martedì 6 aprile 2010

Attila, Muti e il "sogno americano"

E così Riccardo Muti è sbarcato in America. Il Maestro che “tutto il mondo ci invidia”, incompreso e sbeffeggiato nella madrepatria, “vigliaccamente” cacciato con un “colpo di mano sindacale” in diretta TV (officiante Emilio Fede, con un collegamento speciale del TG4 che testimoniò, tra sospiri delusi, retorici “vergogna!” del giornalista e “pacate” invettive contro l’ingratitudine delle maestranze, le fasi più convulse della sfiducia), costretto suo malgrado ad allargare le fila della nostrana “fuga di cervelli” in viaggio (di speranza) verso lidi più fecondi (ma, il nostro, col piglio un po’ guascone e un po’ levantino dell’emigrante), ha finalmente trovato una collocazione che i suoi fan ci assicurano “prestigiosissima”. Anzi, più d’una, dopo il purgatorio delle piazze periferiche (su cui spicca, per basso livello, la grigia Piacenza): ora sul suo regno – esteso su entrambe le sponde dell’Atlantico – davvero non tramonta mai il sole. E’ recente l’incarico stabile all’Opera di Roma (fortissimamente voluto dalla strana coppia Gianni Alemanno/Bruno Vespa, l'uno in veste di sindaco, l'altro come consigliere del teatro, nessuno con reali competenze musicali), mentre è ormai consueta la sua presenza a Salisburgo.

Figura discussa e discutibile, musicista con luci e ombre, “primadonna” con le smanie dell’one man show sempre e comunque (anche a costo di sotterrare uno spettacolo per far brillare la sua stella), responsabile – almeno in parte – della decadenza del Teatro alla Scala, è tornato alla ribalta. I suoi “vedovi” – assai diversi dagli analoghi abbadiani che sono meno rancorosi e complottisti, ma più saputelli, sofisticati e radical chic (si sentono moralmente superiori, costoro) – si preparano ad uscire dai loro rifugi carbonari per riappropriarsi del loro culto (anche se all’appello mancheranno in molti, rispetto ai plauditores del ventennio: spariti al mutare di bandiera), con il solito rancore, ma con un pizzico di soddisfatta rivalsa, approfittando dell’attuale disastro del teatro meneghino (la cui gestione – la peggiore di sempre – fa persino rimpiangere le tremende stagioni mutiane) e dei “trionfi” esteri che i giornali patrii attribuiscono al loro idolo (a volte peccando di un certo eccesso letterario e confondendo il vero con il desiderato), e pregustandosi le inevitabili polemiche che seguiranno la plantumazione del centro di Milano che l’amministrazione comunale ha deciso inaudita altera parte (naturalmente paga la cittadinanza) per assicurarsi la presenza del divo Claudio dopo gli anni dell'esilio. Comunque sia, Muti torna a scaldare quel che resta del SUO pubblico, anche se costretto a faticose e dispendiose trasferte romane, per la serie “non può quel che vuole, vorrà quel che può”. Ma più che guardare a Roma (e non alla prestigiosa – per davvero – Accademia di Santa Cecilia, ma a quel baraccone che è il Teatro dell’Opera: immagine speculare del bizantinismo grottesco e sprecone che regge la nostra Pubblica Amministrazione - anche nei suoi livelli supremi), preferisco rivolgermi oltre oceano. Il Maestro Muti, infatti, con la sua indole da arruffapopoli e l’incontestabile abilità, un po’ cialtrona, nel vendere sé stesso (i suoi pregi e, soprattutto, i suoi difetti), ha conquistato il pubblico di Chicago con un programma poutpourri che, seppur indefinito quanto a linee guida e scelte estetiche (e a forte rischio di anonimato) , che assomiglia ad una specie di “il meglio di…” del repertorio sinfonico del Maestro, presenta una serie di titoli mai affrontati dalla Chicago Symphony Orchestra (l’orchestra di Reiner e di Solti, passata a Muti dopo Barenboim), e che, verosimilmente, hanno destato la curiosità e l’aspettativa di un pubblico avvezzo a tutt’altro genere (e abituato a differente aplomb rispetto all'istrionica esuberanza del Maestro). Un programma modesto, a dire il vero, anche se i suoi italici adepti hanno gridato a chissà quale miracolo, accusando chi critica di essere un rosicone. Ma, soprattutto, Muti sbarca al Met. Per la prima volta. E per il suo debutto sceglie Verdi e con un titolo tra i più legati alla sua carriera: Attila. L'opera è una delle più interessanti del primo Verdi ed è emblematica del suo stile: pregi e difetti. Ma è anche opera assai difficile: prevede un ruolo monstre per il soprano (Odabella è uno dei personaggi vocalmente più pesanti dell'intero catalogo), a cui è richiesta forza, resistenza, estensione, agilità, ma anche abbandono nei momenti più lirici, e fin dal suo ingresso in scena, con l'esaltante “Santo di Patria” e quel salto di 2 ottave che ne caratterizza l'incipit (indimenticabile è l'esecuzione della Sutherland); e così pure per basso e baritono (Attila ed Ezio), chiamati l'uno a rendere il difficile equilibrio tra nobiltà e barbarie senza scivolare nel facile cliché del villain o del suo opposto, l'altro a interpretare l'ultimo condottiero di Roma, attraverso una linea vocale impervia e molto acuta che mette a dura prova le corde baritonali; per non parlare del tenore, drammaticamente insulso, ma musicalmente assai complesso e inafferrabile. Anche direttore e orchestra sono chiamati ad una prova impegnativa: con il primo Verdi il rischio dell'effetto banda è dietro l'angolo, così pure l'eccesso contrario. Peraltro anche il titolo debuttava al Met. Peccato: penso a come sarebbe potuto essere l'Attila di Levine, anima del teatro di New York e della sua orchestra (portata, grazie alle sue capacità, a livelli di eccellenza) , nonché il più grande direttore verdiano vivente (e uno dei migliori in assoluto), capace di mantenere un equilibrio perfetto tra slanci risorgimentali, vena melodica, romanticismo e strappi lirici, senza rinunciare a precisione, raffinatezza e nobiltà d'esecuzione (e rispettando con passione e amore i segni d'espressione verdiani: si ascoltino le incisioni di Giovanna D'Arco, Luisa Miller, un incredibile Stiffelio, e poi Ernani, Don Carlo, Trovatore, Aida...). Forse proprio la primizia del titolo ha influenzato sulla scelta: Muti ha, come sempre, voluto primeggiare, evitando confronti, creando l'evento, e passando - in qualche modo - alla storia. Ma la storia racconta di un esito interlocutorio: un successo personale di Muti, più sulla fiducia che sull'esibizione (gli applausi maggiori si sono sentiti al suo ingresso), un'accoglienza tiepida ai cantanti (alcuni contestati...al Met!) e fischi per l'allestimento e la regia. Non una bella serata. Non un bel debutto. Niente da far passare alla storia (salvo i fischi, davvero inconsueti al Metropolitan...questo sì evento storico da segnare nelle cronache del teatro). Ma resta, comunque, un tassello importante nella storia personale di Muti, nei suoi rapporti con l'opera verdiana. Attila è una partitura molto frequentata dal Maestro, e ha segnato tappe importanti nella sua carriera. Dall'edizione Rai del 1970 (forse la più bella), a quella di due anni dopo con la Gencer a Firenze; dall'incisione del 1989 e le seguenti rappresentazioni nella stagione scaligera '90/91 (con uno straordinario Samuel Ramey) sino a questo Attila del Met, 20 anni dopo. Nel corso di questi 40 anni l'interpretazione del titolo è cambiata con il mutare della bacchetta, della sua sensibilità, delle sue esperienze e delle sue visioni estetiche-musicali. E non è cambiata in meglio. Innanzitutto nella gestione delle voci (da sempre bestia nera dell'ex direttore scaligero): non mi addentro nelle scelte, si aprirebbero discorsi troppo ampi e fuorvianti, parlo di accompagnamento e rapporto palco/buca. Il direttore che amava il canto e che cantava con l'orchestra, solare e calda, delle prime due incisioni, lentamente scompare, impegnato nella costruzione del monumento a sé stesso e nel proprio culto della personalità. L'orchestra si fa pesante e invasiva, i tempi forsennati, senza concedere nulla alle voci che si avventurano sul palcoscenico: tutto ruota intorno al podio e al suo satrapo. Con la scusa di una filologia mal interpretata (e utilizzata a seconda di vantaggi spicci e funzionali alla propria autocelebrazione) Muti si appropria del vero Verdi, con la pretesa di ripulirlo da certe perfide tradizioni (intento sacrosanto e quanto mai opportuno: la cosiddetta tradizione ha compiuto scempi da condanna a morte), ma con risultati discutibilissimi anche sul piano filologico (togliere acuti e cadenze, soprattutto nel primo Verdi, è sbagliatissimo, anti storico, anti scientifico, anti filologico appunto): eseguire la partitura “così come scritta”, non significa nulla, anzi, si finisce per tradirla (si legga quanto scrive Gossett sull'argomento). E così si passa dalla Stella e la Gencer ad una insulsa Studer, che galleggia a stento nei panni di Odabella, sino alla Urmana del Met. Da Lucchetti si passa al tremendo Schicoff (e all'illustre Sig. nessuno - Kaludi Kaludov - degli spettacoli scaligeri) ad un tenore donizettiano come Vargas, che non disturba il concertatore. Per non parlare del protagonista: Raimondi, Ghiaurov, Ramey...Abdrazakov. Ma non voglio parlare dei cantanti: i nomi sono scritti e il confronto è impietoso. Tre sono i grandi momenti orchestrali dell'opera: il preludio, l'alba sulla laguna adriatica e il grande finale II. Le incisione degli anni '70 mostrano una lettura epica, ma non retorica; elegante, ma non molliccia: un Verdi robusto, vibrante, esaltante. Non un Donizetti in minore, ma un compositore con un suo preciso linguaggio che Muti non nasconde, non maschera, non attutisce. Evitando gli effettacci di certa tradizione. Le cose cambiano radicalmente con le edizioni scaligere: qui Muti è troppo occupato a fare Muti, tanto da tralasciare Verdi. Come sempre, in quegli anni, l'orchestra si copre di gloria (riflessa, naturalmente: il trionfo è per la bacchetta). Ma è solo un mutamento di linguaggio, un diverso disegno interpretativo: una direzione esemplare per certi versi (a tratti migliore di quella degli anni '70), ma deficitaria in altri. I ritmi, ancora una volta, sono travolgenti: gli stacchi delle cabalette sono incalzanti senza essere pompieristiche, il suono non è mai sbracato, il racconto è teso e la lettura continua e unitaria (talvolta però i cantanti perdono il filo: Zancanaro nello splendido duetto con Attila dell'atto I). Ciò che manca, però, è lo slancio romantico dei momenti lirici: l'abbandono anche edonistico a certi disegni melodici verdiani, l'indulgere in taluni particolari, certi rallentando (si prenda il preludio inciso da Karajan e lo si confronti con uno qualsiasi di Muti: sembrano brani diversi). Muti, forse nell'intento di nobilitare Verdi, lo sterilizza: getta una patina di anonima eleganza neoclassica che nulla c'entra con i turgori del melodramma ottocentesco. Trasformare Verdi in epigono di Cherubini o Spontini, non solo è sbagliato: è stupido. E Muti, nel ventennio scaligero, ha ricondotto ogni partitura affrontata ad una pulizia asettica, ad un suono secco e compito, preciso e sterile, che ha soffocato ogni slancio e ha, di fatto, omologato tutto e tutti. L'alba che si stende sulla laguna è resa come in un dipinto di Poussin, non concede nulla all'impeto romantico, al colore e al calore, alle suggestioni che la musica richiama. Una lettura legittima? Forse, ma dai risultati dubbi: è fredda, glaciale, matematica. Lo stesso difetto, lo stesso problema, sarà la causa del tonfo dei Vespri Siciliani (ridotti a tragédie-lyrique) e caratterizzerà tutto il suo Verdi scaligero. La lettura del Met prosegue nella medesima direzione, recuperando solo un poco della solarità mediterranea che caratterizzava le precedenti incisioni, ma in compenso lasciandosi andare a effettacci bandistici assai sgradevoli (naturalmente i media nostrani hanno dato la colpa all'orchestra del Met, accusata di essere men che mediocre: eppure come diversa appare sotto la direzione di James Levine!). Ma la questione ha una portata più ampia. Non me ne vogliano i tifosi del Maestro, ma fondamentalmente Riccardo Muti non è - e non è mai stato - un direttore verdiano! Lo è diventato solo grazie ad una fortuita combinazione di fatti e circostanze: dall'autoincoronazione in tale ruolo all'inesperienza di quel pubblico e quella critica che, durante il ventennio scaligero, si spellava le mani o consumava le penne...a prescindere (e privi di reali riscontri con qualcosa di diverso), sino all'ampio battage mediatico che ne volle fare - sconsideratamente - l'erede di Toscanini (anche in reazione al tedesco Abbado): un'eredità il cui valore, peraltro, sarebbe da ridimensionare e discutere. Ora, generalmente, non essere un direttore verdiano, non costituisce un grave difetto né una qualche mancanza particolare, salvo in un caso: quando si dirige un'opera di Verdi. E anche in questo caso si dovrebbero fare dei distinguo, giacchè almeno a partire da Aida il linguaggio cambia profondamente: ma con il resto del catalogo verdiano non si può imbrogliare, soprattutto nei primi titoli, sino agli anni di galera (quando ad emergere è soprattutto il mestiere - anche di eccellente o geniale fattura - piuttosto che le finezze e le raffinatezze che ne hanno caratterizzato la scrittura a partire dalla trilogia popolare).


Gli ascolti

Verdi - Attila


Preludio - Riccardo Muti (1970 - RAI, 1972 - Firenze, 1991 - Milano, 2010 - New York)

Prologo

Qual notte!(1970 - RAI, 1972 - Firenze, 1991 - Milano, 2010 - New York)

Atto II

Del ciel l'immensa volta...Lo spirto de' monti...L'orrenda procella...Oh, miei prodi!

1970 - Roma, RAI.

Attila: Ruggero Raimondi
Odabella: Antonietta Stella
Ezio: Giangiacomo Guelfi
Foresto: Gianfranco Cecchele
Uldino: Fernando Ferrari

Orchestra e Coro della RAI di Roma.

1972 - Firenze, Teatro Comunale.

Attila: Nicolai Ghiaurov
Odabella: Leyla Gencer
Ezio: Norman Mittelman
Foresto: Veriano Luchetti
Uldino: Ottavio Taddei

Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Firenze.

1991 - Milano, Teatro alla Scala.

Attila: Samuel Ramey
Odabella: Cheryl Studer
Ezio: Giorgio Zancanaro
Foresto: Kaludi Kaludov
Uldino: Ernesto Gavazzi

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano.

2010 - New York, Metropolitan Opera House.

Attila: Ildar Abdrazakov
Odabella: Violeta Urmana
Ezio: Giovanni Meoni
Foresto: Ramon Vargas
Uldino: Russel Thomas

Orchestra e Coro del Metropolitan Opera House, New York.

48 commenti:

Marco ha detto...

Carissimo Duprez, mi viene un po' da sorridere leggendo il tuo scritto. Io, fiorentino, ho seguito il periodo di Muti a Firenze, quel periodo che adesso viene visto come una sorta di età dell'oro, nella quale latte e miele sgorgavano spontanei in abbondanza. Ti garantisco che quelle qualità che tu lodi gli venivano imputate a difetti e si auspicava invece l'avvento di quelle odierne. In altre parole: il presente non è mai apprezzabile. Per quanto riguarda le piazze periferiche, non è tanto vero; a meno di non considerare tali l'Orchestra della Radio Bavarese, la New York Philharmonic, l'Opera di Vienna, tutte cariche ufficiali che sono state offerte a Muti dopo l'abbandono della Scala. Per quanto riguarda i programmi, non ti sei accorto che tutte le stagioni sinfoniche sono delle fotocopie di un unico originale, un originale che più banale non potrebbe essere? E poi, usare tante parole per dar voce a quella che è chiaramente soltanto un'antipatia personale, ma perché? Si tratta di un'emozione promitiva, che può essere espressa molto brevemente. Ah, Sir Thomas, quanto poco seguito è il tuo esempio!
Saluti
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Nessuna antipatia personale, caro Marco Ninci, te l'assicuro. Anche se certa insofferenza nei confronti dei plauditores di quegli anni, la ammetto senza problemi. Come pure nei confronti di taluni atteggiamenti del Maestro Muti nel suo periodo scaligero. Tralasciando gli aspetti più pittoreschi del personaggio (le sue manie, il suo eccesso di protagonismo, la sua incapacità nello scegliere e gestire le voci), due sono le colpe" di Muti: non saper/voler trovare un equilibrio paritario tra palco e buca (finalizzato ad una ottimale riuscita dello spettacolo, e non, solo, ad una mera autocelebrazione di sè), essersi appiattito verso un unico orizzonte estetico e interpretativo (un'anonima compostezza neoclassica per qualsiasi partitura affrontata, col risultato di appiattire e anestetizzare ogni brano/titolo eseguito).
Non mi interessa la polemica (gratuita) passato/presente: il Muti di Firenze era diverso da quello scaligero. Il suo Verdi pure: si è passati da una lettura calda e vibrante con sacrosanti autocompiacimenti (puro edonismo, come direbbe Giudici, criticandolo) ad una grigia compostezza e asciuttezza che poco o nulla c'entra con l'estetica verdiana (non è Spontino o Cherubini o Gluck). Il Verdi di Muti alla Scala era giocato solo su questo registro (e la caduta dei Vespri è lì a testimoniarla). Devo dire, ad onor del vero, che il Muti del dopo Scala è più interessante (l'Otello, lo splendido Moise di Salisburgo, Il Don Pasquale con la Cherubini). Però con Verdi - con il primo Verdi - continua a non "azzeccarci" proprio. Preferisco il Verdi di Levine (splendido), o quello di Humburg, o di Temirkanov...
Quanto al prestigio dei nuovi incarichi: non lo nego assolutamente, solo mi infastidisce la pomposa celebrazione che ne fanno gli odierni fan del Maestro, quasi fosse un Karajan redivivo... A Salisburgo è ospite fisso da tempo, e ha coltivato una rapporto speciale coi Wiener (su cui ci sarebbe da dire, attesa la storica idiosincrasi dell'orchestra - che si autogestisce - nei confronti di direttori con autonomia di pensiero e interpretazione: forse Muti piace perchè non li "disturba" e, in effetti, le interpretazioni mutiane coi Wiener non sono certo esempi di originlità). Il programma presentato a Chicago è carente e banale (ma gli auguro comunque grande successo). Mi spiace per l'incarico a Roma: baraccone dedito agli sprechi, con orchestra mediocre e politica onnipresente (ma forse proprio QUELLA politica l'ha condotto a quel podio)...un "porto delle nebbie" in cui non si può che naufragare, un'istituzione priva di prestigio che Muti avrebbe fatto bene a rifiutare (del resto un teatro che sostituisce Morricone con Bruno Vespa nel CdA, si commenta da solo...).
nessun gioco al passatismo, caro Ninci, solo amara constatazione, forse una reazione ai peana di certa stampa...
Ps: il fatto che a Firenze gli venissero imputati come difetti quelli che io vedo come pregi, beh, mi fa dire che chi li criticava allora, forse, non avesse ben chiaro cosa signicasse dirigere Verdi (non si dimentichino però, le forzature ideologiche di quegli anni, gli anni di Abbado, dove per eseguire Verdi BISOGNAVA nasconderne la sua "verdianità" e cercare in tutti i modi di "nobilitarlo" - come se ce ne fosse bisogno)

Marco ha detto...

Caro Duprez, è un po' difficile negare l'antipatia personale verso chi viene dipinto come un cialtrone levantino, che riesce (nel proprio suk) a vendere come virtù i propri difetti.
Ciao
Marco

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Beh, un'immagine caricaturale - ovviamente - ma veritiera, se ci pensi bene: ti ricordi le "conferenze" del Maestro prima delle sue prime? E poi cialtroneschi sono certi modi (da istrione e arruffapopoli), non tutti, e non la persona in generale.

scattare ha detto...

Bellissimo il pezzo e bravi per l'analisi vera delle cose.
Sono anni che questo direttore non mi incanta ma la cattiveria di chi vive in vedovanza e lutto per la sua "scomparsa" mi fa stare zitto.
Sono pienamente d'accordo con voi ed aggiungerei tante altre cose, ma non ne vale la pena. Avete esaurito l'argomento in pieno.
Bravi, BRAAAVI e BIS!

Marco ha detto...

Caro Sig. Scattare, non si preoccupi e aggiunga pure quello che vuole. E' vero, non mi considero un vedovo di nessuno ed anzi ho per questa categoria un totale disprezzo; del resto, sono fiorentino, da noi tale categoria, rappresentata in maniera sorprendente al Teatro alla Scala, non ha nessun diritto di cittadinanza. E' per questo che mi riesce difficile assimilarmi al lupo cattivo della favola, un lupo mutiano che così tanto La terrorizza da renderLa muto.
Compiuta quest'opera tranquillizzante, vengo brevemente al discorso in questione. Io ho sentito Muti parlare qualche volta ed ho ascoltato una sua lunga intervista in televisione. Ebbene, io l'ho sempre trovato estremamente interessante, anche dal punto di vista personale. Poiché, al di là di un evidente compiacimento autocelebrativo, per altro comune a chi fa quella professione, il lato individuale, autentico ed anche poco moderno (il che non mi dispiace affatto) di ciò che diceva colpiva. E' la stessa coerenza che si ritrova nelle sue esecuzioni, anche quando i cantanti non sono adeguati; l'idea di fondo c'è sempre, ed è questo ciò che mi interessa. La stessa cosa per un critico musicale. Io posso non condividere nessuno dei giudizi formulati; ma se al fondo dei suoi scritti c'è un'idea generale della musica, mi sento attratto e interessato. E soltanto in quel caso. Altrimenti sono davanti a una rapsodia di materiali eterogenei, che non mi fa né caldo né freddo. Quanto poi alla Filarmonica di Vienna che stimerebbe Muti solo perché non la stimola al di fuori della sua alta routine, la prendo per una simpatica boutade, per quel raglio che così bene si inserisce nella sublime Ouverture composta da Mendelssohn per "Il sogno di una notte di mezza estate" di Shakespeare, da risultare sublime anche lui.
Saluti Marco Ninci

scattare ha detto...

"Chacun à son goût!"

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Caro Marco Ninci, finchè si discute di idee la cosa è interessante e stimolante, quando si passa all'insulto, lo è molto meno... Definire una boutade (messa in dubitativo, peraltro, ma su cui vi sarebbe da discutere: i Wiener fanno altissima routine, spesso, ed è noto come non "familiarizzino" con direttori d'orchestra troppo indipendenti, personali e con una visione interpretativa forte), come un raglio d'asino, significa dare dell'asino a chi ha espresso tale parere, che lei può non condividere, ma dovrebbe comunque rispettare. Come io faccio con il suo. Non mi sembra di aver definito i suoi argomenti grugniti, ragli, rutti o flatulenze...o altri sgradevoli versi. Non mi permetterei mai: mi auguro di essere ricambiato con la medesima cortesia. E con un po' di educazione.
Quanto all'argomento: posso pure apprezzare le conferenze di Muti, più per il lato istrionico e la verve del personaggio che per i contenuti (spesso ripetizioni dell'ovvio). Peccato che poi, sistematicamente, non vi fosse quasi nulla di quanto blaterava, nelle sue esecuzioni: parlo delle sue esecuzioni verdiane. Dal Rigoletto al Trovatore pseudo filologico, dalla Traviata in una sala militarizzata contro ogni contestazione possibile al Ballo in maschera fischiato, dai Foscari ai Vespri al Don Carlo all'Otello falsificato e chiassoso....su tutto una patina di eleganza forbita, pulita, neoclassica, che si addice a Cherubini o Gluck (forse), ma non a Verdi. Se vuole parliamo di questo e non di ragli, insulti e cattiva educazione

Marco ha detto...

Ma no, caro Duprez, il mio è uno sberleffo toscano e non c'è nessun bisogno di tirare in ballo l'educazione. Per quanto riguarda il resto, credo che la mia e la tua concezione dell'esecuzione musicale non abbiano nessun punto in comune; così, credo non ci resti che andare tutti e due con Dio.
Ciao
Marco Ninci

Domenico Donzelli ha detto...

caro marco l-aceto toscano è famoso, ma noi lombardi siamo figli del porta , che quanto ad aceto non scherzava. Dovresti saperlo.

Marco ha detto...

Lo so, lo so; è una ragione di più per lasciar perdere l'educazione. Ma, accantonando la questione dei ragli, una cosa sono curioso di sapere da Duprez. Nel passato è stato intensissimo l'amore dei Wiener Philharmoniker per Furtwaengler, Krauss e Walter. Oltretutto l'ultimo era su posizione politiche e personali opposte ai primi due. In un passato più recente i Wiener hanno amato terribilmente Bernstein, fino ad instaurare con lui un rapporto speciale. Quando Abbado è stato nominato all'Opera di Vienna,l'orchestra avrà certamente detto la sua e non credo a suo sfavore. Ora, è difficile associare questi nomi ad un'alta routine; e non ho parlato di Karajan. La stima per loro è davvero così diversa da quella per Muti, tanto da configurare un'opposizione fra grandezza e routine? E perché in un caso e nell'altro la stima per una persona ha motivazioni così diverse? E su che base si può avere un'opinione di questo genere?
Saluti
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ripeto: la mia era una boutade, polemica e ironica. Tuttavia un po' di fondamento c'è: i Wiener sono un'orchestra magnifica, che si caratterizza per un certo tipo di suono, di cui sono gelosissimi e strenui difensori (così pure per le loro interpretazioni). Sono dunque restii a mutare i parametri esecutivi, a cambiare sonorità, ad assecondare una lettura diversa da parte del direttore d'orchestra. Pochi ebbero il carisma necessario e sufficiente: Bernstein, ad esempio, a costo di grandi fatiche, che poi hanno pagato, ovviamente, e hanno contribuito a creare quel rapporto speciale. Pochi direttori, insomma, hanno dato un'impronta personale a quella splendida compagine (che, si dice, suonerebbe anche senza direttore: e a volte lo fa...praticamente, quando insoddisfatta della bacchetta). Tu mi citi Walter, Furwangler, Bernstein, Karajan, Kleiber...verissimo: grandissimi direttori. Eppure quando hanno suonato con altre orchestre, più duttili alle rispettive interpretazioni, mi hanno dato maggiori soddisfazioni. I Berliner, la New York, la Staatskapelle di Dresda etc... Insomma se devo scegliere un'integrale beethoveniana diretta da Karajan o da Bernstein, mi rivolgo nel primo caso a quella coi Berliner, nel secondo alla New York, non quelle coi Wiener, idem per quelle dirette da Abbado: sceglierei le ultime coi Berliner, non quelle sontuose, ma poco personali coi Wiener.
E comunque tu parli di grandi direttori, ma non ci sono stati solo loro: i Wiener hanno suonato con Schuricht, Maazel, Sawallisch, Rostropovich, Previn, Gatti, Viotti, Welser-Most... In letture di altissima scuola (quasi sempre), ma che non raggiungono certo i vertici delle esecuzioni.
Ecco il rapporto Muti/Wiener lo leggo un po' sotto quest'ottica: letture splendide (come il Moise), altre meno originali e rilevatrici (trilogia Mozart/Da Ponte). Che Muti sia un grande direttore non ci piove e non lo nego: ma non è certo il più grande come in Italia i suoi fan si ostinano a blaterare. E non è certo sciorinando il rapporto coi Wiener che se ne prova la grandezza (per i motivi che ho già esposto: per la caratteristica di quell'orchestra che suonerebbe bene con chiunque...e con Muti non suona certo meglio del solito o in modo più originale e personale). Aspetto di ascoltarlo con la Chicago (e chissà se riuscirà a cavare qualcosa di buono a Roma: soprattutto chissà se i sindacati capitolini tollereranno le sedute di prove che il professionismo mutiano - questo impeccabile e riconosciuto - imporrà alla compagine)

Marco ha detto...

Mah, caro Duprez, mi basta questo. Che tu riconosca che Muti è un musicista di alto livello. Io non ho mai detto che è il più grande; del resto queste classifiche mi interessano poco e niente. A partire da qui si può sempre discutere, di quello che ci piace e di quello che non ci piace. Ma solo a partire da qui, da una considerazione onesta di quello che ai miei occhi (e, spero, non solo ai miei occhi) appare una sorta di lingua comune, universalmente condivisibile.
Marco Ninci

daland ha detto...

Scusate, mi intrometto in questa discussione su Muti e i Wiener per chiedere: ma qual è il nesso causa-effetto fra Direttori e Orchestra? Forse che il Wiener, dopo 160 anni, sono diventati un’essenza pura, incontaminata e incontaminabile da qualunque influenza esterna? O non sono quel che sono grazie ai contributi che una sterminata schiera di musicisti gli ha portato? Da Otto Nicolai a… Welser-Möst, passando per tutti i più bei nomi della direzione d’orchestra, Muti compreso?
Mi permetto di segnalare questo omaggio agli 85 anni di Boulez (è sulla home-page dei Wiener) che credo dimostri quanto l’Orchestra sia debitrice ai Direttori che hanno avuto l’onore di dirigerla:

http://www.wienerphilharmoniker.at/upload/files/boulez85_hellsberg_en.pdf

.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Per Marco Ninci: spero di essermi chiarito ora. Muti è un grande direttore. Io ne critico gli anni scaligeri, per tante ragioni. Anche extra musicali. Ma non ho mai negato questo fatto. Ovviamente lo trovo più adatto ad un certo repertorio. Non mi piace il suo Verdi asettico, o il suo Wagner (dovuto, credo, ad una certa superficialità di lettura: forse adesso potrebbe riaffrontarlo...penso al Wagner di Tannhauser o Lohengrin). Mi piace il suo Mozart e, aldilà dei gusti e delle singole riuscite, lo trovo particolarmente efficace in Spontini, Cherubini e Gluck. Credo che lasciando la Scala ci abbia guadagnato: ormai era diventato il monumento di sé stesso. Per il suo Rossini il giudizio resta sospeso: tra l'altro l'anno prossimo dirigere Armida al Met.

Marco ha detto...

Francamente l'osservazione di Daland mi sembra molto sensata e lo ringrazio.
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Per Daland: ovvio che il rapporto con certi direttori "crea" un'orchestra, ma spesso, le grandi orchestre hanno un "loro" suono, a prescindere da chi le dirige (o meglio, con il quale, chi le direge deve fare i conti). E questo per una serie di molteplici fattori: dal repertorio scelto, dalla storia personale, dalle tradizioni esecutive, dai primi direttori che ne hanno formato l'essenza. I Wiener, sono diversi dai Berliner, come lo è la Staatskapelle di Dresda (una delle mie preferite) dall'orchestra di Lipsia. Così ha un suo suono la Chicago e uno diverso la New York. E suonano diversamente anche quando sono dirette dallo stesso direttore. Il Mahler di Bernstein è diverso se suonato da Wiener invece che dalla New York.

daland ha detto...

Duprez, perdonami la pedanteria, ma io apprendo solo ora (oh, scoperta incredibile!) che ogni orchestra ha le sue proprie caratteristiche, dipendenti dalla sua storia, dai “primi direttori” (ohibò, sentiamo ancora l’impronta di Nicolai sui Wiener?) e dal repertorio che esegue (domanda: i Wiener fanno più Mozart e meno Verdi della Scala?)
Quindi il Direttore ha poco da fare: sale sul podio e agita le braccia, poi comunque intasca gli applausi e, soprattutto, l’onorario.
Abbi pazienza, ma mi sembra tutto un pochino troppo semplice! Scrivi: “Il Mahler di Bernstein è diverso se suonato dai Wiener invece che dalla New York.” Ci mancherebbe, ma parliamo qui dell’intero “corpus” interpretativo, o del solo suono? Perché, oltre al suono di un’orchestra, che certo è come una caratteristica somatica (che so, il timbro di una voce umana) e quindi difficilmente manipolabile, almeno in tempi stretti, un’esecuzione si fonda su molti altri ingredienti, parecchi dei quali, se non tutti, sono portati in dote precisamente dal Direttore.
Per fare un esempio sotto le orecchie di tutti: i Concerti di Capodanno son tutti uguali, come gocce d’acqua? Fra Barenboim e Pretre, nessuna differenza?

mozart2006 ha detto...

Cosa rende speciali i Wiener? Il suono, che nasce dalla loro capacità di confrontarsi con il mondo artistico, storico e umano che c'è dietro una partitura. L'orchestra di Vienna non è per ogni cosa, anche se può suonare ogni cosa. Questo la rende più difficile da dirigere: ha regole da rispettare. Ma è capace di tour de force impensabili per altri.

Giuseppe Sinopoli, da un´intervista del 1998

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Daland, ovviamente il direttore d'orchestra non è un metronomo vivente... Altrettanto ovvio è il suo apporto interpretativo (anzi, spesso fondamentale: è lui che suona lo strumento che è l'orchestra), ma detta questa ovvietà bisogna pur ammettere che ci sono orchestre più duttili alle istanze esecutive di un direttore d'orchestra ed altre meno. Ecco, i Wiener sono tra queste ultime. E ciò è dovuto, in parte, alla loro storia! Non voglio essere pedante (stavolta lo dico io), ma mi tocca dare qualche numero: l'orchestra è stata fondata nella prima metà dell'800, e fin dall'inizio decise di non avere un direttore stabile (salvo i primi anni con Nicolai, appunto). I direttori erano designati ogni anno e, salvo poche, questi venivano confermati al massimo 3 o 4 volte. Dopo Krauss le cose cambiarono e dal '33 non ebbero più neppure un direttore "designato", ma solo "ospiti" ingaggiati per ogni singolo concerto. Questo portò, ovviamente, ad un grande ricambio di bacchette, e permise ai più importanti direttori del XX secolo di ruotare sul podio dei Wiener. Questo, però, impedì, di fatto, che una personalità artistica preminente, desse alla compagine un "suo" aspetto, una "sua" precisa fisionomia, funzionale alle idee interpretative del direttore (i Berliner di Karajan non sono equiparabili in termini di suono, repertorio e "modus" di suonare, ai Berliner di Abbado o di Rattle). Ovvio, dunque, che negli anni, l'identità dell'orchestra venne creata dagli stessi strumentisti, unica voce stabile della compagine: un'identità indipendente, abituata ad autogestirsi. A differenza di altre orchestre che, avvezze ad essere "strumento" delle letture del proprio direttore, sono più disposte a recepire quelle, differenti, di un altro. I Wiener, proprio per la sua storia, è più impermeabile a cambiamenti di repertorio, di modalità esecutive, di sensibilità. Questo NON significa dire che è sempre uguale a sè stessa, ma che è sempre riconducibile, pur nella diversità di certe interpretazioni (quando i direttori hanno il carisma necessario), a sè stessa e al suo stile. Insomma quando ascolti i Wiener ti aspetti un certo suono (splendido per carità), che ricorre quasi sempre anche se muta la bacchetta. Non così altre orchestre - fortemente identitarie, ma più duttili e disponibili a mettersi in gioco con diversi repertori e direttori. Del resto è la stessa orchestra a definirsi gelosa della propria autonomia rispetto al direttore, tanto che, se sgradito, viene cacciato.
Ps: il concerto di capodanno è cosa particolare...mi citi due tra i più anonimi concertatori del secolo (pure se amatissimi dai media). Non è comunque il luogo per saggiare la varietà interpretativa (considera che fino al '79 erano "diretti" dal primo violino) e che non cambia certo al mutare della bacchetta (Muti, Abbado, Kleiber, Maazel hanno svolto il loro ufficio, ma non hanno certo lasciato un segno interpretativo evidente). Ci sono 2 eccezioni, una positiva el'altra negativa: il Karajan dell'87, struggente e malinconico, e Harnoncourt (2001 e 2003), pesante, serioso e "filologico"...

mozart2006 ha detto...

Kleiber nei due Concerti di Capodanno da lui diretti non ha lasciato un segno interpretativo evidente??? Caro Duprez, scusami ma questa non te la posso far passare.

"Il conto è, come detto, presto fatto. Quale contrasto, però, tra un conteggio così misero e l'esperienza straordinaria, che ogni collaborazione con questo geniale interprete comportava: 26 concerti sono un numero ben marginale, nella storia della nostra associazione, che ne conta già quasi 7000. Ma quell'universo musicale, che Carlos Kleiber riusciva ad aprire ad ogni suo concerto, la sensazione di essere portati con lui, non solo ai propri limiti, ma ben al di là di essi, rimarranno esperienze indimenticabili per tutti coloro che hanno avuto l'occasione di condividerle."

Così scriveva Clemens Hellsbaer, primo violino e Vorstand dei Wiener Philharmoniker, in un articolo su Kleiber visibile sul sito dell´orchestra.

Marco ha detto...

No, Duprez, non mi dire che i concerti di Capodanno di Kleiber non avevano un segno interpretativo evidente...Mi sembra invece siano stati fra i più belli dell'intera storia di questo appuntamento annuale.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Kleiber mi è uscito dalla penna...come si suol dire, e lo ritiro, ma il succo non cambia

Marco ha detto...

Rimanendo in tema di direttori d'orchestra, mi piacerebbe sapere cosa pensate di Fabio Luisi.Io l'ho ascoltato in un Rigoletto a Firenze, dove la sua prova fu veramente modesta. I cantanti gli scappavano continuamente di mano e il suono dell'Orchestra del Maggio, solitamente improntato a una certa raffinata dolcezza, era veramente brutto. L'ho poi ascoltato a Dresda in Cardillac di Hindemith e in Die Liebe der Danae di Richard Strauss. In Cardillac, che considero un'opera davvero straordinaria, la prova di Luisi è stata buona, anche se non eccezionale. La stessa cosa posso dire per Strauss, pur se l'opera appartenga ad una fase piuttosto stanca dell'attività del grande compositore. Un'opera di un lirismo sontuoso e tuttavia lievemente indistinto. A questa stessa bellezza di suono si ispirava Luisi, senza però riuscire nell'impresa, invero ardua, di differenziare i temi e le miscrostrutture, cosa che invece era riuscita a Krauss nella prima mondiale del 1952. Qui si pone anche il problema di differenziare l'apporto di Luisi da quello della Staatskapelle, orchestra assolutamente sublime. Tant'è che in quegli stessi giorni ho ascoltato un'opera che adoro, Euryanthe, diretta da un direttore a me del tutto sconosciuto, E. N. Zimmer. Ebbene, la resa orchestrale di una musica che è sorta in quegli stessi paraggi, che riflette in se stessa gli incantevoli dintorni di Dresda, ancora ignara di quel 13 febbraio 1945 che sconvolse per sempre la memoria della città, era impeccabile, partecipe e sontuosa, quasi appartenesse a un Rudolf Kempe redivivo.
Marco Ninci

Marco ha detto...

Caro Duprez, per tornare alla questione del raglio, ti ho paragonato a un raglio di Mendelssohn, mica al raglio di una asino della Gallura. Un raglio di Mendelssohn è sublime e non dà luogo a offendersi. Anzi, per fare un po' di polemica; un raglio mendelssohniano è senz'altro migliore delle note correttamente emesse della Ligabue, della Tucci o della Orlandi Malaspina, cantanti che ha ascoltato innumerevoli volte senza che si sollevasse mai un momento il velo di grigiore che puntualmente le accompagnava.
Saluti
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Già, Luisi, e il suo incarico (da poco concluso, se non erro) come Direttore Principale della Staatskapelle di Dresda. Incarico che, confesso, non mi sono mai spiegato completamente: tanto grande mi sembra la disparità tra bacchetta e orchestra. Luisi è spesso un buon direttore (non certo un "mostro sacro") e in taluni repertori è particolarmente efficace (mi sono piaciute le sue incisioni verdiane, anche se, forse, troppo occupate nel ricercar finezze - in Aroldo e Alzira... - piuttosto che restituire lo spirito anche eccessivo e "popolare" di quelle partiture: e non sono certo capolavori). Lo trovo insufficiente nella Favorita di Martina Franca e un po' chiassoso nell'Idomeneo (Mozart/Strauss) di Salisburgo... Un direttore buono, dicevo, ma che non regge il confronto con l'orchestra di cui è stato la guida. E che orchestra: secondo me la migliore. Con una tradizione impressionante alle spalle (e direttori capaci di valorizzarla). Insomma Luisi mi è sempre sembrato una scelta al ribasso...dopo Reiner, Busch, Kempe, Bohm, Sinopoli (ma anche i meno blasonati Keilberth, von Matacic, Blomsted). E la tua testimonianza su due opere splendide come Cardillac e Glia amori di Danae è eloquente... Così come la puntualizzazione su Euryanthe: opera magnifica e troppo poco conosciuta.
Tornando a Luisi mi piace fare un confronto: prendi la sinfonia dell'Idomeneo. Stessa orchestra: in mano sua e in mano di Bohm. Due pezzi diversi. In Bohm la rincorsa degli archi in quelle scale ascendenti, tolgono il fiato, sembra un'ondata spumosa, dorata dal sole del tramonto. In Luisi sono corrette, certo, ma mancano di profondità, di ritmo e di tensione...sembra che fatichi a trovare un "bel suono".

Antonio ha detto...

Sono sostanzialmente d'accordo con Duprez circa il bilancio su Muti direttore d'orchestra.Intanto non so se siete d'accordo sul fatto che egli sia prevalentemente un direttore (e a volte anche ottimo direttore) d'opera. Sulla musica sinfonica le poche volte che l'ho sentito mi ha poco convinto. Non parliamo poi delle 9 di Beethoven eseguite alla Scala, dove secondo me fu addirittura pessimo (forse anche per colpa dell'orchesta non abituata ad una simile musica, dove oltre al suono c'è un pensiero-anzi il suono è, secondo me, la derivazione di quel pensiero).
La carriera di Muti direttore operisto poi mi pare si possa dividere in due periodi: prima e dopo la Scala. Nel primo periodo, quello di Firenze e di impegni alla RAI, secondo me il maestro, fu veramente ottimo. Proprio l'Attila per esempio costituì (alla RAI a anche a Firenze) un esempio straordinario di approccio verdiano a quel tipo di teatro (nonostante in entrambi i casi la presenza nel ruolo di Dolabella di due soprani ormai quasi fuori uso, eppure...). Ricordo un'elettrizzante Forza del destino da Vienna. E poi le incisioni di quegli anni: il Macbeth Cossotto-Millnes e soprattutto un'Aida che io ritendo straordinaria con Caballé-Domingo. A Firenze poi fece un eccellente, secondo me, Vespri Siciliani, con Scotto-Lucchetti...Quando poi arrivò alla Scala pian piano tutto è sembrato cambiare: perfino il suo Verdi non fu più lo stesso. L'Attila della Scala ad esempio, nonostante la presenza carismatica di Ramey, non era più lo stesso. Per non parlare degli infelici Vespri e dell'ancora più infelice Don Carlo.
Sono d'accordo invece, come Duprez, sul suo Mozart. A me piaceva molto, mi è sempre sembrato che vi imprimesse una vitalità che per molti anni era andata perduta negli sdilinquimenti salisburghesi,compreso Karajan, (quelli che il grande Celletti, chiamava "eurosbobba") e, secondo me aveva ragione.
Negli anni della Scala poi ci sono stati i suoi atteggiamenti divistici assolutamente insopportabili, la scelta dei cast ha volte incomprensibili (o forse fin troppo comprensibili...data la professione della moglie e anche la sua propensione ad essere divo assoluto). La sua Traviata presidiata come nella Romania di Ceausescu per me fu una cosa insopportabile, inaudita. Però per quanto riguarda Verdi, per esempio, proprio quella Traviata io la trovo diretta benissimo, e nel Trovatore voi avete mai sentito un'orchestra così morbida, compatta e setosa (per usare un termine molto caro a Giudici)come all'inizio del 2° atto (quello degli zingari per intenderci)?
Insomma, luci ed ombre, come forse per tutto ciò che è umano. Però ha ragione Duprez: è un bene per lui che se ne sia andato. Intanto abbasserà un pò le arie e chissà che non ritorni quel direttore così fervido che dimostrava di essere all'inizio.
Saluti cordiali a tutti, Antonio

Semolino ha detto...

Se ho ben capito, (magari ho capito male) si sostiene che i Wiener abbiano una identità sonora più forte delle altre falagi e rispetto alle altre sarebbero meno avvezzi a fare "concessioni" e a venire meno alla loro tradizione consolidata in quanto ad abitudini interpretative. Se questo è stato sostenuto : non sono assolutamente d'accordo. Certo i Wiener quando sono diretti da un routinier di scarsa personalità, a differenza di altre orchestre dello stesso livello, mantengono comunque e sempre una sonorità particolarmente bella e degli stili interpretativi di tradizione consolidata che permettono di far fare bella figura anche ad un pasticcione come G. Prêtre.
Ma quando si trovano di fronte ad un direttore dalla personalità musicale molto forte, nel bene (Bernstein, Abbado, Kleiber, Harnoncourt, Giulini) o nel male (Karajan) cambiano completamente e radicalmente sonorità come un camaleonte, ed è proprio ascoltando il Mahler di Bernstein che ci si accorge, à une nuance près, che suona sempre uguale che sia Vienna, New York o Amsterdam.
Quanto all'attacamento alle loro tradizioni interpretative non ci credo molto, basti pensare che in tutte le loro collaborazioni con Harnoncourt, che non datano di ieri, hanno sempre saputo fare tabula rasa per ricreare Mozart, Haydn o Beethoven assecondando le "rivoluzionarie" e originalissime trovate interpretative di Haranoncout; fino a ridurre al massimo, se non a toglierlo quasi tutto in certi passaggi, il vibrato dalla loro sezione archi a rivedere completamente l'articolazione ecc.... Non v'è orchestra più duttile dei Wiener di fronte ad una grande personalità musicale, soprattutto se ne hanno grande stima.

Per concludere : non ci trovo niente di "filologico" nei concerti di capodanno di Harnoncourt, può sembrare per certi versi "serioso" ma tanto originale e fuori dal comune che i suoi sono proprio, con quelli di Kleiber, i concerti di capodanno che preferisco.
Lasciamo perdere l'esibizionismo di Karajan, tutto quel dirigersi addosso, tutto quel narcisismo sonoro, tutto quello sfruttare ed approfittare dello spartito solo per mettere in evidenza la propria capacità a creare un bel suono, ma un bel suono che è solo fine a se stesso e non serve l'espressione non è la musica. La musica nasce dalla relazione che l'interprete riesce a stabilire, o meglio a far nascere, nella successione dei suoni, e non da una successioni di bei suoni fini a se stessi. Certo, una bella interpretazione non può prescindere da un bel suono, ma un bel suono è anche e soprattuto un suono espressivo e non come avviene in Karajan un suono bello (fino alla nausea come una torta con troppa panna o troppo zucchero) ma di una bellezza fine a se stessa. Un musicista vedendo un pianissimo o un fortissimo sullo spartito, in un determinato passaggio, cercherà di ottenere dall'orchestra l'intensità sonora più adatta ad esprimere quel momento musicale, allorchè Karajan mi da sempre l'impressione di approfittare di un pianissimo sullo spartito solo per creare una intensità sonora che metta in evidenza solo ed esclusivamente la bellezza (o quanto sterile) del suo suono che è riuscito (certo grazie alla tecnica) ad ottenere dalla sua orchestra (o quanto manipolata!)

Marco ha detto...

Penso che, semplicemente, il Sig. Semolino non abbia mai sentito dal vivo il Mestro Karajan; perché, se così non fosse, sarebbe semplicemente una prova di quanto possa obnubilare il pregiudizio.
Marco Ninci

Domenico Donzelli ha detto...

caro marco
di fatto karajan l'abbiamo sentito tutti solo in disco a meno che anagraficamente non prossimi over sessanta. E lo dico a ragion veduta perchè io lo sentii per caso nell'ultima apparizione scaligera nel 1971, ossia quarant'anni or sono e per capire di anni c ene volevano almeno venti. Quindi il conto è presto fatto.
Giudicare Karajan dalle registrazioni post 1975 è come giudicare il Toscanini dalle registrazioni dopo il 1940.
Però negli anni io che nasco vociomane ho ascoltato con molta attenzione quasi tutti i grandi della direzione d'orchestra tedesca pre Karajan. Posso amare Kleiber padre anche nell'opera italiana, ritenere Krauss iarrivabile nell'Olandese o nella Tetralogia, per tacere di certo Knapperbush e l'elenco potrebbe continuare e non solo con la sinfonica. Al culmine metto, però Furtwangler e continuo a professarmi ignorante in materia.
Una cosa però ance he se sto andando fuori tema mi pare chiara il maestro di Salisburgo nella sua carriera si è adoperato in egual misura per distruggere i grandi della grande scuola direttoriale tedesca, esaltare sè medesimo e, anche dirigere. Il risultato è che oggi abbiamoa Dresda un Fabio Luisi e la grande scuola direttoriale tedesca rammenta la Berlino del 1945 quella in cui il camerata Herbie doveva vedere suonare Furtwangler.
Poi intendiamoci se l'uomo fu quello che è stato conta relativamente, però non fu né il solo nè l'unico. Anzi credo sia stato l'ultimo e non solo in senso cronologico. Saluti DD

Marco ha detto...

Caro Donzelli, io ho sentito Karajan dal vivo decine di volte. Non sono un fanatico, non faccio parte di nessun fanclub, quindi penso di avere diritto a una certa credibilità. Karajan non era sempre splendido; ho sentito da lui anche esecuzioni fallite, di Strauss, di Verdi,di Mozart,di Bizet, perfino di Bruckner.Ma era nche un direttore di straordinaria caratura. Lascio da parte la sua biografia, che non è qui di nessun interesse. E' vero,è stato nazista; questo è molto triste. Ma dovrebbe dar da pensare che, mentre la sua apparteneza politica avrebbe dovuto dar luogo ad una sorta di pangermanesimo interpretativo, Karajan ha dato espressione ad una grande mediterraneizzazione, per esempio di Wagner. E tutta la sua vita l'ha dedicata alla smitizzazione del grandioso. Comunque, i suoi Meistersinger dell'inizio degli anni Settanta a Salisburgo (Ridderbusch, Kollo, Janowitz, Schreier, Ludwig) è per me la più grande esecuzione di un'opera che io abbia mai ascoltato dal vivo. Tale era la fusione orchestra-voci, tale la chiarezza dell'orchestra (si ascoltavano anche i più riposti particolari), tale l'impeto di certe parti (il finale del preludio), tale la delicatezza dell'orchestra nelle parti liriche, che ne nasceva un'atmosfera unica. L'inizio del quintetto cantato dalla Janowitz rimane per me il più bel suono, il momento più bello che io abbia mai ascoltato in un teatro
saluti
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Poco mi importa se Karajan fu nazista (come poco mi interessano i rapporti tra Stalin e Shostakovich o le posizioni politiche di Strauss o Puccini o Mascagni...). Io penso che non si possa giudicare Karajan dagli ultimi anni di carriera, pochi anni di scelte poco azzeccate (soprattutto in termine di scelte vocali), ma...ma anche i quegli anni la parte orchestrale delle sue interpretazioni era splendida: Carmen, Flauto Magico, Don Giovanni, Tosca, Turandot...un suono magnifico, ma non retorico. Certo vanificato da scelte di cast discutibili.
Non fu mero edonismo, ma una concezione dell'arte totale...io ascolto una scelta di tempi perfetta, un suon "bello", un'interpretazione ricca, meditata... Lontana da certe pesantezze di certa scuola tedesca (Furtwangler compreso). Il Wagner di Karajan è esemplare: via la paccottiglia nazistoide e la retorica da "passo dell'oca". Così pure il suo Puccini nostalgico e passionale...anni luce lontano da quella specie di romanzetto popolare che ne hanno fatto i direttori della "tradizione" o peggio, gli esegeti del nulla come Beecham. E il suo Verdi: non una scimiottatura del passo di Toscanini (arido e povero, spedito e ottuso)...il suo Don Carlo tragico e sontuoso o l'Aida di una raffinatezza inarrivabile...o il suo Otello, dove è persino riuscito a far cantare davvero Del Monaco. E il Fidelio. E il suo Mozart "viennese". Taccio della sinfonica perchè non vi sono paragoni. E poi Karajan amava l'opera, non la considerava musica di serie B come invece ritenevano i vari Furtwangler, Kleiber e la scuola tedesca. E fino agli ultimi anni, amava pure il canto. Credo che Karajan sia stato il più importante direttore d'orchestra del XX secolo, più di Furtwangler, Krauss, Knappetsbusch, Walter, Mitropoulos, Kleiber, perchè più completo, più virtuoso e meno attaccato a stupidi pregiudizi. E non valga a paragone il buon Celibidache, mito si sè stesso e profeta di mode new age e paccottiglie assortite....grande direttore in molti casi, ma spesso vittima dei suoi stessi cliché (i tempi letargici o le pessime esecuzioni di musica vocale: su tutte l'orribile Requiem verdiano).
Per me Karajan è il più grande (e non sono il solo a dirlo: si legga quanto scrive Celletti) soprattutto nell'opera.
Abbado, Harnoncourt, Kleiber (padre e figlio: che per una vita hanno diretto solo una manciata di titoli) non sono paragonabili.

Ps: non comprendo il riferimento a Luisi! Che diamine c'entra con Karajan??? No credo si possa imputare a Karajan il tramonto della scuola tedesca...anzi, è vero il contrario: è da imputare al non aver seguito la lezione di Karajan..arroccandosi nella difesa di una tradizione ormai sorpassata

Domenico Donzelli ha detto...

Caro Marco,
ricordo Gundula Janowitz in un Fidelio scaligero del 1978. Un ricordo difficile da rimuovere. E di bel suono, neppure l'ombra.
Ciao

DD

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Era il Fidelio diretto da Bernstein, se non sbaglio: che direzione! Inseriva pure la Leonore III prima del finale vero?

Domenico Donzelli ha detto...

all'esecuzione della leonore III il teatr scattò in un applauso fragoroso e prolungato.
credo il maggiore che il teatro abbia tributato ad un direttore.
colgo l'occasione per dire, sicchè chi scrive a vanvera rifletta che i maggiori applausi riservato a cantanti che io ricordi in scala furono per le straordinarie interpreti femminili di assedio, la solita olivero in jenufa per i concerti della horne e della berganza, per ramey lord sidney e attila, per kraus werther, per lella cuberli giunia, per martine dupuy e rocky blake in donna del lago. Altrove si scriva pure che furono mediocri! lo si scrive, credo, solo per cercare un plauso cui il pubblico e gli ascoltatori non hanno necessità e diritto e per compiacere qualche zia!!!

Semolino ha detto...

X Donzelli : "Giudicare Karajan dalle registrazioni..........."
Karajan merita soprattutto di essere giudicato dalle registrazioni poichè Karajan adorava e venerava la riproduzione della musica cioè la registrazione, Karajan ha contato molto sul disco e si è molto investito nel total digital, la sala d'incisione era la sua passione . Infatti passava molto più tempo nelle sale di registrazione a giocare colle manopole del potenziometro, come un bambino isterico, per rendere un tal suono più brillante, e un tal altro più intenso, invece di passare più tempo a meditare sulla musica, attività che senz'altro gli avrebbe giovato di più, altro che "interpretazioni profonde e meditate" le karajanate sono tanto suono per nulla, sono il vuoto assoluto, non è musica è solo sonorismo, certo sonorismo di lusso, ma solo sonorismo resta.

X Duprez: e adesso metto le cose in chiaro per quanto riguarda Celibidache, perchè ci tengo a precisare come la penso. Di direttori d'orchestra che mi piacciono ce ne sono alcuni, non li cito sarebbe inutile, ma hanno tutti un limite ed è il seguente : per quanto belle ed interessanti siano le loro interpretazioni restano quello che sono cioè proprio solo interpretazioni cioè una possibilità fra tante altre, certo convincenti ma non defintive, sono belle solo in senso relativo, non mi fanno vivere l'evento musicale in maniera totale e assoluta. Celibidache invece non mi da mai una interpretazione, ma mi offre la Musica in tutta la sua totalità, non mi da la sensazione di una interpretazione, di una possibilità fra tante altre, al contrario, mi offre, anzi mi impone con assoluta evidenza, l'unica e la sola possibile, mi fa vivere l'evento musicale in senso assoluto. La nona di Beethoven, tiro a caso, diretta da Furtwangler è meravigliosa ma è relativa, la nona diretta da Celibidache è Beethoven punto e basta. Ora si ha il diritto di chiedermi in virtù di quali argomenti io posso avanzare tali asserzioni. Chiarisco subito : basta ascoltare per credere! Ci sono melomani che percepiscono in Celibidache solo una "esausta lentezza", non so che dire! ci sono anche individui che si autodefiniscono amanti del canto ed adorano Di Stefano o la Barcellona! Che ne devo pensare? Ma la stessa cosa!!!
Per me uno che mi viene a dire : "amo l'opera e non sopporto Battistini, Gobbi è superiore", tipo lo Stinchelli, mi spiace ma non ama il canto, ama la vociferazione! Basta ascoltare ed essere in grado di rendersene conto, per credere! Lo stesso vale per Celibidache. Sentirmi dire "amo la musica ma preferisco Karajan" che dire? beh! c'è chi pensa o crede di ascoltare musica ma in fin dei conti ascolta solo sonorismo.
Attenzione però quì io NON parlo di opera MA di musica pura, l'opera è cosa un po' diversa, nell'opera Karajan funzionava, almeno ha funzionato fino agli anni 70. Ma per l'opera il discorso è diverso e più complesso e non ho voglia di dilungarmi (fra l'altro inutilmente)l'opera non è musica pura come un concerto o una sinfonia, quindi altri parametri entrano in gioco, parametri con cui Karajan doveva fare i conti e.........va be' lasciamo perdere che è meglio, quello a cui più ci tenevo l'ho chiarito ed è quello che conta.
PS :abasso l'oscena venexiana! la scostumata della vocalità che va in giro a isozzare Monteverdi e Gesualdo, lo so che non c'entra niente! ma anche questo avevo voglia di dirlo :))

Marco ha detto...

Le disquisizioni del Sig. Semolino sul rapporto fra assoluto e relativo sono di una tale ingenuità che non avrei mai pensato di poterle leggere. Quando poi gli si chiede di motivarle, la risposta ovviamente è: "basta ascoltare per credere". Tradotto: "questa cosa è così perché è così".
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ma, caro Semolino, che significa "Celibidache invece non mi da mai una interpretazione, ma mi offre la Musica in tutta la sua totalità, non mi da la sensazione di una interpretazione, di una possibilità fra tante altre, al contrario, mi offre, anzi mi impone con assoluta evidenza, l'unica e la sola possibile, mi fa vivere l'evento musicale in senso assoluto"? E', con tutto il rispetto, una sbrodolata che di per sè non vuol dir nulla. La Musica esiste perchè c'è chi la interpreta: non esiste la Musica in sé (se non nella mente di chi l'ha scritta), ma esiste la sua interpretazione, anzi le sue interpretazioni...che sono diverse e legittime. Celibidache - grande direttore, dall'approccio affascinante, ma dal fastidiosissimo atteggiamento di "profeta del nulla" - ha sempre blaterato le sue personalissime concezioni di musica assoluta, di pura espressione dello spirito, non mediata da altri fattori (tra cui il canto: e da qui il rifiuto dell'opera), bei costrutti davvero, adatti alle masturbazioni mentali di certi philosophes della musica...ma poi in soldoni, in pratica, che fa Celibidache? INTERPRETA la musica in modo del tutto personale e arbitrario: altro che l'oggettività tanto sbandierata. I tempi letargici - certo mantenuti con grande tensione e coerenza dal virtuosismo tecnico del grande direttore - l'agogica riscritta, i segni dì'espressione ribaltati....tutto legittimo, per carità, tutto bello (non sempre), ma non mi si venga a dire che le sue non sono interpretazioni, ma Musica assoluta... per non parlare di certe cadute: la scelta di cantanti pessimi per le rare esecuzioni di musica vocale, la scarsa dimestichezza con la voce, l'idiosincrasia e l'incomprensione verso le esigenze dell'interprete (i requiem di Verdi e di Mozart sono lì a mostrare la loro inadeguatezza). E poi, ripeto, il contorno new age, la filosofia orientale, le menate spiritualistiche, l'autocelebrazione di sé come una sorta di asceta della musica, un anarchico incoronato, nemico del sistema.... Io ho un approccio "cartesiano" alla realtà, credo nei fatti, razionali e concreti, più che alle costruzioni retoriche e alle fumosità metafisiche che cercano di contestarli: uno può utilizzare tutti gli armamentari teologici e filosofici per negare la realtà, ma, mi spiace per lui, la terra continuerà a girare sempre attorno al sole...e non viceversa, aldilà dei bei costrutti di chi sostiene il contrario.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ps: sulla Venexiana non sono d'accordo...lo sai, ma mi piacerebbe sapere chi ritieni un buon interprete monteverdiano (facendoci grazia delle inaccettabili riscritture teutoniche o veriste)... Comunque a breve l'argomento verrà trattato e vi sarà occasione di confronti.

Semolino ha detto...

X Marco Ninci
Una esecuzione è una interpretazione, cioè una visione personale e relativa, quando mette in evidenza solo un aspetto o alcuni aspetti della musica. Per fare due esempi diametralmente opposti cito Pierre Boulez e Leonard Bernstein, per il primo la musica è solo una costruzione matematica in cui non c'è posto ne per il sentimento, ne per la dimensione umana, le sue esecuzioni sono paragonabili ad un cristallo trasparente di una geometria purissima (oddio adesso schecco come Giudici quando faccio paragoni!!!. Il secondo invece spreme la musica come un limone per trarne tutto il succo espressivo, esaspera la sensualità fino all'eccesso, le sue interpretazioni sono amplessi. Altri direttori di altra personalità mettono in evidenza altri aspetti musicali, Klemperer è architetturale, Jochum mistico-ieratico, Abbado cerebrale e raffinato, Solti è nervoso, vivido e stringato, Walter poetico e via dicendo, le loro interpretazioni sono tali perchè parziali, danno solo uno dei molteplici aspetti della complessa totalità della Musica. Celibidache nò, lui riusciva a fare cantare con equilibrata e sobria sensualità tutta la polifonia, nelle sue esecuzioni, la ragione, la raffinatezza, la matematica, il senso del dramma, insomma tutto era perfettamente equilibrato ed è per questo che dava la sensazione di un evento musicale in tutta la sua totalità. Non riuscite a rendervene conto? Va beh! e che ci posso fa'? posso rispondervi con un frase di Celibidache stesso : "non si può pretendere di fare friggere un uovo di dinosauro in un padellino concepito per fare friggere un uovo di gallina".

X Duprez
Perchè ti meraviglia che nel disastratissimo panorama vocale odierno non ci sia un solo cantante in grado di cantare Monteverdi correttamente? A me nò, Monteverdi cantato a regola d'arte non l'ho ancora sentito in vita mia, e men che meno dall'oscena venexiana che non sa neanche emettere un suono correttamente, tutto è spoggiato, sono tutti miagolii gutturali e vetrosi, fissi e lagnosi.

à bas la sale catin de la vocalité qui passe son temps à saloper Monteverdi, Gesualdo et leurs contemporains, il serait grand temps de la faire taire en l'enfermant là où elle serait digne, de par ses miaulements obcènes, de sejourner : dans une maison close!
Se non è mai riuscita ad emettere un suono coretto, almeno l'oscena venexiana è riuscita a scegliersi il giusto nome d'arte, quello che meglio rispecchia la sua "vocalità"
et l'argument, pour ce qui me concerne, est clos :))

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Su celibidache ti contesto fortemente: sono SOLO interpretazioni, a volte convincenti, a volte molto meno...le velleità di essere "musica assoluta" stanno solo nelle elucubrazioni del direttore romeno e nel fanatismo dei suoi accoliti. Permettimi però di sottolineare la sgradevolezza del tuo assunto per cui chi non ritiene Celibidache una divinità infallibile è un eretico da compatire...non mi stupisce che tale affermazione provenga da un frustrato, monomaniaco e megalomane come Celibidache, mi sorprende che alcuni prendano sul serio le sue tirate da messia di sé stesso...

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Beh...Semolino, io no voglio essere così pessimista sul canto monteverdiano... Oggi ci sono molte cose apprezzabili (assai più di ieri). Il Vespro di Savall ad esempio, o il Monteverdi operistico di Vartolo o di Garrido (vedi..non ti cito la venexiana). Certo quello di Jacobs è inascoltabile, ma oltre le alpi (in giù) c'è di meglio...

Semolino ha detto...

Per quanto riguarda il fanatismo degli alcoliti di Celibidache devo precisare che tutti coloro che mi conoscono personalmente sanno che NON sono facilmente influenzabile, e non mi interesso, o solo in modo molto aneddotico, alle teorie di un direttore d'orchestra o artista che sia. Mi interessano solo i risultati, e i risultati sono lì, parlano da soli.
Per quanto riguarda la sgradevolezza del mio assunto non ci posso fare niente, è la realtà, è lì da ascoltare, non mi si può venire a dire "amo il canto ma non sopporto Battistini preferisco Gobbi", così come non mi si può venire a dire sono melomane ma non amo Celibidache, preferisco Karajan. Coloro che vanno in brodo di giuggiole solo perchè ascoltano un insieme di suoni che si succedono in maniera organizzata non devono per questo pensare che stanno ascoltato Musica. Come i fans di Di Stefano non mi vengano a dire che amano il canto! Ci sono poi "melomani" che amano in egual misura (e ne ho conosciuti) Celibidache e Karajan oppure Di Stefano e Kraus e via dicendo, a mio parere quelli stanno messi ancora peggio, perchè l'estimatore di Karajan che rifiuta Celibidache è coerente, poiché ama il sonorismo non può capire la Musica così come colui che ama Di Stefano e non Bergonzi ama il vociferare e non il Canto, ma colui che ama tutti indistintamente è solo un confusionista incorerente, privo di qualunque discernimento.
Et en ce qui me concerne, même cet argument est (comme celui de l'osbcène venexiana) définitivement clos :))

Per quanrto riguarda Monteverdi, premetto che il Monteverdi teutonico e il Monteverdi verista non sono la mia tazza di té, e riconosco che l'assunto monteverdiano è in quelle interpretazioni completamente tradito, però lo preferisco ai miagolii baroccari poichè nella maggior parte dei casi, sopra tutto in quello verista, è cantato certo fuori stile, ma bene, con una tecnica sana, con un suono giustamente appoggiato, cosa che ( leggasi gli scritti di Caccini e Monteverdi stesso) era già consolidata all'epoca, il Garcia non ha inventato niente con buona pace di quei ciarlatani mistificatori che hanno il rinascimento e il barocco in appalto oggi.
Devo fare publica ammenda per avere detto di non avere mai ascoltato un Monteverdi a regola d'arte, frugando bene nella mia discoteca ho trovato una registrazione di Teresa Berganza fatta a Londra nel 1990 in cui canta il Lamento d'Arianna ed altre registrazioni di autori del primo barocco, ci sono brani di Barbara Strozzi, Monteverdi, de Rore, Molinaro ecc... e devo riconoscerlo : si tratta di un Monteverdi & C.O. cantati tecnicamente E stilisticamente in maniera perfetta, che poi la Berganza non fosse più all'apice dello splendore vocale in quegli anni è un altro paio di maniche.

Semolino ha detto...

Parlo di cantanti e mi si tirano in ballo Garrido, Savall e Vartolo!!! Che io sappia non sono cantanti. Garrido come direttore non è male, Vartolo lo conosco solo come cembalista-organista e Savall è un buon musicista ma lo preferisco come violista. Però tutti i "cantanti" che sono stati ingaggiati dai sopra citati sono una gran bella schifezza, e non c'è altra parola per definirli. Il Vespro diretto da Savall? Con tutti quei "cantantucoli" che eseguono i passaggi infalsettandoli ed aspirandoli peggio di Alva. L'agilità monteverdiana non è ancora belcanto, non sarà certo da eseguirsi di forza, come nei belcantisti più puri da A. Scarlatti a Rossini, ma neanche va aspirata in falsetto, leggasi sempre Monteverdi e Caccini. Colla Figueras poi che ha una voce messa peggio di una cantate pop fallita, tutta ingolatissima e gracchiante, con suoni duri e fissi che fanno concorenza a quelli di quell'altra, la vile cortigiana arrivista. La Figueras è colla Kirby la più grande ciarlatana mistificatrice della vocalità che sia esisitita fino ad ora, forse peggio anche della Bartoli, il che è tutto dire!
Garrido poi, con il suo "baritono" Torres tutto spoggiato, con le agilità aspiratissime e infalsettate, così come è falsettino querulo e smunto ogni tentativo di addolcire e salire nel pentagramma. Lo stile baroccaro è stato inventato dai nordici, al di sotto delle alpi non si è fatto nient'altro che riformulare gli stessi errori e gli stessi orrori con un solo lato, se si può dire, positivo : la pronuncia meno ostrogota.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ma Semolino...che diamine significa "non mi si può venire a dire sono melomane ma non amo Celibidache, preferisco Karajan"? Celibidache non ha MAI voluto mischiare il suo preteso "genio" a quella robaccia che per lui era l'opera lirica! Non ha MAI diretto nulla di vocale (salvo qualche messa, in cui - parole sue - trattava la voce come strumento e le parole come formule). Celibidache con l'opera non c'entra nulla, non ci ha mai voluto c'entrare nulla...non prendiamoci in giro e non ribaltiamo la realtà a seconda delle comodità spicce! A te non piace Karajan: amen! Ma non per questo ti ritengo un idiota... Al contrario tu non concepisci neppure che a taluno possa non piacere Celibidache... E se non piace Celibidache allora non si apprezza la Musica (con la maiuscola...come se fosse un'entità metafisica...andiamo!)? Sono concetti inaccettabili, mi spiace... Io non riesco a concepirle queste "guerre sante": o Karajan o Celibidache...perchè mai non posso apprezzare l'uno e l'altro nei diversi repertori? E non credo sia opportuno il confronto con Di Stefano (paragonato a Karajan), perchè il tenore siciliano (pur dotato di bella voce) era privo di ogni altro elemento e tecnico: un paragone siffato è solo funzionale ad una volontà di estremizzare il discorso Rifiutando le posizioni altrui senza neppure scomodarsi per confutarle con il ragionamento: molto comodo scrivere "è così perchè è così, ci sono le registrazioni a dimostrarlo"...MA A DIMOSTRARE COSA? COSA MI DIREBBERO CERTE INCISIONI DI CELIBIDACHE? Che il suo Requiem verdiano è piacevole a tratti, ma a tratti sballato, che il direttore se ne sbatte dei segni d'espressione e che i cantanti istruiti dal "geniale messia del nulla" sono del tutto inadeguati alla musica eseguita? Che il Requiem di Mozart, lento fino a divenire grottesco, propone un quartetto di solisti (sempre funzionali alla Musica Assoluta così come spacciata dal profeta romeno) che fa semplicemente vomitare? Parliamo della pesantezza di talune ouverture rossiniane incise dal filosofo della musica (oops della Musica)? Parliamo di cose serie e lasciamo stare le masturbazioni mentali...

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Quanto a Monteverdi: ho citato i direttori per comodità...volendomi riferire alle compagnie impiegate.

1) Persino i più estremisti dei baroccari sono meglio delle incisioni di Monteverdi veriste o teutoniche: sono INACCETTABILI E PESSIME!

2) Pensare a Monteverdi con i parametri con cui si ascolta il belcanto (o giù di lì) è una forzatura ideologica. Soprattutto se si pensa che i lavori liturgici erano affidati a complessi non paragonabili ai cantanti professionisti del belcanto....

3) la pronuncia in Monteverdi è FONDAMENTALE almeno quanto il canto (se non di più) si tratta di recitar cantando...non è musica operistica! Punto!!!!

Semolino ha detto...

2) Pensare a Monteverdi con i parametri con cui si ascolta il belcanto (o giù di lì) è una forzatura ideologica. Soprattutto se si pensa che i lavori liturgici erano affidati a complessi non paragonabili ai cantanti professionisti del belcanto
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Ho isolato questo punto poichè trattasi del Dogma baroccaro inglese.
Ma sarai mica baroccaro dans l'âme?

Di questo ne ho già parlato lungamente in altri due miei interventi alquanto remoti.
Al giorno d'oggi sembra quasi impossibile impostare, cioè far mettere in maschera, la voce ad un cantante, perchè si è persa l'abitudine, ma a quell'epoca, a causa della mancanza del microfono, TUTTI imparavano fin da bimbi ad esprimersi in pubblico con voci impostate, quindi anche i coristi da chiesa, non cantanti d'opera, emettevano suoni impostati correttamente e non i miagolii ingolati dei cantantucoli di Garrido, Savall per non parlare di quella là........la scostumata della vocalità!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

AMEN Semolino....