grave in corrispondenza di «Hélas! A mes genoux» è corposa, e pure liquida è la salita al sol3 nell’immediata ripetizione di verso. Dopo il veloce scambio con Hoffmann, apoteosi del canto sgraziato (in alto) e tendente al parlato (in basso), ecco il duetto vero e proprio (“Tiens, ce doux chant d’amour”), il momento più triste della serata. Non c’è nulla nella perfomance dei due cantanti che rimandi, seppur da lontano, alla sospensione simbolista dei versi, niente che faccia pensare a una sorta di momento astratto che funga da rifugio ai due amanti: Filianoti al solito, ossia raschiamenti di gola, per altro di una violenza inaudita (arriverà sfiatato e logoro al termine della recita), la Mula pure, ossia fissità stemperate su tutto il pentagramma. Le innegabili difficoltà della tessitura (repentini slanci legati tra registro grave e medio-acuto) vengono risolti ancora una volta con orrendi suoni extramusicali, cioè stimbrati e spigolosi, spesso calanti d’intonazione e quindi provanti all’ascolto.
Inudibile il Frantz di Léonard Pezzino nel suo momento solista (“Eh bien! Quoi! Toujours en colère!”). Mai un suono emesso a dovere (in particolare in acuto). Proprio nulla che abbia a che fare con il canto professionale, nemmeno con quello di più modesta fattura. Da “Bagaglino” in serata modesta.

A Venezia…
Dignitosa la Giulietta di Béatrice Uria-Monzon. Tratteggia col giusto trasporto, insieme alla Gubanova, la famosa “Barcarola” in apertura di atto. Al di là di qualche passaggio infelice (intonazione, in particolare), è un buon momento. La scena di Carsen qui è un vero capolavoro, costruita sulla simmetria rovesciata tra palco e platea, che sembra restituire davvero il senso dell’”ivresse”, del godimento scopico che genera a volte la fruizione dell’arte visiva. Sulla scia di questa splendida parentesi, abbiamo sopportato meglio qualche spigolosità e durezza della Uria-Mazon, compensate da un’innegabile compostezza d’esecuzione.

Dal comprimariato emerge soltanto il Nathaniel di Jason Bridges, tenore di consistenza vocale ben superiore alla media cui siamo abituati (a parte qualche problema negli slanci in alto, la voce è a fuoco e ben timbrata, oltre a essere sempre in parte sul versante interpretativo). Il resto...

Tremendo il coro, ma alla Bastille non è certo una novità. Mantiene senza cedimenti una solida base di urla e suoni ingolati, mentre il “Vivat! à la Stella”, nel prologo, è un bercio (nemmeno tanto) all’unisono che rimanda a certe compagnie di allupati molestatori colti in posa laocoontica.

Sarebbe da discreta routine la direzione di Jesús López-Cobos se non fosse per alcune (vedi troppe) pesantezze, in particolare in apertura di ogni atto. Di certo non l’ha aiutato un’orchestra tutt’altro che impeccabile: da denuncia quei piatti, dal suono esangue e maldestro.

Come avrete forse intuito (per chi già non la conoscesse), quella di Robert Carsen è una favolosa messa in scena, strabordante di idee e intelligenza, incentrata sulla metateatralità come elemento guida dello scambio comunicativo tra spettatore ed interprete. Quella a cui abbiamo assistito è stata la 47esima rappresentazione parigina allestita dal regista canadese e l’ultima in questa “tornata” del 2010. Speravamo di poter testimoniare, per una volta, dell’ottimismo evangelico per cui «gli ultimi saranno i primi». Così non è stato.

Carlotta Marchisio


Gli ascolti

Offenbach - Les contes d'Hoffmann


Atto II (Olympia)

C'est moi, Coppélius - Jules Baldous (1928)

Les oiseaux dans la charmille - Frieda Hempel (1913)

Atto III (Antonia)

Elle a fui, la tourterelle - Frances Alda (1912)

Atto IV (Giulietta)

O dieux, de quelle ivresse - Miguel Villabella (1928)

Read More...

venerdì 18 settembre 2009

Interviste ed insulti: la pretesa di essere applauditi

Il Corriere della Sera del 16 settembre ha pubblicato, sulla pagina dedicata alle recensioni musicali, un'intervista al maestro Daniele Gatti dal polemico titolo "I grandi cantanti evitano la Scala e la colpa è dei soliti contestatori".
Pochi giorni prima, a firma Mattioli sulla Stampa, era comparsa un'intervista a Cecilia Bartoli, che, pubblicizzando l'imminente uscita del recital Sacrificium e più ancora il debutto in Norma, non perdeva l'usata occasione di polemizzare sull'assenza propria e di altri divi dai teatri italiani e sull'ignoranza, presunzione e astoricità sempre del pubblico del paese del melodramma.
E sono solo gli ultimi atti dell'insulto costante cui il pubblico è fatto oggetto da parte degli addetti ai lavori.

Sopratutto l'intervista a Daniele Gatti invita a due riflessioni.
La prima contingente e, forse, di minor respiro ovvero replicare all'assioma enunciato nel titolo, la seconda più profonda dell'attuale rapporto palcoscenico-pubblico.
Quanto alla prima è vecchia e scontata. Da sempre cantanti famosi, che non è, oggi sopratutto, sinonimo di grandi, non frequentano i teatri di un certo paese. La disamina della carriere di una Galli Curci, una Tetrazzini e Caruso, post 1904, conferma l'assunto. Caruso lo fece, ufficialmente a seguito delle riprovazioni del pubblico napoletano verso il suo Nemorino e l'unica successiva apparizione del 1915 a Milano (al Dal Verme, però, non alla Scala) tutto fu fuorchè un plebiscitario successo. Ed in tempi più recenti se una grande come Eleanor Steber ebbe pochissimo seguito in Italia, per contro la carriera americana della Callas non fu quello che gli anglosassoni chiamano "a bed of roses". L'una rimase regina del Met, l'altra della Scala. Ed ho citato cinque cantanti di levatura assolutamente storica. Poi qualcuno, more solito, discuterà e proporrà distinguo.
I motivi di oggi sono quelli di allora. Simpatie, antipatie, interesse e disinteresse , cultura ed ignoranza di direttori d'orchestra ed artistici, potenza o incapacità di agenti, tresche di colleghi e colleghe rivali, comunanze o discordanze di religione, inclinazioni sessuali, razze, favori prestati o rifiutati.
Con buona pace del maestro Gatti l'elenco delle ragioni è ben più variegato di quello espresso dall'intervistato, probabilmente ancora ustionato dall'esito del recente Don Carlo.
Non solo, ma tutti i latori delle ragioni sopra elencate (prive della pretesa di essere esaustive) hanno in assoluto disprezzo del pubblico proposto ed imposto protetti e protette in dosi massicce e, oggi, senza alcun buon gusto e buon senso, la cui mancanza ha cagionato ai protetti, incorsi in incidenti di percorso in questo od in quel teatro. Massime alla Scala, sia pure con parsimonia rispetto ad un passato recente.
Figurarsi se il pubblicò esaltò e fischiò al tempo stesso fuoriclasse come Pavarotti, la Verrett o la Caballé, si possa porre dei problemi a trasformare ogni recite di un soprano, che sostituì per ragioni extrartistiche la riconosciuta specialista rossiniana, in autentiche salite al Monte Calvario.
Ma ed entriamo nel secondo e più profondo aspetto di riflessione che queste ed altre interviste stimolano ovvero il rapporto con il pubblico. I cantanti di un tempo, capitanati da una Tebaldi o da una Callas, hanno sempre riconosciuto principio irrinunciabile il rispetto per il pubblico, che premia e punisce, "atterra e suscita" e, quindi, che esige il massimo sforzo, la massima preparazione, quello che, con melodrammatica semplicità, le dive del verismo definivano "dare tutta me stessa".
Lo sapevano anche gli addetti ai lavori, attenti ed oculati nel proporre sul titolo meno rischioso l'imposto o l'imposta di turno o nell'innestare opportune retromarce.
La dirigenza scaligera, a seguito delle recriminazioni di Giacomo Lauri Volpi, atteso divo, che minacciava il forfait, sollevò dal ruolo di Gilda nel Rigoletto il soprano Pierisa Giri, la "Petacci" di Starace dallo stesso imposta. Negli anni Cinquanta la signora Legge, ossia la signora EMI, limitò presenza e repertorio a titoli sicuri, non pretese Traviate e Tosche o Bohème, come accadrebbe oggi, quando innanzi lo sfascio della imposta scelta si indicherebbe unica causa cattiveria, ignoranza, mania di protagonismo del pubblico. Loggione in primis. Troppo comodo, come è troppo comodo tacere, ad onta del fatto che tutti sappiamo per quale motivo una scritturata protagonista di Aida, cantante solidissima e di cospicua carriera internazionale, sparisca dal cartellone ove, invece, permane la deuteragonista, che vociferante e rozza, viene protestata dal pubblico e non già da chi, direttore d'orchestra e direttore artistico, dovrebbe provvedervi e per rispetto al pubblico e per giustificare la propria posizione.
Quest'ultimo aspetto rende doveroso rammentare a Daniele Gatti che irresponsabile potrebbe essere il tenore, che minaccia piazzate, quando rimosso (perché non ufficialmente protestato, oggi fa il soft non l'hard), ma che l'artista si trova in ottima e pari compagnia, perché è documentale che venne visto, sentito ed ascoltato, un paio di mesi prima dell'incriminato sette dicembre, da direttore e dirigenza, recatisi in Zurigo per il di lui debutto nel title role. E per spirito di completezza erano mesi che tutti i fori operistici, anche quelli che praticano buonismo e tolleranza, sollevavano documentati dubbi circa la possibilità di esito soddisfacente di quella scelta basandosi, fra l'altro, su un difficoltoso Edgardo scaligero.
Certo che, poi, dichiarare e titolare che i cantanti non vengono perché il pubblico fischia è un atteggiamento quanto meno acritico ed irresponsabile.
E' l'atteggiamento connaturato in un mondo dove la carriera è propiziata e sostenuta per diritto ereditario, di religione, favori d'ogni sorta, potenza di agente e major discografica, pagine di pubblicità e di recensioni pubblicitarie, tavolate con il pubblico ed altro.

Read More...

mercoledì 10 dicembre 2008

Scala, Sant'Ambrogio, fischi: la storia continua.

Qualche riflessione sugli avvenimenti che hanno preceduto e seguito il Sant’Ambrogio 2008, prima della seconda recita, che potrebbe finire come la seconda dell’Aida, che inaugurò la stagione 2006-’07 oppure senza incidenti di percorso da consentire ai quotidiani dell’11 dicembre la proclamazione di un trionfo storico ed epocale per tutti , Daniele Gatti in testa.

E se non succederà qualche cosa di strano sarà quest’ultima la scelta, perché abbiamo già letto il tentativo di imputare a pochi facinorosi, ovvero i prezzolati sicari dell’escluso protagonista la cagione dei fischi che hanno subissato soprattutto il direttore la serata del 7 dicembre.
Ritornerà tutto come prima. E nessuno rifletterà su quanto accaduto in teatro. Male! perché i fatti di questi ultimi giorni, a nostro avviso, sarebbero essenziali per trarre conclusioni e proponimenti.
Il primo, evitare di andar dicendo che una ventina di plauditores del tenore sarebbero gli artefici dei fischi, perché affermarlo significa dire, tenuto conto che la sostituzione è avvenuta quando non era più possibile mettersi in coda per gli ingressi, che venti biglietti sono stati sottratti alla vendita ufficiale e girati per esaudire una richiesta contraria alle norme che, ci illudiamo, regolano la vendita dei biglietti
Ciò premesso, questa volta concordiamo con la firma ufficiale del Corriere della Sera che, ieri, chiariva come quel proluvio di fischi non potesse, per forza maggiore, esser stato organizzato dall’escluso protagonista. Per la prima volta, e con stupore, sentiamo una verità da un rostro, che fu sempre il difensore di fiducia del teatro milanese, precipue del suo passato direttore principale Maestro Riccardo Muti.
Andar dicendo che il tenore escluso e invitato a farsi da parte, ma non ufficialmente protestato, sarebbe l’organizzatore della bagarre è una scusa pilatesca per assolvere la coscienza a chi, arrivato sino alla generale con quel tenore, poi lo ha scaricato, sperando di frustare la sella per risparmiare il cavallo.
Sbagliato sia da parte del tenore che da parte dei suoi, sino al 6 dicembre, mentori.
Sbagliato da parte del sig Filianoti rilasciare interviste fra il pietistico e il furente, prive solo dell’operistico anatema, dopo aver arringato in maniera ora lecita ora censurabile il pubblico, i componenti di blogs, ricercato incontri, favori e misericordia dopo un men che mediocre Edgardo e tutt’altro che esaltanti performances, tutte implacabilmente divulgate per canali assolutamente ufficiali.
Caro signor Filianoti, favori, sostegno ed affezione del pubblico non si propiziano con minacce e blandizie, ma con le proprie prestazioni in scena, con il riflettere sul perché la propria voce non giri più come un tempo e non scrivendo lettere che, solo per buon gusto, non abbiamo pubblicato, pur potendolo in quanto destinatari delle stesse. Una sua collega quarantaquattro anni or sono, solennemente riprovata dal pubblico della Scala, in tutte le interviste ha sempre ribadito di aver tratto maggior profitto per la propria professionalità e carriera da quell’insuccesso che da centinaia di successi.
Ma questo in una vicenda triste e squallida sarebbe il minor male e l’aspetto meno interessante. Ciascuno di noi ha il carattere che ha e la reazione che più gli sorge spontanea e poi, francamente, chiunque avrebbe diffidato degli amicali avvertimenti di chi non solo ti ha scrittura, ma ti è anche venuto ad ascoltare al debutto nello stesso titolo in Zurigo tre mesi or sono, ti ha fatto provare per un mese e, poi, nel dubbio, che possa andar male l’agognata prima, consigliato di startene a casa per ripresentarti, diciamo alla terza recita, una volta ufficialmente riacquistata la mai persa salute, ossia, più prosaicamente, cessato il pericolo fischiatori di Sant’Ambrogio (leggi: figuraccia in mondovisione). Anche perché non occorre né esperienza personale né fantasia per immaginare che il lasso di tempo dal 7 al 14 dicembre sarebbe stato quello idoneo per reperire il secondo Don Carlo, dopo la promozione del secondo a primo. E quindi, per il povero signor Giuseppe Filianoti, al danno la beffa. Sicchè per certi versi non possiamo che approvare le scelte del “licenziato” protagonista. Dobbiamo però consigliargli di risparmiare il tempo nelle sedute telefoniche o via internet alla ricerca della captatio benevolentiae, privilegiando l’ascolto di tenori quali Pertile, Tucker e magari Mc Cormack.

La verità è che il licenziamento spetterebbe, più che al protagonista, a chi, a suo tempo, ha operato la scelta, offrendo prova di non saper adempiere l’incarico conferitogli. E qui con riferimento non solo al protagonista, ma tutto o quasi il cast di questo Don Carlos . Per tacere della cosiddetta parte visiva.
Che sia epoca di “vacche magre” non è neppure il caso di dirlo, tanto l’assunto, ripetuto esce dalle orecchie; ma un po’ di oculetezza e di capacità professionale è caratteristica che si impone sia per chi faccia il direttore da opera e, magari ambisca al ruolo vacante di direttore stabile, sia in chi, istituzionalmente, presso il teatro milanese venga qualificato come “responsabile delle compagnie di canto”. Il nome del primo troneggia in locandina, quello del secondo nell’organigramma del teatro, stampato o reperibile via internet, con la propria esplicita qualifica professionale.
Senso di responsabilità e professionalità, per non usare altra più plebea, ma efficacissima espressione, ossia “avere le palle”, avrebbe imposto di presentare il prescelto al pubblico soffrendone l’eventuale riprovazione.
Il fischio è una delle manifestazioni cui da sempre ha diritto il pubblico, che acquista con il biglietto questo suo, proprio, esclusivo diritto.
Suo proprio esclusivo diritto che carriere di cantanti e direttori pianificate a tavolino e non costruite sulle tavole del palcoscenico vogliono sottrarre al pubblico.
Anni or sono la Scala, e la sua dirigenza prona alle case discografiche “ammalò” la titolare di un ruolo protagonistico per mandare in scena il soprano prescelto, ufficialmente per il secondo cast. Fu una vigliaccata ben peggiore di quella patita da Giuseppe Filianoti, anche perché l’esclusa era la miglior interprete di quel repertorio e allo zenith della propria parabola artistica il pubblicò la “sgamò” e premiò l’imposto soprano con commentini e fischi per l’intero arco della serata. E siccome il pubblico, piaccia o non piaccia, ha molto più buon senso, orecchio ed onestà dei deputati alle scelte e della critica, la nostra imposta patì in ogni sua esibizione nel teatro milanese. Se volete, decorsi già ventun anni si potrebbero anche fare anche i nomi dei due soprani, oggi entrambe ritirate dalle scene. Scontato quello del direttore.
Direttore che, schiariamoci subito, ha creato con il proprio manipolo di fedelissimi, oltre al "totocantante" , il terrore da fischio. Perché, è ovvio, il fischio intacca il mito l’immacolata gloria del direttore senza macchia, dell’uomo dalle mille serate e dai mille ed uno successi.
Ignora il nostro ed il suo entourage che grandissimi direttori d’orchestra (in primis Arturo Toscanini direttore di Forza del destino nel 1909 in Scala, von Karajan in Traviata anno 1964, ma in tempi recenti Gavazzeni, Abbado, Maazel) sono stati fischiati in una produzione per essere, poi, issati sugli scudi in quella successiva. Ancor di più con riferimento ai cantati: le solite Callas e Tebaldi,i più recenti Pavarotti e Caballè. Adorati dal pubblico scaligero, ma, talora, contestati e che dalla fischiata non hanno avuto nocumento alcuno per la loro splendida carriera.
Due elementi poi emergono da questa vicenda:
La fobia da fischio e la spasmodica battaglia per minimizzarlo, limitarlo e deriderlo (ossia far intendere allo spettatore che lui non conta niente) è una delle tante deviazioni che oggi affliggono il melodramma e la mancanza, nel teatro milanese di ruoli e, quindi, responsabilità certe ed inequivocabili delle scelte proposte in palcoscenico.
Per minimizzare e irridere le intemperanze del pubblico si ricorre ormai ad una critica che ha omesso e dimenticato che il proprio solo compito sia quello di offrire criteri certi ed oggettivi al pubblico ed agli addetti ai lavori (soprattutto quei giovani che in varia veste e titolo si affacciano alla carriera artistica) preferendo il political correct nelle migliori ipotesi, la piaggeria nella maggior parte. In questo modo non si contribuisce a creare, forse si salva oggi il salvabile ma si distrugge per generazioni. La damnatio memoriae di grandi direttori di orchestra, eccellenti cantanti cui tutti i giorni assistiamo utilizzando tutti i media possibili sono tristi immagini di come si sia ridotta la critica. Obliano i critici di oggi che la firma della pagina dello spettacolo scaligera nell’era Callas –Franco Abbiati- mai conobbe la signora Meneghini Callas e che mai l’allora soprintendente avrebbe osato fare pressioni sulla proprietà del massimo quotidiano milanese per la scelta del critico musicale, consigliando i nomi di chi era “vicino“ al teatro.
Con riferimento al dovere di assumere le proprie responsabilità, non può tacersi lo smembramento in tanti rivoli delle due cariche istituzionali del teatro, Soprintendente e Direttore Artistico, il primo quale responsabile della gestione economica l’altro dell’artistica. Figure non riassumibili nello stesso soggetto, per le peculiari caratteristiche richieste, pena, come accade oggi in Scala, l’appalto ad altri soggetti di una parte delle prerogative professionali e la contrastante frammentazione delle responsabilità. Ma anche questo deve essere detto: esso è l’eredità del recente passato dove il direttore principale, che si arrogava la prorogativa di Direttore Artistico dei soli propri spettacoli, mal sopportava la presenza di un vero Direttore Artistico, sicchè la figura veniva assolta da vari soggetti, Soprintendente in primis.
Ed è pleonastico dire che di questo recente passato dai sofisticati e sofistici equilibrismi il pubblico e l’arte e la memoria cultura unica del melodramma pagano uno scotto pesante come un macigno. Quel macigno che la critica ed il pubblico a la page sembra scorgere solo in un tenore della pletorica complessione del quale si sa solo dire: “ Ma come fa il soprano ad innamorarsi di lui!!!!!!!!!!!!!”.

dd & gg


Read More...

lunedì 8 dicembre 2008

La Scala inaugura con un grande autodafé: Don Carlo delude....come previsto!

Il Teatro alla Scala di Milano è giunto alla serata inaugurale del suo nuovo Don Carlo in un clima davvero simile a quello ....degli autodafè !
Sin dal primo annuncio, infatti, questo Don Carlo aveva suscitato, e mai come in questa occasione, incredulità e meraviglia, a causa delle scelte di casting, che erano suonate un po' a tutti in aperto contrasto con le leggi del canto, e, soprattutto,.. ..del buon senso!
Nessuna curiosità per i contenuti artistici serpeggiava nella Milano melomaniaca, quanto, piuttosto, una sorta di morbosa attesa, quasi una totoscomessa, per l'esito che i signori, impegnati in scena, avrebbero mai potuto sortire di fronte ad un pubblico sempre più stanco e deluso dal mondo del melodramma e dei suoi attori. Chiunque abbiamo incontrato per la strada in questi mesi postestivi non ha mancato l'interrogativo rituale: ma tu come credi che andrà a finire? Canteranno o non canteranno? Ce la faranno a passare?
Ecco, alla vigilia, ecco il coup de theatre ( i soli ormai che ci possiamo attendere dall'opera ) della sostituzione di Filianoti. Eppoi le interviste mattutine al tenore "ribelle" su tutta la grande stampa italiana.
Una vera noia, perchè quando l'arte è ridotta a questi argomenti soli, di certo non può più dirsi tale.

La Direzione del teatro ha tempestivamente scoperto, non so se proprio ieri o ier l'altro, che il protagonista prescelto non poteva essere mandato in scena senza rischi di sommosse da parte del pubblico. Tempestivamente, ossia dopo un anno di prestazioni più che criticate da parte del tenore in questione, due mesi di prove ( accompagnate da fughe di notizie a dir poco ferali ) ed una recita pubblica. In dirittura d'arrivo, le profonde convinzioni che avevano ispirato una delle scelte artistiche più assurde che si ricordino sono scemate e la paura ha prevalso ( perchè di paura e non di buon senso si tratta ): l'avvicendamento con il secondo protagonista, Stuart Neill, si è compiuta ieri.

Provvedimento scorretto per il modo e la tempistica, lesivo del cantante oltre le sue prestazioni specifiche e, di certo, non bastevole a sottrarre il teatro, ossia la Direzione Artistica, alle sue oggettive responsabilità. Non è sufficiente incolpare Filianoti, che, come ogni cantante, offre ciò che sa e può. Non vogliamo difendere il tenore, ma dire che così è troppo facile e comodo. Non si è credibili nel licenziarlo a fine corsa, dopo averlo avuto sotto mano ( ed orecchie !!! ) per due mesi, pergiunta dopo averlo scritturato in stagione anche per il prossimo Idomeneo. Una scelta non convinta, ma ultraconvinta direi, da parte del teatro! Una responsabilità oggettiva ed ineludibile, quindi. Inoltre, non è stata usata corretttezza nemmeno verso il sostituto, dato che ai giornali sono pervenute ( dall'ufficio stampa suppongo ) notizie come quel pubblicata su Repubblica online, in cui si affermava :"La Scala per tutto il giorno ha cercato invano un'alternativa a Neill, giudicato meno adatto per il suo fisico massiccio per la ripresa televisiva in mondovisione della Prima. Alla fine, però, la direzione ha preferito non rischiare"(http://milano.repubblica.it/dettaglio/Scala-cambia-a-sorpresa-linterprete-del-Don-Carlo/1558011). Altra dimostrazione della convinzione profonda che muove le scelte dei cast....!
Come se il problema di questo spettacolo fosse solo il tenore!!
Già, perchè è stata mera illusione pensare che bastasse, per salvare la qualità artistica della produzione, eliminare l'anello apparentemente più debole di tutto un cast mediocre.

Gli errori sono stati generalizzati e sostanziali, oltre la singola scelta di cast. La concezione iniziale di questo Don Carlo era del tutto infondata sul piano filologico ab origine e si è poi rivelata velleitaria al momento della sua realizzazione. Di quanto annunciato alla stampa è sopravvissuto il solo "Lacrymosa" del basso, mentre il duetto tra le due donne ad inizio atto secondo è finito tagliato via alle prove, riducendo a poco e niente la strombazzata "novità" di questa produzione. Una dimostrazione ulteriore, se ancora ve ne era bisogno, del non aver nulla di culturamente fondato da dire, sola peculiarità del nostro presente. Spettacoli come questi nascono senza sapere il perchè li si vuol allestire, pensando prima ai titoli in astratto, ma senza fare i conti con gli artisti realmente a disposizione oggi nel triste mercato delle voci, senza alcuna oculatezza e buon senso ( ossia capacità di valutazione delle cose ) e con una tragica, sconcertante assenza di idee e pensieri da parte di chi muove la barca, in questo caso, dopo l'input della Direzione Artistica, la coppia regista -direttore, che ha fallito su piano della gestione complessiva dello spettacolo.
Spazziamo via subito la solita questione in punto di allestimento. Qui, sotto ogni punto di vista, ci siamo trovati di fronte ad un'ennesima sagra della banalità, ultra déjà vue, oggi pseudo minimalista per motivi economici ( e questo ci và benissimo come concetto di fondo, anzi ), che ha funzionato poco o niente, non tanto perchè spoglia, quanto perchè....... insignificante. Prospettive centrali che parevano esercitazioni scolastiche di disegno prospettico; pavimenti in listone decolorato, pareti e sequenze tristissime di porte, anzi di brutti usci, visti già mille e mille volte, e che non ci dicono nulla, salvo il fatto che tutti questi registi tedeschi o tedescofili potranno in futuro, quando i teatri finalmente li licenzieranno, aprire magazzini edili. Il grande concertato sulla piazza di Nostra Dona de Atocha tutto schiacciato al proscenio senza un minimo di senso, i protagonisti tutti ammassati uno sull'altro con le guardie e i fiammighi, con la scena dell'autodafè che ancora una volta si colora di rosso, come già visto in altre produzioni. La variazione sul tema del cubo ove muore Posa, già del Macbeth o del Don Giovanni scaligeri. Un'eclettica contaminazione di produzioni recenti, che, fatto principale, non crea atmosfera, non suscita emozioni o pensieri, non evoca.....nulla. L'imperatore che entra da tutte le porticine e i pertugi più angusti come un servo( come dopo la morte di Posa ); l'inquisitore con il vestito bordato di pelliccia, come spetta ai Papi; Don Carlo che si rannicchia in posizione fetale sulla tomba nella scena finale; l'insistenza oltremodo insopportabile sull'idea dei bambini che accompagnano gli interpreti a simboleggiare l'ingenuità dell'infanzia. Nessuna regia, e, soprattutto, nessuna evocazione; nessun clima adatto all'opera; nessuna suggestione. Niente. L'inutile ed il brutto eretti a sistema. A noi, poveri vociomani retrò, poco importa di un teatro d'opera che muova dagli allestimenti: non siamo tanto intellettuali da poter capire, lo ammettiamo! Ma chi, negli ultimi trent'anni, ha anteposto gli allestimenti al canto si ritrova ora con un pugno di mosche in mano, ossia nel vuoto delle idee e con un teatro moderno che di fatto...non esiste, perchè incapace di funzionare. Gli allestimenti dovevano distrarci dalle magnagne delle compagnie di canto, l'idea originaria chiave era questa. Oggi questi allestimenti sortiscono l'effetto contrario, perchè deprimono lo spettacolo e mettono crudamente in primo piano il basso livello delle compagnie di canto medesime. Come stasera.
Se poi a questo si aggiunge una bacchetta incapace di una lettura pertinente al testo ed idonea al cast di cui dispone, ecco fatto il disastro. Ed il pubblico ha sottolineato da subito con durissimi dissensi, sin dal rientro dopo il primo intervallo, e, quindi, al successivo, la direzione incoerente, insensata ed oltremodo fracassona di Daniele Gatti. Quando leggemmo del cast, ad annuncio stagione, osservammo tra noi, che la bacchetta scelta non era molto adatta alla gestione di un'avventura simile. L'indaguatezza o i limiti di un cast possono essere ben gestita in certi autori ( come brillantemente fece l'anno passato Baremboim nel Tristan inaugurale ), ma è impresa assai impegnativa, da veri esperti direttori da opera, in un musicista come Verdi. Bisogna sacrificare parecchio delle proprie idee ed adeguarsi, come ci fece ben vedere Chailly nell'Aida ultima scorsa. Sempre alla ricerca di un lirismo estremo, di atmosfere tanto rarefatte da essere noiose o soporifere, Gatti ha dimenticato che occorre nerbo, sensualità, colore orchestrale da grande affresco storico. Il fracasso, i clangori della buca si sono alternati a momenti di lentezza esasperata o di vero.. silenzio. Momenti topici in negativo: il "terzettino dialogato" del primo atto tra Posa, Eboli ed Elisabetta, con un tempo troppo lento per il momento di conversazione oppure il duetto tra Filippo e Posa, di una mollezza incredibile, con l'orchestra incapace di sottolineare alcun momento ( e ce ne sarebbero infiniti...), alcuna frase dell'incontro di due giganti. Idem l'introduzione alla scena del giardino, o proprio il tanto decantato Lacrymosa, scentrato completamente per l'assenza di atmosfera. La Scena della piazza è apparsa anche poco provata, devo dirlo, con scarso affiatamento tra le trombe fuori scena e la buca. Il maestro ha chiesto raffinatezze assolute come le smorzature del Conte di Lerma o del Frate in apertura di opera, che son parse idee a dir poco micraniose di fronte alla mancanza di una visione generale e di "tenuta" di tutta l'opera. In compenso ha poi staccanto tempi troppo lenti per i cantanti al terzetto del giardino, alla canzone del velo, al duetto finale tra Carlo ed Elisabetta. Ma soprattutto ha mal concertato, dispensando un'orchestra o fracassone e pestacchiona, o molle e noiosa, e per questo motivo lo spettacolo non è riuscito a decollare. Un vero..autodafè! E la punizione per il maestro è stata durissima.

Il cast, non aiutato dall’allestimento e con una direzione che, di fatto, ha impedito allo spettacolo di decollare, è in parte andato oltre le funeste aspettative del gossip.
Su tutti, bravissimi e davvero commoventi, i 6 fiamminghi. Filippo Bettoschi, Davide Pelissero, Ernesto Panariello, Kahe Yun Lim, Alessandro Spina, Luciano Montanaro: bravi, bravi,bravi.
Stuart Neill, fisicamente impossibilitato ad essere scenicamente credibile, possiede una voce non bella, abbastanza grande, in parte artificiosamente ispessita. Gli acuti della parte gli riescono con facilità, ma sono ben lontani dall’essere squillanti. Il fraseggiatore è modesto, ma si sforza a tratti di dare forma al personaggio. Ripiega spesso su piani falsettanti ed indietro, come nell’aria di ingresso, e sfiora talvolta il bisbiglio ridicolo, come nel “Ma lassù ci vedremo..” al IV atto.
Ha svolto il suo compito di doppio ed è stato punito, a mio avviso, oltre il giusto dal loggione.

Fiorenza Cedolins era accreditata dal gossipp quale modesta Valois, di cui si dubitava la capacità di reggere la serata. Per parte nostra, la signora ci è apparsa……quella della Butterfly scaligera, forse con un filo meno di volume. La voce da Valois non la possiede, né l’ha mai posseduta nemmeno quando era una cantate nella pienezza dei suoi mezzi. La voce è piccola, adatta a Mimì piuttosto che a certa opera francese; il timbro non compromesso, almeno non stasera. Mancano però il volume e la cavata che la Valois richiede ( e credo anche gli acuti estremi, che qui però non sono scritti..).
Ha cercato di immascherare le note centrali, o, perlomeno, di simularne l’immascheramento, cantando sempre O ed U, parte permettendo, e ciò ha giovato rispetto alla voce incautamente spampanata esibita in Butterfly. Ha accentato bene a tratti, quando la tessitura glielo ha permesso, perché in zona grave è parsa anche verista, come nella fasi iniziali di “Un dì promessa” del duetto con Filippo. Si è difesa nella prima aria, “Non pianger mia compagna”, meglio nel “Tu che le vanità”, mentre improbabili sono parsi i pianissimi-falsetti di alcuni passaggi proprio dell’aria finale come del duetto finale col tenore. Non so quanto le qualità mostrate reggano sulla distanza. Una prova oltre le aspettative e di certo oltre un certo sciacallaggio di cui è vittima da un annetto in qua. E’ stata abbastanza applaudita, con svariati fischi sparsi in teatro.

Dalibor Jenis è un baritono non certo adatto a Verdi per dote vocale. Il mezzo di cui dispone è di volume modesto, privo di specifica qualità timbrica, abbastanza facile in alto. Spesso, però è nasale, oppure con la voce in bocca; il che da luogo ad una voce morchiosa, nella quale le durezze, per sua fortuna, finiscono per sentirsi poco rispetto a quanto si udirebbe in un voce più timbrata.
L’interprete è un po’”selvatico” sul piano scenico, più giovanile che nobile; gli manca del tutto l’allure del sontuoso ed elegantissimo baritono verdiano. Eleganza e linea di canto aristocratica sono necessari al personaggio di Posa, ma lontani dal buon Dalibor Jenis. Troppo grande il ruolo per lui; troppo piccola la voce per reggere la buca. Spinge nel duetto con Carlo; sopravvive alla scena con Filippo dove stenta ad imporsi; soccombe per manifesta inferiorità di voce nel terzetto del giardino come nel quartetto ( meglio in quest’ultimo, comunque); non dice nulla nella meravigliosa scena finale. In quest’ultima, poi, è stato spesso coperto dall’orchestra. Il pubblico lo ha applaudito con convinzione.

Dolora Zajick è stata la trionfatrice della serata, ad onta dell’età e di alcuni evidenti difetti vocali.
La signora, non più giovane, possiede un mezzo importante, ampio ed anche di bel timbro. La voce, però, ha ormai il caratteristico “buco” al centro, zona dove la cantante stenta a legare i suoni. Il registro acuto è a dir poco sfolgorante, mentre in basso canta solo di petto. E’ scesa ad evidenti compromessi nella “Canzone del velo”, in alcuni punti quasi accennata ( la coloratura in special modo); ha cantato la scena del giardino ora in modo straripante, di slancio, letteralmente sommergendo i due compagni di avventura, ora in modo difficoltoso, a causa di tempi troppo lenti in passi in cui la tessitura batteva là ove la voce ha il “buco”. Al “Don fatale”, però, ha cantato benissimo, con voce torrenziale : il do bemolle iniziale è arrivato enorme, sicuro, tenuto un ‘eternità. Ha cantato il resto dell’aria con vera dinamica, con numerosi piani e pianissimi. A meno del si bemolle finale, un po’ aperto, ha elettrizzato il pubblico, che le ha attribuito un grandissimo applauso alle singole. Il trionfo personale è suo.

Ferruccio Furlanetto da ben vent’anni veste i panni di Filippo II dall’ultima performance di Karajan. Non ha una voce né bella e né grande e, per giunta, non è mai stato un campione di raffinatezza e buon gusto, inclinando a quel gusto che, a torto, viene definito provinciale: nei momenti più drammatici, infatti, dispensa pacchianate veriste e gigionate da strapazzo come al duetto con l’Inquisitore e al successivo scontro con la moglie. L’ira di un re, per giunta da Grand Operà non è quella di compare Alfio. Peggio ancora il Lacrymosa: a prescindere dall’inopportunità di eseguirlo, non lo si deve fare quando il basso ha una voce dura, tubata e cavernosa in un brano che, al contrario, richiede rotondità e morbidezza. E’ un lamento sul cadavere di un uomo, un canto di dolore, non un bercia mento da piazza. Il pubblico, Dio sa perché, gli ha tributato una vera ovazione. Con qualche fischio, a cui mi associo in pieno.

Quanto poi al Grande Inquisitore del signor Kotscherga, è la più perfetta declinazione del latrato duro, fisso e gutturale applicato alla voce umana. E tacciamo delle sistematiche stonature sia in zona alta che bassa, un filo meno peggio al centro. Orrendo davvero. E il pubblico lo ha poco applaudito e parecchio sbuacchiato.

In conclusione: uno spettacolo sbagliato sotto molti punti di vista. Soprattutto con l’affaire Filianoti, che aveva tutto il diritto di comparire nell’arena dopo avere e a lungo provato, la Scala si è messa dalla parte del torto. Il cantante ha il diritto-dovere di sottoporsi al giudizio del pubblico, che può esser anche il più duro e feroce, ma l’uomo ha il diritto di essere rispettato.

Read More...

lunedì 3 novembre 2008

Les Contes d'Hoffmann ad Amburgo : rientro con debutto per Giuseppe Filianoti

Dopo un periodo di assenza dalle scene Giuseppe Filianoti era attesissimo al debutto come Hoffmann, anche da chi, mostrate perplessità sulle sue ultime apparizioni, era curioso di avere conferme o smentite su quei dubbi.
Nel Prologo il tenore appare alquanto valido, soprattutto in virtù della dote vocale, e l’esecuzione della Chanson de Kleinzach lo testimonia, salvo qualche segno di sforzo nei primi acuti. Gli stessi segni di sforzo del prologo si rifanno sentire nell’atto di Olympia, portato a termine in maniera comunque lodevole, e culminano nell’atto di Antonia, dove vi è una palese difficoltà a reggere intere frasi del duetto col soprano (C’est une chanson d’amour – che andrebbe cantata legando e sfoggiando ampio uso della dinamica) che risultano alla fine dure ed opache. Nel terzetto con Crespel e il Dr. Miracle di nuovo sfoggia qualche acuto ghermito ed una evidente pesantezza in frasi moderatamente acute, come quelle dell’atto di Giulietta, e di nuovo a squarciagola nelle frasi che seguono il settimino.

I dubbi che aveva destato Filianoti dopo la sua apparizione in Francia nell’Elisir d’amore sono dunque riconfermati da questi Contes e forse aumentano in virtù del vedere Filianoti impegnato in future Messe da Requiem (un tempo appannaggio di voci tenorili molto diverse in tecnica e peso specifico) e nel debutto come Faust nel Mefistofele di Boito, dove, si spera, non ripeterà i fasti di Alberto Cupido dell’edizione fiorentina del 1989.

Altro atteso debutto di questi Contes d’Hoffmann è quello del soprano di coloratura rumeno Elena Mosuc, che si cimentava per la prima volta nell’ardua impresa di interpretare tutte e tre le eroine dell’opera, la bambola Olympia, la giovane Antonia e la cortigiana Giulietta. Impresa ardua appunto, nella quale la signora Mosuc non è del tutto riuscita.

Il ruolo che meglio avrebbe dovuto rendere in teoria, lei, famosa Regina della Notte, ossia la bambola Olympia, le riesce in modo poco convincente, l’aria “Les oiseaux dans la charmille”, cantata con un tempo lentissimo, mostra segni di affaticamento in tutta la sua durata che si concretizzano in suoni malfermi che più di una volta ballano in maniera percettibilissima. Lo stesso dicasi del vocalizzo con cui Olympia esce di scena, nel quale questa bambola fa percepire non poca ruggine nei suoi meccanismi.

Antonia necessiterebbe invece di un vero soprano lirico, capace di reggere le lunghe e bellissime frasi del personaggio, stagliandosi sull’ orchestrale con senso di maestà vocale (quella che tanto faceva sentire Joan Sutherland in questo ruolo). Nell’interpretazione della Mosuc si intuiscono belle intenzioni di fraseggio, ma la fatica si fa percepire anche qui, specie nel celebre terzetto, chiuso da un do diesis poco bello e non del tutto sicuro, ove si percepiscono frasi malferme, fiati corti e fatica. I pianissimi e i suoni filati cui il soprano ricorre abbondantemente egualmente non sembrano frutto di adeguato sostegno.

Neanche l’idea di inserire l’aria “L’amour lui dit la belle” nell’atto di Giulietta porta a risultati memorabili, e questo nuovo cimento della Mosuc come già espresso precedentemente sembra un po’ al di sopra delle sue attuali capacità, soffrendo forse soprattutto della lunghezza e della pesantezza dei tre ruoli.

Nel ruolo dei quattro diavoli Kyle Ketelsen si mostra sufficientemente bravo, gli si può rimproverare certa genericità e qualche problema nell’esecuzione di “Scintille diamant”, aria di tessitura baritonaleggiante e non solo per il fa diesis in chiusa. Gradevole Nicklausse era Nino Surguladze, dal timbro sopranileggiante, la quale mostra una voce che potrebbe forse condurre verso altri risultati gestita in maniera diversa. Poco attenta alla magia e al senso di mistero della partitura il direttore Emmanuel Plasson, che si impegna principalmente a portare a casa la serata.

Read More...

domenica 5 ottobre 2008

La Medea torinese alla radio


La stagione 2008/2009 del Teatro Regio di Torino si inaugura quest'anno con un debutto, quello della Medea di Cherubini, mai allestita prima d'ora nel teatro torinese. Titolo di grande richiamo per il pubblico e luogo di cimento di molte primedonne che sull'esempio di Maria Callas con Medea cercano di dimostrare la loro maturità d'interpreti, spesso incuranti delle loro qualità di vocaliste.

Il cast radunato a Torino era se non altro omogeneo, nessuno degli interpreti si è distinto particolarmente nella modestia generale. A partire dal direttore Evelino Pidò, che in Medea dimentica e tralascia la tragedia, la grandiosità, l'aulicità delle linee melodiche in luogo di un suono baroccheggiante il più delle volte, come nel caso della nota Ouverture, isterico più che agitato...e la grandiosità di Gui, Berstein, Schippers è solo un lontano ricordo.
Nel cast si fa notare Cinzia Forte, spoggiata in quasi tutta la linea e a disagio nella tessitura acuta dell'aria di Glauce che la porta a stonacchiare più di una volta, massime nelle salite al do, preoccupante per una cantante del suo peso vocale.
Giuseppe Filianoti, al debutto nel ruolo di Giasone, soffre della tessitura bassa e ha problemi ad intonare al centro e nella zona del passaggio, come sempre difficoltosa e perigliosa.
Il basso Parodi parla.
La protagonista invece si sforza di essere una grande interprete, accenta quasi ossessivamente ogni frase riuscendo alla fine a risultare poco credibile come Medea e più vicina ad una Santuzza in disarmo. La prova vocale è delle peggiori sentite da questa cantante, la zona centro-bassa della voce è priva di qualsivoglia spessore ed è spesso vicina al parlato, mentre dal sol in su avvengono delle vere e proprie tragedie di suoni gridati e fissi (onomatopeiche le orrende passioni). Nel finale II la cantante decide di evitare le note della linea cantata di Cherubini in luogo di un parlato di dubbio gusto prima di ritornare al grido cantato per le ultime frasi. Il picco della performance è il terzo atto in cui l'accento diventa a tratti esagitato, a tratti quello di una bambina capricciosa che incorre spesso e volentieri in suoni parlati e soprattutto gridati, al limite dello Sprechgesang, che Medea non dovrebbe affatto adoperare.
Dal secondo atto registriamo l'evoluzione della voce di Sara Mingardo (Neris) che, da contralto, è diventata sopranile: naturale e necessaria parabola delle voci che seguono i dogmi del canto baroccaro e cantano senza appoggio e sostegno del fiato.

Alla fine di questa serata ci chiediamo... che senso ha eseguire Cherubini, se lo si esegue così, tradendo la lettera e lo spirito della partitura? Ma davvero non ci sono alternative?


Read More...

venerdì 5 settembre 2008

Stagioni prossime venture: Gli States


Le stagioni americane hanno sempre differito da quelle europee in più punti, vengono, per esempio, organizzate e annunciate con largo anticipo e, in passato, hanno saputo offrire spunti e occasioni interessanti non sempre colti se non in tutta Europa, perlomeno in Italia.
Nella stagione 1982/1983 per esempio, mentre in Italia si era agli albori del Rossini Opera Festival, la Carnegie Hall propose una serie di tre titoli rossiniani sotto il nome di Rossini Festival : Semiramide, La donna del lago e Tancredi, tutte con al centro la figura protagonistica di Marilyn Horne e accanto a lei Lella Cuberli, June Anderson, Frederica Von Stade, Chris Merritt, Dano Raffanti, Rockwell Blake. Stagioni (e terra) ricche però anche di contraddizioni, è notissima la riluttanza del Metropolitan, ossia del maggior teatro americano, di mettere in cartellone all'inizio degli anni 60 l'Adriana Lecouvreur per Renata Tebaldi (negata a Rosa Ponselle decenni prima) e di inscenare un Rossini serio nonostante le spinte di Marilyn Horne che riuscirono solo in una tardiva, ancorchè splendida, edizione di Semiramide.
Oggi quegli spunti e quelle contraddizioni si sono ampiamente rimescolati assieme dando vita a stagioni organizzate spesso e volentieri sul richiamo del big name in cartellone e di eventi annunciati che puntualmente si rivelano degli annunciati disastri, almeno ai nostri orecchi. La stagione 2008/2009 non fa, negli intenti, eccezione.
Cominciamo dalla capitale, che può vantare ben due stagioni operistiche, quella della Washington Opera e quella della Washington Concert Opera, e proprio nel teatro principale, diretto da Placido Domingo, uomo di agenzia da sempre e in ogni senso, abbiamo il primo evento della novella stagione, una nuova produzione di Lucrezia Borgia che, sulla carta, si preannuncia quantomeno "avventurosa", con protagonista Renée Fleming che torna nel sicuro suolo americano a interpretare per la terza volta il ruolo della venefica Lucrezia (nel decennale della trionfale tamburata milanese). Suo doppio sarà Sondra Radvanovsky, anche lei niente affatto intimorita dagli inciampi in cui era occorsa in quel di Las Palmas col ruolo donizettiano (prendendo magari ad esempio The Beautiful Voice e la sua nota esperienza milanese).
Il largo anticipo con cui vengono annunciate le stagioni americane da anche modo che i forfait comincino con largo anticipo e proprio nella Borgia vediamo che l'annunciato Giuseppe Filianoti come Gennaro è stato sostituito dall'esuberanza del giovane Vittorio Grigolo, cui si aggiunge un Ruggero Raimondi che torna ad Alfonso dopo 40 anni. E non vogliamo ricordare la famosa frase della bolognese Zia Fidalma! Sul podio lo stesso Placido Domingo. Sicuramente una proposta non banale e che possa passare inosservata e che, anche noi, siamo curiosi di ascoltare.
Il resto della stagione di Washington scorre poi sotto il segno della tradizione, tra l'inaugurale Traviata, Les pecheurs des perles con la coppia Charles Castronovo e Norah Amsellem (che ha impressionato l'America nella scorsa stagione con un'Elvira che non si credeva proprio si potesse eseguire così), Peter Grimes, Carmen, Siegfried e una Turandot con due protagoniste veramente "di grido" : Maria Guleghina, approdata da poco al ruolo pucciniano e Sylvie Valayre. A chiudere la stagione un altro "evento" popular che con la musica ha poco a che fare e che anzi la svilisce, la Petite Messe Solennelle con Andrea Bocelli diretta da Placido Domingo.
Per quanto riguarda invece la Waghington Concert Opera, specializzata nel riproporre in forma di concerto titoli desueti del grande repertorio, si ascolteranno la Maria Padilla di Donizetti con la giovane Leah Partridge e il veterano Bruce Ford come Don Ruiz (ruolo già cantato sempre negli States alcuni anni fa), Il giuramento di Mercadante, una vera rarità, affidata alla buona volontà non sempre bastante di Elizabeth Futral e del tenore James Valenti, di sicura avvenenza, e un concerto di Belcanto con Stephanie Blythe (nonostante i suoi approcci col Belcanto siano stati decisamente da dimenticare).

Dall'altra parte della costa troviamo San Francisco e la stagione della War Memorial Opera House, che si inaugura in settembre con Simon Boccanegra affidato al divo Dimitri Hvorostovsky e a Barbara Frittoli, che prosegue con titoli del Novecento da Die Tote Stadt e due opere moderne in prima esecuzione, Idomeneo affidato ad un cast di "specialisti", una produzione di Elisir d'amore con Inva Mula, Ramon Vargas e Alessandro Corbelli, Bohéme con Angela Gheorghiu (e a San Francisco avrà la fortuna di non scontrarsi ancora con Renata Scotto come successo lo scorso anno a Chicago, che ne impose, giustamente, la protesta), Tosca e infine La traviata con la neo-mamma Anna Netrebko.

Altra importante Traviata sarà quella della provincia americana di Santa Fe, che ospiterà il debutto-evento nel ruolo del titolo di Natalie Dessay assieme al tenore Pirgu e ai due Germont del marito Laurent Naouri e di Anthony Michaels-Moore. Un cast forse ideale per un Matrimonio segreto alla Piccola Scala. Produzione dell'amato Laurent Pelly che si presume la Diva vorrà rimordernare secondo la sua ben nota ottica stupendo come sempre i suoi ammiratori, e visti gli esiti di Lucia di Lammermoor e di La fille du régiment si immagina che l'estro di Natalie saprà sbizzarrirsi a maggior ragione con la Violetta di Traviata, distogliendo magari l'attenzione dalla resa vocale, sempre più in declino e sempre meno importante secondo gli ammiratori di Natalie, sublimata dalle doti attoriali (o circensi che dir si voglia).

Prima di questa Traviata la diva francese sarà a Chicago ad inaugurare la stagione della Lyric Opera come Manon di Massenet accanto al bel tenebroso dei tenori per eccellenza : Jonas Kaufmann. Inaugurazione evento anche questa che apre una stagione composta dai Pescatori di perle, che sarà terreno per altri "opera hunk", per dirla all'americana, come Eric Cutler e Nathan Gunn, che se non saranno capaci di duettare con sognanti mezzevoci nei momenti più importanti dell'opera potranno però mostrare con sicurezza muscoli e doti simili, purtroppo non vocali. Altri titoli : Porgy and Bess, Madama Butterfly (con l'americana Patricia Racette), Tristan und Isolde con quel che resta, e non alludiamo al peso, di Deborah Voigt e Clifton Forbis...e ci chiediamo se la cantante americana sarà in grado di portare a termine tutte le recite di Isolde nelle condizioni vocali in cui versa o se incapperà in qualche forfait come il passato Tristan del Met ha dimostrato (e come appunto le condizioni vocali preannunciavano...). Chiudono la stagione una produzione di Ratto dal serraglio e del tradizionale dittico Cavalleria rusticana & Pagliacci dove tra Vincenzo La Scola e Vladimir Galouzine nei ruoli tenorili, quale Santuzza si farà affidamento sullo stagionato professionismo di Dolora Zajick.

Prima di arrivare alla più importante stagione operistica americana, quella della Metropolitan Opera House, diamo un'occhiata ai titoli proposti da Eve Queler nell'ambito della stagione della sua Opera Orchestra of New York che, per quanto annunciato, proporrà La sposa dello Zar di Rimsky-Korsakov con Olga Borodina, Rienzi per la terza volta (evidentemente un titolo molto amato da Miss Queler) e Medea, che vedrà il debutto di Aprile Millo nel title-role. E in un presente di Theodossiou e di Michaels bene fa la Millo a togliersi la soddisfazione di debuttare Medea. Ma soprattutto vi sarà uno Special Event...Ferruccio Furlanetto in un omaggio a Ezio Pinza in cui intepreterà pagine da Boris Godunov, Don Quichotte (opera di Chaliapin ma mai di Pinza), Die Zauberflote, Don Carlo, Eugenio Onegin e altre. Ammiriamo l'idea di dedicare una serata ad Ezio Pinza, iniziativa lodevolissima, ma conoscendo Pinza e conoscendo Furlanetto forse si è scelto il cantante meno adeguato a ricordarlo!

Arriviamo infine alla stagione della Metropolitan Opera House, il tempio lirico americano per antonomasia. Inaugurazione di Gala come di consueto quest'anno con protagonista assoluta Renée Fleming, che si produrrà nel II atto della Traviata di Verdi, nel III della Manon di Massenet e nel finale di Capriccio di Richard Strauss, quelli che lei ritieni i suoi personalissimi cavalli di battaglia. Serata di Gala dicevamo, ma non solo, anche vero e proprio evento mondano, in cui la star testimonial della Rolex sarà vestita addirittura da Chrisian Lacroix, Karl Lagerfeld e John Galliano nei tre estratti e come se ciò non bastasse il giorno della prima verrà anche lanciato un profumo dal suggestivo nome "Renée". Un'inaugurazione che più mondana non si potrebbe pensare, con picchi di divismo da far arrossire soprattutto le giovani colleghe Netrebko, Gheorghiu ecc.
La stagione prosegue con la riproposta della ponchielliana Gioconda affidata a Deborah Voigt, già deludentissima al debutto tre anni or sono a Barcellona, e le osservazioni per il Tristano si ripropongono pedisseque, affiancata dalla Borodina, dalla Cieca di Ewa Podles e fra gli uomini Aquiles Machado (già presente nel 2006), Carlo Guelfi e James Morris, la Salome di Strauss in cui tornerà a spogliarsi Karita Mattila (che in febbraio invece vestirà i panni della Tatyana dell'Onegin), Traviata, Don Giovanni con Erwin Schrott e per alcune recite un Leporello d'eccezione, l'anziano Samuel Ramey (e dopo il Silva di Ferruccio Furlanetto avrà un sapore meno amaro, crediamo). Lucia di Lammermoor vedrà invece il debutto nel ruolo di Diana Damrau, che si è fatta carico di molte delle recite che Anna Netrebko ha dovuto cancellare per via della gravidanza, la diva russa ha annunciato però alcune recite in Febbraio assieme al consueto Rolando Villazon. Nello stesso periodo la bella Netrebko dovrebbe cantare anche alcune recite di Bohéme come Mimì. Dopo la Scala di Milano Daniel Barenboim porterà Tristan und Isolde anche al Met, senza Waltraud Meier con la coppia protagonistica Katarina Dalaymann/Peter Seiffert, mentre un altro divo wagneriano, Ben Heppner, reduce dai guai del passato Tristan del Met (guai, come abbiamo già detto, condivisi con Deborah Voigt), si cimenterà con l'Hermann della Dama di picche di Tchaikovsky accanto a Maria Guleghina (che riprende, dubbiosamente, il ruolo dopo molti anni mentre la condizione vocale consiglierebbe il title role) e Felicity Palmer, Contessa già nota al pubblico newyorchese.
Altra serata di puro glamour operistico si preannuncia La rondine di Puccini, con Angela Gheorghiu e il consorte Roberto Alagna, cui si alternerà Giuseppe Filianoti, in una produzione che nel ruolo di Rambaldo vedrà Samuel Ramey nelle insolite vesti pucciniane.
In Dicembre ennesimo evento operistico, la Thais con Renée Fleming, che riporterà il titolo al Met dopo 30 anni (l'ultima produzione essendo stata nel 1978 con Beverly Sills e Sherrill Milnes) che in aprile sarà anche interprete di Rusalka, altro suo cavallo di battaglia già intepretato al Met nel 1997 e nel 2004. La lunga stagione proseguirà poi con la ripresa dell'Orfeo ed Euridice di Gluck con il title role che tornerà alla voce di mezzosoprano (Stephanie Blythe) dopo l'esperimento David Daniels e la direzione di James Levine e Rigoletto con Alessandra Kurzak e Diana Damrau e ben tre tenori, Filianoti (che, crede chi scrive, bisserà il successo della Lucia), Beczala e Calleja e i baritoni Ataneli e Lucic, pronto a rinnovare anch'egli la squallida performance di Dresda, diretti da Marco Armiliato.
Abbiamo riportato sopra le incertezze che negli anni 60 un titolo come Adriana Lecouvreur faceva sorgere ad un manager pure di grande esperienza come Rudolf Bing, nonostante la presenza di una Diva e grandissima cantante come Renata Tebaldi, che con ragione impose il titolo, destinato ad altre grandi riprese al Met nel nome della stessa Tebaldi, di Montserrat Caballè, di Renata Scotto e Mirella Freni. Dopo tutte queste grandissime primedonne (e ricordando che la prima interprete al Met fu la bellissima Lina Cavalieri insieme a Caruso) maestre nel canto e nel fraseggio al Met Adriana torna con la voce di Maria Guleghina, che ben giustificherebbe i dubbi che erano di Bing, priva non solo della maestria vocale di una Freni e dei mezzi privilegiati della Tebaldi e della Caballè, ma soprattutto delle indispensabili doti di fraseggiatrice esperta (à la Scotto per intenderci) che la Guleghina non ha mai avuto, incline piuttosto all'urlo scomposto. Accanto a lei come Maurizio di Sassonia era previsto Marcelo Alvarez che invece nello stesso periodo sarà interprete di Manrico nel Trovatore, ruolo nel quale ha preso il posto dell'annunciato Salvatore Licitra, mentre il simpatico Marcelo sarà sostituito addirittura da Placido Domingo, che riprenderà al Met, 40 anni dopo, il ruolo del suo debutto nel teatro newyorchese....impossibile però non notare il declino delle partner di Domingo, Maurizio accanto a tutte le più grandi Adriane della storia capitatane da Magda Olivero! E in Marzo il Met proporrà una nuova serata di Gala per celebrare i 125 anni del teatro e i 40 anni del debutto di Domingo, con scene originali da alcune storiche prime produzioni del Met come Il flauto magico con scene di Chagall del 1967, il primo Parsifal del 1903, la prima assoluta della Fanciulla del West e il primo Faust inaugurale del Met del 1883...certo di quelle grandi produzioni veramente non sono rimaste che le scene!
Ultimi eventi del Met una nuova riproposta del Ring des Nibelungen diretto da James Levine con christine Brewer, Waltraud Meier, James Morris, una riproposta di Cavalleria/Pagliacci sempre con la Meier e Roberto Alagna, al debutto, credo, in Turiddu, mentre la consorte vestirà i panni di Adina, adatti ma forse tardivi, in compagnia di Rolando Villazon, che in mancanza della giusta vocalità crediamo compenserà con le consuete burle sceniche, il già citato Trovatore con Alvarez, Sondra Radvanovsky alternata ad Hasmik Papian (salvatrice della patria nella Norma dello scorso anno) e le due Azucene di Dolora Zajick (detentrice del ruolo al Met da un ventennio) e di Luciana D'Intino. Infine due titoli del Belcanto, la ripresa de La Cenerentola con Elina Garanca e l'attesissima nuova produzione di Sonnambula con i due divissimi Dessay e Florez con regia di Mary Zimmermann che ha già fatto parlare di sè (con la Dessay si può dire una garanzia ormai che l'opera verrà stravolta...genialmente ovviamente) perchè pare ambientata in una compagnia che prova La sonnambula e rivive le stesse situazioni...insomma la Dessay è pronta per sia per Mamma Agata (con qualche raggiusto - la parte della Primadonna essendo improponibile ormai) ma soprattutto per Pirandello alla Comedie Française!
Una stagione quanto mai ricca e pensata, si percepisce, secondo gli imperanti dettami di cui già abbiamo discusso qualche articolo fa che dimostrerà quali frutti il glamour operistico sa dare. Per conto nostro ci consoliamo confrontando una settimana del Met 1908:

17/12/1908 - Puccini/Le Villi (prima americana) - Alda, Bonci, Amato, Toscanini + Mascagni/Cavalleria rusticana - Destinn, Caruso, Amato, Toscanini
18/12/1908 - Wagner/Gotterdammerung - Fremstad, Burgstaller, Muhlmann, Hinckley, Toscanini
19/12/1908 - Donizetti/Lucia di Lammermoor - Sembrich, Bonci, Campanari, Spetrino
19/12/1908 - Bizet/Carmen - Gay, Martin, Farrar, Noté, Toscanini
20/12/1908 - Concert - Noté, Gay, Martin, Rappold, Didur, Spetrino
21/12/1908 - Verdi/Il trovatore - Martin, Eames, Amato, Homer, Spetrino
23/12/1908 - Wagner/Tristan und Isolde - Schmedes, Fremstad, Feinhals, Homer, Mahler

Gli ascolti

Bellini - La sonnambula - Prendi, l'anel ti dono - Nicolai Gedda & Renata Scotto

Cilea - Adriana Lecouvreur - La dolcissima effigie - Placido Domingo & Renata Tebaldi

Donizetti - Lucrezia Borgia - Maffio Orsini, signora, son io - Leyla Gencer, José Carreras & Tatiana Troyanos

Donizetti - Lucia di Lammermoor - Chi mi frena in tal momento? - Jan Peerce, Roberta Peters, Mario Zanasi & Nicola Moscona

Massenet - Thais - Dis-moi que je suis belle - Leontyne Price

Massenet - Manon - Je marche sur tous le chemins...Oui, dans le bois (Fabliau alternativo) - Bidù Sayao

Massenet - Manon - Toi! Vous! - Lucrezia Bori & Richard Crooks

Mozart - Die Zauberflöte - In diesen heil'gen Hallen - Ezio Pinza

Ponchielli - La Gioconda - La barca s'avvicina...Così mantieni il patto? - Zinka Milanov, Kurt Baum, Nell Rankin & Leonard Warren

Verdi - La traviata - E' strano...Ah, fors'è lui...Sempre libera - Vina Bovy

Verdi - La traviata - Qui desiata giungi...Di sprezzo degno - Rosa Ponselle, Frederick Jagel & Lawrence Tibbett

Read More...

mercoledì 2 aprile 2008

Pesce d'aprile a Genova: Werther

Come ognun sa, le tradizioni sono molto importanti, specie quando non ne rimangono molte. Persa di vista ormai da tempo quella del Belcanto, il Carlo Felice non rinuncia a omaggiare la gloriosa tradizione del pesce d'aprile, proponendo un Werther che schiera nei ruoli protagonistici due autentici scherzi di natura (o meglio, contro natura): un tenore lirico che urla e un mezzosoprano che ha piuttosto del soprano leggero sul viale del tramonto.
Giuseppe Filianoti, reduce dai nefasti palermitani di Mefistofele e Rake's progress e soprattutto dallo stremato Edgardo nuovaiorchese, dimostra ancora una volta l'inconfutabile sfascio di una delle voci più belle che siano di recente risuonate nei teatri d'opera: fiati corti, mezzevoci spoggiate e falsettanti, gli acuti ridotti a grida, non di rado anche stonate (e per un tenore che si era fatto un nome con titoli come Favorita, il risultato è sorprendente).
Inutile cercare finezze di fraseggio in una voce così spossata, che annaspa nell'Invocazione alla natura e ulula dal secondo atto in poi. Persino il poema di Ossian, unico momento in cui il tenore cerca un minimo sindacale di colori, si risolve nell'ormai abituale spettacolo della rana che volle farsi bue, trasformando il gentile poeta in un Canio della più profonda provincia, che nel quadro finale sembra aver perduto, oltre alla pace dello spirito, anche quella dell'intestino.
Insomma le brillanti intenzioni del Filianoti lettore di Goethe, così come emerse nel colloquio con lo speaker radiofonico all'intervallo, non si traducono in interpretazione vocale a causa di una tecnica di canto mai stata salda (la nota aleatorietà del settore acuto) e che, con il progressivo venire meno della dote naturale, mostra con sempre maggior evidenza le proprie lacune. Il tutto per l'edificazione di un pubblico che, manco a dirlo, applaude beatamente tanto Filianoti quanto la sua compagna di strada Sonia Ganassi, che nei primi due atti si cava d'impaccio accennando e sussurrando (ma la povertà del registro grave e gli acuti stiracchiati sono evidenti fin dal duetto finale del primo atto). Alla grande scena del terzo atto, la voce suona assai magra e opaca, oltre che tremula, sommamente inadatta a tradurre in musica la composta, ma non esangue, disperazione di Carlotta.
Nel duetto con il tenore la Ganassi, stimolata dal vociante partner, si lancia all'inseguimento emettendo strida aquiline che sfuggono a ogni classificazione, oltre che a ogni controllo. Nel quadro finale si riaffaccia, a congedarsi dal pubblico, la bambina udita nella prima parte, ma come ulteriormente svuotata di energie, come provano i moribondi acuti. I migliori auguri alla signora per i suoi prossimi impegni, Eboli ed Ermione: ruoli che esigono, oltre a sopraffine doti vocali, un temperamento drammatico infinitamente superiore a quello richiesto dalla trepida figlia del Podestà e, a contraccambio, offrono un numero infinitamente superiore di occasioni propizie all'urlo inconsulto.
Accanto a simili colleghi, l'Alberto di Giorgio Caoduro assicura almeno una parvenza di canto e un'accettabile compostezza di accento: peccato solo per la poca incisività del fraseggio, il cui accorto uso renderebbe più sopportabile un personaggio monocorde come pochi altri. Adriana Kucerova è una squittente Sofia. Non pervenuti i comprimari.
Alain Guingal non va oltre la routine: l'orchestra suona discretamente ma il pathos resta sulla carta. Del resto, con protagonisti del genere, arrivare a fine recita è già un lusso, e di questo va reso merito al concertatore.

Chiudiamo questa mesta cronaca con alcuni ascolti, reperto di epoche più o meno remote, che ci consegnano, assieme a tanto rimpianto, pure un raggio di speranza: non sempre canto e interpretazione vanno disgiunti. Come ci ricorda Kozlovsky, non è coi rantoli o coi singhiozzi che si evoca il soffio della primavera, ma con la purezza e la flessibilità della linea di canto, doti che solo una voce perfettamente sul fiato può assicurare.

J. Massenet: Werther

Atto III

Aria della lettera - Teresa Berganza, Martine Dupuy, Elena Obraztsova, Giulietta Simionato, Ebe Stignani
Ah non mi ridestar - Ivan Kozlovsky

Read More...

domenica 9 marzo 2008

Lucia di Lammermoor al Met: c’è poco da recensire, ma molto da meravigliarsi!

Si, in effetti c’è poco da recensire di questa Lucia newyokese!
Sarebbe assolutamente inutile proporre qualsivoglia riflessione riguardo gusto, tecnica, qualità vocali dei protagonisti di questa serata radiofonica appena terminata.

Entrambi, la Dessay e Filianoti, sono cantanti finiti. Con la sola differenza che la signora Dessay ha anche l’ardire di spacciare versacci, versetti e raggiusti da versione semplificata per grande interpretazione ed esecuzione, mentre Filianoti espone allo stato naturale la sua miseranda condizione vocale. Sfascio mai udito in nessun cantante, men che meno in carriera, men che meno in un teatro importante!
Peraltro in un qualunque teatro di provincia italiana il pubblico non li avrebbe lasciati terminare.

Ma ci sono tre diverse riflessioni assolutamente obbligatorie:
1) gli applausi che hanno salutato queste esibizioni sembrano quelli che potevano concludere una qualsivoglia Lucia al Met ante 1985 ( Sutherland Kraus, Scotto Bergonzi….), quindi la politica delle majors e dei critici, loro sordi sostenitori, ha fatto il suo effetto: il pubblico applaude perché deve applaudire;
2) una direzione artistica ed un direttore d’orchestra con un poco di rispetto per il proprio lavoro e per la musica avrebbero avuto il sacrosanto dovere di protestare siffatti can-tanti;
3) davanti a divi, o aspiranti tali, in condizioni da Casa Verdi ( ma chi avesse sentito gli ospiti di Casa Verdi esibirsi nel bellissimo film Il bacio di Tosca avrebbe sentito timbri più freschi e tecniche più affinate !) le direzioni artistiche dei teatri, che a quanto si dice intendono affidare loro aperture di stagione in ruoli da tenore eroico, o che si dolgono di forfait di comodo, dovrebbero domandarsi, in un brevissimo istante di autocoscienza, se ascoltano con le proprie orecchie o con quelle degli agenti che propongono loro siffatti rottami, e domandarsi se i loro profumati emolumenti pagati, nonostante tutto, con i soldi dei contribuenti, siano onestamente guadagnati.

Affidiamo alla voce di una primadonna che mai osò ingannare il pubblico, nemmeno nella serata d’addio, il commento a questa scandalosa Lucia di Lammermoor.

Ebe Stignani commenta la diretta radiofonica di stasera

DD e GG

Read More...