La terza opera del festival è Maometto II, che ebbe anche una certa circolazione durante la Rossini renaissance, complici i soliti cantanti americani, Ramey, Horne, Merritt e Anderson..Oggi possiamo anche dire che alcuni cantanti rossiniani mancarono l’appuntamento del Maometto II.
Oggi Michele Pertusi è ritornato per la seconda volta a Maometto, in compagnia di Francesco Meli, Erisso, Daniela Barcellona, Calbo e la giovane e sconosciuta, prodotto della Accademia rossiniana, Marina Rebeka quale Anna. A distanza di ventun’anni, forse anche per i rapporti con l’orchestra, il maestro Gustav Kuhn, già fallimentare bacchetta della prima produzione pesarese di Ermione, che ha saputo bissare la scadente prova di allora.
In sintesi circa i cantanti vi diciamo che la serata è stata dominata dagli uomini. In particolare dalla freschezza e dall’idoneità al ruolo di Francesco Meli, capace di accentare con esattezza e di eseguire bene la coloratura; dal mestiere e dalla professionalità sapiente di Pertusi, che, sebbene appesantito, ha cantato con stile e senso rossiniano del canto e del personaggio.
Le donne, invece, sono state, come prevedibile, il punto debole della serata, una per decozione e consunzione dei mezzi, mai sorretti da vera tecnica di canto; l’altra per inadeguatezza di partenza, in voce, tecnica, esperienza professionale del canto. Un vero azzardo collocare su Anna Erisso una cantante così estranea a questo ruolo monumentale, che è stata regolarmente al di sotto di quanto esso richieda. Una giovane poco più che debuttante, sopranino leggero carente nell’esecuzione della coloratura, in difficoltà negli acuti anche a causa del peso della parte, buttata allo sbaraglio su un ruolo della primadonna tragica per definizione, la Colbran. Un vero coerente omaggio del festival alla vocalità tanto decantata della prima moglie e musa di Rossini!
I dettagli
La breve introduzione ha dato subito modo di capire quale bacchetta “pestona” sia G. Kuhn, che scambia il clangore per senso tragico. Il coro successivo, che dovrebbe introdurre al clima della tragedia imminente è diretta, ovviamente !, in modo velocissimo e meccanico.
Francesco Meli attacca bene e con facilità il suo recitativo, voce bella, sonora, dizione chiarissima e accento giusto per il personaggio. E così resta sino alla fine dell’opera, fatto salvo il suo solito modo di cantare con le a apertissime, per nulla utili né gradevoli da udire. Replica un Coldumiero, dalla vocina anche educata, ma che pasticcia la coloratura. Quando poi tocca a Daniela Barcellona si stenta a riconoscere un contralto all’altezza di ricoprire da anni i title role en travestì ad un festival Rossiniano. Il legato è compromesso quasi del tutto, non regge i salti della scrittura, che risolve di puro petto sotto e con voce fissa e dura in alto. Peccato che Meli si strozzi alla puntatura in chiusa.
Il successivo Giuramento è diretto in modo marziale e monotono da Kuhn: Meli regge bene e stupisce perché anche l’esecuzione della coloratura è buona e non sbaglia, stavolta, la puntatura in chiusa.
La cavatina di Anna è più che sufficiente a guardare le carte in mano alla signorina Rebeka. Vocina da soubrettina neoliberty, coloratura tedeschissimamente aspirata e scarse capacità di darle senso, mai eseguendola di forza; scarsa estensione in alto e assenza del giusto peso specifico che la parte, abbastanza centrale, richiederebbe. La cavatina, che meriterebbe qualche intervento ad personam del soprano, è eseguita praticamene letterale, senza inserimenti in seconda strofa. La coloratura, che qui consiste in una serie di tre terzine seguita tre sestine su “ondeggia il cor” è ridotta all’esecuzione pasticciata di quest’ultime.
Al successivo terzetto, che di peso tragico comincia a richiederne chiaramente, la Rebeka pare davvero pigolante nel rispondere all’Erisso di Meli, che domina lei e il Calbo della Barcellona, che canta con un “buco” al centro evidentissimo. Al racconto di Anna che si confessa al padre fa seguito un replica troppo agitata e verista del tenore, che si fa prendere la mano, mentre il soprano procede con un accento tanto aulico da sembrare Nannetta più che un soprano Colbran. Kunh non li aiuta certo, rumoreggiando orrendamente nella buca, mentre la povera Rebeka frana per impossibilità di accentare ed eseguire senza aspirare la coloratura in “Conquisa ho l’alma”. Un po’ tanto al chilo anche la coloratura di Meli, ma nulla a confronto del canto durissimo di Calbo, una vera catastrofe qui, pure nel canto d’agilità, che dovrebbe essere il suo terreno d’elezione. Terribile la sua cadenza in chiusa di scena.
Un’altra brutta scena corale femminile, davvero mal diretta, introduce alla grande scena della preghiera di Anna. L’esecuzione scolastica, imprecisa ( le acciaccature spazzate via, le sestine spiaccicate, le forcelle ignorate, maluccio i mezzi trilli aggiunti in seconda strofa ) non sono state sorrette dall’orchestra, troppo veloce per creare qualsiasi atmosfera, complici anche le puntature bruttine inserite nella ripetizione. Una delusione per una pagina che potrebbe anche essere risolta di puro timbro.
All’allegro successivo Meli canta bene, accenta correttamente, esegue bene anche le quartine di “dover m’invita”, sebbene resti un po’ pesante sulle frasi “la patria non sarà” e si strozza un po’ nell’acuto in chiusa, mentre la Rebeka non riesce a replicargli con giusto accento, dando al pezzo un carattere che è più che altro da….mezzo carattere!
Si arriva al grandioso terzetto Calbo Anna Erisso.L’ingresso di Calbo, “Mira signor quel pianto”, è spettrale, duro l‘attacco, privo di legato, con la voce in sofferenza nel centro, dove la voce non c’è più. Il tempo sostenuto aiuta la Barcellona, che si sente però poco alle sestine di “cor pietà ”.
Successivamente Meli canta con eccesso di irruenza “ Ah corri a piè dell’ara”, mentre la Rebeka, anche lei in affanno, replica pure stonacchiata, “ Dicesti assai l’intendo” ma…l’effetto è quello di Adina, che replica ai tentativi di seduzione di Belcore, e per non parlare del da capo, dove sfocia davvero nell’accento da operetta. Kuhn, da par suo, li segue con una vera bandaccia.
L’ingresso di Maometto introduce una voce, certo senescente, ma…una voce vera, almeno alla radio. Si sentono chiaramente certe oscillazioni e la coloratura è appesantita. L’accento è giusto sebbene l’aria venga cantata tutta forte, con esperti accomodamenti qua e là. E’ chiaro che Pertusi è acciaccato, che soffra di senescenza e gli anni ( di carriera ) si facciano sentire. Ma l’esperienza e il professionismo saldissimo gli consentono di gestire la serata e, soprattutto, di essere Maometto, a cominciare dai recitativi. La cabaletta, “Duce di tanti eroi” è staccata con un tempo abbastanza comodo: la coloratura non è precisissima, mentre la radio restituisce una zona alta della voce facilissima e saldissima. Nel da capo, infatti, punta in alto nelle variazioni e spiana un po’ la scrittura.Nel successivo recitativo sia Meli che Pertusi sono vari ed eloquenti., ed è un vero peccato che Meli non copra a dovere i suoni in zona di passaggio.
Nel terzetto successivo Pertusi è in difficoltà per l’alta scrittura delle quartine. Nulla davanti alla voce dura e vuota al centro della Barcellona , che qui canta da mezzo acuto, quale non è.
Gli uomini “tirano “ il terzetto e questa sarà la caratteristica di tutti gli assieme della serata.
Finale Primo
L’ingresso della Rebeka è al limite del ridicolo per il timbro infantile e bianco e l’assenza di accento; Meli al “ qual colpo è questo” eccede in accessi veristi e la scrittura in zona alta lo costringe a parecchi falsetti, mentre la signora Barcellona è dura e stonata.
L’idea che si tratti di un brano tragico, nel senso classico del termine è affidata alle voci maschil anche perché le sestine che chiudono l’adagio affidate ad Anna Erisso come le esegue la Rebeka sono da pulcin e non da tragedienne.
La stretta del concertato mette in difficoltà per l’ esecuzione della coloratura le voci maschili, nulla confronto ad un soprano senza il peso il colore e l’accento della parte ed a un contralto di fatto afona.
Lo strilletto di Marina Rebeka in chiusa è esemplare della imperizia tecnica di una cantante con colore e peso da soprano di coloratura e senza la principale caratteristica della categorie i sovracuti.
Il secondo atto apre con lo sgraziatissimo coro delle donne turche accompagnato da un’orchestra che potrebbe essere ben confusa con la banda.
Nel recitativo la Rebeka è forzata e sgraziata. All’attacco dell’andante “ Anna tu piangi” che di fatto è l’incipit di un duetto d’amore la voce di Pertusi è poco fluida e la Rebeka assolutamente insignificante nel rifiuto delle profferte d’amore. L’esecuzione della coloratura di “il cor mi scoppia” da parte di Anna è scolastica e l’accento è, come per tutta la serata da opera di mezzo carattere. “Lieta innocente un giorno” va un po’ meglio all’attacco, poi le frasi di scrittura bassa che dovrebbero connotare l’intimo dramma di Anna naufragano. Alla stretta del duetto Anna dovrebbe esibire un canto di maggior vigore e Maometto maggior fluidità. Per giunta la Rebeka nel tentativo di avere volume e vigore drammatico apre i suoni.
Detta fuor di metafora sarebbero ben più adatti al duetto Adina – Dulcamara.
Aria di Maometto.
L’aria non doveva essere considerata da Rossini un capolavoro perché sparì nel passaggio da Maometto ad Assedio. Venne sostituita dal grandioso finale secondo dell’Assedio, che è un capolavoro. Inoltre è molto difficile e, credo, pochi cantanti dopo Filippo Galli sarebbero sati in grado di reggerla. Pertusi è in difficoltà alla quartine di “miei guerrieri” il fa acuto di “viltà “ è appena toccato e fatica nel moto discendente delle “spade al lampo”
Quando nella ripresa interna esegue varianti sono facili e anche gli acuti. Il problema è che la voce suona stimbrata e opaca negli acuti. Pertusi gestisce l’accento rossiniano meglio di tutti i compagni di viaggio, ma in Rossini l’emissione di suoni non morbidi e timbrati lede la resa del personaggio.
In più dalla buca ben poco aiuto con una marcetta per nulla marziale, ma paesana.
La Rebeka, chiamata ai pertichini mostra voce ed accento da autentica, comprimaria.
Emette, poi qui come alla chiusa del duetto con Maometto, un si nat duro e bianchiccio. Ripeto la perplessità proposta con riferimento alla chiusa del concertato atto primo.
Aria di Calbo.
L’introduzione ricorda un’altra grande scena di tomba rossiniana, ossia quella di Arsace che scende nei sotterranei del tempio. Un’introduzione affrettata e sbrigativa, anche se l’oboe solista suona bene, toglie l’aspetto notturno e misterioso .
Meli esibisce i soliti difetti dal do centrale in su; se cerca di cantare piano emetti falsetti, però il timbro per natura è bello e svetta nella frase “tenera sposa” in tempo di andante. Gli replica la voce sgraziata di Daniela Barcellona alle prese con un momento solistico fra i più complessi di Rossini per il continuo chiamare in causa le zone estreme della voce, ossia quelle più disastrate della cantante a soli dieci anni dal debutto, come i premurosi cronisti della radio hanno ricordato.
In fondo si potrebbe anche smettere qua, se non fosse che tutti gli ascoltatori dell’Adriatica Arena, abbiamo gridato al miracolo, applaudito dopo una esecuzione che del canto rossiniano è la negazione. E dell’assunto credo di averne prove oggettive.
Nel dettaglio: attacco con voce dura e fibrosa (la voce di chi non canta in maschera) ai salti di “non fu mai” grida in alto suoni afoni in basso; prese di fiato abusive dopo la volata di “la tua pace”; l’ultima serie di volate “ non comprar con la viltà” è palesemente semplificata come pure la cadenza. Che la cantante non sia idonea alla parte non ci vuole molto a capirlo, che necessiti di aggiusti è lecito o lo sarebbe se almeno la signora mostrasse una tecnica acconcia, ma è assolutamente antirossiniano davanti ad una coloratura che a ciascuna ripetizione si infittisce ridurre e semplificare le ultime ripetizioni.
Arrivate la quartine di “bella fedeltà” o le pasticcia o le semplifica o le arronza. Omessa la cadenza sul punto coronato del sol grave di “fedeltà”. La cabaletta che insiste nelle zone estreme è coronata da note basse stimbrate, talvolta stonate e urlate e bianche a partire dal fa acuto.
Arrivato il da capo la prima sezione “e d’un trono alla speranza” sembra quasi un’omofonia, alla chiusa quando si dovrebbe dar fuoco alle polveri per la progressione drammatica, che la vocalità deve esemplificare compaiono urla in luogo di acuti e, supremo antirossinismo, le code sono eseguite alla lettera. Di cadenza o acuto in chiusa neppure l’ombra tanto esausta è la cantante.
Terzetto “ in questi estremi istanti”
Siccome lo attacca Calbo, i vizi e difetti della signora Barcellona sono in vetrina a solo titolo di esempio quando sulla parola “affanno” compare un fa è duro e opaco, quanto alla ripetizione si tocca il sol un grido. E siamo davanti a tre persone, consce della morte imminente e che rivolgono l’ultima preghiera che impone nell’estetica classica suoni dolci, morbidi, raccolti. Scusate, basta sentire l’orchestra!
Grande scena di Anna Erisso e finale
Siccome sino a questo momento donna Isabella aveva cantato due ariette ed assiemi, il finale doveva essere suo e Rossini predispose una scena di ampiezza tale da avere pochi confronti nella proprio catalogo. Forse Ermione, per certo Armida e, parte non Colbran Falliero incatenato.
A questo momento la Rebeka arriva sprovvista delle doti naturali e tecniche per eseguirla e stanca dalla serata. Sin dal recitativo si percepisce il fuori ruolo vistoso della protagonista, che tuba artificiosamente la voce nell’illusione di dare una sostanza che non c’è. Anche il coretto di dame che l’accompagna non l’aiuta, privato come è dalla bacchetta di ogni vigore drammatico. La coloratura ha un significato tragico come raramente Rossini ha scritto per un soprano. Le riescono le terzine discendenti di “Ai codardi serba”, ma subito dopo alle frasi “ dell’unica mia speme”…”non mi resta” et consimilia si mangia tutti i trilli scritti ( salvi forse quelli su “l’iniquo affetto” ). Il terribile “Si ferite il chieggo il merto”, che la storia del canto, ironia della sorte, ci ha consegnato in una impareggiabile esecuzione proprio da parte di una voce che soprano Cobran non era per nulla, ossia Beverly Sills, ( a provare che si può barare e simulare accento e vigore drammatico solo se si è dei mostri di tecnica e di intelligenza ), è uno scoglio davvero troppo grande per la giovane russa. Le urla arrivano puntali, sin dalle prime battute, e la coloratura, sebbene eseguita con una certa precisione, c’entra poco o nulla con l’isteria tragica ed estrema del momento: le agilità aspirate, un po’ gogogogogo, non consentono di rendere quello che Rossini esige. Maestro e soprano scelgono poi un tempo veloce che sorregge le poche energie rimaste alla ragazza nel “Madre a te che nell’empireo”, introdotto da un flauto celerissimo in un clima che nemmeno qui è quello che ci si aspetta. L’aria, tra il bucolico e l’agreste ,esce come una bella….canzone, cantata da una vocina querula, stanca, con le sestine scritte da Rossini eseguite alla comeposso. E così, tra lo sfinito suicidio di Anna e le brutte ultime battute del Maometto di Pertusi, la tragedia vocale di questo serata si chiude.
Gli ascolti
Rossini - Maometto II
Atto I
Ohimé! qual fulmine!...Conquisa l'anima - June Anderson, Chris Merritt & Marilyn Horne
Atto II
Non temer, d'un basso affetto - Marilyn Horne
Quella morte che s'avanza...Sì, ferite : il chieggo, il merto...Madre, a te che sull'Empireo - June Anderson
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