sabato 13 settembre 2008

Cavalli, Didone e il pubblico moderno

Strani tempi quelli in cui ci troviamo a vivere! In un mondo – quello dell’opera lirica – che non riesce a rappresentare titoli che fino agli anni ’70 del secolo appena trascorso erano “di repertorio” in tutti i teatri del mondo (penso a Dinorah, a Gioconda, al Verdi della maturità, per non parlare di Donizetti e Bellini o al grand-opéra, ma anche certi titoli della “giovane scuola” oggi praticamente spariti: da Francesca da Rimini all’Adriana, da Iris a Wally), vuoi per effettiva mancanza di voci adeguate, vuoi – soprattutto – per mancanza di una politica culturale rispettosa di tradizioni e interessi del pubblico e in cui Il Trovatore o I Vespri Siciliani divengono “eventi”, in una tale situazione – dicevo – si assiste alla inusuale presenza in teatri, sale da concerto e mercato discografico, di titoli e autori risalenti all’epoca tardo rinascimentale e prebarocca.
Non si tratta della doverosa programmazione dei lavori di Haendel o degli altri astri dell’Opera Seria metastasiana (da Porpora a Telemann a Hasse), la cui continua e persistente mancanza dai palcoscenici è una autentica vergogna per le nostre istituzioni musicali, bensì di autori ormai lontanissimi dalla nostra sensibilità e concezione dell’opera lirica: sia per ciò che ne concerne la fruizione, sia per la sua stessa esecuzione. Tali titoli – legati a determinate occasioni mondane, concepiti a celebrazione di una precisa ricorrenza o personaggio, pensati per una certa tipologia di luoghi (più raccolti e intimi di una moderna sala teatrale), destinati ad un pubblico assai diverso dal nostro e che mentre ascoltava musica faceva tutt’altro (o forse sarebbe più corretto dire che mentre faceva tutt’altro ascoltava anche un po' di musica), eseguiti, infine, non su partiture complete (come le intendiamo noi oggi), ma lasciati alla contingenza della disponibilità strumentale e all’estro dei suonatori (ché non vi era alcun direttore d’orchestra o figure assimilabili) – vengono oggi proposti in spazi molto più ampi e costruiti differentemente e ad un pubblico il cui atteggiamento è radicalmente diverso, necessitando, oltre tutto, di un complesso lavoro di realizzazione della partitura che sulla carta esiste solo come linea vocale e accompagnamento di basso numerato, mancando sia di indicazione di organico che di strumentazione (ed essendo oggi inconcepibile la sua improvvisazione estemporanea). Si aggiunga ancora il fatto che un repertorio del genere andrebbe affidato a compagini di specialisti con approccio necessariamente “museale”, poichè gli strumenti adatti ad eseguire quella musica sono oggi spariti del tutto oppure si sono evoluti in forme non assimilabili agli originali (con tutti i problemi in termini di acustica e percezione del suono). Infine i cantanti, la cui tecnica è (o dovrebbe) essere plasmata sulle conquiste vocali del belcanto (suono immascherato etc..) laddove nel recitar cantando il suono è funzionale e secondario rispetto alla comprensione e recitazione del testo poetico. La somma di questi problemi (aggravati, lo ribadisco, dagli spazi che vengono impiegati oggi) rischia di trasformare l’opera in una ricerca archeologica e lo spettacolo in una specie di dotta “notte al museo”, magari affascinante e dagli alti contenuti artistici ed estetici, ma che non tiene conto delle differenti condizioni di ascolto e di fruizione. Se però fino a qualche tempo fa, tali titoli venivano circoscritti a festival dedicati o ad occasioni celebrative (che permettevano l’utilizzo di spazi e compagini più adatte allo scopo, al di fuori, cioè, dell’ambito della normale programmazione operistica generalista) oggi iniziano ad essere inseriti nelle ordinarie stagioni liriche: nulla di male in astratto e se si dovessero presentare 30 o 40 spettacoli all’anno, qualche perplessità in più laddove vengano rappresentati in una stagione che fatica ad arrivare a 10 titoli annuali. Vi è poi il problema dell’orchestra: quasi tutti i teatri dispongono di orchestre, stabili o meno, fatte di strumenti moderni e, giustamente, poco avvezze al modo antiquo o a certi strumenti ormai non più in uso. L’alternativa è quindi la trascrizione per compagini contemporanee con le loro sonorità e i loro timbri (soluzione che avrebbe il vantaggio di ovviare ai problemi di acustica nei larghi spazi usati, ma che suona come una bestemmia agli orecchi del “purista” e che, in effetti, porterebbe ad un certo snaturamento dell’originale) oppure affidarle ad ensemble specializzati, magari ospitate dall’ente teatrale di turno (soluzione auspicabile in termini di rispetto e correttezza esecutiva per questa - solo per questa - particolare musica, ma che non risolve i problemi di sonorità: il moderno teatro d’opera non è assimilabile al salone di una corte rinascimentale o al teatrino privato di qualche ricco mercante veneto).
In questa complessa e confusa situazione ecco spuntare sui palcoscenici e negli scaffali dei negozi di dischi, oltre a Monteverdi (la cui conoscenza è doverosa e sacrosanta per tanti motivi), il nome di Francesco Cavalli. Parafrasando Manzoni verrebbe da dire: Cavalli! Chi era costui? Domanda lecita, poichè al di là della citazione del nome nei salotti più à la page della lirica o nei cenacoli più squisiti di intellettuali et similia (ma che non testimoniano certo una reale e diffusa conoscenza), credo che la figura artistica del nostro sia perfettamente sovrapponibile alla fama di un qualsiasi Carneade, il cui nome si incontra scorrendo per caso l'elenco dei personaggi notevoli della sua epoca (quando non ci si imbatte in esso, ahimè, nel compulsare nervosamente la toponomastica stradale di qualche cittadina del lombardo-veneto). Pier Francesco Caletti-Bruni nacque a Crema (allora estrema propaggine occidentale della Serenissima Repubblica) nel 1602 e, trasferitosi ancora giovinetto a Venezia, assunse il nome del suo protettore – Federico Cavalli (già governatore di Crema) – per omaggiarlo dei favori ricevuti. Nel 1617 venne ammesso quale cantore nella celebre cappella di San Marco e lì fu allievo di Claudio Monteverdi, con il quale, si dice (ma non vi sono prove in merito) collaborò nella stesura dell’Incoronazione di Poppea, ultima opera del maestro cremonese. Morì appagato a Venezia nel 1676, dopo aver onestamente percorso tutto il cursus honorum che lo portò all’ambita carica di maestro della cappella ducale nel 1668. Autore molto prolifico (si conoscono circa 40 titoli) compose quasi esclusivamente per i teatri veneziani (anche 3 o 4 opere all’anno), salvo qualche sporadica e poco fortunata commissione estera (memorabile nel 1660, il fiasco del suo Xerses a Parigi, dovuto probabilmente alla scarsa dimestichezza dei francesi con il recitar cantando italiano e alla diversa strada che già stava imboccando il teatro francese). L’opera di Cavalli si pone a mezza via tra barocco e prebarocco, in quel particolare momento storico del passaggio tra opera di corte (festa teatrale) a opera scritta per un pubblico più vasto, pagante, composto anche da borghesi e da ricchi mercanti, e svincolata dalla contingenza di occasioni celebrative. Anche se non ancora assimilabile all’imminente rivoluzione dell’Opera Seria (sia nella struttura formale, sia nell’esecuzione, sia nella fruizione), si inizia ad assistere proprio in quel periodo al distacco dell’opera dal ristretto ambito nobiliare e al definitivo tramonto del recitar cantando e del concetto tutto monteverdiano dell'harmonia serva de l’oratione. Il percorso che porterà alle astrazioni dell’opera barocca comincia proprio negli anni in cui Cavalli si trova a vivere. Suo modello, tuttavia, è ancora Monteverdi e delle opere del maestro manterrà intatta la struttura: nonostante, infatti, una maggiore cura nel delineare e separare l’episodio solistico (ma solo nei lavori più tardi) che porterà poi alla definizione del numero chiuso e all’aria tripartita, le sue opere restano un lungo susseguirsi di recitativi e di declamati inframezzati da ritornelli e da qualche cantabile. I soggetti – preceduti e conclusi da prologo ed epilogo privi di reale connessione con la vicenda – resteranno ispirati alla mitologia classica e pastorale, con la costante della suddivisione del testo in due livelli: quello alto affidato ai personaggi tragici (storici e mitici) a cui è affidata la vicenda principale (spesso una lacrimevole serie di abbandoni e conseguenti lamenti – qualcuno parla delle opere di Cavalli con l’espressione ironica di belpianto); e quello basso e comico – immancabile – ai cui personaggi grotteschi e triviali, sono affidate divagazioni dal contenuto spesso osceno (con riferimenti sessuali più o meno espliciti), nell’intento di spezzare la monotonia dei lamenti dei protagonisti “seri” e di alleggerire l’estenuante lunghezza delle rappresentazioni integrali. Cavalli come tutti i musicisti precedenti e coevi non stende compiutamente la sua musica, ma si limita alla linea di canto (anche solo abbozzata) indicando solamente il basso numerato e, poche volte a dire il vero, annotando a margine quali strumenti impiegare. Probabilmente a dare veste esecutiva all’opera erano gli strumentisti con largo uso di improvvisazione, limitandosi l’autore a poche e non vincolanti indicazioni, dopo averne constatato il numero e la varietà. Quel che ci resta dunque, è solo un’ombra priva di definizione che genera non pochi problemi testuali all’esecutore moderno: essendo necessario un lavoro di realizzazione vera e propria per far assumere all’opera una forma rappresentabile. Il motivo di questa lunga premessa e divagazione è dato dall’imminente esecuzione al Teatro alla Scala di Milano, della Didone – terza delle opere di Cavalli, appunto – per la cui compiuta analisi si rimanda alla recensione che seguirà allo spettacolo (programmato per il 20 e il 22 di questo mese). Non è certo mia intenzione quella di contestare le scelte della sovrintendenza, liberissima di rivolgersi ad ogni piega del repertorio operistico, tuttavia mi permetto di rilevare tutte le perplessità già esposte (relative a spazi, esecuzione e fruizione), che verranno rese esplicite durante le prossime rappresentazioni. La Scala è teatro di una certa ampiezza, costruito nel XVIII secolo e per il genere di spettacolo sviluppatosi in quel periodo (cioè l’opera come noi la conosciamo, pur con tutte le evoluzioni successive). Gli organici ridotti, le sonorità scarne, gli strumenti originali e le voci poco proiettate, dell’ensemble di specialisti scritturato per l’esecuzione (in realtà in tournée dalla Fenice di Venezia), mostreranno tutta la loro inadeguatezza (a meno di improbabili e assai poco filologici rimpolpi d’organico). Già in passato ho assistito a lavori di Monteverdi, Marco da Gagliano e Peri, in teatri tradizionali (assai più piccoli e raccolti, come il Ponchielli di Cremona) e, a meno di trovarsi nelle prime file di platea o nei palchi appena sopra l’orchestra, la percezione musicale era abbastanza ridotta. Non voglio poi aprire il capitolo relativo all’affluenza di pubblico per un titolo di questo genere (privo di grandi attrattive musicali e di cast, e che si allestisce addirittura in forma scenica, con i relativi aggravi di costi e spese): sarebbe troppo facile constatare lo spreco di risorse (senza alcuna certezza di ritorno economico) nell’ambito di una stagione fatta di titoli risicati, poche repliche (e che spesso saltano a causa di scioperi – peraltro già annuncitati nel corso di tutta la stagione prossima ventura) e, cosa che è più grave, pochissime idee.

Cavalli - Donzelle fuggite - Edmond Clément

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giovedì 11 settembre 2008

Il baritono donizettiano

È negli anni Venti dell’Ottocento che inizia a delinearsi una nuova tipologia vocale, quella del baritono, a metà strada il basso cantante e il baritenore. E sono le opere di Gaetano Donizetti a proporre gli esempi più autorevoli e anzi gli autentici pilastri della voce emergente. Certo l’immensa popolarità, in vita e post mortem, dell’autore bergamasco favorì l’incontro con i più grandi cantanti della sua epoca, ma si può sostenere anche il contrario, cioè che furono i grandi, grandissimi baritoni (che erano poi quasi sempre, almeno all’inizio, bassi-baritoni) a rendere vieppiù celebri le opere donizettiane.

In primo luogo Antonio Tamburini (scusate… l’immodestia!), incontrastato nella sua corda al Théâtre des Italiens dai primi anni Trenta e per quasi un decennio. Donizetti lo volle in ben otto prime assolute, ultima – ma non ultima – quella del Don Pasquale, che Tamburini affrontò in condizioni vocali forse non freschissime (del resto aveva alle spalle 25 anni di carriera) ma ancora in pieno possesso delle doti di omogeneità, morbidezza, perfetta proiezione, precisione della coloratura e sovrano controllo dell’espressione che avevano caratterizzato la sua carriera. L’assolo del dottor Malatesta cantato da Giuseppe De Luca rende giustizia alla brillantezza della scrittura e alla fama dell’interprete cui era destinata.

A Tamburini succedette, aux Italiens, Giorgio Ronconi, per il quale Donizetti aveva già composto sette opere, dal Furioso all’isola di San Domingo alla Maria di Rohan. Privo della malia sottile di Tamburini (ma rispetto a lui maggiormente esteso in acuto), Ronconi sfoggiava fraseggio imperioso e grande temperamento scenico, che sfruttava al meglio in parti come quella di Nabucco (creata a Milano e ripresa a Parigi proprio al Teatro degli Italiani con immenso successo). Abbiamo scelto di proporre brani da due opere sensibilmente diverse fra loro, il semiserio Furioso e la tragica Rohan, accomunate dal tipo assegnato al baritono, quello del marito esasperato o addirittura reso pazzo dall’infedeltà coniugale (vera o presunta). Alla rabbia impotente dello sposo deluso si affianca, nei casi di Cardenio e del Duca di Chevreuse, il ricordo della felicità passata, e quindi gli accenti veementi e gli acuti svettanti convivono con una linea di canto nobile, sorvegliata, castigatissima.

Ed è nella cabaletta del Duca, registrata a 65 anni, che emerge la classe unica del Re dei baritoni, Mattia Battistini, che di questo repertorio appare come il dominatore assoluto e incontrastato, se non in termini di pura bellezza e potenza della dote naturale (i “rivali” che gli abbiamo scelto sono, in alcuni casi, temibili da questo punto di vista), di certo in grazia di omogeneità della gamma, controllo delle dinamiche e potenza dei fiati, precisione delle agilità, eleganza e pertinenza di fraseggio. Pochi, nella storia del disco, lo eguagliano come Alfonso XI di Castiglia, e nessuno nei panni del poeta soldato Camoëns. Ruoli che, come il Nottingham del Devereux, furono creati da Paul Barroilhet, il quale, a giudicare dagli spartiti donizettiani, doveva essere un virtuoso di prima grandezza.

La parte di Alfonso, lunga e acuta, richiede, oltre a un accento scultoreo e regale, una preparazione tecnica che permetta di eseguire trilli, smorzature e scale cromatiche non solo in modo impeccabile, ma con noncuranza, così da esprimere dapprima l’ebbrezza dell’amante, quindi i sospetti della gelosia e da ultimo l’ironia sprezzante del potente che medita la vendetta sotto la maschera della clemenza. A parte Battistini, segnaliamo l’abbandono struggente di Maurice Renaud, re della sprezzatura, Mariano Stabile, irresistibile per spavalderia in acuto e controllo della linea di canto, e l’eleganza misurata di Arthur Endrèze (sebbene viziato da qualche presa di fiato “abusiva”) e Mario Ancona (che meglio di tutti risolve la non agevole sincope alle parole “non vivrà che in te”).
Quanto all’aria del Don Sebastiano, quello che rende miracolosa l’esecuzione di Battistini è, ancora una volta, il perfetto controllo del fiato e le mille sfumature della linea di canto, capace di esprimere l’ardore e la commozione del personaggio. Accanto a Battistini, un gigante come Apollo Granforte appare monumentale ma anche vagamente monolitico, malgrado la bellezza di una voce rotonda quanto potente.

Un caso a parte, nel panorama dei baritoni donizettiani, è quello di Henri-Bernard Dabadie, grande interprete rossiniano (e primo Tell) che creò la parte del sergente nell’Elisir d’amore. E in effetti l’entrata di Belcore non può non richiamare quella di Dandini, non solo per il ritmo puntato della melodia ma per la quantità di virtuosismi che la voce deve sgranare onde restituire il fascino fatuo dell’azzimato militare, essendo la voce il principale, se non l’unico, strumento per ammaliare e conquistare il pubblico, almeno nel teatro d’opera che tale voglia davvero essere. A dispetto della registrazione che eufemisticamente potremmo definire non ben molto conservata, Giuseppe Taddei risponde appieno alle esigenze del personaggio, per la freschezza del timbro non meno che per la spavalda eleganza del fraseggio.

Abbiamo lasciato per ultimi i personaggi a più alta temperatura drammatica, vale a dire Belisario e Severo del Poliuto/Les Martyrs. La prima, parte scritta per Celestino Salvatori, è una delle più complesse del repertorio baritonale, non solo per l’insistenza sul registro centrale (ma con frequenti incursioni all’acuto) ma per la drammaticità della scrittura, che alterna, nel giro di poche battute, accenti accorati ed esplosioni di collera, sempre ovviamente da risolvere nell’ambito del canto (la precisazione dovrebbe essere superflua, ma così non è). Il che vale, ovviamente, anche per le altre grandi parti di questo poderoso dramma, che non per caso è nuovamente sparito dal repertorio dopo un periodo di rinnovata frequentazione. Quanto a Severo, la parte che a Napoli sarebbe stata cantata da Filippo Colini (dopo la morte dell’autore) all’Opéra di Parigi fu creata da Eugène Massol, che aveva iniziato la carriera come tenore. La saldezza in acuto non è però l’unica caratteristica necessaria alla definizione del personaggio del Proconsole, essendo altrettanto importante (se non di più), il controllo scrupoloso della linea di canto, la morbidezza del suono e la capacità di piegarlo senza sforzo (quantomeno… udibile!) all’imperiosità del recitativo come alle mille sfumature della tenerezza e del geloso furore.

Gli ascolti - Gaetano Donizetti

Belisario - Quando di sangue tinto - Giuseppe Taddei & Umberto Grilli (1969)
Belisario - Da chi son io tradito - Giuseppe Taddei (con Leyla Gencer, Mirna Pecile, Umberto Grilli, Giovanni Antonini & Nicola Zaccaria) (1969)

Don Pasquale - Bella siccome un angelo - Giuseppe De Luca (1905)

Dom Sébastien, Roi de Portugal - O Lisbonne, o ma patrie - Mattia Battistini (1906), Apollo Granforte (1925)

L'elisir d'amore - Come Paride vezzoso...Più tempo invan non perdere - Giuseppe Taddei (con Rina Gigli, Anna Maria Borrelli & Beniamino Gigli) (1953)

La Favorite - Léonor! Viens, j'abandonne - Mattia Battistini (1913), Riccardo Stracciari (1925), Titta Ruffo (1904), Maurice Renaud (1901)
La Favorite - Dans ce palais règnent pour te séduire - Sesto Bruscantini & Fiorenza Cossotto (1967)
La Favorite - Pour tant d'amour ne soyez pas ingrate - Arthur Endrèze (1932), Mario Ancona (1907), Mariano Stabile (1926), Umberto Urbano (1925), Piero Cappuccilli (1974), Renato Bruson (1973)

Il furioso all'isola di San Domingo - Raggio d'amor parea - Renato Bruson (1998)

Maria di Rohan - Voce fatal di morte - Mattia Battistini (1921)

Poliuto - Di tua beltade immagine - Ettore Bastianini (1960)
Les Martyrs - Amour de mon jeune age - Renato Bruson (1975)

La presente puntata è dedicata al Signor A.

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martedì 9 settembre 2008

Vivian Liff's Les Huguenots - Seconda puntata

Prosegue l'edizione dell'articolo di Vivian Liff sulle incisioni a 78 giri di Les Huguenots.

In questa seconda parte Liff prende in esame brani provenienti dagli atti secondo e terzo.

Qui trovate la nostra traduzione.
Buona lettura.
Enjoy!

Vivian Liff
LES HUGUENOTS (parte seconda)



The Queen's aria which opens the second act is cast in the form of a slow first section 'O beau pays', a middle section with Urbain and female chorus and a cabaletta 'A ce mot tout s'anime'. None of the versions on 78s contain the complete music and several singers only recorded the first section. Among these there is, surprisingly, only one poor version, namely that by Maria Galvany (PD 053164) who sings without style and with a disturbing lack of repose. Better efforts include those by Antonia Nezhdanova (HMV 2-23317; CO 366), which is most artistic if a little white in tone; the great Lilli Lehmann (Od. 50394; CO 385), who provides finely graded, authoritative singing, but the timbre is, alas, rather sour; Hempel (HMVAGSB 59; CO 302) is stylish but not particularly accurate, with a characteristic white-toned top D inserted in the cadenza. Hedwig Francillo-Kaufmann (Gramm. 2-43210; CO 356) exhibits a pa:iticularly fine trill, and she sings the air with great refine¬ment lacking only the ultimate in distinction; Irene Abendroth (G&T 43249; Rococo 5297) demonstrates the suitability of a Lamperti-based technique for this music and includes stylish ornaments. Unfortunately the unstable speed of the primitive re¬cording does her a grave disservice, playing havoc with the pitching. A prevailing impression of flatting also mars the pleasure in a limpid tendering by Emilie Herzog (G&T 43863; CO 418) due, possibly, to the loss of natural overtones in the voice through the acoustic recording process. Claire Clairbert (Poly. 66920), the pre-war star of La Monnaie, supplies good clean singing in the slightly steely inter-war Gallic style, but her version is highly accomplished with a noteworthy trill; Alexandra Dobrovolskaya (Mus Trest 06005),in on a rare electrical recording with piano accompaniment, fascinates in a performance of great character and charm. The voice has lost some of the freshness and beauty evident on her G&T recordings, but this remains a lovable version - as indeed is that by Giuseppina Huguet (G&T 053072; GV 68) whose poised, clean singing demonstrates all the virtues of the old Italian school. Two of the finest versions are contrasted in style.

For sheer classical musicianship allied to great tonal beauty, all three of the records made by Alice Verlet, the great star of the Paris Opera, are recommended (Pathe 4861, Edison 82090 and HMV 33678; GV 18) though the HMV is marginally the finest. Kurz's version (G&T 43886; Rococo R37) is wayward in the extreme but such is the fascination and authority of the singer that one is charmed into submission, whilst the lazy ease of her coloratura suits the dreamy, reminiscent mood of the music to perfection.


Four versions manage to contain both aria and cabaletta on one side and three of these, alas, must be speedily dismissed. In Luisa Tetrazzini's case (HMV VB 41; CO 344) the attempt to cram the music, heavily cut of course, onto a single side results in a rushed tempo that totally destroys the atmos¬phere of the slow section. Although Eide Norena (Od. 123636; LV 193) avoids this fault and manages a lovely opening, she ruins the cabaletta with strings of intrusive 'h's. Conversely Lucette Korsoff (Edison FS 889) redeems an opening beset by intonation problems with a fleet and dazzling finale. Only Gabrielle Ritter-Ciampi (Pathe 0405) succeeds in offering a poised and suitably languid opening in conjunction with a sparkling cabaletta - albeit severely reduced in length. Double-sided versions include Marie Michailova (G&T 23468, PD 2-43070 the aria, Berliner 23093 the cabaletta) whose 'pre-dog' version of the aria (reissued on GV 26) is to be preferred to the piano-accompanied early version although both are excellent and display a lovely quality of voice. Her cabaletta is highly accomplished too, if lacking true brilliance. Esperanza Clasenti (Fono. 39499/500) has a typically bright Spanish voice of attractive timbre but lacks a first-class trill; Giuseppina Finzi-Magrini (Fono. 39677/8) sounds a fine singer of the second rank; Yvonne Brothier (HMV W 1086), is, alas; quite out of voice. Lily Dupre (HMV 033158/9) is interesting for her inclusion of more of the score than any other; she sings well throughout and offers a particularly thrilling cabaletta - only the lack of a truly sensuous tone keeps this out of the highest grade; Deborah Pantofel-Nechetskaya (USSR 15792/3) has a white, very small voice strongly reminiscent of that of Miliza Korjus but her technique and musicianship are exemplary (she manages the staccati more accurately perhaps than anyone else) - ultimately, however charming, she lacks the authority required for this part.

There are three versions of outstanding merit. Hempel (Od. RO 524; CO 302) improves immeasurably on her HMV effort. Of all the sopranos she decorates most elaborately but always with fine taste and in the correct style. Since all Meyerbeer's other requirements are met, it is difficult to imagine that he would have objected to decorations as elegant as these. This is poetic - and beautifully contained singing. Olimpia Boronat (HMV SIP 1516c and PD 053187; Club 99.3) is wayward, even eccentric, but what character is conveyed -- the whole performance has a command that only the truly great singers' possess. Finest of all, perhaps, is Margarete Siems, the original Marschallin (Parlo. P 246; Rococo R20) whose version is easily the most elaborate but who sings with indolent grace and effortless bravura. When this is allied to a meticulous attention to dynamic markings, it has the expansiveness and grandeur of style that this music requires. Before leaving this aria, mention must be made of a Mapleson cylinder (IRCC 5002; VRL 50365) taken at a performance of the opera on 11 March 1901 at the Metropolitan Opera House. There is some controversy as to whether the Marguerite de Valois on that occasion was Nellie Melba or Suzanne Adams. To my ears it is Melba even though none of the famed soprano’s commercial recordings approach the abandon and brio displayed here. Whoever it was can be heard singing, with the greatest possible brilliance, almost the entire cabaletta, transcending the primitive medium, before the audience erupts into an enormous and well-deserved ovation

The Page's second aria 'Non, non, non, vous n'avez jamais' was written for Marietta Alboni and has rarely been recorded; There is a four-square version by Zara Dolukhanova (USSR 21859) and a very fine, unpublished one from Eugenia Mantelli (Zono I 16526x Marston CD 52053-2) which is charming and easily upholds her legendary reputation. The only other heard is by Parsi-Pettinella (Fono. 39646; Club 99.106) which is both expressive and accurate, also with a moderate measure of charm.


The fine duet for Raoul and the Queen has been recorded in both single-sided (invariably cut) and double-sided versions, but Leo Slezak (G&T 3-42375; CO 309) manages to fill a 10-inch side with Raoul's opening solo. The leisurely tempo he is able to adopt allows him to produce some of his finest singing in this role and demonstrates forcibly how careful one should be in judging singers only from these early recordings. When the tenor is joined by Elise Elizza (G&T 044024; Rococo 52) the necessary increase in tempo results in unlovely tone and little nuance, although it must be admitted that the soprano manages to provide singing of great beauty and elegance. The heavily cut version by Alexander Davidov and Marie Michailova (G&T 24395; GV 26), despite one or two delightful touches from Michailova, allows neither singer to show to advantage. Urlus and Cato Engelen-Sewing (Pathe 30235) sing well, though again the performance is rushed and not exactly helped by the Dutch translation. Affre and Landouzy (Od. 56161; GV 38) combine in an idiomatic and stylish rendering, the tenor, particularly, sound¬ing both heroic and important. Two normally excellent singers - Andrejewa von Skilondz and Marak (Gramm. 3-44098/9) are in indifferent voice and produce a thoroughly perfunctory version. However Siems paired with Desider Aranyi (G&T 044034; Rococo R41) sings superbly with scintillating brilliance while her partner provides sensitive support of a more heroic nature than expected. The voices blend particularly well in a virtuoso performance. The only version found in Italian is that by Giuseppina Huguet and Jose Maristany, both Spaniards (G&T 54029). The tenor is merely adequate and of provincial calibre but the duet is cut so as to remove most of his contribution and one may thus enjoy the stylish, graceful, cultivated singing provided by his accomplished partner. It is perhaps fitting that the fullest version of the duet is also the finest - that by Jadlowker and Hempel (Od. 76902/3; CO 395). Apart from some whiteness of tone from Hempel, this version approaches the ideal for all the dynamic markings are scrupulously observed and the performance has the utmost delicacy and elegance.


Thirteen versions of the duet for Valentine and Marcel 'Derriere ce pilier' have been located. Three of them feature the fine bass Andreas de Segurola who sings with Isabel Grassot (G&T 54030/1), Maria Grisi (G&T 54331) and Cecilia David (PD 054184). He is wonderfully expressive in all three and it is to be regretted that Grisi, who easily steals the soprano laurels, has to be content with the most heavily cut version. It is the unsteady tone of the soprano which ruins the otherwise excellent version by Juste Nivette and Amelia Talexis (Od. 60644/651) for the bass, as always, is magnificent. Likewise it is a lack of authority on the soprano's part, which lets down an otherwise more than adequately sung version by Leon Rains and Riza Eibenschutz (Gramm (2-44436; CO 402). Andre Gresse and Marie Lafargue (Gramm. 034183/4; IRCC L7038) sing acceptably in the correct style but, although both possess fine voices, the final result is unmemorable. Like de Segurola, Hesch made early recordings of the duet with three different sopranos Sophie Sedlmair (G&T 044028; Rococo 5377), Elsa Bland (G&T 044070; CO 317) and Betty Schubert (Od. 38083). Amazingly it is the relatively unknown Betty Schubert who makes the greatest impression with firm, even-scaled, authoritative singing and. a superb trill. Bland sings with finer style than Sedlmair whose uncharacteristically poor attack on certain notes reduces what is otherwise a commanding performance. Needless to say Hesch sings superbly on all three versions but sounds especially solid and impressive on the Odeon disc. Another two, almost unknown singers, M. Ticci and Alfredo Brondi (Od. 37759/60) sing with fine style and conform strictly to the score, even to the extent of a well-executed trill from the bass. Only the acidulous vocal quality of the soprano makes this version less than ideal. Perhaps this accolade might have gone to that heard in the Metropolitan Opera House in January 1903 when the voices of Johanna Gadski and Edouard de Reszke were caught on four Mapleson cylinders (re-recorded onto IRCC 168) in sections of the duet including the final allegro moderato unrecorded elsewhere. Despite the pri¬mitive recording, which must render it hors de combat, it is possible to appreciate the superlative singing offered by both artists. It is left to the Germans, Paul Knüpfer and Barbara Kemp (Poly. 65268; LV 13) to provide the most complete as well as the finest version in acceptable sound. They sing with rich authority and complete command - all the dynamic markings are observed; it is a real joy to hear two singers blending such firmness of attack with so much finesse. Knüpfer also recorded this duet with Helene Offenberg (Gramm. 044159/60; CO 352) who has a soft-grained, pleasant enough voice. Although she sings well throughout, the concluding bars, stretch her resources and she nowhere sounds really authoritative or important.

The exciting 'Duel' septet which follows almost immediately receives a thrilling performance by the clarion-voiced tenor Leon Escalaïs, ably supported by a cast including Antonio Magini-Coletti, Ferruccio Corradetti and Qreste Luppi (Fono. 39370; Rococo 5278). In equally vigorous, though less idiomatic fashion, Slezak leads a starry team of Viennese singers including Richard Mayr, Arthur Preuss and Gerhard Stehmann (G&T 2-44427). That neither version can be accounted ideal is due solely to the limitations of the acoustical recording process in coping with concerted voices.
A single recording of Nevers's brief solo at the end of this scene was made by Mario Ancona on an Edison cylinder dating from 1906. Its neglect by baritones is hardly surprising since it is not one of Meyerbeer's happiest inspirations. Ancona displays his magnificent velvet-like voice to fine effect, but unfortunately his singing in this instance is singularly lacking in subtlety and he exhibits an alarming disregard for note values.

Gli ascolti

Meyerbeer - Les Huguenots

Acte II


O beau pays...A ce mot - Nellie Melba (Mapleson - 1902), Margarethe Siems (1912)

Beauté divine, enchanteresse - Hermann Jadlowker & Frieda Hempel (1907)

Acte III

Dans la nuit, où seul j'eveille - Edouard de Reszke & Johanna Gadski (Mapleson - 1903), Paul Knupfer & Barbara Kemp (1914)

En mon bon droit j'ai confiance - Léon Escalais, Antonio Magini-Coletti, Luppi, Sala, Corradetti, Algos & Masotti (1905)

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domenica 7 settembre 2008

Le Fate: Riccardo Wagner e l'opera romantica

La visione che abbiamo noi, oggi, dell’opera teatrale di Riccardo Wagner è fortemente influenzata da diversi fattori ed elementi: non propriamente extramusicali, quanto, piuttosto, sovramusicali. Elementi questi che hanno portato alla sostanziale mitizzazione del compositore, attribuendogli una unicità ed eccezionalità – rispetto alla musica coeva – che si pretende scaturire dal nulla, o meglio dalla geniale ispirazione di un uomo che da solo “crea” l’avvenire: il compositore diventa creatore e la sua vita artistica diviene una “missione”. I fattori che hanno portato a questa “beatificazione”, vanno individuati nell’immagine che Wagner stesso si confezionò e nella critica – contemporanea e successiva – che, suggestionata da tale immagine, non ha saputo o voluto distaccarsene.

Wagner, infatti, crea intorno a sé, alla sua vita e alla sua opera una vera e propria mitologia, culminata nella costruzione del “tempio” di Bayreuth: monumento smisurato all’ego smisurato del compositore, ove alle consuete rappresentazioni teatrali, si sostituiscono rituali mistici, a lode, gloria ed onore del suo nume tutelare. Questa immagine pubblica, si sa, coprì le miserie private: l’opportunismo, la grettezza, l’invidia, l’avidità dell’uomo, che appaiono tanto più evidenti se si scorre senza pregiudizi una qualsiasi biografia, non schierata, dell’autore.
Attraverso la risistemazione e la ricostruzione a posteriori della sua carriera artistica (per farla meglio aderire – anche a costo di forzature – alle idee estetiche maturate solo tardivamente e racchiuse nei suoi ponderosi e, mi si conceda, polverosi scritti teorici), Wagner potè presentare ad un pubblico non più fatto di semplici ammiratori, ma di veri fedeli, una visione estremamente coerente della sua opera, che volle mostrare interamente fondata su di un unico e primigenio principio estetico, sviluppatosi attraverso una inesorabile evoluzione (una missione o una ricerca appunto) e finalizzato alla creazione di una nuova religione dedicata alla “musica dell’avvenire”. Per far questo non solo rielaborò i lavori giovanili (Olandese e Tannhauser) per poterli meglio inserire nel canone dei drammi musicali (pienamente rispondente ai suoi cavillosi presupposti programmatici), ma si vide costretto ad espungere dal suo catalogo, quasi con ribrezzo, i primissimi lavori, per i quali non sarebbe certo bastata una semplice rielaborazione, e a proibirne la rappresentazione nel “tempio di famiglia” (prescrizione che gli obbedienti nipotini mantengono ancora, nella stanca, ma molto redditizia – e ciò non sarebbe dispiaciuto al nonno – ripetizione dei rituali nibelungici). Quale il motivo di questo ripudio? Semplicissimo: quei lavori tradiscono una verità sempre negata e nascosta da Wagner stesso, prima, e dai suoi cultori ed esegeti, poi, mostrano cioè come il mondo musicale preesistente e contemporaneo al compositore, ne abbia influenzato non poco l’opera. Ovvio che, nel pretendere l’assoluta unicità della sua parabola musicale, Wagner si trovasse costretto a tagliare ogni ponte e collegamento con la musica “del passato”: per non macchiare così l’eccezionalità e la genuinità della “musica dell’avvenire” (unica eccezione – concessa però dallo stesso compositore – il parallelo con Gluck, anche se in senso rovesciato: non è Wagner ad ispirarsi a Gluck, giammai, bensì è questi a “preparare la strada” a Wagner).
Questi primi lavori, tuttavia, pur nel diseguale risultato artistico (a volte assai modesto, come nel Divieto di amare e – in parte – nel Rienzi; a volte straordinariamente buono come Le Fate) sono ottimi testimoni di quanto la musica wagneriana sia debitrice dell’opera romantica di Weber, del grand-opéra e del melodramma italiano. E questo nonostante il tardivo disprezzo sbandierato dall’autore per questi modelli – in particolare per gli ultimi due (anche se ricorreranno tutti e saranno ancora visibili pure nelle composizioni successive).

Di quei tre primi lavori che tanto imbarazzeranno il Wagner “maturo”, dicevo, un posto di assoluto riguardo spetta a Le Fate. Die Feen, che vennero composte tra il 1833 e il 1834 (ma rappresentate solo nel 1888, dopo la morte dell'autore), mentre si trovava a Wurzburg, quale direttore d’orchestra del locale teatro d’opera (dove allestì, tra le altre, Robert Le Diable e Der Vampyr), si presentano come una autentica opera romantica: suo modello evidente è Weber (in particolare quello di Oberon), ma anche Mendelssohn e Schubert. L’improbabile vicenda, tratta da un lavoro di Gozzi e ricollocata da Wagner in un’ambientazione nordica (laddove l’originale si svolgeva in un Oriente fantastico), si caratterizza per la scarsissima efficacia teatrale e rivela un testo assai macchinoso, verboso e prolisso con molti squilibri nella struttura e nella distribuzione delle scene (tali difetti – ovviamente in forma molto più sfumata e riscattati da una maggior padronanza degli strumenti del mestiere – permarranno anche nelle opere della maturità: Wagner, grande musicista, fu in realtà un mediocre, se non pessimo, scrittore, e certo la “qualità” dei versi del Ring o del Tristano o di Parsifal, non è di molto superiore a quella di queste Fate). Tuttavia, pur partendo da una base scadente e confusa, Wagner veste il suo brutto libretto con musica di straordinaria efficacia e inventiva. Certo non mancano le lungaggini e le pagine meno ispirate (e in verità non mancheranno mai nei suoi lavori), ma per essere un’opera prima dimostra un’ottima conoscenza tecnica (certamente dovuta all’approfondito studio dei modelli di cui parlavo più sopra), mestiere e originalità (soprattutto se si confronta con le due successive). Opera romantica dicevo: al centro la figura della fata Ada che si innamora del mortale e nobile Arindal, il quale all’esito di improbabili e complesse vicende (per la cui conoscenza rimando alla lettura di un riassunto della trama) riuscirà a conquistare l’immortalità e l’amore. Mondo magico che si scontra con mondo reale quindi, amore e morte, armonia e guerra, sogno e razionalità: le più tipiche espressioni delle contrapposizioni del romanticismo. Ada ricorda molto da vicino le grandi eroine weberiane: Agathe, ma soprattutto Rezia (al secondo atto vi è una grande e difficile aria per lei che ha più di un rimando ad “Ozean, du Ungeheuer”), il suo personaggio, sospeso tra umano ed inumano, tra le forze misteriose della natura e la caducità della vita reale si incarna in un ruolo di estrema difficoltà vocale: richiede un registro sicuro e svettante nell’acuto, corposo nei centri ed estremamente resistente (la parte, come tutta l’opera del resto, è particolarmente lunga). Una “tromba d’argento” per cui non si può non pensare alla Nilsson (che infatti fu una straordinaria Rezia). A ciò si aggiunga la padronanza del canto di agilità (Wagner qui risente ancora delle influenze belcantistiche mutuate dal melodramma italiano). Ad essa sono affidate alcune tra le pagine più belle dell’opera, a cominciare dalla delicata cavatina del primo atto mentre il deserto si trasforma nel giardino delle fate: quasi un sussurro malinconico che sfocia poi in un duetto più movimentato (ad uso di cabaletta) che insiste sul registro acuto (assai impervio per il tenore). Vertice della partitura la grande scena ed aria di Ada collocata nel mezzo dell’atto II, “Weh mir, so nah die, fürchterliche Stunde”: introdotta da un ampio e drammatico recitativo di struttura metrica irregolare e spezzato da sfoghi orchestrali e squarci più cantabili, in cui la voce sale e scende lungo il pentagramma alternando malinconia e dramma, senza alcuna tregua per l’interprete, trova sbocco nell’aria vera e propria, quasi “di furore” (con abbondanti ornamentazioni) pur nell’alternarsi di ampi strappi lirici. Una cavalcata di quasi 12 minuti che non è esagerato definire una delle creazioni più felici di Wagner.

Tante altre tuttavia, sono le pagine notevoli dell’opera, che si segnalano per la straordinaria bellezza dell’invenzione musicale: la lunga Ouverture romantica innanzitutto (brano che conosce un relativo successo concertistico); i monologhi di Arindal (tenore la cui vocalità rimanda al Florestan di Beethoven), sia quello del primo atto sia il “delirio” del terzo, interrotto dalla voce malinconica di Ada con uno straordinario effetto di momentanea calma e pace; il finale I; l’introduzione all’atto II con la splendida aria di Lora, di purezza cristallina, appena screziata da un accenno di coloratura; il finale III, con la scena delle prove e il suggestivo lied del tenore con accompagnamento di arpa solista. E poi i tanti cori, i singoli pezzi d’insieme, gli interludi sinfonici. Non molto riusciti, invece, gli episodi comici che restano a margine della vicenda, con l’intento di alleggerirne la portata drammatica, ma così male inseriti nella struttura generale (qui Wagner paga l’inesperienza, oltre ad una scarsa dimestichezza con elementi di commedia) da risultare solo fuorvianti e fastidiosi (musicalmente, poi, sono assai modesti). Opera quindi, che richiede grandi interpreti, grande orchestra (l’accompagnamento musicale è di ampiezza e complessità sinfonica), e un grande direttore che sappia ben dosare i vari ingredienti, evidenziarne i tanti pregi, dargli coesione e coerenza, valorizzare gli episodi (tanti) migliori e far passare in secondo piano certe ingenuità e asprezze (magari con qualche taglio, perchè no?).

Poche sono le incisioni disponibili sul mercato (soprattutto se rapportate alla sterminata discografia wagneriana). La più risalente nel tempo è quella incisa in modo semiufficiale nel 1976 dal vivo (negli studi radiofonici della BBC) e diretta da Edward Downes (che inciderà pure il Divieto di amare e l’unica edizione del tutto completa del Rienzi), di recente pubblicata dalla PONTO è perfettamente integrale e presenta un ottimo suono: la compagnia di canto è buona (senza far gridare al miracolo) e si percepisce quanto si impegni e creda nel progetto, così come il direttore. Ottimi orchestra e coro. Di qualche anno successiva, nel 1983, a Monaco (nell’ambito delle celebrazioni per il primo centenario della morte di Wagner) l’edizione diretta da Sawallisch: edita dalla ORFEO ed incisa dal vivo, presenta un cast molto felice (tra cui in ruoli comprimari la Anderson e la Studer). Il suono è ottimo e la cura che dedica il direttore è straordinaria. Sawallisch pratica alcuni tagli alla partitura, con l’intento (assai apprezzabile) di correggerne i momenti più squilibrati, ridimensionandone la verbosità ed eliminando certe inutili lungaggini. Ultima in ordine cronologico è quella, incisa sempre dal vivo a Cagliari nel 1998: versione che però non conosco. Opera complessa dunque, ingiustamente espulsa dai mistici rituali di Bayreuth, vista con fastidio e disprezzo dai tanti bidelli del Walhalla, ripudiata con imbarazzo dallo stesso autore, eppure lavoro che rivela il mondo e la cultura musicale entro cui si forma il fenomeno wagneriano (e che riecheggerà nelle sue opere almeno fino al Lohengrin). Non un incidente di percorso sulla strada che porta alle smisurate creazioni nibelungiche, quindi, ma insostituibile punto di partenza per trovare una più giusta collocazione alla parabola wagneriana, naturalmente a patto di svegliarsi dall’ubriacatura dei cantori dell’assoluta unicità della “musica dell’avvenire”.

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venerdì 5 settembre 2008

Stagioni prossime venture: Gli States


Le stagioni americane hanno sempre differito da quelle europee in più punti, vengono, per esempio, organizzate e annunciate con largo anticipo e, in passato, hanno saputo offrire spunti e occasioni interessanti non sempre colti se non in tutta Europa, perlomeno in Italia.
Nella stagione 1982/1983 per esempio, mentre in Italia si era agli albori del Rossini Opera Festival, la Carnegie Hall propose una serie di tre titoli rossiniani sotto il nome di Rossini Festival : Semiramide, La donna del lago e Tancredi, tutte con al centro la figura protagonistica di Marilyn Horne e accanto a lei Lella Cuberli, June Anderson, Frederica Von Stade, Chris Merritt, Dano Raffanti, Rockwell Blake. Stagioni (e terra) ricche però anche di contraddizioni, è notissima la riluttanza del Metropolitan, ossia del maggior teatro americano, di mettere in cartellone all'inizio degli anni 60 l'Adriana Lecouvreur per Renata Tebaldi (negata a Rosa Ponselle decenni prima) e di inscenare un Rossini serio nonostante le spinte di Marilyn Horne che riuscirono solo in una tardiva, ancorchè splendida, edizione di Semiramide.
Oggi quegli spunti e quelle contraddizioni si sono ampiamente rimescolati assieme dando vita a stagioni organizzate spesso e volentieri sul richiamo del big name in cartellone e di eventi annunciati che puntualmente si rivelano degli annunciati disastri, almeno ai nostri orecchi. La stagione 2008/2009 non fa, negli intenti, eccezione.
Cominciamo dalla capitale, che può vantare ben due stagioni operistiche, quella della Washington Opera e quella della Washington Concert Opera, e proprio nel teatro principale, diretto da Placido Domingo, uomo di agenzia da sempre e in ogni senso, abbiamo il primo evento della novella stagione, una nuova produzione di Lucrezia Borgia che, sulla carta, si preannuncia quantomeno "avventurosa", con protagonista Renée Fleming che torna nel sicuro suolo americano a interpretare per la terza volta il ruolo della venefica Lucrezia (nel decennale della trionfale tamburata milanese). Suo doppio sarà Sondra Radvanovsky, anche lei niente affatto intimorita dagli inciampi in cui era occorsa in quel di Las Palmas col ruolo donizettiano (prendendo magari ad esempio The Beautiful Voice e la sua nota esperienza milanese).
Il largo anticipo con cui vengono annunciate le stagioni americane da anche modo che i forfait comincino con largo anticipo e proprio nella Borgia vediamo che l'annunciato Giuseppe Filianoti come Gennaro è stato sostituito dall'esuberanza del giovane Vittorio Grigolo, cui si aggiunge un Ruggero Raimondi che torna ad Alfonso dopo 40 anni. E non vogliamo ricordare la famosa frase della bolognese Zia Fidalma! Sul podio lo stesso Placido Domingo. Sicuramente una proposta non banale e che possa passare inosservata e che, anche noi, siamo curiosi di ascoltare.
Il resto della stagione di Washington scorre poi sotto il segno della tradizione, tra l'inaugurale Traviata, Les pecheurs des perles con la coppia Charles Castronovo e Norah Amsellem (che ha impressionato l'America nella scorsa stagione con un'Elvira che non si credeva proprio si potesse eseguire così), Peter Grimes, Carmen, Siegfried e una Turandot con due protagoniste veramente "di grido" : Maria Guleghina, approdata da poco al ruolo pucciniano e Sylvie Valayre. A chiudere la stagione un altro "evento" popular che con la musica ha poco a che fare e che anzi la svilisce, la Petite Messe Solennelle con Andrea Bocelli diretta da Placido Domingo.
Per quanto riguarda invece la Waghington Concert Opera, specializzata nel riproporre in forma di concerto titoli desueti del grande repertorio, si ascolteranno la Maria Padilla di Donizetti con la giovane Leah Partridge e il veterano Bruce Ford come Don Ruiz (ruolo già cantato sempre negli States alcuni anni fa), Il giuramento di Mercadante, una vera rarità, affidata alla buona volontà non sempre bastante di Elizabeth Futral e del tenore James Valenti, di sicura avvenenza, e un concerto di Belcanto con Stephanie Blythe (nonostante i suoi approcci col Belcanto siano stati decisamente da dimenticare).

Dall'altra parte della costa troviamo San Francisco e la stagione della War Memorial Opera House, che si inaugura in settembre con Simon Boccanegra affidato al divo Dimitri Hvorostovsky e a Barbara Frittoli, che prosegue con titoli del Novecento da Die Tote Stadt e due opere moderne in prima esecuzione, Idomeneo affidato ad un cast di "specialisti", una produzione di Elisir d'amore con Inva Mula, Ramon Vargas e Alessandro Corbelli, Bohéme con Angela Gheorghiu (e a San Francisco avrà la fortuna di non scontrarsi ancora con Renata Scotto come successo lo scorso anno a Chicago, che ne impose, giustamente, la protesta), Tosca e infine La traviata con la neo-mamma Anna Netrebko.

Altra importante Traviata sarà quella della provincia americana di Santa Fe, che ospiterà il debutto-evento nel ruolo del titolo di Natalie Dessay assieme al tenore Pirgu e ai due Germont del marito Laurent Naouri e di Anthony Michaels-Moore. Un cast forse ideale per un Matrimonio segreto alla Piccola Scala. Produzione dell'amato Laurent Pelly che si presume la Diva vorrà rimordernare secondo la sua ben nota ottica stupendo come sempre i suoi ammiratori, e visti gli esiti di Lucia di Lammermoor e di La fille du régiment si immagina che l'estro di Natalie saprà sbizzarrirsi a maggior ragione con la Violetta di Traviata, distogliendo magari l'attenzione dalla resa vocale, sempre più in declino e sempre meno importante secondo gli ammiratori di Natalie, sublimata dalle doti attoriali (o circensi che dir si voglia).

Prima di questa Traviata la diva francese sarà a Chicago ad inaugurare la stagione della Lyric Opera come Manon di Massenet accanto al bel tenebroso dei tenori per eccellenza : Jonas Kaufmann. Inaugurazione evento anche questa che apre una stagione composta dai Pescatori di perle, che sarà terreno per altri "opera hunk", per dirla all'americana, come Eric Cutler e Nathan Gunn, che se non saranno capaci di duettare con sognanti mezzevoci nei momenti più importanti dell'opera potranno però mostrare con sicurezza muscoli e doti simili, purtroppo non vocali. Altri titoli : Porgy and Bess, Madama Butterfly (con l'americana Patricia Racette), Tristan und Isolde con quel che resta, e non alludiamo al peso, di Deborah Voigt e Clifton Forbis...e ci chiediamo se la cantante americana sarà in grado di portare a termine tutte le recite di Isolde nelle condizioni vocali in cui versa o se incapperà in qualche forfait come il passato Tristan del Met ha dimostrato (e come appunto le condizioni vocali preannunciavano...). Chiudono la stagione una produzione di Ratto dal serraglio e del tradizionale dittico Cavalleria rusticana & Pagliacci dove tra Vincenzo La Scola e Vladimir Galouzine nei ruoli tenorili, quale Santuzza si farà affidamento sullo stagionato professionismo di Dolora Zajick.

Prima di arrivare alla più importante stagione operistica americana, quella della Metropolitan Opera House, diamo un'occhiata ai titoli proposti da Eve Queler nell'ambito della stagione della sua Opera Orchestra of New York che, per quanto annunciato, proporrà La sposa dello Zar di Rimsky-Korsakov con Olga Borodina, Rienzi per la terza volta (evidentemente un titolo molto amato da Miss Queler) e Medea, che vedrà il debutto di Aprile Millo nel title-role. E in un presente di Theodossiou e di Michaels bene fa la Millo a togliersi la soddisfazione di debuttare Medea. Ma soprattutto vi sarà uno Special Event...Ferruccio Furlanetto in un omaggio a Ezio Pinza in cui intepreterà pagine da Boris Godunov, Don Quichotte (opera di Chaliapin ma mai di Pinza), Die Zauberflote, Don Carlo, Eugenio Onegin e altre. Ammiriamo l'idea di dedicare una serata ad Ezio Pinza, iniziativa lodevolissima, ma conoscendo Pinza e conoscendo Furlanetto forse si è scelto il cantante meno adeguato a ricordarlo!

Arriviamo infine alla stagione della Metropolitan Opera House, il tempio lirico americano per antonomasia. Inaugurazione di Gala come di consueto quest'anno con protagonista assoluta Renée Fleming, che si produrrà nel II atto della Traviata di Verdi, nel III della Manon di Massenet e nel finale di Capriccio di Richard Strauss, quelli che lei ritieni i suoi personalissimi cavalli di battaglia. Serata di Gala dicevamo, ma non solo, anche vero e proprio evento mondano, in cui la star testimonial della Rolex sarà vestita addirittura da Chrisian Lacroix, Karl Lagerfeld e John Galliano nei tre estratti e come se ciò non bastasse il giorno della prima verrà anche lanciato un profumo dal suggestivo nome "Renée". Un'inaugurazione che più mondana non si potrebbe pensare, con picchi di divismo da far arrossire soprattutto le giovani colleghe Netrebko, Gheorghiu ecc.
La stagione prosegue con la riproposta della ponchielliana Gioconda affidata a Deborah Voigt, già deludentissima al debutto tre anni or sono a Barcellona, e le osservazioni per il Tristano si ripropongono pedisseque, affiancata dalla Borodina, dalla Cieca di Ewa Podles e fra gli uomini Aquiles Machado (già presente nel 2006), Carlo Guelfi e James Morris, la Salome di Strauss in cui tornerà a spogliarsi Karita Mattila (che in febbraio invece vestirà i panni della Tatyana dell'Onegin), Traviata, Don Giovanni con Erwin Schrott e per alcune recite un Leporello d'eccezione, l'anziano Samuel Ramey (e dopo il Silva di Ferruccio Furlanetto avrà un sapore meno amaro, crediamo). Lucia di Lammermoor vedrà invece il debutto nel ruolo di Diana Damrau, che si è fatta carico di molte delle recite che Anna Netrebko ha dovuto cancellare per via della gravidanza, la diva russa ha annunciato però alcune recite in Febbraio assieme al consueto Rolando Villazon. Nello stesso periodo la bella Netrebko dovrebbe cantare anche alcune recite di Bohéme come Mimì. Dopo la Scala di Milano Daniel Barenboim porterà Tristan und Isolde anche al Met, senza Waltraud Meier con la coppia protagonistica Katarina Dalaymann/Peter Seiffert, mentre un altro divo wagneriano, Ben Heppner, reduce dai guai del passato Tristan del Met (guai, come abbiamo già detto, condivisi con Deborah Voigt), si cimenterà con l'Hermann della Dama di picche di Tchaikovsky accanto a Maria Guleghina (che riprende, dubbiosamente, il ruolo dopo molti anni mentre la condizione vocale consiglierebbe il title role) e Felicity Palmer, Contessa già nota al pubblico newyorchese.
Altra serata di puro glamour operistico si preannuncia La rondine di Puccini, con Angela Gheorghiu e il consorte Roberto Alagna, cui si alternerà Giuseppe Filianoti, in una produzione che nel ruolo di Rambaldo vedrà Samuel Ramey nelle insolite vesti pucciniane.
In Dicembre ennesimo evento operistico, la Thais con Renée Fleming, che riporterà il titolo al Met dopo 30 anni (l'ultima produzione essendo stata nel 1978 con Beverly Sills e Sherrill Milnes) che in aprile sarà anche interprete di Rusalka, altro suo cavallo di battaglia già intepretato al Met nel 1997 e nel 2004. La lunga stagione proseguirà poi con la ripresa dell'Orfeo ed Euridice di Gluck con il title role che tornerà alla voce di mezzosoprano (Stephanie Blythe) dopo l'esperimento David Daniels e la direzione di James Levine e Rigoletto con Alessandra Kurzak e Diana Damrau e ben tre tenori, Filianoti (che, crede chi scrive, bisserà il successo della Lucia), Beczala e Calleja e i baritoni Ataneli e Lucic, pronto a rinnovare anch'egli la squallida performance di Dresda, diretti da Marco Armiliato.
Abbiamo riportato sopra le incertezze che negli anni 60 un titolo come Adriana Lecouvreur faceva sorgere ad un manager pure di grande esperienza come Rudolf Bing, nonostante la presenza di una Diva e grandissima cantante come Renata Tebaldi, che con ragione impose il titolo, destinato ad altre grandi riprese al Met nel nome della stessa Tebaldi, di Montserrat Caballè, di Renata Scotto e Mirella Freni. Dopo tutte queste grandissime primedonne (e ricordando che la prima interprete al Met fu la bellissima Lina Cavalieri insieme a Caruso) maestre nel canto e nel fraseggio al Met Adriana torna con la voce di Maria Guleghina, che ben giustificherebbe i dubbi che erano di Bing, priva non solo della maestria vocale di una Freni e dei mezzi privilegiati della Tebaldi e della Caballè, ma soprattutto delle indispensabili doti di fraseggiatrice esperta (à la Scotto per intenderci) che la Guleghina non ha mai avuto, incline piuttosto all'urlo scomposto. Accanto a lei come Maurizio di Sassonia era previsto Marcelo Alvarez che invece nello stesso periodo sarà interprete di Manrico nel Trovatore, ruolo nel quale ha preso il posto dell'annunciato Salvatore Licitra, mentre il simpatico Marcelo sarà sostituito addirittura da Placido Domingo, che riprenderà al Met, 40 anni dopo, il ruolo del suo debutto nel teatro newyorchese....impossibile però non notare il declino delle partner di Domingo, Maurizio accanto a tutte le più grandi Adriane della storia capitatane da Magda Olivero! E in Marzo il Met proporrà una nuova serata di Gala per celebrare i 125 anni del teatro e i 40 anni del debutto di Domingo, con scene originali da alcune storiche prime produzioni del Met come Il flauto magico con scene di Chagall del 1967, il primo Parsifal del 1903, la prima assoluta della Fanciulla del West e il primo Faust inaugurale del Met del 1883...certo di quelle grandi produzioni veramente non sono rimaste che le scene!
Ultimi eventi del Met una nuova riproposta del Ring des Nibelungen diretto da James Levine con christine Brewer, Waltraud Meier, James Morris, una riproposta di Cavalleria/Pagliacci sempre con la Meier e Roberto Alagna, al debutto, credo, in Turiddu, mentre la consorte vestirà i panni di Adina, adatti ma forse tardivi, in compagnia di Rolando Villazon, che in mancanza della giusta vocalità crediamo compenserà con le consuete burle sceniche, il già citato Trovatore con Alvarez, Sondra Radvanovsky alternata ad Hasmik Papian (salvatrice della patria nella Norma dello scorso anno) e le due Azucene di Dolora Zajick (detentrice del ruolo al Met da un ventennio) e di Luciana D'Intino. Infine due titoli del Belcanto, la ripresa de La Cenerentola con Elina Garanca e l'attesissima nuova produzione di Sonnambula con i due divissimi Dessay e Florez con regia di Mary Zimmermann che ha già fatto parlare di sè (con la Dessay si può dire una garanzia ormai che l'opera verrà stravolta...genialmente ovviamente) perchè pare ambientata in una compagnia che prova La sonnambula e rivive le stesse situazioni...insomma la Dessay è pronta per sia per Mamma Agata (con qualche raggiusto - la parte della Primadonna essendo improponibile ormai) ma soprattutto per Pirandello alla Comedie Française!
Una stagione quanto mai ricca e pensata, si percepisce, secondo gli imperanti dettami di cui già abbiamo discusso qualche articolo fa che dimostrerà quali frutti il glamour operistico sa dare. Per conto nostro ci consoliamo confrontando una settimana del Met 1908:

17/12/1908 - Puccini/Le Villi (prima americana) - Alda, Bonci, Amato, Toscanini + Mascagni/Cavalleria rusticana - Destinn, Caruso, Amato, Toscanini
18/12/1908 - Wagner/Gotterdammerung - Fremstad, Burgstaller, Muhlmann, Hinckley, Toscanini
19/12/1908 - Donizetti/Lucia di Lammermoor - Sembrich, Bonci, Campanari, Spetrino
19/12/1908 - Bizet/Carmen - Gay, Martin, Farrar, Noté, Toscanini
20/12/1908 - Concert - Noté, Gay, Martin, Rappold, Didur, Spetrino
21/12/1908 - Verdi/Il trovatore - Martin, Eames, Amato, Homer, Spetrino
23/12/1908 - Wagner/Tristan und Isolde - Schmedes, Fremstad, Feinhals, Homer, Mahler

Gli ascolti

Bellini - La sonnambula - Prendi, l'anel ti dono - Nicolai Gedda & Renata Scotto

Cilea - Adriana Lecouvreur - La dolcissima effigie - Placido Domingo & Renata Tebaldi

Donizetti - Lucrezia Borgia - Maffio Orsini, signora, son io - Leyla Gencer, José Carreras & Tatiana Troyanos

Donizetti - Lucia di Lammermoor - Chi mi frena in tal momento? - Jan Peerce, Roberta Peters, Mario Zanasi & Nicola Moscona

Massenet - Thais - Dis-moi que je suis belle - Leontyne Price

Massenet - Manon - Je marche sur tous le chemins...Oui, dans le bois (Fabliau alternativo) - Bidù Sayao

Massenet - Manon - Toi! Vous! - Lucrezia Bori & Richard Crooks

Mozart - Die Zauberflöte - In diesen heil'gen Hallen - Ezio Pinza

Ponchielli - La Gioconda - La barca s'avvicina...Così mantieni il patto? - Zinka Milanov, Kurt Baum, Nell Rankin & Leonard Warren

Verdi - La traviata - E' strano...Ah, fors'è lui...Sempre libera - Vina Bovy

Verdi - La traviata - Qui desiata giungi...Di sprezzo degno - Rosa Ponselle, Frederick Jagel & Lawrence Tibbett

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mercoledì 3 settembre 2008

Il soprano prima della Callas, prima puntata: Magda Olivero

Lo scorso anno avevamo deciso di trattare, senza alcuna presunzione di completezza i tenori prima di Enrico Caruso, ritenendo il tenore napoletano il punto di non ritorno del canto ottocentesco tenorile. Salvo quanto successo negli anni ottanta l'avvento di Enrico Caruso è stato il cambiamento nella vocalità e nel gusto tenorile.
Quest'anno il percorso sarà all'indietro dalla Callas, altra cantante ritenuta una chiave di volta nella storia della vocalità sino alle prime voci sopranile, che sono state registrate. Credo che le "puntate" saranno molte di più di quelle dedicate ai tenori.
La prima deve DEVE, ripeto essere dedicata ad una DIVINA, non per fama pubblicitaria, ma per fama guadagnata sulle tavole dei palcoscenici. Palcoscenici di ogni genere perchè la signora Magda Olivero, divina fra le divine, una sorta di prima inter pares, i palcoscenici li ha calcati tutti senza differenziare il Met dal teatro di Rosignano Solvay esibendo sempre la stessa arte , la stessa perfezione, lo stesso unico impegno.

Se per giudizio insindacabile Enrico Caruso rappresentò, complici titoli e gusto verista, da un lato, avvento e divulgazione delel registrazioni dall'altro, lo stacco fra il canto tenorile ottocentesco ed il novecentesco, per altrettanto insindacabile giudizio Maria Callas rappresenterebbe il ritorno per le voci femminili a cato, tecnica e gusto ottocentesco o preverista. Quello irrimediabilmente perso e distrutto che le Bellincioni, le Carelli, le Favero, le dalla Rizza e le Cigna, per citare le maggiori avrebbero falcidiato.
Le cose potrebbero anche stare così. Un po' di distinzioni e puntualizzazioni però sono necessarie.

Credo vent'anni fa circa in notturna (l'ora dedicata universalmente agli appassionati di musica cosiddetta seria) su Antenne", Eva Ruggeri presentava ed intervistava una quasi centenaria signora, Madeleine Mathieu, zia della più nota Mireille, che era stata al principio del ventesimo secolo una famosa cantante d'opera.
Madame Mathieu era nota per non avere peli sulla lingua, sicchè, richiesta, come d'uopo in ogni trasmissione operistica gallica, della rilevanza storica della Callàs, rispose che la divina nulla aveva insegnato, nulla aveva inventato, perchè cantava come Lilli Lehmann, che la quasi eterna Madeleine aveva udito a Parigi, quale Leonore di Fidelio nel 1909.
In effetti repertorio e registrazioni, per quanto primordiali della Lehmann danno ragione alla vegliarda intervistata.
La Callas, quindi, non ha innovato, ha restaurato. E ci sono molte cantanti le cui registrazioni avallano e confermano la tesi.
Credo, però, che Maria Callas non sia sorta in un deserto di suoni centrali e bassi aperti e spampanati, di acuti ghermiti, di urla belluine e di assoluto disprezzo per i segni di espressione e di dinamica.

Parlare di Magda Olivero, divina fra le divine può risolversi in una serie di tautologie e di luoghi comuni. Ovvi per una cantante debuttante nel 1933, dopo inizi tutt’altro che facili, in carriera sui palcoscenici per cinquant’anni e con sporadiche esibizioni e registrazioni sino al 2002, ossia oltre i 90 anni.
Forse vale la pena di lasciare la parola alla carriera della cantante, al pubblico e colleghi.
Scrive Roland Mancini che, alla fine della carriera, alla ricerca di titoli idonei alle proprie condizioni vocali la Callas declinò la proposta di Adriana, Francesca perché quelle opere erano le opere dell’Olivero.
Ancora Dame Joan Sutherland, in Bruxelles, conversando con una collega, famosissima e grande, che aveva cantato con la Magda e che manifestava qualche perplessità sulla fama planetaria della stessa, replicò: “ Cara noi siamo cantanti, anche famose, grandi lei è Magda Olivero”.
D’altra parte fu Marilyn Horne, belcantista per definizione, a protestare pubblicamente perché Magda Olivero non aveva mai cantato al Met. E la Magda debuttò, come Tosca, all’età di sessantacinque anni sul più prestigioso palcoscenico americano. In sala le più acclamate cantanti a vedere e sentire il fenomeno Olivero, anche se da tempo ritirate come Zinka Milanov.
Ancora Arena di Verona 1970 un giovane, bello, dotato di grande voce Placido Domingo canta il terzo atto di Manon (pesantissimo per il tenore, mentre Manon se ne sta in compagnia delle altre “traviate” sul carro) l’Olivero scende dal carro dice una frasetta “ Ah des Grieux” il pubblico esplode con “brava Magda, sei grande”. Risento, dopo quarant’anni la registrazione. Follia di pubblico o che? In una frasetta centrale Magda Olivero concentra amore, erotismo, disperazione. Per giunta con la voce non certo freschissima, ma forse per questo più affranta e disperata e consona al personaggio.
Ancora anni fa a Milano in quella che i veri milanesi continuano a chiamare via Carlo Alberto una nonna scende dal tram e dice al nipotino: “quando avrai la mia età potrai dire che hai conosciuto una delle più grandi cantanti d’opera mai vissute”. Sul tram, la linea 24, la signora Olivero salutava con la mano nonna e nipotino.
Ancora quando nel 1972 debuttò (anni 62!!!) a Bergamo Wally la fila degli ammiratori alla replica pomeridiana era chilometrica e la Magda, accompagnata dai più fedeli ammiratori tornò a casa a Milano a notte fonda, dopo avere salutato, firmato autografi, baciato ed abbracciato la folla degli ammiratori che da tutta Italia avevano presenziato al debutto della loro diva.
Rodolfo Celletti, che della Magda fu un assoluto ed incondizionato ammiratore, tanto che la foto con dedica della cantante troneggiava sul pianoforte di casa, scrisse che solo due prime donne potevano avere tanto rispetto del proprio pubblico da spendere un intero cachet per un abito da concerto. Una era, appunto Magda Olivero.
Ecco una prima caratteristica dell’Olivero l’amore ed il rispetto per il pubblico. Per vicende che non è il caso di richiamare l’Olivero praticò, negli anni migliori della propria forma vocale tutti i palcoscenici anche la provincia (e che provincia) eppure le sue performance ero sempre al meglio, sempre perfette connotate dalla perizia vocale e dalla grandezza e pertinenza di fraseggio che fanno di Magda Olivero, l’OLIVERO. E questo il pubblico che accorreva a frotte a riempire il Giglio di Lucca, i vari Comunali dell’Emilia e della Lombardia, piuttosto che teatri parrocchiali e piazze l’ha sempre sentito. Per tacere dei trionfi quando nel dopo guerra affrontò il pubblico sud americano e quello nord americano, debuttando niente meno che Medea a Dallas. Ossia l’opera della Callas nell’unico teatro americano in cui la Callas l’aveva cantata.
L’Olivero è stata una diva non per imposizione della critica, dei media, ma per imposizione popolare di quel pubblico vero ed unico sostegno del teatro che ovunque accorreva che ovunque gridava “brava Magda”
Questo la cronaca o la storia dell’opera.
Della cantante è stato scritto tutto che può riassumersi in una voce di soprano lirico leggero, per giunta con un vibrato stretto molto accentuato nella prima fase della carriera, capace di piani e pianissimi in ogni zona della voce, penetrantissima in teatro ( l’ho sentita nella Jenufa scaligera e la voce dell’Olivero correva e riempiva il teatro come quella di una Nilsson o di una Dimitrova, salvo poi alitare un pianissimo alla Caballè) soprattutto in zona acuta, anche se era in grado di reggere senza fatica tessiture centrali come Santuzza e Fedora.
Anche dell’interprete nel bene e nel male, chi, nel bene, partendo da Cilea non può che definirla l’interpretazione autentica della volontà degli autori veristi, che denigrandola per taluni eccessi alla Francesca Bertini.
Non posso che essere dalla parte di Cilea e con ragioni.
Poco importa la qualità della voce, anche nel verismo importa il controllo assoluto del canto e la conseguente capacità di cantare a tutte le intensità in tutta la gamma della voce. Fra l’altro con il sostegno della tecnica (esattamente come accadeva per la Muzio o la Callas) la voce dell’Olivero diventa anche bellissima e se non bellissima la più idonea, la più giusta. Vuoi che sia chiamata ad esprimere la gelosia furente di Fedora, che si trasforma in passione sfrenata, vuoi gli impeti erotici di Francesca, che dice no all’arrivo di Paolo il bello per dire si ( e che sì ), il dolore e la delusione di Adriana (la frasetta “perché mai discendere a tanta scortesia”) o l’immenso disperato amore di Manon (“fra le tue braccia amore” all’incipit del finale) o per passare ad altro e differente repertorio la frasetta “reverendissima madre voi delirate” di Mère Marie, rivolta alla Vecchia Priora, dove sono frammiste ipocrisia religiosa, lignaggio del personaggio e dello stato monacale, sotto quella troppa umiltà che Bernanos stesso definisce superbia, proprio per bocca della vecchia priora morente.
E sempre con rispetto del testo musicale. Intendo l’Olivero spesso è ricorsa ai singhiozzi (dopo l’esecuzione del “non voglio morire” nella Lescaut) alle frasi parlate (finale di Fedora o il “sogghigno di demone” della scena della tortura di Tosca), contrariamente a quanto affermato dai suoi detrattori lo ha fatto solo quando il testo lo prevedesse senza mai sostituire il parlato al canto. Perché quando si trattava di cantare l’Olivero era musicale e forbitissima, oltre che in sovrabbondanza di segni di espressione, piuttosto che in difetto. Credo che per un direttore d’orchestra di oggi sarebbe impossibile accompagnare una qualsiasi scena dell’Olivero, tanta la varietà di dinamica ed agogica.
E questo vale anche per la fase finale della carriera nei panni della Vecchia Signora, piuttosto che di Kostelnika e della protagonista della Dama di Picche. Soprattutto quanto al personaggio della bigotta sacrestana si può anche avvertire qualche suono spinto e non bellissimo (la scrittura vocale poi è da mezzo soprano acuto e, quindi, l’insistenza nella zona centrale rende più difficile la salita in alto), ma l’Olivero , differenziandosi da tutte le altre titolari del ruolo canta sempre. Tacciamo, poi, dell’eloquenza di tutte le frasi dove Kostelnika fa la morale alla immorale protagonista o, con riferimento alla Dama di Picche del virtuosismo di cantare la berceuse sdraiata sul canapè a testa in giù, senza che esca un suono non perfettamente a fuoco ed in maschera.
Tautologico parlare della Adriana, interpretazione “autentica”, atteso che Cilea a Lei e non ad altra Adriana in carriera (che pure rispondevano ai nomi di Mafalda Favero, Maria Caniglia e Renata Tebaldi) si rivolse, pregandola di ricantarla, delle eroine pucciniane tutte, capitanate da Tosca e Minnie (la preferita dall’Olivero stessa, mi risulta) di Fedora e Francesca. Sono storia dell’interpretazione con quel tanto giusto ed irrinunciabile di liberty fra tenda e canapè, che i titoli stessi impongono. D’altra parte ed in questo sta l’assolutezza della cantante, l’Olivero ha incarnato nella sua forma più completa la cantante attrice di stampo verista, priva di qualsivoglia cattivo gusto verista e di grandissima rifinitezza musicale e vocale.
Siccome l’Olivero è stata una grandissima cantante ed una interprete suprema a dispetto di una voce modesta in natura e della communis opinio, che la vuole diva verista paradigmatica è stata grande anche in personaggi appartenenti a filone popolare del verismo come Santuzza o della poetica delle “piccole cose”, come Mimì e Butterfly. Un live napoletano di Butterfly ed uno di Amsterdam (fra l’altro di una Olivero ultracinquantenne) lo testimoniano. E’ difficile per la diva abituata al fraseggio altisonante di Tosca o di Adriana cambiare registro e cambiarlo in maniera pertinente. In questo senso Renata Scotto e Raina Kabaivanska, due grandissime interpreti del Verismo, alle prese con Mimì, Nedda o Santuzza discografica, la prima, non sono andate a segno come la Magda.
A parte nella storia e nella carriera dell’Olivero sta il personaggio di Violetta. Violetta è stata la creatura verdiana che per motivi vocali ed interpretativi ha sempre attratto e con grandi risultati le dive del Verismo (ed almeno quel che resta di Claudia Muzio testimonia il perché di una fama legata al personaggio). Non esiste l’esecuzione integrale dell’Olivero, recentemente qualche sprovveduto ha detto che la fama della Violetta della Magda sia una creazione cellettiana. Allora la grande scena del primo atto è arcinota e la lasciamo stare, ma il secondo atto è esemplare per equilibrio fra intensità di espressione e sfoggio di sublime tecnica di canto, che consente piani pianissimi, slanci improvvisi e tragici, ossia di sfoggiare l’intera variegata (forse la più variegata) gamma di sentimenti e sensazione di un personaggio nel breve lasso di dieci minuti.

Magda Olivero

Boito - Mefistofele - L'altra notte in fondo al mare
Boito - Mefistofele - Spunta l'aurora pallida

Catalani - Loreley - Amor, celeste ebrezza

Mascagni - Iris - Un dì, ero piccina
Mascagni - Cavalleria rusticana - Voi lo sapete, o mamma

Verdi - Rigoletto - Tutte le feste al tempio...Sì, vendetta (con Jan Derksen)
Verdi - La traviata - Madamigella Valery?...Dite alla giovine (con Manuel Ausensi)

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lunedì 1 settembre 2008

Glamour vs canto ?

In quello che riteniamo un blog interessante, anzi esemplare e molto comune in ideali, La Cieca( New York), ha riportato una intervista a Mr Matthew Horner, numero due della IMG, ossia di una delle più presenti e penetranti agenzie i cui rappresentati rispondono ai nomi di Renée Fleming Joyce DiDonato, Angelica Kirchschlager, Deborah Voigt, Barbara Frittoli, Angela Gheorghiou, Sandra Radvanosky, Svetla Vassileva, Lado Ataneli, Matthew Polenzani ( sino a poco fa Anna Netrebko ), ossia i cantanti che imperano al Met ed in altri pochi teatri quelli dei divi per intenderci.

Ove oggi per divi intendasi non certo opulente signore come Marilyn Horne, Montserrat Caballé, grandi voci e rigide attrici come Mirella Freni, granatieri al femminile coma Joan Sutherland, tenori con pose commendatorizie più che da consumati amatori come, appunto il commendator Carlo Bergonzi. Erano chi più chi meno seduttori ed amanti vocali, perche la seduzione fisica, insomma latitava. Anche se divi del passato come Gigli e Schipa, la cui avvenenza fisica era inversamente proporzionale a quella vocale, godevano fama di tombeur de femmes.
I divi della lirica di oggi sono prima di tutto bellissimi, anzi per utilizzare termini più pregnanti gnocche e fighi, possono reggere il confronto con quelli del cinema o della fiction, indossare biancheria intima in scena senza che compaia un filo di cellulite, un’ombra di plica cutanea. Manca solo l’esibizione di un addome a tartaruga, nutriamo fiducia nel bel Jonas Kaufmann.
Ebbene il sig. Horner spiega come si fa oggi carriera. Precisamente come si fa a far fare carriera oggi. Il sig. Horner conferma quanto detto poco tempo fa da una che la carriera l’ha fatta Joan Sutherland: “ io oggi non farei carriera”.
Spuntano termini come press agente, pr, sponsor, marketing. Non solo, poi, arrivano consigli come i rapporti (controllo, sarebbe più lecito tradurre ed interpretare) con la stampa, intesa come grandi quotidiani e, soprattutto, riviste specializzate. Inteso che deve esserci a fianco, alle spalle a “conforto e sostegno dell’ugola stanca” la casa discografica, che ogni anno sforni, con il sostegno di tutti quegli elementi che abbiamo sopra citato, il disco annuale. Disco annuale che, aggiungiamo noi, deve avere per marketing ormai consolidato, l’impronta di storicità e per il legame con un divo del passato remoto (che so Rubini, la Malibran) e deve essere salutato, anteriormente la pubblicazione come una innovazione pari all’avvento di Caruso o della Callas.
Poi fra le righe appare anche altro ossia che per fare carriera ci voglia anche la voce. Appare sempre, quale elemento accidentale, al testo dell’intervista che oggi non ci sono più voci per certe parti e che, forse, l’aspetto squisitamente specifico del cantante d’opera e che queste voci vanno ricercate anche sacrificando qualche cosa dell’aspetto esteriore.
Naturalmente tecnica, gusto applicazione allo studio, musicalità non compaiono nel vocabolario e, deduco nel pensiero di Mr Horner.
Sarebbe pretendere troppo da chi vive intriso ed auspice in un sistema che da vent’anni e più credo che la carriera di un soprano o di un tenore si fabbrichi a tavolino sulla base dell’avvenenza, del colore degli occhi, della linea.
E, però, già una minimale presa di coscienza, forse dettata dalla disperazione, perché oggi mettere insieme un cast per Forza del destino, opera di repertorio sino ai primi anni ottanta, è peggio che salire il K2. Presa di coscienza per certo tardiva, perché la macchina infernale messa in piedi da questi signori, ben differenti da agenti come il famoso Liduino Bonardi, ha distrutto o ridotto a ranghi assai sparuti il pubblico in grado di distinguere e riconoscere qualità proprie del cantante e di costruire carriere che nascano e non finiscano sul palcoscenico.
Siccome spes ultima dea non possiamo che auspicare soprani nei panni di Violetta e Mimì che rendano poco credibile la consunzione, ma rispettino dinamica ed agogica dell’autore, sfoggino instancabili, timbri sontuosi e tecniche scaltrite, tenori nei panni del giovane des Grieux, facciano pensare ad un abate bulimico per le pene d’amore, ma smorzino a meraviglia gli acuti del sogno, come è avvenuto almeno per cento anni con grande, incomparabile soddisfazione del pubblico, che altrove si rivolgeva se voleva una bella gnocca o un gran figo! Perdonate il turpiloquio!

Verdi - I vespri siciliani
Atto V - Mercé dilette amiche - Luisa Tetrazzini

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