L’appuntamento operistico della rassegna MiTo 2009 – come di consueto dedicato alla musica barocca (forse per una malintesa idea di cultura, che in realtà nasconde solo una moda: giacché è inspiegabile, altrimenti, il fatto di non considerare neppure, altri titoli di altri repertori che, quanto o più del barocco, meritano tutela e valorizzazione) – è rappresentato, quest’anno, dall’Agrippina di Handel, in scena il 22 settembre al teatro CRT di Milano. Il titolo, doveroso omaggio al 250° anniversario della morte dell’autore, verrà riproposto – ovviamente e insensatamente in una produzione diversa – a Venezia: un curioso aspetto, questo, dell’Italia sprecona che da una parte si piange addosso e si lamenta dei tagli al FUS, dall’altra si permette il lusso di sperperare i propri fondi (evidentemente non così scarsi come va blaterando) in 2 differenti allestimenti della stessa opera (non di repertorio, tra l'altro), denotando, così, scarsa originalità e assenza totale di un’idea di gestione economica degli eventi artistici.
Sesta opera di Handel – e secondo (e ultimo) lavoro teatrale del periodo italiano dell’autore (il primo fu il Rodrigo, rappresentato a Firenze l’anno precedente) – ebbe la sua prima rappresentazione a Venezia tra il dicembre del 1709 e il gennaio del 1710: le cronache raccontano di un successo trionfale. John Mainwaring, contemporaneo del caro Sassone e suo primo biografo, racconta di un pubblico impazzito, di un teatro che, ad ogni pausa, risuonava di grida e applausi e “altre espressioni di consenso tanto stravaganti da non poterle ridire”, attribuendo tale delirio alla sublimità e grandezza di uno stile che mai fino ad allora era stato conosciuto! Il primo cast presentava alcuni tra i cantanti più in vista dell’epoca: Margherita Durastanti nel ruolo di Agrippina, Diamante Maria Scarabelli in quello di Poppea, Antonio Francesco Carli in quello di Claudio, l’Ottone di Francesca Vanini Boschi e il Pallante di suo marito, Giuseppe Maria Boschi, nonché i castrati Valeriano Pellegrini nel ruolo di Nerone e Giuliano Albertini in quello di Narciso, oltre a Nicola Pasini nel ruolo del servo Lesbo (sconosciuto il contralto che interpretò Giunone). Cast dominato dalle due primedonne, rivali sulla scena e nella vita reale: entrambe caratterizzate dalla spettacolare estensione della voce (quasi due ottave) e dalla straordinaria agilità. Grande estensione caratterizzava pure la voce dei due bassi (circa due ottave e mezzo), mentre il range ridotto del primo Nerone veniva compensato dalla padronanza della coloratura. Più modeste le altre parti, segnate, per questo, da una scrittura più semplice. L’opera presenta tutti i caratteri dell’Handel italiano: già emersi nelle cantate e negli oratori (tra cui uno dei suoi capolavori, La Resurrezione, dal quale prenderà diversi brani), qui trovano la più compiuta realizzazione, e già compaiono certe anticipazioni di quello che sarà il suo stile più maturo (nonostante una struttura che rispetta rigidamente le convenzioni dell’opera veneziana con pochi spazi lasciati all’orchestra, ai cori e agli insiemi, con le arie tripartite e i recitativi secchi, alcuni brani solistici abbandonano la forma consueta, per quella di cavatina o arioso). Vertice compositivo dell’opera è la complessa scena dell’ingiusta accusa di tradimento ad Ottone, una delle più straordinarie del teatro handeliano, dove nell’alternarsi di recitativo accompagnato e arie degli sdegnati protagonisti, Ottone rivolge le sue suppliche ad ognuno di essi che rifiutano ogni comprensione sino al lento sfociare nel sublime largo “Voi che udite il mio lamento”. Opera di transizione, dunque, a mezza via tra perfezione formale e sperimentalismo, e necessaria per comprendere il passaggio al periodo londinese. Il compito di renderne appieno tutti i caratteri e le difficoltà, viene affidato, dall’organizzazione della rassegna, ad Alan Curtis e ai suoi complessi: scelta improvvida e dai risultati largamente insufficienti. A cominciare proprio dalla direzione e dalla concertazione. Curtis si conferma, infatti, uno dei più monotoni interpreti handeliani oggi in circolazione (inspiegabilmente assurto agli alti onori di esecutore di riferimento in tale repertorio per la sempre più decaduta DGG – Archiv), cultore fedele dei dogmi baroccari, ma resi con piattezza inconfondibile e unica: ogni titolo che ha la sventura di passare tra le sue mani si trasforma in una lunga e noiosa sequenza di arie noiose e noiosi recitativi. Lettura grigia e priva di respiro, colori, tensione, varietà dinamica, ritmo. I da capo delle arie vengono (timidamente) variati tutti nello stesso identico modo e nessuna cadenza viene inserita alla fine delle stesse (scelta filologicamente discutibile), mentre è assente ogni tentativo di colorare il suono. In un clima siffatto cercare un barlume di quella teatralità innata dello stile handeliano e presente in tutte le sue opere, è utopia, nell’anestesia totale inflitta dalle cure di Curtis. Il quale riesce, poi, in una vera e propria “impresa”: nonostante i numerosissimi tagli, infatti, l’estenuante serata pincipia alle 21 per concludersi, dopo un solo e breve intervallo, oltre la mezzanotte e mezza! Una durata wagneriana dovuta alla bolsa pesantezza e alla pigra monotonia della concertazione. Accennavo ai tagli: molto numerosi e ingiustificati (se non per far sì che l’opera non durasse 5 ore). Curtis massacra la partitura: sforbicia molti recitativi ed omette la sezione B (con il seguente da capo) di due arie (il Nr. 15 di Claudio e il Nr. 30 di Ottone), mentre taglia del tutto ben sette brani solistici (Nr. 9 – Agrippina; Nr. 23 – Agrippina; Nr. 24 – Poppea; Nr. 25 – Nerone; Nr. 39 – Ottone; Nr. 40 – Poppea; Nr. 47 – Giunone, personaggio che di fatto è eliminato da Curtis, insieme al vero finale dell’opera) oltre al Ballo conclusivo. Incredibilmente la scena più massacrata è proprio la pagina più alta dell’opera: quando Ottone è ingiustamente accusato. Qui sopravvive il solo largo, mentre tutto il resto è rimosso senza alcun senso. Si aggiunga poi l’arbitraria eliminazione di timpani e trombe, previste in partitura in alcuni brani (tra cui il Coro “Di timpani e trombe al suono giulivo” che, senza i suddetti strumenti appare grottesco e privo di significato). Ecco gli effetti di una filologia zoppa e interessata (e profondamente falsificatrice)! Già, perché Curtis è annoverato tra gli specialisti del genere e tra i musicologi più attenti. Parimenti censurabile è il suo Complesso Barocco: compagine dal suono secco, arido e puntuto, con archi stridenti e serissimi problemi d’intonazione (tanto che più volte nel corso dell’opera, il continuum musicale è stato interrotto per diversi minuti, al fine di consentire l’accordatura, inutile, degli strumenti). Ingiustificabili però le stonature dell’oboe nella splendida aria di Agrippina “Pensieri, voi mi tormentate”, con obbligato dello strumento solista: uno strazio da dilettanti che avrebbe meritato, al termine, una salva di fischi! Assai deludente il cast. Alexandrina Pendatchannska, nel ruolo della protagonista, conferma le medesime sensazioni dell’ascolto discografico: protegé di Jacobs e presenza fissa delle sue incisioni, replica qui la pessima interpretazione di Donna Elvira ed Elettra. Una linea di canto spezzata e nervosa, in continuo alternarsi tra grida e sussurri, assenza completa di legato e difficoltà nello sgranare la coloratura. La voce è priva di quella rotondità che il repertorio affrontato richiederebbe, gli acuti sono stridenti e difficoltosi e il registro centrale è gonfiato e sforzato con suonacci gutturali e “di petto”. I recitativi, poi, vengono aggrediti con una veemenza e una ferocia tali da sembrare più adatti al verismo più truculento. In una lettura siffatta nulla resta dell’aulica nobiltà e della bellezza formale che è espressione tipica del belcanto. Molto più apprezzabile il Nerone di Tuva Semmingsen: la parte non presenta particolari difficoltà, e le arie – salvo l’impervia “Come nube che fugge dal vento” che ricorda il “Venti, turbini” del Rinaldo – sono quasi sempre di carattere elegiaco e comunque poco movimentate. Alla voce ben proiettata si associa una discreta tecnica nella coloratura (seppure talvolta – nelle parti più agitate – sembra perderne il controllo). La Semmingsen è l’unica che pare aver chiaro il concetto di corretta respirazione: la sola infatti che utilizza il diaframma e non la parte alta del busto (cosa evidente nell’osservare le sue colleghe sul palco, perennemente in apnea e col fiato corto, che ad ogni respiro sollevavano le spalle). Inizia bene Klara Ek, nel difficile ruolo di Poppea, sfoggia una bella voce con un bel timbro, una intonazione salda e delle buone colorature, tuttavia la cattiva tecnica di respirazione e le difficoltose scalate in acuto ne compromettono in parte l’esibizione. Del tutto insufficienti le parti maschili. Raffaele Costantini (Pallante) e Umberto Chiummo (Claudio) gareggiano in rozzezza e approssimazione: inutile cercare finezze, nobiltà, virtuosismi, si troverebbero solo suoni sguaiati e aperti, voce torniturante, agilità rabberciate. Per non parlare dei recitativi sbraitati e caricati di inutile pathos (in particolare Costantini, pronto per i fischi e gli ululati di certi Mefistofele da spedizione punitiva). Infine i controtenori: non me ne vogliano i loro ferventi sostenitori, ma se la riabilitazione del loro canto viene affidato a voci di tal fatta, allora la battaglia è persa in partenza. A parte il non sense - filologicamente parlando – di affidare Ottone (parte scritta espressamente per un contralto donna) ad un falsettista, il problema è nella scelta dell’interprete: che c’entra il molle e bianchiccio Iestyn Davies (dalla voce fissa e algida e dalla pronuncia assolutamente grottesca e incomprensibile) con la passionalità e il fuoco che dovrebbe muovere le azioni del suo personaggio, che arriva a rinunciare al soglio imperiale per amore? Taccio, perchè ormai il mio pensiero è noto, sul resto della sua scarsissima esibizione (ma non mi si dica che son prevenuto giacchè ben altro effetto mi fece l’Ottone di Michael Chance nella bella incisione di Gardiner...pur restando assurda la scelta di un controtenore). Ancora peggio il Narciso di Antonio Giovannini, dal timbro acido, leggero e sbiancato. Marginale l’apporto di Matteo Ferrara nel piccolo ruolo di Lesbo. Assente invece il personaggio di Giunone (e la sua bellissima aria finale) a causa delle sconsiderate scelte testuali di Curtis. Il pubblico, già in partenza non numeroso (diversi gli spazi vuoti in platea e galleria) e che col passare dei minuti e delle ore, durante l’estenuante serata, si è assottigliato sempre di più, era formato, in gran parte, dai soliti habituè dell’opera barocca, i quali al termine della rappresentazione – nel fuggi-fuggi dei comuni mortali – han tributato un breve e intenso applauso (eccessivo ed immeritato) ai suoi beniamini: non capisco se dovuto a convinzione, moda o obblighi di casta...
Sesta opera di Handel – e secondo (e ultimo) lavoro teatrale del periodo italiano dell’autore (il primo fu il Rodrigo, rappresentato a Firenze l’anno precedente) – ebbe la sua prima rappresentazione a Venezia tra il dicembre del 1709 e il gennaio del 1710: le cronache raccontano di un successo trionfale. John Mainwaring, contemporaneo del caro Sassone e suo primo biografo, racconta di un pubblico impazzito, di un teatro che, ad ogni pausa, risuonava di grida e applausi e “altre espressioni di consenso tanto stravaganti da non poterle ridire”, attribuendo tale delirio alla sublimità e grandezza di uno stile che mai fino ad allora era stato conosciuto! Il primo cast presentava alcuni tra i cantanti più in vista dell’epoca: Margherita Durastanti nel ruolo di Agrippina, Diamante Maria Scarabelli in quello di Poppea, Antonio Francesco Carli in quello di Claudio, l’Ottone di Francesca Vanini Boschi e il Pallante di suo marito, Giuseppe Maria Boschi, nonché i castrati Valeriano Pellegrini nel ruolo di Nerone e Giuliano Albertini in quello di Narciso, oltre a Nicola Pasini nel ruolo del servo Lesbo (sconosciuto il contralto che interpretò Giunone). Cast dominato dalle due primedonne, rivali sulla scena e nella vita reale: entrambe caratterizzate dalla spettacolare estensione della voce (quasi due ottave) e dalla straordinaria agilità. Grande estensione caratterizzava pure la voce dei due bassi (circa due ottave e mezzo), mentre il range ridotto del primo Nerone veniva compensato dalla padronanza della coloratura. Più modeste le altre parti, segnate, per questo, da una scrittura più semplice. L’opera presenta tutti i caratteri dell’Handel italiano: già emersi nelle cantate e negli oratori (tra cui uno dei suoi capolavori, La Resurrezione, dal quale prenderà diversi brani), qui trovano la più compiuta realizzazione, e già compaiono certe anticipazioni di quello che sarà il suo stile più maturo (nonostante una struttura che rispetta rigidamente le convenzioni dell’opera veneziana con pochi spazi lasciati all’orchestra, ai cori e agli insiemi, con le arie tripartite e i recitativi secchi, alcuni brani solistici abbandonano la forma consueta, per quella di cavatina o arioso). Vertice compositivo dell’opera è la complessa scena dell’ingiusta accusa di tradimento ad Ottone, una delle più straordinarie del teatro handeliano, dove nell’alternarsi di recitativo accompagnato e arie degli sdegnati protagonisti, Ottone rivolge le sue suppliche ad ognuno di essi che rifiutano ogni comprensione sino al lento sfociare nel sublime largo “Voi che udite il mio lamento”. Opera di transizione, dunque, a mezza via tra perfezione formale e sperimentalismo, e necessaria per comprendere il passaggio al periodo londinese. Il compito di renderne appieno tutti i caratteri e le difficoltà, viene affidato, dall’organizzazione della rassegna, ad Alan Curtis e ai suoi complessi: scelta improvvida e dai risultati largamente insufficienti. A cominciare proprio dalla direzione e dalla concertazione. Curtis si conferma, infatti, uno dei più monotoni interpreti handeliani oggi in circolazione (inspiegabilmente assurto agli alti onori di esecutore di riferimento in tale repertorio per la sempre più decaduta DGG – Archiv), cultore fedele dei dogmi baroccari, ma resi con piattezza inconfondibile e unica: ogni titolo che ha la sventura di passare tra le sue mani si trasforma in una lunga e noiosa sequenza di arie noiose e noiosi recitativi. Lettura grigia e priva di respiro, colori, tensione, varietà dinamica, ritmo. I da capo delle arie vengono (timidamente) variati tutti nello stesso identico modo e nessuna cadenza viene inserita alla fine delle stesse (scelta filologicamente discutibile), mentre è assente ogni tentativo di colorare il suono. In un clima siffatto cercare un barlume di quella teatralità innata dello stile handeliano e presente in tutte le sue opere, è utopia, nell’anestesia totale inflitta dalle cure di Curtis. Il quale riesce, poi, in una vera e propria “impresa”: nonostante i numerosissimi tagli, infatti, l’estenuante serata pincipia alle 21 per concludersi, dopo un solo e breve intervallo, oltre la mezzanotte e mezza! Una durata wagneriana dovuta alla bolsa pesantezza e alla pigra monotonia della concertazione. Accennavo ai tagli: molto numerosi e ingiustificati (se non per far sì che l’opera non durasse 5 ore). Curtis massacra la partitura: sforbicia molti recitativi ed omette la sezione B (con il seguente da capo) di due arie (il Nr. 15 di Claudio e il Nr. 30 di Ottone), mentre taglia del tutto ben sette brani solistici (Nr. 9 – Agrippina; Nr. 23 – Agrippina; Nr. 24 – Poppea; Nr. 25 – Nerone; Nr. 39 – Ottone; Nr. 40 – Poppea; Nr. 47 – Giunone, personaggio che di fatto è eliminato da Curtis, insieme al vero finale dell’opera) oltre al Ballo conclusivo. Incredibilmente la scena più massacrata è proprio la pagina più alta dell’opera: quando Ottone è ingiustamente accusato. Qui sopravvive il solo largo, mentre tutto il resto è rimosso senza alcun senso. Si aggiunga poi l’arbitraria eliminazione di timpani e trombe, previste in partitura in alcuni brani (tra cui il Coro “Di timpani e trombe al suono giulivo” che, senza i suddetti strumenti appare grottesco e privo di significato). Ecco gli effetti di una filologia zoppa e interessata (e profondamente falsificatrice)! Già, perché Curtis è annoverato tra gli specialisti del genere e tra i musicologi più attenti. Parimenti censurabile è il suo Complesso Barocco: compagine dal suono secco, arido e puntuto, con archi stridenti e serissimi problemi d’intonazione (tanto che più volte nel corso dell’opera, il continuum musicale è stato interrotto per diversi minuti, al fine di consentire l’accordatura, inutile, degli strumenti). Ingiustificabili però le stonature dell’oboe nella splendida aria di Agrippina “Pensieri, voi mi tormentate”, con obbligato dello strumento solista: uno strazio da dilettanti che avrebbe meritato, al termine, una salva di fischi! Assai deludente il cast. Alexandrina Pendatchannska, nel ruolo della protagonista, conferma le medesime sensazioni dell’ascolto discografico: protegé di Jacobs e presenza fissa delle sue incisioni, replica qui la pessima interpretazione di Donna Elvira ed Elettra. Una linea di canto spezzata e nervosa, in continuo alternarsi tra grida e sussurri, assenza completa di legato e difficoltà nello sgranare la coloratura. La voce è priva di quella rotondità che il repertorio affrontato richiederebbe, gli acuti sono stridenti e difficoltosi e il registro centrale è gonfiato e sforzato con suonacci gutturali e “di petto”. I recitativi, poi, vengono aggrediti con una veemenza e una ferocia tali da sembrare più adatti al verismo più truculento. In una lettura siffatta nulla resta dell’aulica nobiltà e della bellezza formale che è espressione tipica del belcanto. Molto più apprezzabile il Nerone di Tuva Semmingsen: la parte non presenta particolari difficoltà, e le arie – salvo l’impervia “Come nube che fugge dal vento” che ricorda il “Venti, turbini” del Rinaldo – sono quasi sempre di carattere elegiaco e comunque poco movimentate. Alla voce ben proiettata si associa una discreta tecnica nella coloratura (seppure talvolta – nelle parti più agitate – sembra perderne il controllo). La Semmingsen è l’unica che pare aver chiaro il concetto di corretta respirazione: la sola infatti che utilizza il diaframma e non la parte alta del busto (cosa evidente nell’osservare le sue colleghe sul palco, perennemente in apnea e col fiato corto, che ad ogni respiro sollevavano le spalle). Inizia bene Klara Ek, nel difficile ruolo di Poppea, sfoggia una bella voce con un bel timbro, una intonazione salda e delle buone colorature, tuttavia la cattiva tecnica di respirazione e le difficoltose scalate in acuto ne compromettono in parte l’esibizione. Del tutto insufficienti le parti maschili. Raffaele Costantini (Pallante) e Umberto Chiummo (Claudio) gareggiano in rozzezza e approssimazione: inutile cercare finezze, nobiltà, virtuosismi, si troverebbero solo suoni sguaiati e aperti, voce torniturante, agilità rabberciate. Per non parlare dei recitativi sbraitati e caricati di inutile pathos (in particolare Costantini, pronto per i fischi e gli ululati di certi Mefistofele da spedizione punitiva). Infine i controtenori: non me ne vogliano i loro ferventi sostenitori, ma se la riabilitazione del loro canto viene affidato a voci di tal fatta, allora la battaglia è persa in partenza. A parte il non sense - filologicamente parlando – di affidare Ottone (parte scritta espressamente per un contralto donna) ad un falsettista, il problema è nella scelta dell’interprete: che c’entra il molle e bianchiccio Iestyn Davies (dalla voce fissa e algida e dalla pronuncia assolutamente grottesca e incomprensibile) con la passionalità e il fuoco che dovrebbe muovere le azioni del suo personaggio, che arriva a rinunciare al soglio imperiale per amore? Taccio, perchè ormai il mio pensiero è noto, sul resto della sua scarsissima esibizione (ma non mi si dica che son prevenuto giacchè ben altro effetto mi fece l’Ottone di Michael Chance nella bella incisione di Gardiner...pur restando assurda la scelta di un controtenore). Ancora peggio il Narciso di Antonio Giovannini, dal timbro acido, leggero e sbiancato. Marginale l’apporto di Matteo Ferrara nel piccolo ruolo di Lesbo. Assente invece il personaggio di Giunone (e la sua bellissima aria finale) a causa delle sconsiderate scelte testuali di Curtis. Il pubblico, già in partenza non numeroso (diversi gli spazi vuoti in platea e galleria) e che col passare dei minuti e delle ore, durante l’estenuante serata, si è assottigliato sempre di più, era formato, in gran parte, dai soliti habituè dell’opera barocca, i quali al termine della rappresentazione – nel fuggi-fuggi dei comuni mortali – han tributato un breve e intenso applauso (eccessivo ed immeritato) ai suoi beniamini: non capisco se dovuto a convinzione, moda o obblighi di casta...
3 commenti:
perchè non si dovrebbe salvaguardare il repertorio barocco? Salvaguardarlo più che mai, da coloro che ne fanno strame oggi giorno? Io trovo che l'eredità di Bach, Handel, Monteverdi e gli altri sia davvero importante e non mi spiego perchè si debbano fare dei distinguo...
D'accordissimo, tuttavia mi chiedo a volte "questa rinata passione per certo barocco, non sarà questione di mode?". Intendiamoci, Silvio, adoro il barocco e Handel è tra i miei compositori preferiti, così come Monteverdi o Bach. Io non parlo di valore, ma di opportunità: perchè, ad esempio, la rassegna MiTo dedica la propria componente operistica alla sola musica barocca (eseguita alla "baroccara" tra l'altro)? Finora si sono succedute Alcina, Ezio, Aci Galatea e Polifemo, ora Agrippina. Tutti capolavori ovviamente: ma non si brilla per fantasia. Tutti i titoli presentati nella rassegna sono stati allestiti in diverse città italiane tante volte e ogni volta con produzioni differenti (e qui mi riallaccio all'Italia sprecona che si lamenta del taglio al FUS e poi presenta 3 allestimenti diversi di Aci e Galatea...). Ma allargando il discorso: perchè solo il barocco? E' più facile? E' di moda? Attira pubblico (visti i posti vuoti al CRT non credo)? Il barocco è da tutelare, certo, ma sarebbe da tutelare anche Donizetti (ad esempio) di fatto ridotto ad un paio di tioli. Sarebbe da rivalutare il nostro vituperato verismo (che proprio nell'asse Milano Torino le prime produzioni). Insomma mi chiedo perchè questo MiTo (rassegna generalista) si debba adagiare sempre e solo ai baroccari e al teatro baroccaro...
appunto la distinzione si dovrebbe compiere fra teatro baroccaro e barocco. Perchè il secondo è importante anche per Haydn e per lo sviluppo in Mozart e Gluck. Ed è musicalmente, nonchè filologicamente (nel senso alto del termine), sentire ed affrontare quelle opere. Vero è, per altro, che gli allesstimenti sempre nuovi non possono che essere uno spreco, e che il repertorio Ddonizzettiano giace nel dimenticatoio... ma è vero anche che i curatori, credendo che il barocco si possa cantare male, scelgono la cosa potenzialmente meno pericolosa, ovvero affrontarlo alla nuova moda. Che se si proponessero, con le stesse voci, una nuova produzione della Beatrice di Tenda.... apriti cielo!!!
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