Ultimissimo frutto della collaborazione tra DGG-ARCHIV e Alan Curtis, è da pochi mesi disponibile, sugli scaffali di negozi di dischi e megastore, una nuova incisione dell’Alcina di Handel. Pubblicata quasi contemporaneamente all’Ezio dello stesso autore (e con le medesime compagini artistiche), questa edizione arricchisce di un nuovo titolo la già lunga discografia handeliana del direttore americano. Come di consueto l’incisione in studio consegue alla performance dal vivo dell’opera – in questo caso Alcina veniva presentata al pubblico italiano nell’ambito della prima edizione della rassegna MiTo, con un cast, solo in parte, differente.
Premesso che non si comprende la necessità di un’altra Alcina dopo quella classica della Sutherland e le altre due versioni (più lige ai canoni barocchisti) di Hickox (con una buona Arleen Auger) e di Christie (con la Fleming e una Dessay allora ancora spettacolare) – forse meglio indirizzarsi verso titoli meno frequentati o meno confrontabili – l’ascolto di questa produzione discografica – unitamente a quello recentissimo di Agrippina, da poco recensita, nonché ai tanti titoli handeliani curati dallo stesso direttore con i medesimi complessi (Rodrigo, Admeto re di Tessaglia, Arminio, Deidamia, Radamisto, Lotario, Rodelinda, Fernando re di Castiglia, Floridante, Tolomeo ed Ezio, ai quali si aggiungeranno in un prossimo futuro la stessa Agrippina e Berenice) – permette una valutazione ormai compiuta di quello che è, in generale, l’odierno status dell’interpretazione handeliana (almeno quella che risponde alle esigenze della nuova moda) ed in particolare come considerare l’Handel di Curtis. Infatti pur nell’ormai generalizzata e omologante adesione a quei canoni che impongono – arbitrariamente – alla musica barocca (soprattutto a quella vocale) tutta una serie di discutibili scelte esecutive, ricondotte, asseritamente, ad una pretesa prassi autentica (in termine di suono, strumenti impiegati, diapason, canto), Curtis si pone in un’ottica del tutto particolare rispetto ai suoi colleghi: cioè quella della rigidità accademica. L’opera, nella sua ristretta visione teorica, va semplicemente eseguita, alternando arie tripartite e recitativi, limitandosi a suonare quel che c’è scritto senza abbandonarsi alle suggestioni che il testo suggerirebbe e non lasciando spazio a nessun tipo di fantasia. Curtis, di fatto, si limita a dare una sorta di testimonianza, asettica e impersonale, della partitura. Di ogni partitura. In una tale concezione della musica operistica, il senso del teatro è del tutto bandito (peccato capitale in Handel), così come il colore e la varietà timbrica, ritmica, dinamica. Ogni sua esecuzione – e dal vivo ancor più che in disco – è un grigio ed estenuante tour de force di noia, monotonia, povertà di idee. Il suono è opaco e stanco: sempre uguale, dall’inizio alla fine. E il canto che ne consegue ne ripete, coerentemente, tutti i limiti: i recitativi sono cantilene soporifere (e spesso compromesse dalla pronuncia inintellegibile dei suoi interpreti – l’aspetto linguistico, fondamentale nell’opera italiana, è sempre trascurato dalla filologia baroccara), le arie lente vengono tirate e dilatate all’inverosimile e senza mai riuscire a mantenere tensione e senso musicale, quelle “di furore” sono prive di nerbo, le variazioni (inserite non per il puro piacere dell’esibizione virtuosistica o per suscitare quella meraviglia che è cifra irrinunciabile della musica barocca, ma semplicemente per dovere e scrupolo filologico) mostrano la loro origine esclusivamente e rigidamente accademica: sono sempre uguali in ogni aria, in ogni da capo. Naturalmente anche la scelta dei cast è condotta in base agli stessi criteri da saggio musicologico (con ampie concessioni, però, allo star-system baroccaro di cui la casa discografica di riferimento è campione). A tali logiche non sfugge quest’ultima Alcina. Innanzitutto il suono orchestrale: povero, arido e secco. Diversamente da molti altri suoi colleghi – che spesso eccedono in ritmi forsennati ed esasperazione dei contrasti – Curtis opta per la solita e placida mediocritas, già sfoggiata in tutte le sue precedenti incisioni. Certo in questo caso, più di altri, la scelta è censurabile: la completa mancanza di fantasia, infatti, stride con il titolo prescelto, dato che così viene compromesso irrimediabilmente il clima “magico” che permea l’intera opera (Alcina presenta una partitura particolarmente lussureggiante, ricca, colorata, nell’intento di tradurre in musica la dimensione sovrannaturale, incantata e misteriosa). Niente di tutto questo si avverte nella concertazione di Curtis, alla testa del suo Complesso Barocco: solo grigiore e monotonia (almeno in studio, tuttavia, non si percepiscono i gravi problemi di intonazione che affliggevano l’ascolto dal vivo). Del pari il cast. Non mi soffermerò sull’Alcina di Joyce Di Donato, già ampiamente recensita nel medesimo ruolo in occasione della peformance del MiTo, dato che nulla di diverso è riscontrabile nella sua interpretazione del personaggio (si riscontrano le stesse difficoltà negli acuti e, soprattutto, gli eccessi di veemenza nell'affrontare i brani più drammatici, laddove sarebbero opportune sfumature e venature di malinconico abbandono: mai ascoltato, ad esempio, una versione più volgare e sguaiata dell'altrimenti meravigliosa “Ombre pallide” e lo stesso vale per “Ah, mio cor” risolto in un alternarsi di sospiretti lacrimevoli e acuti fissi come allarmi) . E neppure sull'ingolatissima Bradamante di Sonia Prina, per le stesse ragioni. Così pure il deludente Ruggiero di Maite Beaumont (il suo “Sta nell’ircana pietrosa tana” si caratterizza per un’emissione durissima e con gli acuti ghermiti a fatica). Stesso discorso per il tenore Kobie van Rensburg nella difficile parte di Oronte (risolta in modo indegno, con le agilità trasformate in gorgoglio informe e con pronuncia fantasiosissima: ma questi baroccari capiranno, prima o poi, l’importanza di una corretta pronuncia?) e per il buon Melisso di Vito Priante. Balza all’occhio il declassamento di Laura Cherici, dall'assurda Morgana delle recite milanesi al ruolo secondario di Oberto: forse la produzione si è resa conto della performance imbarazzante. Tuttavia la pezza è peggiore del buco. Novità, rispetto alle recite milanesi del 2007, infatti, Morgana: Karina Gauvin (stellina baroccara che già ha inciso con Dantone e con lo stesso Curtis in ben tre produzioni) veste qui i panni della maga sorella di Alcina, e fin dall’esordio mostra un timbro secco, acido e legnoso, con un registro acuto fortunoso e fisso. Nessuna malizia emerge dalla sua voce, nessuna seduzione, nessuna ironia (giacchè Handel la tratteggia come personaggio di mezzo carattere rispetto alla maga protagonista). Aria dopo aria, recitativo dopo recitativo, la Gauvin legge la parte (non senza palesi difficoltà) senza riportarne in vita lo spirito. Ovviamente si riappropria di “Tornami a vagheggiar”: opzione divenuta ormai obbligatoria, costi quel che costi, anche se (come in questo caso) l’interprete del ruolo è deficitario in tutto (si ascolti come condisce il pezzo di variazioni incoerenti, fuori stile e, comunque, bruttissime, con degli assurdi picchettati – pure malissimo eseguiti!): peraltro lo stesso Handel e la prassi – quella vera – dell’epoca aveva già attribuito il brano, dopo le primissime rappresentazioni, alla protagonista. E la Gauvin, qui (e altrove), è decisamente insufficiente rispetto alle esigenze tecniche e interpretative: e in particolare rispetto all’aria suddetta, su cui si stende ancora – e si stenderà sempre – l’ombra ingombrante e scomoda della Sutherland che ne diede una lettura divenuta ormai caposaldo della letteratura barocca di tutti i tempi. Un'edizione, qunque, di scarsa utilità e che non si giustifica né dal punto di vista musicologico (non è tra i titoli handeliani in attesa di rivalutazione), né da quello artistico: decisamente un prodotto rivolto ad un pubblico dai gusti particolari...
Gli ascolti
Haendel - Alcina
Atto I
Di', cor mio - Joan Sutherland (1960)
Tornami a vagheggiar - Joan Sutherland (1960), Valerie Masterson (1978)
Atto II
Ah! mio cor! schernito sei - Joan Sutherland (1959)
Ah! Ruggiero crudel...Ombre pallide - Joan Sutherland (1960)
Premesso che non si comprende la necessità di un’altra Alcina dopo quella classica della Sutherland e le altre due versioni (più lige ai canoni barocchisti) di Hickox (con una buona Arleen Auger) e di Christie (con la Fleming e una Dessay allora ancora spettacolare) – forse meglio indirizzarsi verso titoli meno frequentati o meno confrontabili – l’ascolto di questa produzione discografica – unitamente a quello recentissimo di Agrippina, da poco recensita, nonché ai tanti titoli handeliani curati dallo stesso direttore con i medesimi complessi (Rodrigo, Admeto re di Tessaglia, Arminio, Deidamia, Radamisto, Lotario, Rodelinda, Fernando re di Castiglia, Floridante, Tolomeo ed Ezio, ai quali si aggiungeranno in un prossimo futuro la stessa Agrippina e Berenice) – permette una valutazione ormai compiuta di quello che è, in generale, l’odierno status dell’interpretazione handeliana (almeno quella che risponde alle esigenze della nuova moda) ed in particolare come considerare l’Handel di Curtis. Infatti pur nell’ormai generalizzata e omologante adesione a quei canoni che impongono – arbitrariamente – alla musica barocca (soprattutto a quella vocale) tutta una serie di discutibili scelte esecutive, ricondotte, asseritamente, ad una pretesa prassi autentica (in termine di suono, strumenti impiegati, diapason, canto), Curtis si pone in un’ottica del tutto particolare rispetto ai suoi colleghi: cioè quella della rigidità accademica. L’opera, nella sua ristretta visione teorica, va semplicemente eseguita, alternando arie tripartite e recitativi, limitandosi a suonare quel che c’è scritto senza abbandonarsi alle suggestioni che il testo suggerirebbe e non lasciando spazio a nessun tipo di fantasia. Curtis, di fatto, si limita a dare una sorta di testimonianza, asettica e impersonale, della partitura. Di ogni partitura. In una tale concezione della musica operistica, il senso del teatro è del tutto bandito (peccato capitale in Handel), così come il colore e la varietà timbrica, ritmica, dinamica. Ogni sua esecuzione – e dal vivo ancor più che in disco – è un grigio ed estenuante tour de force di noia, monotonia, povertà di idee. Il suono è opaco e stanco: sempre uguale, dall’inizio alla fine. E il canto che ne consegue ne ripete, coerentemente, tutti i limiti: i recitativi sono cantilene soporifere (e spesso compromesse dalla pronuncia inintellegibile dei suoi interpreti – l’aspetto linguistico, fondamentale nell’opera italiana, è sempre trascurato dalla filologia baroccara), le arie lente vengono tirate e dilatate all’inverosimile e senza mai riuscire a mantenere tensione e senso musicale, quelle “di furore” sono prive di nerbo, le variazioni (inserite non per il puro piacere dell’esibizione virtuosistica o per suscitare quella meraviglia che è cifra irrinunciabile della musica barocca, ma semplicemente per dovere e scrupolo filologico) mostrano la loro origine esclusivamente e rigidamente accademica: sono sempre uguali in ogni aria, in ogni da capo. Naturalmente anche la scelta dei cast è condotta in base agli stessi criteri da saggio musicologico (con ampie concessioni, però, allo star-system baroccaro di cui la casa discografica di riferimento è campione). A tali logiche non sfugge quest’ultima Alcina. Innanzitutto il suono orchestrale: povero, arido e secco. Diversamente da molti altri suoi colleghi – che spesso eccedono in ritmi forsennati ed esasperazione dei contrasti – Curtis opta per la solita e placida mediocritas, già sfoggiata in tutte le sue precedenti incisioni. Certo in questo caso, più di altri, la scelta è censurabile: la completa mancanza di fantasia, infatti, stride con il titolo prescelto, dato che così viene compromesso irrimediabilmente il clima “magico” che permea l’intera opera (Alcina presenta una partitura particolarmente lussureggiante, ricca, colorata, nell’intento di tradurre in musica la dimensione sovrannaturale, incantata e misteriosa). Niente di tutto questo si avverte nella concertazione di Curtis, alla testa del suo Complesso Barocco: solo grigiore e monotonia (almeno in studio, tuttavia, non si percepiscono i gravi problemi di intonazione che affliggevano l’ascolto dal vivo). Del pari il cast. Non mi soffermerò sull’Alcina di Joyce Di Donato, già ampiamente recensita nel medesimo ruolo in occasione della peformance del MiTo, dato che nulla di diverso è riscontrabile nella sua interpretazione del personaggio (si riscontrano le stesse difficoltà negli acuti e, soprattutto, gli eccessi di veemenza nell'affrontare i brani più drammatici, laddove sarebbero opportune sfumature e venature di malinconico abbandono: mai ascoltato, ad esempio, una versione più volgare e sguaiata dell'altrimenti meravigliosa “Ombre pallide” e lo stesso vale per “Ah, mio cor” risolto in un alternarsi di sospiretti lacrimevoli e acuti fissi come allarmi) . E neppure sull'ingolatissima Bradamante di Sonia Prina, per le stesse ragioni. Così pure il deludente Ruggiero di Maite Beaumont (il suo “Sta nell’ircana pietrosa tana” si caratterizza per un’emissione durissima e con gli acuti ghermiti a fatica). Stesso discorso per il tenore Kobie van Rensburg nella difficile parte di Oronte (risolta in modo indegno, con le agilità trasformate in gorgoglio informe e con pronuncia fantasiosissima: ma questi baroccari capiranno, prima o poi, l’importanza di una corretta pronuncia?) e per il buon Melisso di Vito Priante. Balza all’occhio il declassamento di Laura Cherici, dall'assurda Morgana delle recite milanesi al ruolo secondario di Oberto: forse la produzione si è resa conto della performance imbarazzante. Tuttavia la pezza è peggiore del buco. Novità, rispetto alle recite milanesi del 2007, infatti, Morgana: Karina Gauvin (stellina baroccara che già ha inciso con Dantone e con lo stesso Curtis in ben tre produzioni) veste qui i panni della maga sorella di Alcina, e fin dall’esordio mostra un timbro secco, acido e legnoso, con un registro acuto fortunoso e fisso. Nessuna malizia emerge dalla sua voce, nessuna seduzione, nessuna ironia (giacchè Handel la tratteggia come personaggio di mezzo carattere rispetto alla maga protagonista). Aria dopo aria, recitativo dopo recitativo, la Gauvin legge la parte (non senza palesi difficoltà) senza riportarne in vita lo spirito. Ovviamente si riappropria di “Tornami a vagheggiar”: opzione divenuta ormai obbligatoria, costi quel che costi, anche se (come in questo caso) l’interprete del ruolo è deficitario in tutto (si ascolti come condisce il pezzo di variazioni incoerenti, fuori stile e, comunque, bruttissime, con degli assurdi picchettati – pure malissimo eseguiti!): peraltro lo stesso Handel e la prassi – quella vera – dell’epoca aveva già attribuito il brano, dopo le primissime rappresentazioni, alla protagonista. E la Gauvin, qui (e altrove), è decisamente insufficiente rispetto alle esigenze tecniche e interpretative: e in particolare rispetto all’aria suddetta, su cui si stende ancora – e si stenderà sempre – l’ombra ingombrante e scomoda della Sutherland che ne diede una lettura divenuta ormai caposaldo della letteratura barocca di tutti i tempi. Un'edizione, qunque, di scarsa utilità e che non si giustifica né dal punto di vista musicologico (non è tra i titoli handeliani in attesa di rivalutazione), né da quello artistico: decisamente un prodotto rivolto ad un pubblico dai gusti particolari...
Gli ascolti
Haendel - Alcina
Atto I
Di', cor mio - Joan Sutherland (1960)
Tornami a vagheggiar - Joan Sutherland (1960), Valerie Masterson (1978)
Atto II
Ah! mio cor! schernito sei - Joan Sutherland (1959)
Ah! Ruggiero crudel...Ombre pallide - Joan Sutherland (1960)
7 commenti:
Quelli che si sdilinquiscono per Alan Curtis non ricordano l´Ariodante del 1980 alla Piccola Scala, letteralmente impallinato ,e con ragione, dalla critica italiana straniera dell´epoca. Eppure,a riascoltarla oggi, gente come James Bowman e Carolyne Watkinson sembrano fenomeni, rispetto alle voci che oggi affrontano questo repertorio.
A me risulta che Alan Curtis sia americano di nascita (Michigan, se non erro...). Mi complimento con voi per la "generosa e gentile" recensione. Non credo che sarei stato così calmo nel recensire questi "interpreti" purtroppo conosciutissimi perchè sono quelli che ci vendono in continuazione! Non ho ancora avuto modo di sentire questa nuova edizione ed è ovvio che non ho nemmeno un cenno di intenzione a farla varcare la soglia di casa mia. Per Haendel mi rifaccio sempre alla Sutherland o la Sills (non sono nemmeno un fan di Fleming) o altre, che ne so, di quell'epoca dove trovo una serietà nell'approcio allo studio e l'approfondimento di questa Musica (con la "M" maiuscola). Vidi negli anni 60 un Semele con la Sills e altri artisti americani (Kopleff, McCoy) di una tale bellezza che me la ricordo ancora oggi. Persino Leontyne Price cantava Haendel nei suoi recital e, credetemi, era una vera esperienza ascoltare quella voce cantare questo compositore tedesco naturalizzato inglese. Se la memoria non m'inganna fece anche un duetto, forse da Rinaldo, con la Horne per una serata al Met. Diciamo la verità - anche con documenti scritti dell'epoca, non sapremo mai come insegnare o ascoltare o orchestrare in maniera filologica. Per me ascoltare Haendel oggi mi dà noia, cosa che non acccadeva in altro periodo. Resto con quello che mi ha toccato di più e se voglio dormire metto la mia testolina appoggiata sul cuscino del letto di casa mia.
Delirante!!!
Tuttavia se uno non prende quello che si legge sul serio, la lettura diventa abbastanza divertente.
Saluti e buona continuazione.
Ehhhh Dolcevita,
sapessi quante volte, leggendo certa critica, esclamiamo pure noi: "La misera delira".....
Caro Dolcevita...è molto comodo scrivere "delirante": ci si risparmiano argomentazioni e ragionamenti! Se tu hai apprezzato quest'incisione spiegane i motivi...il mio disappunto l'ho giustificatio, la tua liquidazione "tranchant" non ancora. E credimi, non è preconcetto il mio (ho apprezzato le letture di Christie, soprattutto, e di Hickox...). Forse il tuo lo è! Peraltro tale edizione è stata criticata pure da molte riviste solitamente prone ai prodotti baroccari! Mi interessano molto, però, i motivi per cui ritieni Curtis un interprete apprezzabile. Facci sapere.
Dai Dolcevita, ora tocca a te.
COmpra quest Alcina,scrivi che ne pensi e ti pubblico.....però non devi limitarti a dire che ti piace o che è bella, ma spiegarne il PERCHE'.
così confronteremo i nostri pensieri e i mot d'esprit.
Scrivi e verrai pubblicato
g
Anche Vito Priante è oscenamente ingolato e duro. Certo che la Prina è una vergogna, le sue agilità sono colpi di tosse e quando scende nel registro grave raschia di gola che sembra gracchiare, è inammissibile che si spaccino tali porcherie vocali per canto. Ma se tutta questa spazzatura baroccara riscuote il consenso del publico..........
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