Il Corriere della Sera del 16 settembre ha pubblicato, sulla pagina dedicata alle recensioni musicali, un'intervista al maestro Daniele Gatti dal polemico titolo "I grandi cantanti evitano la Scala e la colpa è dei soliti contestatori".
Pochi giorni prima, a firma Mattioli sulla Stampa, era comparsa un'intervista a Cecilia Bartoli, che, pubblicizzando l'imminente uscita del recital Sacrificium e più ancora il debutto in Norma, non perdeva l'usata occasione di polemizzare sull'assenza propria e di altri divi dai teatri italiani e sull'ignoranza, presunzione e astoricità sempre del pubblico del paese del melodramma.
E sono solo gli ultimi atti dell'insulto costante cui il pubblico è fatto oggetto da parte degli addetti ai lavori.
Sopratutto l'intervista a Daniele Gatti invita a due riflessioni.
La prima contingente e, forse, di minor respiro ovvero replicare all'assioma enunciato nel titolo, la seconda più profonda dell'attuale rapporto palcoscenico-pubblico.
Quanto alla prima è vecchia e scontata. Da sempre cantanti famosi, che non è, oggi sopratutto, sinonimo di grandi, non frequentano i teatri di un certo paese. La disamina della carriere di una Galli Curci, una Tetrazzini e Caruso, post 1904, conferma l'assunto. Caruso lo fece, ufficialmente a seguito delle riprovazioni del pubblico napoletano verso il suo Nemorino e l'unica successiva apparizione del 1915 a Milano (al Dal Verme, però, non alla Scala) tutto fu fuorchè un plebiscitario successo. Ed in tempi più recenti se una grande come Eleanor Steber ebbe pochissimo seguito in Italia, per contro la carriera americana della Callas non fu quello che gli anglosassoni chiamano "a bed of roses". L'una rimase regina del Met, l'altra della Scala. Ed ho citato cinque cantanti di levatura assolutamente storica. Poi qualcuno, more solito, discuterà e proporrà distinguo.
I motivi di oggi sono quelli di allora. Simpatie, antipatie, interesse e disinteresse , cultura ed ignoranza di direttori d'orchestra ed artistici, potenza o incapacità di agenti, tresche di colleghi e colleghe rivali, comunanze o discordanze di religione, inclinazioni sessuali, razze, favori prestati o rifiutati.
Con buona pace del maestro Gatti l'elenco delle ragioni è ben più variegato di quello espresso dall'intervistato, probabilmente ancora ustionato dall'esito del recente Don Carlo.
Non solo, ma tutti i latori delle ragioni sopra elencate (prive della pretesa di essere esaustive) hanno in assoluto disprezzo del pubblico proposto ed imposto protetti e protette in dosi massicce e, oggi, senza alcun buon gusto e buon senso, la cui mancanza ha cagionato ai protetti, incorsi in incidenti di percorso in questo od in quel teatro. Massime alla Scala, sia pure con parsimonia rispetto ad un passato recente.
Figurarsi se il pubblicò esaltò e fischiò al tempo stesso fuoriclasse come Pavarotti, la Verrett o la Caballé, si possa porre dei problemi a trasformare ogni recite di un soprano, che sostituì per ragioni extrartistiche la riconosciuta specialista rossiniana, in autentiche salite al Monte Calvario.
Ma ed entriamo nel secondo e più profondo aspetto di riflessione che queste ed altre interviste stimolano ovvero il rapporto con il pubblico. I cantanti di un tempo, capitanati da una Tebaldi o da una Callas, hanno sempre riconosciuto principio irrinunciabile il rispetto per il pubblico, che premia e punisce, "atterra e suscita" e, quindi, che esige il massimo sforzo, la massima preparazione, quello che, con melodrammatica semplicità, le dive del verismo definivano "dare tutta me stessa".
Lo sapevano anche gli addetti ai lavori, attenti ed oculati nel proporre sul titolo meno rischioso l'imposto o l'imposta di turno o nell'innestare opportune retromarce.
La dirigenza scaligera, a seguito delle recriminazioni di Giacomo Lauri Volpi, atteso divo, che minacciava il forfait, sollevò dal ruolo di Gilda nel Rigoletto il soprano Pierisa Giri, la "Petacci" di Starace dallo stesso imposta. Negli anni Cinquanta la signora Legge, ossia la signora EMI, limitò presenza e repertorio a titoli sicuri, non pretese Traviate e Tosche o Bohème, come accadrebbe oggi, quando innanzi lo sfascio della imposta scelta si indicherebbe unica causa cattiveria, ignoranza, mania di protagonismo del pubblico. Loggione in primis. Troppo comodo, come è troppo comodo tacere, ad onta del fatto che tutti sappiamo per quale motivo una scritturata protagonista di Aida, cantante solidissima e di cospicua carriera internazionale, sparisca dal cartellone ove, invece, permane la deuteragonista, che vociferante e rozza, viene protestata dal pubblico e non già da chi, direttore d'orchestra e direttore artistico, dovrebbe provvedervi e per rispetto al pubblico e per giustificare la propria posizione.
Quest'ultimo aspetto rende doveroso rammentare a Daniele Gatti che irresponsabile potrebbe essere il tenore, che minaccia piazzate, quando rimosso (perché non ufficialmente protestato, oggi fa il soft non l'hard), ma che l'artista si trova in ottima e pari compagnia, perché è documentale che venne visto, sentito ed ascoltato, un paio di mesi prima dell'incriminato sette dicembre, da direttore e dirigenza, recatisi in Zurigo per il di lui debutto nel title role. E per spirito di completezza erano mesi che tutti i fori operistici, anche quelli che praticano buonismo e tolleranza, sollevavano documentati dubbi circa la possibilità di esito soddisfacente di quella scelta basandosi, fra l'altro, su un difficoltoso Edgardo scaligero.
Certo che, poi, dichiarare e titolare che i cantanti non vengono perché il pubblico fischia è un atteggiamento quanto meno acritico ed irresponsabile.
E' l'atteggiamento connaturato in un mondo dove la carriera è propiziata e sostenuta per diritto ereditario, di religione, favori d'ogni sorta, potenza di agente e major discografica, pagine di pubblicità e di recensioni pubblicitarie, tavolate con il pubblico ed altro.
Pochi giorni prima, a firma Mattioli sulla Stampa, era comparsa un'intervista a Cecilia Bartoli, che, pubblicizzando l'imminente uscita del recital Sacrificium e più ancora il debutto in Norma, non perdeva l'usata occasione di polemizzare sull'assenza propria e di altri divi dai teatri italiani e sull'ignoranza, presunzione e astoricità sempre del pubblico del paese del melodramma.
E sono solo gli ultimi atti dell'insulto costante cui il pubblico è fatto oggetto da parte degli addetti ai lavori.
Sopratutto l'intervista a Daniele Gatti invita a due riflessioni.
La prima contingente e, forse, di minor respiro ovvero replicare all'assioma enunciato nel titolo, la seconda più profonda dell'attuale rapporto palcoscenico-pubblico.
Quanto alla prima è vecchia e scontata. Da sempre cantanti famosi, che non è, oggi sopratutto, sinonimo di grandi, non frequentano i teatri di un certo paese. La disamina della carriere di una Galli Curci, una Tetrazzini e Caruso, post 1904, conferma l'assunto. Caruso lo fece, ufficialmente a seguito delle riprovazioni del pubblico napoletano verso il suo Nemorino e l'unica successiva apparizione del 1915 a Milano (al Dal Verme, però, non alla Scala) tutto fu fuorchè un plebiscitario successo. Ed in tempi più recenti se una grande come Eleanor Steber ebbe pochissimo seguito in Italia, per contro la carriera americana della Callas non fu quello che gli anglosassoni chiamano "a bed of roses". L'una rimase regina del Met, l'altra della Scala. Ed ho citato cinque cantanti di levatura assolutamente storica. Poi qualcuno, more solito, discuterà e proporrà distinguo.
I motivi di oggi sono quelli di allora. Simpatie, antipatie, interesse e disinteresse , cultura ed ignoranza di direttori d'orchestra ed artistici, potenza o incapacità di agenti, tresche di colleghi e colleghe rivali, comunanze o discordanze di religione, inclinazioni sessuali, razze, favori prestati o rifiutati.
Con buona pace del maestro Gatti l'elenco delle ragioni è ben più variegato di quello espresso dall'intervistato, probabilmente ancora ustionato dall'esito del recente Don Carlo.
Non solo, ma tutti i latori delle ragioni sopra elencate (prive della pretesa di essere esaustive) hanno in assoluto disprezzo del pubblico proposto ed imposto protetti e protette in dosi massicce e, oggi, senza alcun buon gusto e buon senso, la cui mancanza ha cagionato ai protetti, incorsi in incidenti di percorso in questo od in quel teatro. Massime alla Scala, sia pure con parsimonia rispetto ad un passato recente.
Figurarsi se il pubblicò esaltò e fischiò al tempo stesso fuoriclasse come Pavarotti, la Verrett o la Caballé, si possa porre dei problemi a trasformare ogni recite di un soprano, che sostituì per ragioni extrartistiche la riconosciuta specialista rossiniana, in autentiche salite al Monte Calvario.
Ma ed entriamo nel secondo e più profondo aspetto di riflessione che queste ed altre interviste stimolano ovvero il rapporto con il pubblico. I cantanti di un tempo, capitanati da una Tebaldi o da una Callas, hanno sempre riconosciuto principio irrinunciabile il rispetto per il pubblico, che premia e punisce, "atterra e suscita" e, quindi, che esige il massimo sforzo, la massima preparazione, quello che, con melodrammatica semplicità, le dive del verismo definivano "dare tutta me stessa".
Lo sapevano anche gli addetti ai lavori, attenti ed oculati nel proporre sul titolo meno rischioso l'imposto o l'imposta di turno o nell'innestare opportune retromarce.
La dirigenza scaligera, a seguito delle recriminazioni di Giacomo Lauri Volpi, atteso divo, che minacciava il forfait, sollevò dal ruolo di Gilda nel Rigoletto il soprano Pierisa Giri, la "Petacci" di Starace dallo stesso imposta. Negli anni Cinquanta la signora Legge, ossia la signora EMI, limitò presenza e repertorio a titoli sicuri, non pretese Traviate e Tosche o Bohème, come accadrebbe oggi, quando innanzi lo sfascio della imposta scelta si indicherebbe unica causa cattiveria, ignoranza, mania di protagonismo del pubblico. Loggione in primis. Troppo comodo, come è troppo comodo tacere, ad onta del fatto che tutti sappiamo per quale motivo una scritturata protagonista di Aida, cantante solidissima e di cospicua carriera internazionale, sparisca dal cartellone ove, invece, permane la deuteragonista, che vociferante e rozza, viene protestata dal pubblico e non già da chi, direttore d'orchestra e direttore artistico, dovrebbe provvedervi e per rispetto al pubblico e per giustificare la propria posizione.
Quest'ultimo aspetto rende doveroso rammentare a Daniele Gatti che irresponsabile potrebbe essere il tenore, che minaccia piazzate, quando rimosso (perché non ufficialmente protestato, oggi fa il soft non l'hard), ma che l'artista si trova in ottima e pari compagnia, perché è documentale che venne visto, sentito ed ascoltato, un paio di mesi prima dell'incriminato sette dicembre, da direttore e dirigenza, recatisi in Zurigo per il di lui debutto nel title role. E per spirito di completezza erano mesi che tutti i fori operistici, anche quelli che praticano buonismo e tolleranza, sollevavano documentati dubbi circa la possibilità di esito soddisfacente di quella scelta basandosi, fra l'altro, su un difficoltoso Edgardo scaligero.
Certo che, poi, dichiarare e titolare che i cantanti non vengono perché il pubblico fischia è un atteggiamento quanto meno acritico ed irresponsabile.
E' l'atteggiamento connaturato in un mondo dove la carriera è propiziata e sostenuta per diritto ereditario, di religione, favori d'ogni sorta, potenza di agente e major discografica, pagine di pubblicità e di recensioni pubblicitarie, tavolate con il pubblico ed altro.
7 commenti:
nessuno può togliere il diritto al pubblico di contestare,se un cantante non piace,o una regia,o altro,come anche il pubblico ha diritto di applaudire,se la recita piace,l'importante e che non si vada in teatro già col pregiudizio verso un artista(succedeva spesso anche in passato dai fans di altri artisti).Se poi un cantante(o i suoi agenti o la casa discografica o l'impresario) non và a cantare perchè già in partenza pensa di essere fischiato o contestato,allora o gia sà di non essere all'altezza di quel pubblico dal "palato buono" oppure cambi mestiere.Il dire che cantanti famosi non vanno in certi teatri perchè c'è un pubblico che "può"contestare è solo una fesseria.Tanti grandi e famosi cantanti degli anni addietro si sono portati a casa pomodori e carote,eppure su quei palchi dove hanno raccolto ortaggi ci sono ritornati,magari poi raccogliendo fiori.
Ma è possibile che l'umiltà di stare zitti non esiste in queste persone?
con chi c'è l'hai yustmile? se ti riferisci al mio commento rispondi su quello che ho scritto.. grazie
Caro Pasquale,
mi pare che justsmile la pensi come noi.....leggi bene
ciaoooooo
basta dare una scorsa ai cast per rendersi conto di come stanno le cose... loro vorrebbero esser appaluditi, infondo fanno lo sforzo di entrare in un teatro, indossare dei costumi (spesso inqualificabili), aprire la bocca, cercar di adattarsi a certe strane usanze vocali.... vorrebbero che certi meriti gli fossero riconosciuti! :)
e veramente uno schifo come si comportano certi piccoli direttori artistici e non. A buon intenditore bastano poche parole. NOI pubblico la SIGNORA FANTINI la consideriamo la piu grande AIDA che ci sia oggi.E certamente lo pensa anche il signor BARENBOIM visto che era la sua AIDA imposta alla Scala da LUI.
Grazie Sig.a Grisi. La penso come voi... E COME!!!!
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