“Buon Dio, ecco terminata questa povera piccola Messa. Io sono nato per l’opera buffa, Tu lo sai bene! Poca scienza, poco cuore, ecco fatto! Sii dunque benedetto e concedimi il Paradiso…” scriveva Rossini, riferendosi alla
Petite Messe Solennelle, tracciando così di sè un ritratto ironicamente umile, leggero e con la tipica modestia di chi sa di essere
il più grande... Questa affermazione e la sprezzante incomprensione di Beethoven (a cui, evidentemente, rimanda), sono testimonianza di quella malinconia e di quella leggerezza che è l’universo musicale rossiniano: serio o buffo che sia. Innanzitutto per constarne la difficoltà di ridurre quest’ultimo, in particolare, alla semplice dimensione del
comico! Vi sono ambiguità, segreti, malinconie, nel gioco delle costruzioni musicali, nell’apparente perfezione dei meccanismi del surreale, che mostrano quale e quanta complessità e finezza innervi la musica del pesarese che sembra sempre sollevarsi distaccata, con aristocratica leggerezza
“dalle cose del mondo”, dai drammi così come dalla commedia.
Nessun titolo buffo di Rossini può essere inquadrato nel genere meramente comico, si diceva: in ciascuno vi è qualcosa di più, forse nemmeno intuito dal librettista (e spesso nemmeno colto dal pubblico, ora come allora), ma ricercato e raggiunto attraverso una certa distanza disillusa, a testimoniare la nostalgia per la fine di un mondo ormai passato e l’inadeguatezza e l’estraneità agli eccessi di quello nuovo (così irragionevole e primitivo nel dar sfogo ai suoi istinti più immediati – laddove Rossini mediava e stemperava ogni passione, ogni dolore, ogni risata, attraverso una trasfigurazione ideale e musicale, che la rendeva astratta e quasi metafisica...trasportandola ad un livello di superiore razionalità). Nemmeno nelle farse definite tali dall’autore stesso, peraltro, vi è spazio per il puro abbandono al ridicolo: ognuna nasconde un lato oscuro, segreto...niente di insistito, di troppo marcato, ma solo qualche accenno che si percepisce appena nella scelta della strumentazione, ad esempio, nell’abbandono di certe frasi di oboi o clarinetti, nel languore del canto dei corni...magari incastonati tra crescendo e concertati in cui le parole perdono significato proprio e diventano solo fonemi prestati alla musica per dar forma ad una follia del tutto razionale. Come nelle farse così nelle opere buffe: l’intima crudeltà del Barbiere di Siviglia, la nostalgia mozartiana del Turco in Italia, il malinconico lirismo della Cenerentola. Per non parlare delle grandi opere semiserie, la cui ambiguità è scelta di genere. Il grado di tale ambivalenza è ben rilevabile, poi, anche dai frequenti autoimprestiti: lo stesso brano, la stessa cellula musicale, assume significati antitetici a seconda del contesto in cui viene inserito, e la stessa musica che pareva attagliarsi perfettamente ad un ingarbugliato intreccio comico, appare inspiegabilmente perfetta (con leggere modifiche di dettagli) per esprimere situazioni e sentimenti opposti. Questa ambiguità è presente pure in quella che viene spesso indicata come il più puro esempio del buffo astratto rossiniano, della pura “follia organizzata”, del comico assoluto...la cui musica per dirla con Stendhal avrebbe fatto “dimenticare tutta la tristezza del mondo”. L’Italiana in Algeri, dramma giocoso in due atti, su libretto di Angelo Anelli, rappresentato per la prima volta a Venezia il 22 maggio 1813. In una struttura certamente incentrata sul gioco degli inganni, sull’assurdo e il surreale – in cui però emergono talvolta inaspettati squarci di lirismo e malinconia: si sentano i corni della cavatina di Lindoro – si staglia una protagonista del tutto atipica rispetto al genere: Isabella. Creato per l’ugola e la tecnica di Marietta Marcolini (che ottenne così un enorme successo) è ruolo che per statura e complessità, si pone a mezza via tra la commedia e la tragedia (ossia in quel luogo dove Rossini amava di più transitare) in un’ambiguità e polivalenza (rilevabile anche dai segni scritti in partitura) che contribuisce – forse anche inconsciamente – ad attribuirle tutto quel fascino. In particolare la grande scena con Rondò nel secondo atto, “Pensa alla Patria”, che per struttura, intensità e livello di virtuosismo, richiama l’Opera Seria. Stendhal la definisce un monumento storico! Ed in effetti si staglia come unicum nel resto dell’opera.
Il brano, il N. 15 della partitura, si presenta come una lunga scena di 228 battute strutturata in coro introduttivo, recitativo accompagnato e Rondò, composto di andante iniziale e allegro per la cabaletta. L’incipit, dopo la breve introduzione strumentale, dà già la dimensione drammatica del pezzo. A piacere, è indicato in partitura, mentre la voce scende nelle zone più basse della tessitura sino ad una cadenza in crescendo (di mano dell’autore) piuttosto intricata e con salti ascendenti di nona (SI2-RE#4; RE#3-FA#4) per poi chiudersi in un SI2. Dopo la pausa il cantabile vero e proprio caratterizzato da sestine ascendenti e discendenti e da una scrittura insistita nelle zone centrali e basse della tessitura. Segue l’allegro, dove, dopo le brevi battute in cui Isabella prima zittisce l’inopportuna ilarità di Taddeo (con un impeto e una dignità da vera eroina tragica) e poi si rivolge con severa dolcezza all’amato Lindoro (che poco prima era “impallidito” di fronte alla risoluta fermezza della protagonista), la linea vocale si arricchisce di abbellimenti e agilità di forza, nella ricerca di un estremo virtuosismo (peraltro insistito sempre in centro e in basso) che fa turbinare la voce in un vero delirio di scale, cadenze, colorature: “Qual piacer! Fra pochi istanti” con una teoria di quartine che si susseguono su e giù per il pentagramma, per concludersi, dopo la ripetizione variata, nella cadenza di prammatica, lasciata all’interprete.
Il brano proprio per quelle caratteristiche di atipicità (che non può essere considerata mera parodia dell’Opera Seria) e per la sua estrema difficoltà, è stato banco di prova di tante primedonne, tra cui non può essere dimenticata la Laura Cinti-Damoreau: una delle più grandi cantanti del suo tempo, a Parigi collaborò direttamente con Rossini, nella stagione del Théatre-Italien. Per il ruolo di Isabella scrisse una serie di variazioni e di cadenze che ben danno l’idea di cosa fosse il canto d’opera nella prima metà dell’800 e di quale fosse allora il ruolo dell’interprete (che – spesso si dimentica, suggestionati da certe vulgate che risalgono alle ottuse incomprensioni di certi campioni del germanesimo musicale – era anch’esso e prima di tutto, musicista e non ignorante e capriccioso guitto da palcoscenico come amano rappresentare i suddetti). Dette variazioni – che si possono leggere nella loro interezza in nota all’edizione critica dell’opera – si caratterizzano per una vera e propria riscrittura acrobatica del brano: non solo, infatti, si inseriscono nelle corone a fine frase (luoghi deputati alla cadenza), ma anche, e soprattutto, nel cantabile (battute 87-99) e nella ripresa del tema dell’allegro (battute 184-207). La Cinti-Damoreau nell’arricchire la scrittura rossiniana, insiste nella zona acuta (più congeniale alle sue corde). Particolarmente impressionante è la grande cadenza nella sezione finale dell’andante, con quattro salti ascendenti di ottava (SI2-SI3; RE#3-RE#4; FA#3-FA#4 e LA3-LA4) inseriti in quartine discendenti, seguiti da una lunga scala cromatica che sale e scende dal SI acuto al RE, per chiudersi sulla tonica della tonalità. Non da meno, naturalmente, le cadenze finali tendenti allo sfogo in acuto.
Tuttavia, pur divenendo in fretta il brano più famoso dell’opera (vuoi per l’atipicità del suo carattere, vuoi per l’esibizione vituosistica), non passò indenne alle sue successive revisioni, spesso dovute ad esigenze di censura: a Roma vennero cambiate le parole in “Pensa alla sposa”, a Venezia fu sostituito il coro introduttivo a causa della sua nascosta citazione della Marsigliese. Ma l’intervento più radicale fu la sostituzione del brano per la ripresa al San Carlo di Napoli nel 1815, dove il pezzo che mai avrebbe potuto passare la rigida censura borbonica, fu rimpiazzato dal N. 15a, “Sullo stil dei viaggiatori”, anch’esso di notevole impronta virtuosistica, caratterizzato da una scrittura più acuta, ma assai più convenzionale e inevitabilmente inferiore rispetto all’originale. Il ruolo di Isabella attirò le grandi primedonne dell’epoca, e anche nel secolo successivo non smise di affascinare le grandi dive.
La riscoperta novecentesca dell’opera si può far risalire alla sera del 26 novembre 1925 quando Vittorio Gui accompagnò Conchita Supervia a Torino. E da lì sino alle protagoniste della Rossini-renaissance a partire dagli anni ’60/’70 e cioè Teresa Berganza, Marilyn Horne, Lucia Valentini-Terrani, Martine Dupuy e, più recentemente, Ewa Podles (tralascio volutamente Agnes Baltsa, poiché fenomeno legato alla moda dell’epoca e alle majors del disco – e perché, oltre alle evidenti mancanze tecniche, poco interessante dal punto di vista esecutivo: mera lettura della pagina scritta, seguita pedissequamente senza alcuna fantasia o libertà…in ossequio alla fondamentale incomprensione di Abbado dell’opera belcantista e rossiniana – così come Jennifer Larmore che si limita a fare la parodia della Horne). Ognuna di esse con un approccio differente al ruolo e al brano, derivante da diversità di tecnica e di personalità artistica.
Si consideri ad esempio la morbida eleganza della Berganza (mi riferisco all’incisione ufficiale del ’63), vellutata e venata di malinconia, ma con una coloratura perfetta (anche se non si avventura in iperbolici sfoggi di virtuosismo, mantenendo, e semplificando, per lo più le cadenze originali e senza variare più di tanto la ripresa dell’allegro), nitida, brillante, oppure l’Isabella della Valentini-Terrani (sul finire degli anni ’70): coloratura fluente, pulita, linea di canto sicura in tutta la gamma dell’estensione.
Importante punto di svolta, però, è costituito dalla Horne: mi riferisco a due incisioni diversissime tra loro. L’incisione in studio dell’opera integrale (1980 con Scimone) e il recital “Souvenir of a Golden Age” (recentemente ristampato) che contiene il Rondò e che risale al 1966. La Horne affronta il personaggio con piglio “eroico”, come sfoggio di un vertiginoso vituosismo “di forza”. L’esibizione vocale è, in entrambi i casi, stupefacente. Le quartine sgranate in modo perfetto, la voce sicura che spazia in alto e in basso con una facilità disarmante, le cadenze pirotecniche e le ricche e fantasiose variazioni nelle riprese. Mentre nell’incisione integrale, però, la Horne si attiene fondamentalmente alla redazione rossiniana (pur prendendosi tutte le libertà dovute all’interprete, come nelle variazioni dell’allegro, risolte nel registro basso) ed esegue, ad esempio, solo parte della grande cadenza prevista dall’autore prima del cantabile dell’andante, nel recital recupera alcune delle variazioni della Cinti-Damoreau (sia nelle due cadenze dell’andante stesso che in quelle finali, mentre le variazioni nella ripresa dell’allegro sono più o meno le stesse che riproporrà 15 anni dopo con Scimone), in uno strepitoso esempio di acrobatico virtuosismo.
Sulla stessa linea, ma ancor più indirizzata verso un’interpretazione eroica e guerriera del brano, è il Rondò della Podles (in un bel disco del '95), dove sfrutta appieno il sontuoso registro basso e l’incredibile facilità nello sgranare la coloratura: la Podles nell’andante non esegue le cadenze di Rossini, ma opta per formule più ridotte, tuttavia nell’allegro (sia nelle variazioni della ripresa, sia nella cadenza finale) recupera alcuni stralci della Cinti-Damoreau.
Una lettura meno “di forza”, ma pur sempre di grandissimo impatto virtuosistico, è quella della Dupuy (dal vivo a Bologna nel 1987), che pure si attiene alla scrittura rossiniana, sostituendo – come tutte finora – le cadenze originali con altre, meno impegnative. In effetti non mi risulta che, sino ad ora, siano mai state riproposte integralmente le variazioni della Cinti-Damoreau, né che sia mai stata eseguita integralmente la grande cadenza scritta da Rossini prima della sezione cantabile dell’andante. Scelta comprensibile e filologicamente ineccepibile (almeno per una filologia rettamente intesa): ogni cantante ha la sua propria personalità, le sue caratteristiche vocali e, soprattutto, è interprete del ruolo. E un vero interprete, almeno nel senso ottocentesco del termine, contribuisce alla configurazione del ruolo, lo adatta alle proprie capacità e peculiarità, ne arrichisce la scrittura dove e come può o vuole. Non ripropone meccanicamente e non riproduce (almeno tendenzialmente) interpretazioni che appartengono ad altri: sennò si rischia di ricadere nella mera archeologia musicale. Resta il fatto che sulla carta sono incredibili e piacerebbe ascoltarle prima o poi…anche se, visto il livello delle odierne e sedicenti primedonne – che usurpano il ruolo di cantanti rossiniane – forse è meglio immaginarsele o leggerle, piuttosto che ascoltarle, magari stuprate dalla tecnica periclitante di qualche starlette da rivista patinata che scimiotta le grandi dive del passato (in operazioni commerciali giocate su improbabili e improponibili parallelismi).
Gli ascolti
Rossini: L'Italiana in Algeri
Atto II
Pronti abbiamo e ferri e mani... Amici, in ogni evento... Pensa alla Patria... Qual piacer! Fra pochi istanti - Teresa Berganza (1957), Marilyn Horne (1981), Lucia Valentini-Terrani (1985), Martine Dupuy (1987), Ewa Podles (2002)
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