Dopo la presentazione delle stagioni liriche dei maggiori teatri italiani ed europei, dopo aver constatato una identica e omogenea scarsezza o piattezza di idee (che ricorrono sempre uguali, sempre le stesse, “dalle alpi alle piramidi” verrebbe da dire), dopo aver denunciato la scoperta inadeguatezza di molti dei cast proposti (più attenti a seguire le mode – quando non le ragioni del marketing – che le reali esigenze artistiche che certi ruoli e certi repertori impongono), viene, alla fine, da chiudere gli occhi e lasciar correre la fantasia verso una stagione “ideale”, fatta di titoli che piacerebbe – prima o poi – vedere allestiti e che, ad oggi, latitano, vuoi per mancanza di voci (o errato impiego delle esistenti in repertori non consoni), vuoi perché certi condizionamenti e pregiudizi pseudo culturali ne impediscono l’allestimento.
Detto questo voglio iniziare con un titolo non certo desueto o sconosciuto, ma che negli ultimi tempi è divenuto paradigma di certo intellettualismo spicciolo, a volte molto ottuso: Boris Godunov. Oggi il capolavoro di Mussorgsky ci viene “servito” quasi sempre nella sua primissima versione (quella del dicembre 1869, respinta dalla direzione dei teatri imperiali di San Pietroburgo) con la sua scarna orchestrazione originale, senza l’atto polacco e con la sua atmosfera cupa e torbida: spesso, poi, ci viene presentato senza intervallo, con regie imancabilmente politiche (quando non “politicizzate” nel voler a tutti i costi imporre un certo messaggio) e comunque sempre “a tesi”, con interpreti attentissimi a “psicanalizzare” i personaggi – e a renderne le nevrosi e i disturbi – più che a “cantare”, con direttori compiaciuto del loro protagonismo sterile, e, infine, con pubblici plaudenti e annoiati, ma convinti di aver partecipato ad un raffinatissimo evento culturale. In tutto ciò manca, a mio avviso, quello che era un elemento proprio e, forse, fondamentale, dell’estetica di Mussorgsky: il carattere popolare dell’opera! Non si dimentichi, infatti, che il compositore appartiene a quella corrente ideologica e musicale – orgogliosamente antiaccademica – che, in reazione ai forzati intellettualismi della musica russa ufficiale, ormai assolutamente occidentalizzata e – a dire dei componenti del gruppo – snaturata nella sua identità nazionale, recuperava le tradizioni popolari e le trasportava nel tessuto musicale senza seguire le “regole” insegnate nei conservatori. Privare il Boris del suo carattere di “opera popolare” significa fraintenderne, almeno in parte, il valore e tradire gli intenti del compositore (anche laddove si voglia seguire sempre e comunque la partitura originale). Ecco perché nella mia stagione ideale compare il Boris Godunov nella splendida (ma oggi considerata al pari di una bestemmia) versione curata da Rimsky-Korsakov. Non è qui il caso di analizzare la storia compositiva dell’opera e dilungarsi sulle successive versioni e revisioni: sono fatti noti e acquisiti. Solo vorrei esporre i motivi di tale scelta “controcorrente”: uno di carattere storico, l’altro di carattere estetico. Infatti, al di là di inutili snobismi e pruderie intellettualistiche, non si può non rendere merito a Rimsky-Korsakov di aver permesso, con il suo lavoro, che il Boris non cadesse nell’oblio a cui era certamente destinato seguendo la lezione originale (splendida per carità, ma sicuramente di scarsa presa sui pubblici di allora). Grazie ad una revisione che è stata spesso una vera e propria ricomposizione, l’opera è entrata nel grande repertorio: eppure oggi – almeno nell’Europa occidentale – è impossibile ascoltarla in questa veste, e se qualche teatro avesse il coraggio (ma per molti sarebbe “l’ardire”) di allestirla in tale versione, i responsabili verrebbero tacciati di bieco conservatorismo, di scelta insensata da retroguardia culturale, di nostalgie reazionarie e via blaterando… Oltre all’interesse storico però (che va ravvisato anche in altre operazioni analoghe e ugualmente fondamentali per i destini di certo repertorio: penso al Gluck di Berlioz) vi è anche un preciso valore artistico ed estetico: già, perché la versione di Rimsky-Korsakov – sia detto senza vergogne – è oggettivamente un capolavoro! Capolavoro di orchestrazione innanzitutto (arte in cui il compositore era maestro, laddove Mussorgsky – anche per mancanza di studi regolari – faticava non poco). Lussureggiante, coloratissima, variopinta, ricca di effetti timbrici straordinari e straordinariamente avanzati, mentre l’originale è più cupo e monocromo. Capolavoro anche di inventiva musicale: Rimsky-Korsakov “aggiusta” armonie e melodie, taglia e riassembla episodi e frasi, rivede la linea di canto e dona all’opera un respiro nuovo, più ampio e cantabile che, se stride con l’originario declamato, appaga però l’orecchio dell’ascoltatore (e l’opera, non va mai scordato, è anche appagamento estetico). Naturalmente ad una scelta di questo genere dovrebbe conseguire anche un differente approccio esecutivo: voci vere, corpose e generose, magari meno inclini a rendere la complessa psicologia dello zar o le viscide suggestioni del principe Shuisky o il bruciore manicheo del falso Dimitri, ma che, per una volta, cantano davvero! Un po’ in “stile Bolshoi”, come nei vecchi dischi Melodya magari: orrore nostalgico da trattare con irritata sufficienza? Forse, ma solo per chi preferisce bearsi con Britten e Janaceck: nella mia stagione ideale il “vecchio” Boris Godunov nella versione di Rimsky-Korsakov sarebbe il titolo d’apertura (magari seguito dall'ormai rarissimamente eseguito Principe Igor di Borodin, nella classica edizione Rimsky-Korsakov e Glazunov). Del resto quando Karajan nel ’65 a Salisburgo e nel ’70 in sala di registrazione (per quella che è, seondo me, la migliore incisione dell’opera) decise di dirigere il Boris Godunov, quale versione scelse? Ovviamente la tanto vituperata versione Rimsky-Korsakov. Bisognerebbe rifletterci…
Gli ascolti
Musorgskij - Boris Godunov
Atto II
Ho il poter supremo - Ezio Pinza (1939)
Ah, soffoco! Il respir mi mancò - Ezio Pinza (1939)
Detto questo voglio iniziare con un titolo non certo desueto o sconosciuto, ma che negli ultimi tempi è divenuto paradigma di certo intellettualismo spicciolo, a volte molto ottuso: Boris Godunov. Oggi il capolavoro di Mussorgsky ci viene “servito” quasi sempre nella sua primissima versione (quella del dicembre 1869, respinta dalla direzione dei teatri imperiali di San Pietroburgo) con la sua scarna orchestrazione originale, senza l’atto polacco e con la sua atmosfera cupa e torbida: spesso, poi, ci viene presentato senza intervallo, con regie imancabilmente politiche (quando non “politicizzate” nel voler a tutti i costi imporre un certo messaggio) e comunque sempre “a tesi”, con interpreti attentissimi a “psicanalizzare” i personaggi – e a renderne le nevrosi e i disturbi – più che a “cantare”, con direttori compiaciuto del loro protagonismo sterile, e, infine, con pubblici plaudenti e annoiati, ma convinti di aver partecipato ad un raffinatissimo evento culturale. In tutto ciò manca, a mio avviso, quello che era un elemento proprio e, forse, fondamentale, dell’estetica di Mussorgsky: il carattere popolare dell’opera! Non si dimentichi, infatti, che il compositore appartiene a quella corrente ideologica e musicale – orgogliosamente antiaccademica – che, in reazione ai forzati intellettualismi della musica russa ufficiale, ormai assolutamente occidentalizzata e – a dire dei componenti del gruppo – snaturata nella sua identità nazionale, recuperava le tradizioni popolari e le trasportava nel tessuto musicale senza seguire le “regole” insegnate nei conservatori. Privare il Boris del suo carattere di “opera popolare” significa fraintenderne, almeno in parte, il valore e tradire gli intenti del compositore (anche laddove si voglia seguire sempre e comunque la partitura originale). Ecco perché nella mia stagione ideale compare il Boris Godunov nella splendida (ma oggi considerata al pari di una bestemmia) versione curata da Rimsky-Korsakov. Non è qui il caso di analizzare la storia compositiva dell’opera e dilungarsi sulle successive versioni e revisioni: sono fatti noti e acquisiti. Solo vorrei esporre i motivi di tale scelta “controcorrente”: uno di carattere storico, l’altro di carattere estetico. Infatti, al di là di inutili snobismi e pruderie intellettualistiche, non si può non rendere merito a Rimsky-Korsakov di aver permesso, con il suo lavoro, che il Boris non cadesse nell’oblio a cui era certamente destinato seguendo la lezione originale (splendida per carità, ma sicuramente di scarsa presa sui pubblici di allora). Grazie ad una revisione che è stata spesso una vera e propria ricomposizione, l’opera è entrata nel grande repertorio: eppure oggi – almeno nell’Europa occidentale – è impossibile ascoltarla in questa veste, e se qualche teatro avesse il coraggio (ma per molti sarebbe “l’ardire”) di allestirla in tale versione, i responsabili verrebbero tacciati di bieco conservatorismo, di scelta insensata da retroguardia culturale, di nostalgie reazionarie e via blaterando… Oltre all’interesse storico però (che va ravvisato anche in altre operazioni analoghe e ugualmente fondamentali per i destini di certo repertorio: penso al Gluck di Berlioz) vi è anche un preciso valore artistico ed estetico: già, perché la versione di Rimsky-Korsakov – sia detto senza vergogne – è oggettivamente un capolavoro! Capolavoro di orchestrazione innanzitutto (arte in cui il compositore era maestro, laddove Mussorgsky – anche per mancanza di studi regolari – faticava non poco). Lussureggiante, coloratissima, variopinta, ricca di effetti timbrici straordinari e straordinariamente avanzati, mentre l’originale è più cupo e monocromo. Capolavoro anche di inventiva musicale: Rimsky-Korsakov “aggiusta” armonie e melodie, taglia e riassembla episodi e frasi, rivede la linea di canto e dona all’opera un respiro nuovo, più ampio e cantabile che, se stride con l’originario declamato, appaga però l’orecchio dell’ascoltatore (e l’opera, non va mai scordato, è anche appagamento estetico). Naturalmente ad una scelta di questo genere dovrebbe conseguire anche un differente approccio esecutivo: voci vere, corpose e generose, magari meno inclini a rendere la complessa psicologia dello zar o le viscide suggestioni del principe Shuisky o il bruciore manicheo del falso Dimitri, ma che, per una volta, cantano davvero! Un po’ in “stile Bolshoi”, come nei vecchi dischi Melodya magari: orrore nostalgico da trattare con irritata sufficienza? Forse, ma solo per chi preferisce bearsi con Britten e Janaceck: nella mia stagione ideale il “vecchio” Boris Godunov nella versione di Rimsky-Korsakov sarebbe il titolo d’apertura (magari seguito dall'ormai rarissimamente eseguito Principe Igor di Borodin, nella classica edizione Rimsky-Korsakov e Glazunov). Del resto quando Karajan nel ’65 a Salisburgo e nel ’70 in sala di registrazione (per quella che è, seondo me, la migliore incisione dell’opera) decise di dirigere il Boris Godunov, quale versione scelse? Ovviamente la tanto vituperata versione Rimsky-Korsakov. Bisognerebbe rifletterci…
Gli ascolti
Musorgskij - Boris Godunov
Atto II
Ho il poter supremo - Ezio Pinza (1939)
Ah, soffoco! Il respir mi mancò - Ezio Pinza (1939)
6 commenti:
Cari amici, purtroppo i complessi culturali sono quanto di peggio si possa immaginare per la comprensione dell'opera d'arte. Dico i complessi culturali, non la cultura. Perché fra i due elementi c'è secondo me una relazione inversa; sono proprio le persone meno colte ad essere le più complessate culturalmente. In effetti, quando ascolto la parola "progetto", nel senso di individuazione di un nucleo unitario attorno a cui costruire una stagione operistica, un ciclo di concerti o anche il programma di un singolo concerto, non posso essere d'accordo. Trovo in questo qualcosa di penitenziale, quasi un'acculturazione forzata di tipo collettivista; oltre che un'arroganza senza fine, quasi che soltanto da un'imperscrutabile autorità si possa udire la voce del politicamente corretto. E invece a me piace il politicamente scorretto. Mi piacciono gli accostamenti imprevisti, fantasiosi, forse anche assurdi. Perché chi ha cultura può trovare in questi uno stimolo ad accostare cose lontanissime fra loro; le persone più ingenue d'altro canto si divertiranno senza essere costrette a tornare a scuola da una burbera maestra. A questo discorso può riallacciarsi anche il vostro post sul "Boris". E' vero; la versione originale è degna di tutto il rispetto possibile, a parte il fatto che spesso ci vengono ammannite come versione originale mescolanze delle diverse versioni dell'opera. E ci vengono proposti tagli di cui non viene detto nulla. Per esempio, il taglio alla fine dell'atto polacco, con l'ulteriore intervento del gesuita Rangoni, nelle esecuzioni scaligere di Abbado. Tuttavia, anche tacendo di questo, non si può liquidare la versione di Rimsky come l'opera di un accademico, di contro alle autentiche intenzioni artistiche dell'originale. Rimsky non era un parruccone ma un fior di artista. E si deve a lui se l'opera ha camminato per i palcoscenici di tutto il mondo e non è rimasta confinata negli orizzonti nazionalistici e panslavisti dei "Cinque". Un malinteso concetto di rispetto culturale (ma non è forse il Vangelo che ci induce a liberarci dal rispetto umano?) ci fa disprezzare la versione di Rimsky. Ma essa è una parte fondamentale della storia dell'opera; quindi, della sua ricezione; quindi, della sua natura e della sua essenza, visto che l'opera è quello che è attraverso l'esperienza di tutti coloro che l'hanno ascoltata nei luoghi e nelle epoche più diverse. E' la stessa questione del barocco, confinato dai suoi adoratori in una specie di limbo passato, scisso dal suo futuro e dall'esperienza di tutti coloro che sono venuti in contatto con lui dopo. E' un barocco separato dalla storia, che nessun strumento originale può pretendere di raggiungere. E' il trionfo di uno stile generico, in cui le differenze fra i singoli compositori scompaiono, secondo l'immortale frase di Adorno: "Dicono Bach e intendono Telemann". Tant'è che questi esecutori si annoiano presto della loro purezza e si gettano a corpo morto su Mahler, Bruckner, Schubert e Verdi, quasi liberati dal letto di Procuste che è servito loro da salvacondotto nel mondo della musica. Ma questo è il prezzo da pagare alla storia, una divinità che non sopporta la si trascuri.
Marco Ninci
Caro Marco,
grazie del commento e soprattutto della chiosa finale circa la storia quale divinita' che non sopporta di venire trascurata.
La storia, infatti, e' strumento usato modi contraddittori e diversi nella musica. La storia la si tira in ballo quando serve a giustificare certe scelte e la si dimentica quando si vogliono affermare altre e diverse scelte, ad libitum delgi esecutori.
Storia si? storia no? o forse sarebbe meglio parlare di storicismi, strumenti conezionati per giustificare l'arbitrio?
Il caso del baroccoè' emblematico per provare la manpolazione, l'uso strumentaleche della storia si fa, valida per il canto( valida davvero poi....?) ma non valida per la mise en scene....etc...
Spero che avremo modo di parlare di questo tema in futuro per`che' degno della massima attenzione e alla base di tante moderne storture musicali.
a presto
g
D´accordo in toto con l´amico Marco.Il Boris nella versione riveduta ha un suo preciso posto nella storia della musica,allo stesso modo del Messiah nella rielaborazione mozartiana e dell´Idomeneo rivisto da Richard Strauss.
Cara Giulia,auspico che nel tuo cartellone ideale trovi posto un bel Wagner in italiano,a recuperare una prassi che il compositore non condannava,anzi addirittura auspicava.
Seguiró attentamente gli sviluppi di un dibattito che si preannuncia stimolante.
Saluti
ciao mozart,
la cadenza della stagione dei sogni sarà, credo mensile. ho il sospetto che con riferimento ai titoli la fantasia dei "compilatori" come altrove siamo chiamati sia cospicua pur nel solco della più solida tradizione (passatismo alcuno dice!)
ciao
dd
Come non concordare con il contenuto del post e con il sempre acuto commento di Marco Ninci!
La cosa paradossale è che molti di coloro che si strappano le vesti per denunciare il reato di “appropriazione indebita” di cui si sarebbe reso colpevole Rimsky, sono gli stessi che non solo tollerano, ma addirittura incoraggiano le più radicali (a volte raffinate, spesso e volentieri strampalate) interpretazioni di opere famose da parte dei campioni del Regietheater!
mozart2006 ha detto... Cara Giulia,auspico che nel tuo cartellone ideale trovi posto un bel Wagner in italiano,a recuperare una prassi che il compositore non condannava,anzi addirittura auspicava.
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Mi chiedo come mai gli inglesi siano riusciti a mantenere viva una vera e propria tradizione di repertorio tradotto e cantato nella loro lingua al Teatro nazionale inglese, parallelamente al Covent Garden dove tutte le opere sono in lingua originale. Invece tutto questo è andato perso negli altri paesi europei.(?)
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