venerdì 26 febbraio 2010

Fervidi pensieri 1 - Andrea Chénier a Madrid: Tal dei tempi è il costume!

Ieri sera è accaduto all’opera lirica di finire malamente svergognata in quel di Madrid, in diretta radio.
Svergognata al punto tale da indurre la sovrintendenza del teatro a sospendere la diretta radio dopo che la recita era stata interrotta al monologo del primo atto di Carlo Gerard. Interruzione causata dalle violente intemperanze del pubblico che, come si legge nei fori operistici spagnoli, ha reagito duramente di fronte alla maldestra amplificazione delle voci, che riverberavano in modo grottescamente innaturale in sala, in special modo nel loggione.
La recita è ripresa dopo la mediazione della signora Cedolins e del direttore artistico del Teatro Real, Antonio Moral, ed è stata condotta sino alla fine dai protagonisti, il cui stato vocale potrete ben apprezzare dal file audio di quanto trasmesso dalla radio. A dirla tutta, dopo il secondo atto Marcelo Alvarez, del quale vi proponiamo l'Improvviso, è stato messo in panchina a favore del tenore Jorge de León, che solo quattro giorni prima aveva provveduto a "tappare il buco" di una delle recite già affidate all'altro titolare del ruolo, Fabio Armiliato. All'annuncio della sostituzione, nuove proteste da parte del pubblico, ma grande successo del sostituto a fine serata.
La trasmissione radiofonica, impossibilitata a svolgersi come previsto - ha precisato lo speaker - per motivi indipendenti dalla volontà dell'emittente, si è conclusa con la messa in onda di un’edizione discografica ufficiale della stessa opera.
Siamo sempre più vicini al teatro d'opera in disco!!! Per parte nostra ci limitiamo a deprecare la scelta dell'edizione Pavarotti-Caballé, cui non possiamo fare a meno di preferire, nell'ordine, Gigli-Caniglia, Corelli-Stella, Del Monaco-Tebaldi, Domingo-Scotto.

Postilla: con una nota sul proprio sito ufficiale (teatro-real.com/Noticias/Detalle?posicion1=3875), il Teatro Real si scusa per il "problema tecnico" che ha fatto sì che "per alcuni minuti del primo atto si ascoltasse nella zona del loggione il suono normalmente destinato al foyer del teatro durante le rappresentazioni. Questo fatto ha causato una percezione acustica distorta, che ha suscitato la protesta di alcuni spettatori, il che ha obbligato a interrompere la recita, che è stata ripresa non appena è stato risolto il suddetto problema. Il Teatro Real è dispiaciuto per la difficile situazione che hanno dovuto vivere gli artisti che prendevano parte a questa recita e assicura che in nessun caso, come è d'uso in questo teatro, è stato utilizzato alcun mezzo che non fosse lo strumento naturale della voce. Inoltre, il Teatro Real si scusa per essersi visto costretto a sospendere, per i motivi già menzionati, la trasmissione in diretta che stava realizzando Radio Clásica de RNE".

Ma se i problemi erano stati risolti dopo i primi minuti e le prime proteste, perché sospendere la trasmissione della recita?

In un'altra nota (teatro-real.com/Noticias/Detalle?posicion1=3653), il Teatro informa che l'ultima recita di Chénier, domenica 28 febbraio, sarà affidata a Jorge de León in sostituzione di Marcelo Alvarez.



POSTILLA - Nella nostra chat il Maestro Armiliato, che ringraziamo per il suo intervento, ha chiarito che J. de Leon lo ha sostituito in una delle "sue" recite di Chénier solo ed esclusivamente in ragione di una rappresentazione di gala svoltasi in Giappone, impegno che si sovrapponeva con la suddetta recita di Chénier. A maggior ragione ci pare biasimevole il comportamento del Teatro, che prima ha annunciato e poi ha dovuto smentire la partecipazione del tenore Armiliato alla recita in questione.



Gli ascolti

Giordano - Andrea Chénier


Teatro Real de Madrid, 25 febbraio 2010
Direttore: Víctor Pablo Pérez

Tramissione in diretta di Radio Clásica/RNE


Atto I

Quest'azzurro sofà...Compiacente a' colloqui...Il giorno intorno - Marco Vratogna & Fiorenza Cedolins

Un dì all'azzurro spazio - Marcelo Alvarez


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mercoledì 24 febbraio 2010

L'opera dei sogni: Alzira

Nel 1844, il poco più che trentenne compositore Giuseppe Verdi aveva al suo attivo ben sei opere con cui era riuscito ad espugnare le prestigiose ribalte milanesi, veneziane e romane, e mentre si apprestava a donare al Teatro alla Scala l’ultima delle sue fatiche, Giovanna d’Arco, veniva sfiorato dall’idea di conquistare una nuova fortezza: il Teatro San Carlo di Napoli.

Fortezza, di certo, tra le più difficili e stimolanti d’Italia, i cui bastioni avevano le fattezze della triade di compositori formata da Saverio Mercadante, Giovanni Pacini e Vincenzo Battista, da sempre amatissimi dal difficile pubblico, dal quale giganti del calibro di Rossini e Donizetti, perennemente etichettati come “stranieri” e visti con sospetto, faticarono non poco a farsi accettare.
In quegli anni l’impresa del San Carlo di Napoli era gestita dagli impresari Eduardo Guillaume e Vincenzo Flaùto e fu quest’ultimo, fiutando le potenzialità del giovane compositore, a contattare Verdi per la creazione di una nuova opera, mettendo a sua disposizione il più rappresentativo tra i suoi librettisti e collaboratore assiduo di Pacini e Mercadante: Salvatore Cammarano.
Verdi, entusiasta, decise di affidarsi totalmente al riconosciuto talento poetico di Cammarano; qualunque soggetto che il librettista gli avrebbe proposto lo avrebbe accettato senza polemica.
Cammarano, dal canto suo, accarezzava già da tempo l’idea di un dramma dall’ambientazione misteriosa ed esotica soprattutto dopo aver subito il fascino dei testi storico-filosofici di Francois Marmontel, Les incas, ou La Destruction de l'empire du Pérou pubblicato nel 1777, e del testo teatrale di Voltaire Alzire, ou Les Américains risalente al 1736, letture queste che ben si prestavano ad una riduzione operistica, già affrontate in passato da Zingarelli, Bianchi, Manfroce, Mayr e Portugal, e che pochi anni prima aveva proposto a Pacini il quale si vide costretto a declinare il soggetto a causa di precedenti impegni presi con il teatro napoletano.
Nel Febbraio del 1845, Verdi descrisse al Cammarano, tramite fitta corrispondenza, l’entusiasmo che aveva generato in lui la lettura del “programma” (soggetto) della futura Alzira ed era convinto dell’abilità poetica del suo librettista, tanto da vedere in questa nuova opera un motivo per riscattarsi agli occhi dei suoi detrattori, che più volte lo avevano accusato e deriso ingiustamente per essere, a parer loro, un nemico giurato del canto, apostrofando con il termine “fracasso” la sua musica.
Già nel Marzo dello stesso anno, Verdi poteva ammirare i versi destinati alla protagonista; il recitativo “Le più gradite immagini” e l’aria “Da Gusman su fragil barca”, ma aveva dimostrato la sua perplessità riguardo la posizione di ben tre cavatine da cantarsi tutte di seguito, ovvero l’aria di Zamoro “Un inca… Eccesso orribile”, l’aria di Gusmano “Eterna la memoria”, e, appunto, l’aria di Alzira.
Ragionevolmente Cammarano accolse il suggerimento e suddivise i tre interventi posizionandoli rispettivamente nel prologo, e gli altri due al I atto, entrambi introdotte dal coro.
In più Verdi chiese di rendere la vicenda più passionale, pretese una maggior stringatezza nel racconto e da Flaùto che la protagonista fosse la leggendaria Eugenia Tadolini, la quale però non poteva assicurare la sua presenza a causa di una gravidanza che la avrebbe impegnata fino a Luglio, mentre la data di consegna della partitura era prevista per Giugno!
Flaùto, in sostituzione della Tadolini, propose a Verdi il soprano inglese Anna Bishop, smaniosa di soffiare la parte di protagonista alla rivale; ma Verdi però conosceva bene la Bishop in quanto ebbe la ventura di ascoltarla personalmente ne I due Foscari, trovandola totalmente inadeguata!
Provvidenziale, ma anche problematica, si rivelò la salute cagionevole di Verdi, il quale in primavera iniziò a soffrire di dolori di stomaco, e se da una parte questi contribuirono a ritardare la composizione dell’Alzira, così da permettere alla Tadolini di riappropriarsi del ruolo a lei destinato, dall’altra bloccarono di fatto l’ispirazione del compositore e la possibilità di muoversi da Milano, facendo sfumare la sua presenza a Roma per un nuovo allestimento di Giovanna d’Arco, ed il suo trasferimento a Napoli per iniziare le prove dell’ Alzira e per portare a termine la composizione.
Cammarano, intanto, faceva pervenire al compositore, di fatto molto lentamente, nuove pagine del libretto (Atto II: duetto Alzira-Gusmano e aria di Zamoro), che accendevano la fantasia di Verdi, il quale richiedeva un rispetto maggiore alle note di correzione, dei versi che esaltassero il fraseggio del grande baritono Coletti previsto nel ruolo di Gusmano ed un finale commovente.
Intanto a Napoli, Flaùto e la stampa partenopea iniziavano a diventare ostili e impazienti.
La Bishop, ancora comprensibilmente offesa dal rifiuto del compositore e cavalcando l’ondata di malcontento per i ritardi della composizione, contribuì non poco ad accrescere tale stato d’animo, soprattutto nella critica, che inizialmente si era dimostrata molto clemente, contro Verdi.
Flaùto, innervosito dal clima e insospettito della malattia di Verdi e dal suo reiterato posticipare le date di consegna, che da Giugno vennero portate ad Agosto, impose al compositore di partire per Napoli, ma Verdi rifiutò, inviando rocambolescamente, tramite Emanuele Muzio, suo pupillo, un certificato medico onde tutelarsi anche legalmente sull’impresa napoletana.
A Maggio, però, Verdi, scoraggiato dalla salute e dal nervosismo, non aveva iniziato a scrivere nemmeno una nota come rivelò il fedele Muzio in una preoccupata lettera al Barezzi, perché Cammarano ritardava ancora nella consegna della parte finale del II atto e il clima negativo contribuiva certo al normale svolgimento della composizione.
Soltanto tra la fine del mese e Giugno, Verdi ottenne il libretto completo, che, dall’entusiasmo iniziale, si trovò a giudicare in parte debole e inadatto e si sentì poco ispirato dall’azione, ma in quegli anni, quelli “di galera”, doveva fare di necessità virtù e incalzato da Flaùto, compose Alzira, sia nella partitura sia nell’orchestrazione, nello strozzamento di una ventina di giorni in Luglio, in maniera frettolosa e passando le due settimane successive di Agosto ad affrontare le prove a Napoli.
Finalmente il 12 Agosto del 1845 il sipario si alzò su Alzira, opera in un prologo e due atti andò in scena al Teatro San Carlo di Napoli con Eugenia Tadolini, Alzira, Gaetano Fraschini, Zamoro, Filippo Coletti, Gusmano, Marco Arati, Alvaro, Michele Benedetti, Ataliba, … e vi andò malamente!
Se le arie nel complesso piacquero, furono la durata complessiva della composizione, appena 90 minuti, e la qualità del libretto e della musica a destare perplessità e freddezza nella critica e nel pubblico che manifestò il suo dissenso nelle sole quattro rappresentazioni successive.
A nulla valsero le riprese su importanti palcoscenici come Roma e Milano, che provocarono il disappunto del pubblico, tanto da convincere Verdi a non tornare mai più su quell’opera, nemmeno per modificarla, ripudiandola apertamente e marchiandola a fuoco con la frase “quella è veramente brutta”, quattro parole che molti biografi e studiosi presero alla lettera tanto da snobbarla apertamente o solo limitandosi a citarla.

In realtà, se il libretto risulta poeticamente di pregevole fattura, soprattutto nelle bellissime arie e nei duetti, ha il grave difetto di essere frammentario nella sua stringatezza, di possedere recitativi e cori scritti, purtroppo, con pochissima convinzione e solo per saldare i momenti salienti, e di aver annullato totalmente tutta la componente filosofica, religiosa, illuminista e polemica di Voltaire.
Scarnificando fino all’osso il dramma, che perse così buona parte dell’esotismo vanamente cercato e riducendolo al solito triangolo amoroso tipicamente ottocentesco di Soprano afflitto-Tenore oppresso–Baritono-villano, l’opera perse tutta la tensione psicologica dell’originale e affrontò con superficialità il mito del “buon selvaggio”.
In più, se il personaggio di Zamoro che tanto piaceva a Verdi, ricalca fin troppo da vicino banditi eroici ed esiliati alla maniera di Ernani, ma dalla passionalità selvaggia e spontanea, il “cattivo” Gusmano è troppo sfuggente e musicalmente contraddittorio nella sua tirannide e poco credibile nell’incongruente e sbrigativo pentimento finale.
Al contrario tutt’altro rilievo hanno i due padri Ataliba e Alvaro, di fatto ruoli di contorno, ma mirabilmente musicati; il primo fin troppo accondiscendente e debole per garantire la pace al suo popolo, mentre il secondo, salvato da Zamoro nel prologo, arriva a umiliarsi, inginocchiandosi di fronte al figlio Gusmano, pur di preservare la vita del suo salvatore.
Stupendo, invece, il ritratto che Verdi dipinge con le note dedicate all’eroina Alzira, creatura angosciata e dalla sensualità naturale, ferma nei sentimenti anche di fronte all’esigenza politica, ma capace di comprendere l’animo celato dietro al potere ed alla violenza del suo nemico.

La ripresa dell’opera in tempi moderni è stata non poco complessa.
Nel 1936 in forma di concerto e cantata in tedesco apparve a Vienna e due anni dopo una giovanissima Elisabeth Schwarzkopf, a Berlino e sempre in tedesco, salvò una recita sostituendo la protagonista indisposta e cantando il ruolo, che non aveva fatto in tempo a studiare, direttamente dallo spartito, accompagnata da Heinrich Steiner.
Apparve successivamente e sempre in forma di concerto alla Carnegie Hall di New York nel ’68 con Elinor Ross, Gianfranco Ceccehele e Louis Quilico diretti da Perlea; nel ’70 al Collegiate Theatre a Londra; alla Rai di Torino nel ’73 con Angeles Gulin, Cecchele e Mario Sereni diretti da Maurizio Rinaldi.
Al 1980 risale un live con Cristina Deutekom diretta da Kees Bakels, mentre nel 1981 fu allestita tra Parma, Reggio Emilia e Modena in una compagnia di cantanti in cui si alternavano Keiko Kataoka-Atarah Hazzan, Benito Maresca-Bruno Rufo, Gabrys Bovagian diretti da Edwin Scholz.
Nell’83 apparve la discussa incisione dell’opera con Ileana Cotrubas nel ruolo di Alzira accompagnata da Francisco Araiza e Renato Bruson diretti da Lamberto Gardelli con l’orchestra di Monaco.
Negli anni ’90 fu ripresa a Parma, Fidenza, New York, in questo ultimo caso nell’ambito del Festival “Viva Verdi“, a Londra Royal Opera House con Veronica Villaroel, Keith Ikaia-Purdy, Alexander Agache diretti da Mark Elder, a Passau con Barbara Schneider-Hoffestetter, Angelo Simos, Garegin Ovespan diretti da Roger Bogasch.
Nel 1999 apparve la seconda discussa incisione ufficiale diretta da Fabio Luisi e con Marina Mescheriakova, Ramòn Vargas e Paolo Gavanelli che contribuiva ai festeggiamenti verdiani.
Nel 2000 apparve a Sarasota, nel 2002 fu messa in scena a Parma diretta da Bruno Bartoletti con Paoletta Marrocu, Carlo Ventre e Vladimir Chernov e nel 2003 riapparve al New York Grand Opera.

Eppure Alzira ebbe soltanto nel 1967 il suo più vero e autentico riscatto.
Una serata magica e teatrale, in cui voci, orchestra e direttore credettero con serietà e professionalità nel progetto e … a parer mio, avrebbe fatto cambiare giudizio a Verdi!
Al Costanzi di Roma quella sera agivano benissimo Virginia Zeani, Gianfranco Cecchele, Cornell MacNeil nei ruoli principali, Franco Capuana a capo dell’orchestra, ed uno stuolo, ottimamente scelto, di comprimari come Bianca Bortoluzzi, Zuma, Saverio Porzano, Ovando, Mario Rinaudo, Ataliba, Sergio Tedesco, Otumbo, e Carlo Cava, Alvaro.
Spettacolo a cui arrise un grande successo di pubblico, come testimonia il live, e a suo modo “Filologico“ nel senso più nobile del termine, ovvero:
rispetto assoluto della partitura, dai segni espressivi ai tempi (eccezion fatta però per i tagli dei “a capo“ che nulla tolgono al dramma), scelta delle voci assolutamente aderente alle esigenze vocali prescritte da Verdi e che onorarono al meglio la scrittura.


Un Andante mosso quasi allegretto apre l’ouverture con l’utilizzo, quasi esclusivo, di strumenti a fiato che riprendono, più volte, lo stesso tema saltellante in un turbine rapinoso di forcelle mirate a rinforzare il suono alternate a piani e pianissimi che riducono il volume orchestrale su toni più carezzevoli e giocosi, variandolo con leggero virtuosismo, come prescritto in partitura, e trilli.
Poi le “mazzate”;
possono sei note, La centrali e gravi ribattuti, rovinare l’atmosfera maliziosa e misteriosa appena creatasi?
In questo caso si!
Pesanti, bandistiche ed inutili, presenti solo per collegare l’inizio con il Prestissimo richiesto, in cui il ritmo diventa incalzante, il suono più aspro, l’atmosfera più minacciosa e vibrante.
Gli archi inseguono i fiati in una girandola di fortissimi, per poi spegnersi in un suono espressivo, legato, dolcissimo, nel suo esprimersi attraverso i piani, di grande malinconia.
Viene introdotto in questo punto il tema militare degli spagnoli accompagnato da un tempo Allegro-Brillante, anche in questo caso, giocato su note acute altalenanti in cui gli archi infittiscono un suono sempre più denso e ricercato, che in maniera inedita, danza su un ritmo in crescendo su quella che potremmo definire quasi una “tarantella”, ripresa e variata più volte ad una velocità sempre più furibonda che si conclude in una logica stretta.

L’opera, in Perù, verso la metà del XVI secolo, si apre con un Prologo ambientato su una pianura del fiume Rima all’alba.
L’apertura è data su un Allegro in pianissimo che cresce di intensità ad un ritmo indiavolato, introducendo il coro di guerrieri Inca e Otumbo i quali si presentano con “Muoia, muoia coverto d’insulti”, trascinando il Governatore Alvaro, loro prigioniero e padre di Gusmano, al supplizio per vendicare i fratelli caduti in battaglia, brano incalzante nella sua espressione bellicosa e con l’alternanza di vari piani sonori.
Un canto poggiato su un tempo moderato, introduce prima la voce di Alvaro (basso) che perdona davanti a Dio il linciaggio che sta per subire e successivamente il canto stentoreo e tenorile di Zamoro, che tra lo stupore di tutti, che lo credevano morto, discende il fiume e libera Alvaro apostrofandolo con la frase forte di spirito declamatorio:”Frà tuoi ritorna, o vecchio, ed a color, che noi chiaman selvaggi narra che ti donò la vita un selvaggio.”
L’abbraccio tra Zamoro e Alvaro introduce l’andante mosso venato di dolcezza che si riempie successivamente di tensione nell’aria di Zamoro “Un Inca…eccesso orribile!” in cui il previsto declamato poggia su un Andante sostenuto.
E’ un’aria in cui Zamoro narra le sofferenze patite in mano degli invasori in cui se l’orchestra è attenuata e deve seguire gli slanci letteralmente muscolari della voce, il canto alterna all’iniziale declamato centrale tinto di amarezza, a frasi ben legate con presenza fittissima di forcelle che rinforzano il suono, acciaccature, e note che insistono sul passaggio, come il Sol, toccato più volte ad esempio. Cecchele, nonostante un timbro vagamente querulo ed un passaggio leggermente schiacciato, è bravissimo a calibrare l’accento con una proiezione del suono slanciata e sfumatissima, riuscendo a onorare i segni espressivi previsti e scolpendo frasi come “Gusman, paventa il mio furor!” con una incisività modernissima.
La successiva cabaletta, “Risorto fra le tenebre”, tempo Allegro, e sottovoce, è formata da frasi ascendenti, che dal Fa centrale salgono fino al Fa3, tutte rigorosamente legate e caratterizzate da forcelle tendenti a irrobustire il volume, in cui il cantabile si fa soave e si rinforza nelle frasi finali.
La voce di Cecchele svetta sul coro, in un Andante moderato grandioso, riempiendosi di eroismo, frasi come “De’ lor cadaveri” possiedono un accento imbevuto di selvaggia esaltazione ed il La3 finale trascina con se coro e orchestra!

Nel I atto ci troviamo in una piazza di Lima, in cui le milizie spagnole si stanno adunando.
Il tema militare degli spagnoli è suonato dapprima fuori scena, poi, all’ingresso delle voci maschili del coro, la marcia suona in orchestra e i convenuti si augurano una nuova chiamata alle armi per volere del sovrano.
Il recitativo successivo riporta in scena Alvaro, il quale cede il suo potere al figlio Gusmano.
Gusmano, politicamente accorto, sancisce la fine delle ostilità con la popolazione inca e per suggellare tale riappacificazione ricorda ad Ataliba, capo degli americani, la mano di Alzira, sua figlia, che tanto brama.
Il tempo da indugiante, si fa prima Moderato e successivamente Allegro moderato.
Il canto si fa largo e Gusmano alle parole di Ataliba, che tenta goffamente di proteggere il cuore di sua figlia, risponde con un Re bemolle, su cui campeggia una doppia forcella, onorata da Cornell MacNeil, nella frase “Intendo appieno!”.
Un Andante sostenuto introduce “Eterna la memoria”, aria di Gusmano, che predilige un cantabile in cui il legato e le prescrizioni espressive la fanno da padrone.
Aria dalla dolcezza ambigua, molto centrale, ma che porta la voce, con slancio verso l’acuto, prevede una serie di smorzamenti di suono, che solo un accento nobile ed una emissione omogenea possono tradurre in un fraseggio composto, e solo così noi ascoltatori riusciamo a percepire il pensiero di Gusmano, condottiero forgiato dalla battaglia, farsi dubbioso nei riguardi della bella inca.
Su un tempo Allegro, Alvaro attacca il recitativo successivo in cui incita il figlio ad insistere nei suoi propositi d’amore con la bellissima frase “Persisti e vincerai! Amor produce amor.”.
Gusmano esorta Ataliba a “piegare” la figlia al suo amor ed alla ragion di pace; il capo inca, sempre troppo accondiscendente, accetta e parte permettendo al baritono di avviare la cabaletta “Quanto un mortal può chiedere” più convenzionale nella scrittura, meno elaborata e bandistica nella struttura, che il direttore taglia nella ripresa con l’accompagnamento del coro e di Alvaro, ma che MacNeil conclude con una elettrizzante, ma anche poco smagliante puntatura.

La seconda scena del I atto introduce il personaggio di Alzira, chiusa negli appartamenti destinati al padre Ataliba nel palazzo del Governatore.
Un Andante in pianissimo, molto suggestivo e di grande respiro ci permette di entrare in queste stanze illuminate da una luce notturna .
La vibrazione leggerissima degli archi accompagna il recitativo tra Zuma ed il coro femminile, veglianti sul sonno angoscioso di Alzira, che si scuote chiamando l’amato Zamoro.
Gli archi con le loro scale ascendenti e discendenti creano un soffice tappeto, dove la voce del soprano può modularsi sulle brevi e amare parole a lei destinate in cui ella ha la tragica consapevolezza di aver vissuto solo un sogno.
Il breve recitativo che segue, ricorda dappresso il dialogo tra Leonora ed Ines o tra Lucia e Alisa in cui una rimembranza, un sogno o una visione sono parte integrante dell’aria e la fedele amica cerca di distogliere le ragioni del cuore della protagonista da un amore infausto e pericoloso.
“Da Gusman su fragil barca” prevede un accompagnamento Andante con moto in cui l’orchestra solleva dei silenziosi turbini, che ben mimano la tempesta che sconvolge il sogno di Alzira.
L’idea più moderna di Verdi è quella di portare il canto ad essere più colloquiale ed evocativo possibile, prescrivendo il parlato ed il declamato, resi però espressivi da una forcella che aumenta la tensione sonora e culmina in un Si naturale attraverso un vocalizzo, traduzione vocale ed emotiva della tempesta e del pericolo incombente, infine, portando la voce verso un Sol centrale sulle parole “…ma terribil surse il vento e sconvolse cielo e mar”.
Nella seconda parte la voce gravita nella zona centrale e l’effetto di minaccia è voluto dalle prescrizioni Stringendo e Crescendo, prima di una forcella che affievolisce il suono fino ad un piano.
Due pp ed un cantabile più disteso con l’orchestra, che sottolinea l’accento sulle parole “Quando in sen d’un ombra errante”, in cui le forcelle rendono più radiosa la voce e la massa orchestrale alterna fortissimi pieni di speranza a piani soffusi ed estatici, perché è il momento a richiederlo, e, dopo la prescrizione a diminuire dolcemente, la partitura richiede una serie di brevi, ma gustose colorature sulle parole “L’universo in quell’istante, mi sembrò d’amor vestito” e nella seguente e logica ripetizione con le variazioni.
Successivamente Zuma ed il coro si affannano a distogliere l’innamorata Alzira dal pensiero di Zamoro, ma ella reagisce con un bellissimo vocalizzo tutto legato che dal Sol sale al Si naturale per poi inabissarsi al Re sotto il rigo.
“Nell’astro che più fulgido”, su un tempo Allegro e danzante, che ricorda molto l’aria d’ingresso della Luisa Miller, è una cabaletta che richiede agilità e duttilità, perché a livello tecnico prevede perfetta padronanza dei trilli, presenti quasi ogni cinque battute, e agilità nell’affrontare i mordenti e scalare i vocalizzi.
La scrittura insiste sul passaggio superiore, sfiorando il Do acuto nel vocalizzo ascendente, e vede momenti in piano velocemente mutarsi in forte per concludersi con una scalata al Si naturale che scende ad un comodo Sol assieme al coro!
Difficoltà queste che la Zeani affronta con cautela, perché se nei trilli non ha problemi, a causa della velocità del brano, rischia di scivolare sugli acuti, che a volte risultano fissi; cosa che non accadeva nell’aria precedente, più soave nella scrittura, in cui la sensuale cremosità della voce e la robustezza del canto potevano brillare con maggior forza.
Entra Ataliba, vuole convincere la figlia a congiungersi a Gusmano, ma lei, nel pieno dell’angoscia, rifiuta decisa, perché ancora ama Zamoro.
Ataliba esce, non prima di avvertire la figlia che la costringerà alle nozze pur di salvare il popolo.
Zuma, rientrando, avverte Alzira della presenza di un inca che le chiede udienza, e grande è lo stupore della donna, espresso da un Allegro assai vivo quando di fronte si trova l’amato Zamoro che credeva morto.
Inizia un duetto i cui è tangibile la confusione mista alla felicità dei due amanti.
Le voci si fondono giocando sul registro centro acuto e sul passaggio, esclamano la bellissima frase: ”Io non resisto…io moro di piacer” da dirsi con slancio che si ripresenta nel duetto stringendo con egual trasporto.
Alle parole di Zamoro “E m’ami sempre?” il tempo si fa più lento ed il volume più sottile e cullante.
In fondo, è la domanda, vagamente retorica, di un innamorato che cerca una conferma dal proprio oggetto del desiderio, a cui la Zeani risponde con una messa di voce non scritta che si trasforma in pianissimo su “Eterna fé”. Questa è sensualità autentica!
Su un Allegro brillante le due voci intonano sottovoce, “Risorge ne’ tuoi numi…” in cui le prescrizioni di pianissimi e fortissimi e la presenza di messe di voce, rende il brano sicuramente interessante dal punto di vista vocale, ma poco aggiunge dal punto di vista strettamente teatrale.
Entrano Gusmano, Ataliba e gli spagnoli: forte è la loro indignazione alla vista di vedendo Alzira tra le braccia di Zamoro!
Nel recitativo che segue, Gusmano, sfruttando le risorse del registro centro-acuto, ordina che Zamoro venga tratto al ceppo, ma Ataliba e Alzira cercano disperatamente di dissuaderlo.
Zamoro scaglia allora la bella invettiva di forza “Te cosperai combattere” in cui l’inca accusa il Governatore di non essere un guerriero, ma solo un carnefice; la linea di canto è abbastanza aspra per il tenore, che su un Allegro moderato deve scolpire un accento virile tutta incentrata osticamente sul passaggio, e culminante con un La naturale non proprio comodo, ma che Cecchele onora egregiamente.
Alvaro si intromette e riconosce in Zamoro il suo salvatore e prega il figlio di risparmiarlo, arrivando addirittura a inginocchiarsi pur di rendergli la vita, dando inizio ad uno dei momenti più alti della partitura: il concertato “Nella polve genuflesso”, che parte come un duetto tra Baritono e Basso e prosegue con un geniale inserimento vocale di tutti gli altri componenti compreso il coro.
Il tono è solenne e patetico, l’orchestra si muove sotterranea e sottovoce, pizzicando le note mentre i fiati sorreggono le voci in un cantabile centrale, largo, che si innerva verso l’acuto, in un continuo crescendo di piani e fortissimi di effetto commovente e grande tensione emotiva che la Zeani corona con un efficace, anche se lievemente opaco, Re acuto non scritto.
Entra precipitosamente Ovando avvisando che gli inca hanno attraversato minacciosi il Rima per riprendersi Zamoro.
Gusmano grazia quest’ultimo, invitandolo a scontrarsi sul terreno di battaglia e, mentre sorregge suo padr,e avvia la conclusione dell’atto con “Trema, trema…a ritorti fra l’armi”, brano strutturato inizialmente come un terzetto, per poi trasformarsi in concertato, in cui l’orchestra possiede una scrittura più complessa e per certi versi aspra, costringendo le voci a giocare maggiormente sul volume nei continui vocalizzi, ma sempre adattandosi con morbidezza e duttilità.
Il legato ha, dunque, un ruolo chiave nella riuscita del pezzo.

Il secondo atto è ambientato all’interno delle fortificazioni di Lima.
Un Allegro Vivace accompagna il lieto brindisi dei soldati… e musicalmente sarà anche simpatico da ascoltare, ma è brano poco ispirato nel suo essere una orecchiabile “marcetta”; allo stesso modo risulta leggermente bandistico, ma parecchio debole, il tema che accompagna Zamoro ed i prigionieri in ceppi nonostante la pretesa di pateticità ed il voluto e ricercato contrasto con il coro.
Nel recitativo che segue, apprendiamo da Gusmano e Ovando la sorte prevista per i prigionieri: una sentenza di morte a cui manca solo la firma del Governatore.
Alzira, prigioniera anch’essa, prorompe minacciando di togliersi la vita se quella di Zamoro non verrà risparmiata!
L’orchesta, in fortissimo, introduce il duetto tra i due in cui Gusmano propone ad Alzira la sua destra in cambio della vita dell’amato.
Alzira piange, si getta ai suoi piedi sulle parole “Il pianto…l’angoscia…”, tempo Andante agitato e mosso, in cui la voce deve farsi soffocata e rotta dal pianto, imbevuta di commozione e cupezza, ma l’accento deve essere sempre presente, il legato deve saldare le note centrali con quelle gravi, le forcelle in questo caso portano la voce naturalmente ad aumentare l’intensità del volume come in “Io spiro crudele”, che insiste nel centro concludendosi con un rallentando madreperlaceo.
Gusmano risponde con “Quel duolo, quel pianto”, in cui il legato deve rendere omogenea la voce e la linea di canto, che MacNeil svolge su una mezza voce sinuosa e quasi in piano, onorando i mordenti ed i brevi vocalizzi, opacizzandosi solo talvolta nel passaggio, ma accentando con sottigliezza “Zamoro fia spento da te” declamato sottovoce.
“Se d’esser, m’astringi”, risponde Alzira, su un tempo Animato, le due voci si rincorrono ferme nella loro decisione, gli archi vibrano con un suono morbidissimo, mentre la Zeani scava dolorosamente nelle parole, come “Spergiura infedele”, legando il vocalizzo e culminando in un luminosissimo Si bemolle, per poi scendere facilmente al Do sotto il rigo di “Piè”, mantenendo omogeneo il timbro.
Gusmano firma la condanna, Alzira cadendo su una sedia affranta accetta di sposare il Governatore.
Verdi perfidamente svolge l’Allegro che segue al recitativo tra Gusmano e Ovando, con un tono sadicamente beffardo, testimonianza della vile gioia del Governatore, il quale prorompe con “Colma di gioia ho l’anima!” su un Allegro con brio, in cui le note staccate da brevi pause indicano la felicità dell’uomo, un po’ come avverrà per Gilda nel “Caro nome”, ma con effetto diverso.
Messe di voce e legato anche qui devono essere padroneggiati con duttilità, mentre l’accento deve esprimere il trionfo nonostante MacNeil si più parco di chiaroscuri, ma ugualmente efficace umanizzando il personaggio e facendo prevalere le ragioni del cuore e meno quello del tiranno.
Nella scena seguente ci troviamo all’interno di un’orrida grotta.
Il contrasto con l’inizio del II atto è nettissimo: qui abbiamo guerrieri peruviani stremati e decimati, accompagnati da un Largo legato, prima sottovoce e poi sempre più disperato in crescendo.
Otumbo, nel recitativo successivo, spiega al coro di aver corrotto le guardie spagnole con lo stesso oro che tanta sofferenza ha causato, pur di liberare Zamoro.
La stessa marcia iniziale accompagna l’ingresso dell’uomo, ma stavolta variata dall’uso del clarinetto.
“Miserandi avanzi di caduta grandezza” ci porta all’aria di Zamoro “Irne lungi ancor dovrei” con il suo tempo Andante sostenuto.
Aria, invero, molto noiosa e banale nella suo patetismo tutta giocata sulle forcelle e su una commozione che tronca le parole, la cui tessitura acuta rende ruvida la voce di Cecchele, a cui va dato l’onore delle armi per lo sforzo profuso nel rendere credibile un punto morto.
Otumbo, nell’Allegro successivo, rivela a Zamoro del matrimonio pattuito tra Alzira e Gusmano.
Zamoro si strugge e parte con l’aria di furore, un Allegro maestoso, “Non di codarde lagrime” che ad un ascoltatore attento ricorderà una versione in embrione di “O mio rimorso infamia” della Traviata.
La voce deve essere spiegata con impeto, il centro deve suonare con accento perentorio e le forcelle indicano invece uno smorzamento leggero del volume.
Cecchele travolge tutto con impeto encomiabile, arriva al La coronato con voce timbrata e salda, l’orchestra lo sostiene perfettamente mentre imita, con i fiati, la tempesta scatenata dalla sua ira alle frasi “Se il ciel non ha più fulmini” e nella stretta la voce sovrasta il coro laddove la tessitura si solleva.
Ultima scena.
Vasta sala nel palazzo del Governatore decorata a festa e ingombro di milizie spagnole, duci e ancelle.
Una orchestrina interna, la cui melodia procederà in orchestra su un tempo Brillantissimo e festante, accompagna il gioioso canto delle ancelle.
Gusmano presenta agli invitati la bella sposa mesta e infelice.
L’Andante mosso quasi allegretto, porta l’aria “E’ dolce la tromba” un’aria in cui il cantabile legato deve sempre essere in crescendo con entusiasmo mentre l’orchestra pizzica le note con dolcezza. Gusmano offre la sua mano ad Alzira per portarla all’altare, ma immediatamente, piomba con ferocia Zamoro alla frase “La mano è questa che a te, si deve.” tutta compresa tra il Re ed il La naturale, colpendo a morte, con un pugnale, Gusmano.
Gli armati lo circondano, tutti sono compressi d’orrore.
Zamoro insulta Alzira, accusandola di averlo tradito, e, un’ultima volta, il rivale.
Il tempo muta in un Andante più lento, un canto prosciugato ed espressivo oltre che ovunque saldo deve accompagnare “I numi tuoi, vendetta” aria estrema di Gusmano e difficile nelle continue esigenze di smorzare il suono fino ad un sussurro su un tappeto sonoro di archi, in cui al tiranno si sostituisce l’uomo cristiano che tutto perdona.
Ad accompagnare la morte di Gusmano, il coro di tutti i personaggi, che ha le stesse esigenze espressive quanto a pianissimi e messe di voce.
Il finale è tutto un crescendo alle parole di benedizione di Gusmano che augura alla coppia di vivere insieme mentre tutto intorno è commozione.
E su un finale in forte ed un po’ frettoloso si conclude il dramma…tra gli applausi festosi del pubblico.



Gli ascolti

Verdi - Alzira


Ouverture - Franco Capuana (1967)

Prologo

Un Inca...eccesso orribile!...Col genitor la misera...Nume dell'armi, i tuoi furori - Gianfranco Cecchele (con Sergio Tedeschi - 1967)

Atto I

Eterna la memoria...Al suo martir concedere...Quanto un mortal può chiedere - Cornell MacNeil (con Carlo Cava & Mario Rinaudo - 1967)

Riposa. Tutte, in suo dolor vegliante...Da Gusman, su fragil barca...Alta pietade ogn'anima...Nell'astro che più fulgido - Virginia Zeani (con Bianca Bertolucci - 1967)

Atto II

Il pianto...l'angoscia...Ei mora!...Colma di gioja ho l'anima - Virginia Zeani & Cornell MacNeil (con Saverio Porzano - 1967)

Tergi del pianto America...E' dolce la tromba che suona vittoria...I numi tuoi, vendetta atroce - Cornell MacNeil, Virginia Zeani & Gianfranco Cecchele (1967)

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lunedì 22 febbraio 2010

Idomeneo a Bologna: una serata... surreale!

In un Comunale più deserto del solito, malgrado il clamore della stampa (rigorosamente locale) e le svendite al box office, e vieppiù svuotatosi dopo il secondo intervallo, si è consumata ieri sera la prima dell’Idomeneo. Il termine può apparire forte, ma quello cui abbiamo assistito è un autentico scempio, a più livelli, della partitura, oltre che una delle serate più assurde e insensate degli ultimi tempi, che pure di simili serate non sono stati parchi.

Sul podio Michele Mariotti, ormai ufficialmente alla guida della compagine bolognese, ha diretto in modo greve e metronomico un’orchestra che, a dispetto dell’assetto cameristico, ha dimostrato ben poca grazia e ancor minore precisione di attacchi e coesione. L’ouverture scorre via arruffata e dimessa, senza creare il clima tragico e burrascoso che è proprio di questa musica, e lo stesso dicasi dell’accompagnamento alle arie, in cui il direttore stacca tempi piuttosto frettolosi, anche per venire incontro a voci che, senza eccezioni, appaiono inadeguate a quanto richiesto dai rispettivi ruoli. I momenti peggiori sono quelli che coinvolgono il coro, spesso sfasato rispetto all’orchestra (coro del naufragio, finale secondo) e in più punti (segnatamente all’attacco di O voto tremendo) decisamente stonato in buona parte dei suoi componenti. Anche nei momenti di maggiore tensione drammatica (apparizione del mostro, quartetto, quadro conclusivo) c’è approssimazione, fretta e sciatteria musicale, e manca il clima solenne e grandioso che è proprio dell’opera seria settecentesca, sia pure in ambito riformato. Un velo pietoso sull’intervento degli ottoni, semplicemente da opera comica, che prepara l’epifania del Nume. Resta poi da capire per quale motivo, dell’Intermezzo che conclude il primo atto, venga eseguita una versione maldestramente tagliata, che fa sembrare Gianandrea Gavazzeni un paladino dell’integralità. Non sarebbe stato meglio cassarlo del tutto? Analoghi tagli, ugualmente discutibili, nell’ultima scena dell’opera, in cui oltre alle arie di Idomeneo ed Idamante è venuta a cadere la Marcia che precede la scena del sacrificio e una buona fetta del recitativo accompagnato che precede l’entrata di Ilia.
Lo spettacolo di Davide Livermore s’intona perfettamente al clima musicale. L’apparente bizzarria dell’ambientazione (un acquario) si scioglie fin dalle prime scene nella solita esibizione di video arty, cappottini, tute da ginnastica, impermeabili trasparenti, una tenuta da figlia dei fiori per Ilia e una mise da Signora in rosso per Elettra, che nel secondo atto sfoggia un boa di piume di struzzo che fa pensare ai Legnanesi. Non lamentiamo, come vorrebbero i nostri critici, l’assenza delle colonne neoclassiche né quella del mostro, ma l’apparente innovazione che è in realtà solo l’alibi, la pietosa foglia di fico che dovrebbe servire a non farci vedere i gesti stereotipati (puro Pier’Alli) del coro e dei solisti (la mano sul cuore), i personaggi schierati al proscenio in occasione di un assieme (Andrò ramingo e solo), le sottolineature didascaliche (Elettra che esalta le virtù della mano – metaforica – d’Amore mentre stringe quella del riluttante Idamante), insomma tutta la tradizione più trita e deteriore, che si traveste da modernità come alcuni si travestono in occasione del Carnevale, senza crederci più di tanto e senza sforzarsi di occultare la propria identità. Un simile teatro di non-regia, se evita gli orrori più estremi di marca germanofila, non rende comunque un buon servizio alla musica né alle casse del teatro, che da una versione in forma di concerto (specie per un’opera come Idomeneo) avrebbero tratto sicuro vantaggio.
Poi ci sarebbero i cantanti. Sempre se l’argomento può contare ancora qualcosa per chi concepisce e organizza spettacoli facendo della scelta degli interpreti l’ultimo dei problemi. Come è ormai consuetudine per il teatro bolognese, quasi tutti i cantanti, a eccezione di Idomeneo ed Elettra, provengono dai ranghi dell’accademia del Comunale o dal coro del medesimo. La scelta di affidare a cantanti alle prime armi e ad altri più esperti, ma al debutto nel ruolo, uno dei vertici della produzione mozartiana è piuttosto eloquente circa la lungimiranza dei responsabili della programmazione artistica.
Giuseppina Bridelli, Idamante, ha sfoggiato fin dal recitativo d’entrata una voce chioccia e assai sgraziata, gonfia, ma non ampia, nei centri e di conseguenza in difficoltà nel salire e soprattutto nello scendere. L’esecuzione della prima aria è stata scolastica, oltre che costellata da numerose riprese di fiato (un tratto che accomuna la giovane cantante a tutti gli altri solisti della serata). Temiamo che la Bridelli canti da mezzosoprano perché incapace di eseguire correttamente il passaggio di registro, come del resto quella che verosimilmente è la sua cantante di riferimento per emissione e condotta scenica, vale a dire Monica Bacelli. Un paio di fischi dopo la prima aria, successo alla fine dell’opera.
Un poco meglio Barbara Bargnesi, gradevole voce di soprano leggero corto (un controsenso per la vocalità dell’opera seria, ma sorvoliamo) in difetto di appoggio, e quindi costretta ad accennare continuamente, dato che il canto a piena voce (vedi i passaggi più tesi in recitativo) fa sì che i suoni oscillino udibilmente. Ha cantato passabilmente la prima aria, esibendo inoltre intenzioni corrette e musicalmente più quadrate rispetto alla media della serata. Nell’assolo del secondo atto ha steccato la seconda salita al si bemolle, evidenziando una problematica gestione del legato. La stanchezza si è fatta sentire ancora di più nell’ultima aria, con una resa faticosa e talora calante delle quartine vocalizzate in zona centrale. Complessivamente, e con l’attenuante della giovane età, la prova della Bargnesi è stata la più plausibile della serata e non meraviglia che il pubblico le abbia risparmiato, sola fra le prime parti, persino la minima riprovazione.
Riprovazioni che sono invece piovute a raffica, malgrado l’impegno della claque, sull’Elettra di Angeles Blancas Gulín, che con un passato (non proprio illustre) da Ilia alle spalle debutta la parte della principessa argiva. Davvero mancano le parole per descrivere quella che è stata di certo la prova peggiore della serata. La voce è stridula, spoggiata come quella dei peggiori falsettisti, in fascia grave semplicemente non c’è e in acuto le urla, le stonature, i suoni fissi, i berci puri e semplici non si contano. A ciò si aggiunga un portamento e una condotta scenica che fanno di Elettra una sorta di anziana mondana in disarmo e incauta tabagista. Il momento di massimo orrore è stato, un po’ a sorpresa, l’assolo del secondo atto, cantato con vocina flautata e in perenne debito d’ossigeno (immaginarsi la sensualità e la lepidezza del momento: puro avanspettacolo), ma anche l’aria finale, condita da risate, farfugliamenti e altre caccole paraveriste (senza la “polpa vocale” dei miti del verismo, ma anche di una Franca Somigli o di una Celestina Casapietra), non ha smentito le attese. Che la signora dimentichi una battuta nel recitativo che precede l’intervento dell’Oracolo, importa, a questo punto, relativamente. Il taglio del D’Oreste d’Ajace (unica aria solistica sopravvissuta alle forbici nell’ultima scena dell’opera) si sarebbe configurato come autentico e commendevole esempio di carità cristiana.
Quanto a Francesco Meli, il cui debutto nel ruolo del titolo costituiva il principale motivo d’interesse della produzione, ha cantato come al solito, gonfiando all’inverosimile i centri alla ricerca di una sonorità in fascia medio-bassa che fa difetto alla sua bella quanto brada voce di tenore lirico (da Amico Fritz e Manon di Massenet) e strozzandosi regolarmente sul passaggio (basti sentire nel recitativo d’entrata la frase “qui solo respirar”). I tentativi (abbondanti e appropriati, sia detto a suo merito) di accentare, di smorzare, di colorare la frase musicale si risolvono in suoni stimbrati e quindi opachi e privi di risonanza. La nobiltà, l’alterigia e la disperazione del re di Creta, che dovrebbero emergere nella grandiosa aria Fuor del mar (proposta, con notevole sprezzo del ridicolo, nella versione ornamentata), sono state soppiantate da un’esecuzione aspirata e approssimativa della coloratura, con frequenti sbandamenti rispetto all’orchestra (e senza che il direttore facesse nulla per recuperare la coesione dell’insieme) e una serie di varianti nel da capo, musicalmente discutibili, ma con l’indubbio vantaggio di riportare la voce in fascia più acuta, senza peraltro che l’escamotage si traducesse in una maggiore facilità e fluidità esecutiva. Dopo l’invettiva del finale secondo, di sapore popolaresco, il terzo atto è stato gestito quasi completamente con piani e pianissimi in difetto d’appoggio e quindi ai confini, e spesso oltre i confini, del falsetto. Fortunatamente è stata evitata l’aria conclusiva. Trionfo per lui, con qualche ironico commento dopo Fuor del mar.
Fra i comprimari si distinguono Enea Scala, una bella voce (già udita nel Viaggio a Reims pesarese dello scorso anno) per la quale il passaggio di registro rimane un mistero insondato (tagliata la prima aria, purtroppo presente la seconda), e Paolo Cauteruccio, che nell’assolo del Gran Sacerdote all’interno del coro O voto tremendo riesce a farci rimpiangere la routine non elettrizzante ma altamente affidabile di un Mirto Picchi o la sicura professionalità di un Ernesto Gavazzi.
Infine una domanda alla direzione artistica: ma un bel Matrimonio segreto???



Gli ascolti

Mozart - Idomeneo


Ouverture - Fritz Busch (1951)

Atto I

Quando avran fine omai...Padre, germani, addio - Sena Jurinac (1951)

Estinto è Idomeneo?...Tutte nel cor vi sento - Gertrude Grob-Prandl (1950)

Atto II

Ch'io mi scordi di te?...Non temer, amato bene K 505 - Teresa Berganza (1981)

Se il padre perdei - Eleanor Steber (1955)

Fuor del mar - Hermann Jadlowker (1917)

Chi mai del mio provò...Idol mio, se ritroso - Leyla Gencer (1968)

Placido è il mar, andiamo...Soavi Zeffiri - Birgit Nilsson, dir. Fritz Busch (1951)

Atto III

Andrò ramingo e solo - Esthér Réthy, Else Böttcher, Anny Konetzni & Jakob Sabel, dir. Richard Strauss (1941)

O voto tremendo! - Ezio di Cesare, dir. Riccardo Muti (1990)

Oh smania, oh Furie, oh disperata Elettra!...D'Oreste, d'Ajace - Joan Sutherland (1979)

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venerdì 19 febbraio 2010

Intervista alla Señora

Ebbene signori ci è capitato anche questo nella nostra carriera di passatisti.
Andare a chiacchierare con la Señora Caballé e farlo in maniera assolutamente informale, perchè di primedonne, che sanno prendersi in giro quando sanno di essere nella tana del lupo, ce ne sono proprio poche e la Señora (come è sempre stata chiamata dal pubblico complice anche la complessione) in questo è veramente assoluta.

GG Signora Caballé, le è noto che spesso noi del Corriere della Grisi diciamo male di lei?

MC Altrimenti sareste il Corriere de la Montserrat.

GG Esiste già?

MC Dovrei chiederlo io a Voi visto che spesso ospitate le romanze di un mio fervido ammiratore italiano.

GG Trattiamo male anche lui.

MC Un po’ ciascuno e poi lui soffre per me, in italiano non se dice el capro espiatorio.

GG Lei parla tantissime lingue; le ha studiate o imparate, diciamo sul campo?

MC Mi hanno fatto studiate il castigliano e sapete cosa voglio dire; le altre le ha imparate sul campo, anzi sugli spartiti.

GG Allora ha imparato gli spartiti!!!

MC Ride

GG Lo sa che è un’intervista “cattiva”?

MC L’ho accettata per questo, altrimenti l'avrei già pronta: solite domande, solite risposte, potrei distribuirle come le fotografie!!!! Ride ancora

GG Ma qualche parte l’ha studiata?

MC Sì, tante le ho studiate a fondo: Norma, per esempio, ed Elisabetta de Valois.

GG Ha cantato parti che non erano adatte ai suoi mezzi?

MC Basta leggere il vostro Corriere.

GG Ma lei l’ha letto bene?

MC Como lo spartito de Anna Bolena. comincia a ridere. La Señora provoca………

GG Le cantanti più ammirate?

MC Se fossimo a casa mia in Barcellona le basterebbe guardare le quattro foto che tengo sul piano forte: Maria Callas, Renata Tebaldi, Joan Sutherland e Birgit Nilsson.

GG La Nilsson?

MC Agli inizi di carriera cantavo soprattutto in paesi di lingua tedesca e la Nilsson era allora la cantante in ascesa perfetta per Wagner.

GG Oggi le cantanti devono avere il fisico di una pin up: che ne pensa?

MC In giro per il mondo ci sono tantissimi cibi meravigliosi e per ammirare una bella donna tante passerelle, non il palcoscenico della Scala o del Met.

GG Ha cantato non so quante opere; qualcuna che non avrebbe voluto cantare, qualcuna che non è riuscita a cantare?

MC Che non avrei voluto e dovuto Medea di Cherubini. Che avrei voluto cantare Beatrice di Tenda e Giovanna d’Arco. Mi piaceva tantissimo la Giulietta sia di Gounod che di Bellini, ma sa correvo il rischio di cadere dal …insomma il letto dove si stendono i morti, come si chiama in italiano?

GG Catafalco.

MC Sì catafalco, devono anche avermelo gridato una volta!!!!! E giù a ridere

GG Che pensa dei fischi, signora?

MC Spesso sono meritati. Oggi si fischia poco.

GG Farebbero bene i fischi ai divi di oggi?

MC Non saprebbero apprezzarli, scapperebbero dal palcoscenico. Io almeno non facevo le cose a metà: o non cominciavo, lo so che mi chiamavano la Forfaié, oppure le finivo.

GG La Bolena...

MC Lo so, ma stavo veramente male.

GG Anche il pubblico!

MC Mal comune mezzo gaudio.

GG Ha qualche ascolto preferito?

MC Basta che non siano opera che hanno cantato la Callas, la Sutherland e l'Olivero, se no è troppo facile parlare male di me!!!!!


Gli ascolti

Montserrat Caballé

Massenet - Manon


Atto II

Allons! Il le faut!...Adieu, notre petite table (1967)

Puccini - La Bohème

Atto I

Sì. Mi chiamano Mimì (1967)

Montsalvatge

Punto de habanera (1967)

Granados

Llorad corazón (1967)

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mercoledì 17 febbraio 2010

Clemenza di Tito a Napoli: un sabato alla radio.

Clemenza di Tito o Demenza di T….?
E’ la sintesi, per nulla amletica, della recensione, che, a causa dalla rassegna stampa perfidamente speditami da Tamburini, mi vedo costretta a scrivere, sebbene in ritardo: non si può più lasciar passare il continuo scempio vocale che di Mozart si fa al giorno d’oggi.
Una volta, parecchi anni fa, commentando con una grandissima artista la deriva che il canto mozartiano stava subendo in quel di Salzburg et aliis locis affinibus, mi venne da sbottare: “Ci vorrebbe la censura per Mozart!!”, e mi sentii rispondere “Allora non lo sentiremo proprio più !”.
In effetti è stato così, Mozart non lo abbiamo più sentito, ma non a causa della censura, bensì per assenza di artisti adeguati nel giro di vent’anni è diventato impossibile andare a teatro e non sentirsi intasare le orecchie da strilli, rantoli, sospiretti, gemiti assortiti, gorgoglii et consimilia.
In una settimana prima la devastazione del Don Giovanni di Milano, poi, la sgangherata Clemenza radiofonica napoletana. Troppo per qualunque melomane udente, anche per quelli come noi, resistenti al fuoco del bercio. Le orecchie sono ustionate da simili serate alla radio!
Salviamo il San Carlo, perché è giusto, ma non per questo carbonizziamo Mozart !
La perfezione di Mozart è fragile, e se non sostenuta da altrettanta perfezione esecutiva, non ha luogo la magia del sublime, il suo teatro non prende vita, la sua poetica sbiadisce nell’inteatralità, nella maniera del suo secolo. Per questo ho sempre pensato.
Melomane orgogliosamente incolta e, quindi, poco incline a decantare sempre e comunque il genio di Salzburg anche quando fa ruotine, ritengo che Mozart si addica solo a bacchette di grande senso del teatro e fantasia interpretativa e a cantanti di prim’ordine, che cantino e fraseggino all’italiana ovvero dotati di perfetta emissione e voci omogenee dal basso in alto, egregi virtuosi ed interpreti capaci di incarnare con la voce le mille nuances e sfumature dei personaggi.
Siccome Mozart, salvo rari casi non presenta difficoltà insormontabili in mancanza dei fuoriclasse ci si trova catapultati nel regno dei pesci lessi, degli stoccafissi dalla voce bianca, aperta e morchiosa, delle agilità sgangherate, delle ranocchie da stagno, degli urletti e delle mossette, insomma, nella maniera più deteriore del nostro tempo. I principianti imposti in Mozart non possono reggere le terrificanti difficoltà di Rossini, del belcanto italiano o del Grand-Opéra.
E con questa muta addio sublime. Addio fantasia, addio canto ……addio.
Questo come pensiero generale sullo stato dell’arte del canto mozartiano oggi.
Vediamo ora il dettaglio della Clemenza napoletana.

Ha diretto, noiosamente, Jeffrey Tate, blasonata bacchetta che non è mai riuscita a convincermi ogni volta che mi è capitato di udirla in teatro. Una direzione pesante, priva di tocco e leggerezza, di quel senso della fantasia e della varietà che sono irrinunciabili per il genio di Mozart e il suo capolavoro (che personalmente preferisco anche alle più celebrate opere della trilogia, ma questa è solo una modestissima opinione.....). Gli è mancata la tensione drammatica in alcuni momenti chiave, come il terzetto o il finale primo, preoccupato piuttosto da quei momenti sospesi e magici ove l’azione si ferma ed il clima è rarefatto, come il coro “Ah grazie si rendano”, bellissimo, che precede la grande aria di Tito al secondo atto. Il canto aveva bisogno di essere sorretto, aiutato e governato, laddove gli interpreti mancavano, vuoi per mende tecniche vuoi per mende interpretative, il fraseggio precisato e messo a fuoco, perché Clemenza di Tito è straordinaria fusione di musica e drammaturgia, eccezionale ed analitica esposizione di stati d’animo vari e mutevoli. Il canto è continuamente ed incessantemente sulla parola. Ma accompagnamenti pesanti, con l’orchestra spessa ed talora anche incolore, a volte fiacca, hanno contribuito ad annoiare, facendoci dimenticare le passioni che agitano Sextus soggiogato dalla volitiva Vitellia ed il razionale governo del sentire di Tito.
Dove sono i bei momenti delle riprese mozartiane di un Peter Maag nei teatri di provincia italiana, tanto per non scomodare gli dei dell’Olimpo, quando leggerezza, fantasia, cambi di ritmo continui, ci assicuravano serate di straordinaria suggestione, di esperta saggezza, anche nell’uso sapiente della forbice (eseguire per intero i recitativi con cantanti che non li sanno più eseguire non è filologia o rigore, ma miopia e mancanza di buon senso del teatro), insomma..... serate di vera musica, senza tanti sofismi e accidenti?

Vitellia era Teresa Romano, vincitrice del Concorso Voci Verdiane ultimo scorso. Che posso aggiungere a quanto ho già dovuto rimarcare circa la sua vocalità in occasione del Viaggio a Reims scaligero? Attribuire un premio di voce verdiana ad un soprano incapace di cantare oltre la zona fa - sol, ossia il passaggio di registro superiore, è stato, da parte della giuria, come alzare la bandiera bianca di fronte all’avanzare del dilettantismo nel canto lirico. Per un soprano in queste condizioni non è possibile cantare nemmeno le comode “Tetre immagini” , nessuna parte degli anni di galera men che meno Balli, Trovatori, Forze o Otelli. Dunque eccola prestamente su Mozart, dopo la Fiordiligi dell'accademia milanese.
Abbiamo apprezzato la qualità timbrica nella zona centrale della voce, peculiarità già rilevata in quel di Milano quando era ancora studentessa accademica. Oltre però non si va, con l’aggravante che l’emissione, causa anche lo sforzo che la Romano deve operare per essere incisiva e drammatica nell’accento, è risultata talora sgraziata, talora acida e vetrosa, complessivamente piuttosto verista, come nella grande aria finale “Non più di fiori”. Le discese al registro grave, regolarmente di petto puro e magari anche con qualche pretesa di trillare le note con esiti davvero divertenti ( un trillo su una nota di petto mi pare follia pura !!!!! ), e le salite all’acuto, dure e spinte sino al grido puro hanno completato il quadro di una vocalità dissestata, che merita un serio ripensamento nei suoi fondamentali, data la indubbia qualità del mezzo naturale, che merita di non essere perduto in poco tempo. Non voglio infierire ulteriormente in un’analisi dettagliata della prestazione che sul piano vocale e stilistico ha lasciato davvero molto a desiderare e che ha avuto la sua apoteosi in negativo in una esecuzione spaventosa del terzetto del primo atto, con gli staccati tutti malamente cempennati e berciati, e svarioni palesi di solfeggio.
Tralascio poi l’immagine volgare di Vitellia che ne è derivata per forza di canto……Speriamo che la ragazza voglia sistemarsi, perché, ripeto, il mezzo è di vera qualità. Al momento le condizioni vocali e tecniche non sono tali da affermare neppure: SANTUZZA SUBITO!!!

Tito era un signore anziano per carriera, Gregory Kunde. E’ una vecchia volpe, sa come si bara quando la parte è troppo grande, ma il canto di Tito, l’ampiezza coniugata alla bassezza del canto spianato lo hanno piegato nella grande sala napoletana. Evidentemente stonato in varie occasioni, recitativi e cantabili, è parso anche afonoide a tratti, in tale difficoltà da non riuscire ad eseguire con precisione nemmeno la modesta coloratura scritta da Mozart, che per uno come lui, avvezzo al virtuosismo rossiniano, sarebbe robetta se solo…. fosse scritta un filo più in alto. Giusto il personaggio, giusto l’accento, come sempre per questo esperto tenore, ma il canto, almeno in radio, non girava affatto, tanto che le poche salite in alto gli sono venute davvero male. Kunde può provare a dimenticare la sua natura di contraltino nei vorticosi saliscendi fioriti dei baritenori di Rossini, dove peraltro l’usura del mezzo si sente sempre e comunque….per chi vuol sentire, ma non può essere bypassata allorquando il canto si fa spianato ed ampio, senza possibilità di riscritture o remake di sorta.

Sextus era una cosiddetta specialista, Monica Bacelli. Ne contesto il canto e questa volta anche il presunto stile. La tecnica è assai carente. Il centro della voce non è sfogato, si ha sempre la sensazione, che un tappo ostruisca l’emessione. Salendo non riesce a cantare a voce piena, ma sempre con suoni senza appoggio ed indietro, talora fissi, in certe occasioni pure con aria. I recitativi le muoiono addosso, senza accento, sempre con manierata dizione ed, ahimè, interpretazione. Sono contraria alla maniera deteriorata delle Murray fine carriera, ai Cherubini sospiranti e languorosi trapiantati sui Sextus, Cecilio etc, perché questi sono personaggi veri, variegati, ricchi di sfaccettature, per nulla infantili o istericamente efebi. Sextus non può mugolare o sussurrare con voce sbiancata “Rammenta chi t’adora” a Vitellia, ma lo deve cantare in modo accorato e partecipato, perché il suo è vero timore di perdere la donna che ama; non può non scandire il tragico recitativo, che chiude il primo atto, perché in quel momento ogni parola pronunciata dal personaggio ha il senso e la pregnanza di chi è profondamente scosso da veri e non simulati contrasti interiori per quanto ha commesso; canta con partecipazione e vera intensità le arie, diverse per accento perché diverse per significato; il canto sfumato e in piano deve essere intenso ed espressivo, non loffio e stereotipato; i recitativi sono da far vivere nel loro esatto significato, parola per parola, con varietà, e non buttati lì senza alcuna intenzione, diversamente si tagliano, come quello in compagnia di Vitellia e che precede la prima aria.
Questo non è demerito peculiare della signora Bacelli, ma, al contrario, rappresenta perfettamente ciò che è da tanto tempo è “lo stile” dei cosiddetti specialisti di Mozart. Specialisti di una tradizione che orami consta solo di difetti e stereotipi facili, lontana dalla sapienza delle specialiste, quelle vere come la Berganza, o dall’eccellenza istintiva dei belcantisti occasionalmente prestati a Mozart come le Dupuy, o dalla garbata routine delle Ziegler.
Niente di diverso da questo trend, ma tutto secondo misura dei personaggi, nell’Annio di F. Russo Ermolli ( male! ), nella Servilia di E.Monti e nel Publio di Vito Priante.

Una inclemente Noia di Tito, che ci ha costretto ancora una volta ad aprire i cassetti delle nostre memorie audio per verificare se certi nostri ricordi ed ascolti siano invenzioni della nostra mente o serate inesorabilmente passate.




Gli ascolti

Mozart - La Clemenza di Tito


Atto I

Deh! Se piacer mi vuoi - Carol Vaness (1988)

Vengo! Aspettate! - Virginia Gordoni, Giorgio Marelli & Alfredo Giacomotti (1966)

Oh dei! Che smania è questa!...Deh, conservate, o dei - Martine Dupuy, Mariana Nicolesco, Dano Raffanti, Susanna Anselmi, Adelina Scarabelli, Natale De Carolis (1988)

Atto II

Se al volto mai ti senti - Martine Dupuy, Mariana Nicolesco, Natale De Carolis (1988)

Deh per questo istante solo - Martine Dupuy (1988)

Se all'Impero, amici Dèi - Rockwell Blake (1992)

Ecco il punto, o Vitellia...Non più di fiori - Virginia Gordoni (1966), Christine Weidinger (1990)



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lunedì 15 febbraio 2010

Il barocco, il teatro e la regia.

Sfogliando le riviste specializzate, nel leggere certi resoconti degli spettacoli in giro per l’Italia o l’Europa, o le recensioni (ma sarebbe più corretto definirle “comunicazioni pubblicitarie”) dei più recenti prodotti audiovisivi (magari allegati alla stessa rivista), ci si imbatte sempre nelle stesse considerazioni, nelle stesse lamentele, negli stessi piagnistei livorosi: riguardanti il miserrimo stato in cui verserebbero le italiche sorti musicali rispetto alla novella età dell’oro che si vivrebbe nella “più civile Europa”. Le solite firme sono use definire il nostro come un paese di retroguardia culturale, ai margini del progresso e della civiltà musicale. La colpa? Naturalmente appartiene allo stuolo degli ottusi e facinorosi passatisti che, con sicumera reazionaria (e comportamenti incivili), impedirebbero ai pubblici nostrani di godere delle meraviglie baroccare, di osannare le rockstar di podio e ugola, di gustare le trovate dei registi più à la page! Naturalmente basterebbe andare qualche volta a teatro per rendersi conto di quanto non corrisponda al vero detto assunto: ma i maestri della critica acritica preferiscono dedicarsi ad isteriche invettive (ben retribuite, probabilmente) piuttosto che riflettere sull’effettiva validità di quello che ci vorrebbero imporre. Nuova occasione di querelle è la realizazione scenica.

Lo spunto per questa riflessione viene dalla segnalazione di un lettore in merito ad una frase contenuta nella presentazione del DVD di una Rodelinda filmata a Glyndebourne (e allegata ad una nota rivista del settore, i cui redattori si evidenziano, sempre, per un tono perennemente sprezzante e da invettiva a buon mercato) del seguente tenore: “A registi siffatti viene regolarmente indirizzata, da noi che in fatto di teatro lirico siamo all'avanguardia della retroguardia, la puntuale accusa di stravolgimento, bruttura, leso barocco. Si lede sempre qualcosa, per tali accusatrici anime belle: e mai che sospettino di essere loro quelli lesi e handicappati nella percezione di quanto sta accadendo nella viva realtà teatrale contemporanea, di prosa o lirica poco importa, giacché sempre più stanno, per fortuna, avvicinandosi.” Sorvolando sul consueto gusto (cattivo) per l'insulto, sullo sproloquio contenutistico e sulla maleducazione e inciviltà (quella davvero) dell'estensore di tali righe (che da sole basterebbero - anche in assenza di tante altre prove nel medesimo senso - a squalificare il critico: giusto Goebbels e altri suoi colleghi definivano handicappati e mentalmente lesi i suoi oppositori), esse testimoniano le dimensioni di un problema serio e la diffusione di un vero e proprio conformismo culturale. Il teatro barocco, infatti, soffre, più di altri generi ormai, di trattamenti particolari: dal canto, all’esecuzione, alla messinscena. Oggi si blatera tanto di renaissance dell’opera barocca, di una sua riscoperta, di schiere di nuovi appassionati, di adolescenti incantati dalla sua magia, che fanno code chilometriche per assistere agli spettacoli inscenati nelle nuove mecche del baroccò (il barocco baroccaro che tanto piace ai nostri critici e alle case discografiche). Eppure, gli stessi demiurghi di tale rinascita, sono i primi a non “credere” nella potenzialità teatrale dell’Opera Seria. Già, perché è evidente come siano essi i primi a stravolgerne la drammaturgia e a scardinarne gli equilibri musicali, in nome di una necessaria – a loro dire – opera di avvicinamento alle moderne sensibilità! Nell’Europa occidentale si è sviluppata, infatti, una vera e propria moda che ha fatto della dissacrazione il proprio unico orizzonte estetico: nell’intento, malcelato invero, di creare scandalo, si commette ogni sorta di delitto nei confronti dell’opera musicale affrontata. Ma mentre l’avanguardia post sessantottina si dedicava a Wagner e al ‘900 (utilizando i medesimi clichè: cappottoni DDR, straniamento brechtiano, passi dell’oca etc..), l’avanguardia di oggi (che usa gli stessi linguaggi – ormai obsoleti, ma vaglielo a spiegare – degli anni ’70) ha spostato la propria attenzione sull’opera settecentesca, da Handel a Mozart. Negli Stati Uniti (che non sono quel terzo mondo culturale che ci vorrebbero far credere i tanti critici militanti e militarizzati, passati dalle barricate di immaginarie rivoluzioni a borghesissimi posti di potere editoriale) hanno coniato un termine particolarmente azzeccato per questa paccottiglia: eurotrash! Inteso come fenomeno europeo, originario della cultura austro/tedesca (ma rapidamente diffusosi in Francia, paesi scandinavi e Italia), meramente provocatorio e modaiolo, mascherato da avanguardia: svastiche, dominazioni sessuali, sadismo, promiscuità assortite, malformazioni esibite etc. Il tutto senza curarsi affatto degli aspetti musicali, del senso della drammaturgia, del rapporto musica testo. Spesso chi contesta lo status quo viene accusato di essere fermo ai fondali dipinti, ai colonnati, alle pose plastiche, all’immobilità marmorea… Spesso si è derisi come ottusi. In realtà è un modo – semplice e poco originale – di aggirare il problema. Non è necessario, infatti, riproporre le scene di Sanquirico per aderire al senso del teatro barocco: basterebbe non trasformare la rappresentazione in occasione per esporre contorsioni mentali e personali frustrazioni del regista (che ormai, peraltro, non scandalizzano nessuno, semmai annoiano, dato che si ripetono uguali ad ogni spettacolo: solo i critici militanti scambiano le reazioni di un pubblico annoiato per attaccamento ad una tradizione superata, o spavento o scandalo). Non è necessario ritornare alla cartapesta. I migliori esempi vengono dagli USA. Si prenda il famoso Giulio Cesare di Peter Sellars, ambientato negli anni ’80 con un protagonista che può rassomigliare ad un qualsiasi capo di stato americano che si reca in medio oriente al termine di un’operazione militare: Sellars, pur nella trasposizione d’epoca (fatta però a regola d’arte, senza assurdità e forzature), coglie perfettamente gli aspetti pubblici ossia lo scontro tra due culture differenti (da Handel sottolineato fin dalla prima scena, attraverso il macabro “dono” della testa di Pompeo, pianto dal suo nemico/rivale, nello stupore incredulo ed offeso dell’egiziano che l’aveva recato), così come i conflitti privati, mantenendo intatti la gerarchia dei rapporti (Cleopatra non è una sguattera e Tolomeo non è un pederasta) e la statura morale dei singoli personaggi (lo stesso equilibrio lo manterrà nella sua versione della trilogia dapontiana). La drammaturgia handeliana non subisce alcuno scardinamento, alcuna forzatura: lo spettacolo scorre e convince in modo naturale, senza bisogno di trovate meramente scandalistiche. L’attualizzazione è solo una lettura, che però ripropone le medesime valenze dell’ambientazione originaria. Lo stesso vale per la sua versione di Theodora (anche se con minore originalità) o delle Nozze di Figaro/Don Giovanni/Così fan tutte, ideando per ciascun titolo un approccio estetico, sociale e ambientale differente: un loft di lusso in un superattico dove si svolgono le vicende di Figaro e Susanna (che restano servitori, così come il Conte rimane appartenente ad una classe sociale più elevata, ma più viziosa); un Bronx degradato dove si agita il Dissoluto Punito; un annoiato ristorante in Florida dove si svolge il gioco cinico e spietato di Despina e Don Alfonso. Il significato dei rapporti e il ritmo dapontiano, non perde nulla, e la storia raccontata (pur nella diversa ottica temporale) rimane sostanzialmente la stessa: rabbia, gelosia, vendetta, pentimento sono gli stessi rappresentati da Mozart. In Europa, diversamente, se ne infischiano degli equilibri musicali e drammatici: i registi si inventano una nuova vicenda e la montano sulla musica dell’opera (e a volte ne stravolgono i contenuti), infarciscono la scena di sesso, accoppiamenti, trivialità che fanno a pugni con la struttura originale. Gli esempi si sprecano: un Lohengrin ambientato in una scuola elementare (coi monelli in braghette corte che tirano le trecce alle compagne di classe: e considerando l'età media degli interpreti lo spettacolo diviene grottesco), il re che diventa il preside dell'istituto e la marcia nuziale che è una festicciola all’intervallo; un Don Carlo stile soap opera (con il ballo della peregrina trasformato in sogno erotico di Elisabetta, in versione massaia, che attende l’arrivo della cena recapitata da Posa’s Pizza, mentre il marito è stravaccato a guardare la tv); un Parsifal che trasforma la redenzione finale in un nauseante video che mostra l'intera sequenza di decomposizione di una carcassa d'animale; un Orlando ambientato (che originalità!) in un manicomio; un Idomeneo sulla cui scena, a rappresentare l'orrido mostro ucciso da Idamante, campeggiavano le teste sanguinanti e mozzate di Buddha, Gesù Cristo e Maometto (con l'effetto, nei primi due casi di accese proteste, da parte dei rappresentati locali e non, delle confessioni interessate, nel terzo, di esplicite minacce di attentati esplosivi ad opera di integralisti risentiti)... Qualcuno potrebbe contestare, suggerendo che si tratterebbe di meri spostamenti d'ambientazione, non differenti da quelli di Sellars ad esempio. E invece è tutto diverso: un conto è Cesare che da condottiero di Roma (l'Impero per antonomasia) diventa presidente della potenza che oggi, nell'immaginario collettivo, rappresenta l'idea più attule di impero; altra cosa trasformare Amina in sguattera di un sanatorio della belle-epoque. Nel primo caso la valenza drammatica della vicenda non cambia, e la musica chiamata a rappresentare quella determinata vicenda, con quelle determinate parole, non subisce stravolgimenti; nel secondo caso crolla tutto perchè non rimane nulla della correlazione tra caratteri, musica e dramma. Infatti non è un problema meramente estetico, ma ontologico: su ciò che si crede sia, o debba essere, l'opera lirica. Un prodotto aperto a qualsiasi stravolgimento in nome della provoazione oppure un qualcosa che non è fatto di sola musica (da abbinare ad immagini varie ed occasionali), ma anche dal significato di quella musica. Il teatro settecentesco (insieme alla Sacra Collina di Bayreuth ovvimente), oggi, è il luogo ove maggiormente si sbizzarriscono i deliri eurotrash dei nostri registi! E così ogni vicenda di tradimento diviene occasione per mostrare accoppiamenti da film porno casalingo oppure si sfruttano personaggi en travesti (in realtà ruoli per castrato) per imbastire improbabili storie lesbo, e quando si utilizzano controtenori li si agghinda come drag queen...lo stesso Carsen (considerato - a torto - un genio assoluto) dopo la sua famosa Alcina (effettivamente un bello spettacolo, ma risalente a più di 10 anni fa), si è limitato a copiare sè stesso, nel perpetuare il proprio orizzonte estetico (limitato ad un dramma borghese buono per tutte le occasioni) in un oramai stucchevole e stanco manierismo (si veda l'ultima Semele, con la rockstar Bartoli). E non c'è verso, in Europa, di assistere a spettacoli differenti: sempre uguali e sempre usi ai soliti trucchetti per far discutere (sesso, religione e droga). Lo stesso discorso vale pure per chi, invece, rinuncia ad una qualsiasi connotazione e affoga l'opera nel più vuoto simbolismo, oppure la ambienta in costosissime scene vuote o assenti, tagliate da luci colorate (spesso usate in modo maldestro), o chi, infine, riempie il palco di ingombranti parallelepipedi senza significato alcuno, ma aperti alle fantasiose elaborazioni di critici improvvisati esegeti, di commentatori snob o di spettatori radical chic. Col conforto dell'incondizionato plauso della stampa di settore, di una critica ormai sbandata tra il delirio senile e l'invettiva isterica, di direttori artistici e sovrintendenti che se ne fregano dei gusti del pubblico (e che, anzi, pretendono così di educare). E con lo sconforto di un pubblico che, a costo di mandar giù quella roba, finirà per farsela piacere. E poi gli invidiosi, i perennemente scontenti, quelli che lamentano il fatto che da noi queste cose non si vedono: perchè siamo tutti ignoranti, bifolchi e cattivi... Sarà, eppure continuo a non trovare essenziale per godere della modernità della musica di Mozart, dover assistere a Don Giovanni che dopo aver praticato una fellatio a Leporello, defeca in grembo a Donna Elvira... ma qui mi fermo, non vorrei dare qualche suggerimento al prossimo genio di turno...ce ne sono troppi a piede libero!

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sabato 13 febbraio 2010

L'angolo dei lettori: La Sonnambula all'Opéra di Parigi



Cari amici,
dopo la felice esperienza del Ballo parigino di qualche mese fa, il Corriere dedica nuovamente spazio alle recensioni dei lettori, nella fattispecie Tripsinogeno e Fantedipicche, che hanno assistito per noi alla Sonnambula allestita all'Opéra di Parigi con Natalie Dessay, Javier Camarena, Michele Pertusi e la direzione di Evelino Pidò. Ringraziandoli per la disponibilità e...lo sprezzo del pericolo!, cediamo loro la parola.


“No, più non reggo”. La Sonnambula all’Opéra Bastille

Non è poi così difficile. Deludi un’aspettativa, la riconfermi pochi istanti dopo e ottieni pure la benevolenza dei battimani. E’ andata più o meno così alla prima della Sonnambula, all’Opéra Bastille di Parigi, nuovo ecomostro sorto ad affiancare il “vecchio” Palais Garnier. Un signora dal tono sconsolato esce sul palco: “Natalie Dessay est souffrante…”. Il pubblico: “Ohhhh!!”. Fischi e buu. Ma la signora, subito sorridente: “Mais malgré sa pharyngite, elle a decidé d’assurer la représentation…”. Boato e visibilio generale. Nulla di nuovo. Dai divi alle prese con repertori al limite delle proprie potenzialità vocali (Flórez a Bologna nel quasi debutto dei Puritani) ad altri artisti “in carriera” (Albelo, nella stessa occasione, ma senza portare a casa la recita…), la tentazione al facile procacciamento di indulgenze a buon mercato ha stuzzicato anche la furba stratega Dessay. Dunque, eccola in scena.
Dico subito che le condizioni vocali della diva mi sono sembrate peggiorate rispetto alla sua Amina newyorkese dello scorso anno, con cui non si possono evitare raffronti considerata la regolare riproposizione, per l’opera in questione, sia del direttore che di buona parte del cast, quasi si trattasse della tournée di una vecchia compagnia di teatro itinerante. Fin dall’entrata in scena, con la discesa su “compagne” nel verso di sortita, il soprano francese non riesce a nascondere le pecche di un mezzo vocale sbrindellato, dall’emissione piena d’aria, in particolare nei registri grave e centrale, che la tessitura della parte sollecita non poco. Ne vengono fuori dei recitativi monotoni, sbracati, completamente privi di qualsivoglia connotazione espressiva. Allora la sensazione è quella di trovarsi davanti a un personaggio volgarizzato nella parte (rischio peraltro ben diffuso quando si gigioneggia con le partiture belliniane). Una rozza, esangue pastorella – declinata per l’occasione nella mesta inserviente di un sanatorio – forse più vicina all’entourage un po’ ordinario del basco Nemorino che alla sublime solennità delle Alpi svizzere. Nella cadenza proposta nel secondo “da capo” nella cabaletta «Sovra il sen» (la prima ripresa è quasi priva di variazioni) produce un acuto stimbrato su «la man mi posa» e un altro gridato su «che i suoi contenti». Addirittura imbarazzante, come ulteriore prova del logoramento vocale in stato avanzato, gli accenti esibiti, nel duetto in coda alla cavatina di Elvino, su «Ah non ne ha d’uopo il core» e, poco dopo, su «il tuo con me restò», in chiusa, all’unisono. Il discorso non cambia su «Ah vorrei trovar parole» e sui due versi successivi, ad accompagnamento alla cabaletta del tenore, strascicati davvero con poco gusto (inutile dire che anche qui aspettarsi un suono rotondo, proiettato ed espressivo sarebbe grottesco come chiamare un miracolo a Lourdes). Stessa solfa nel recitativo e nell’aria «Ah non credea mirarti», in cui se aggiungete al solito centro dissestato qualche nota spoggiata e un’intonazione non certo indiscutibile… tirate voi le conclusioni! La parabola discendente termina (se dio vuole…) con l’esecuzione penosa del rondò. Dimenticatevi suoni fluidi, pienezza di cavata e disinvoltura nelle agilità. Solo affanno in gola e sgomento in volto.
Ma forse non tutto è da buttare. Perché se la voce è logora dal passaggio superiore in giù, in alto riesce ancora a produrre suoni puliti e sicuri, e il legato rimane ancora uno dei (pochi) punti di forza della signora. Ricordo con piacere la salita, senza debito di eleganza e raffinatezza, nella ripetizione di «amor la colorò», ancora nella cavatina di Elvino «Prendi l’anel ti dono». Così come le puntature, la più parte eseguite con una certa sicurezza (esemplare la chiusa, all’unisono col tenore, del duetto dello «zeffiro»). Anche il fraseggio e la dizione sarebbero considerevoli se non fossero intaccati da quei suoni asmatici, che non solo penalizzano il coté vocale, ma anche la resa drammaturgica del personaggio. Va detto, per onor del vero, che la signora pare ben consapevole delle condizioni in cui versa il suo mezzo vocale, tant’è che, a detta della cantante, questa parigina sarà la sua penultima Sonnambula e che i battenti, con le Amine, verranno chiusi a Vienna il prossimo aprile, a riprova che forse le perplessità che il Corriere ha sollevato in questi ultimi mesi non sono (state) poi così infondate…
A conti fatti, Dessay disegna un’orfanella completamente refrattaria all’abbandono, al “patetico”, all’elegia che una buona Sonnambula dovrebbe sempre almeno prendere in considerazione. Saranno pure evidenze e condizioni essenziali promosse da poveri passatisti, ancora attaccati alla sottana della Tetrazzini, ma sono questi i pilastri su cui deve poggiare ogni incursione nelle partiture di Bellini. Altrimenti, come in questo caso, ne vien fuori un’interpretazione un po’ forzata, nervosa, che in alcuni passaggi tradisce sul viso dell’interprete una tensione psicologica preoccupante, di cui solo dio può determinarne le cause: esuberanza registica o disagio dell’artista?

L’Elvino di Javier Camarena, tenore leggero avvezzo a ruoli donizettiani e rossiniani per la maggiore, ha un’emissione piuttosto morbida e limpida, almeno fino al passaggio superiore, oltre cui il suono si indurisce e la gola prende il sopravvento. Si esibisce in una cavatina con piglio passionale e una certa eleganza che mi ha fatto ben sperare. Peccato che da lì in poi la voce ha salutato platea e gallerie e il possidente svizzero si è trasformato in lupo mangiafrutta. Un esempio su tutti, l’attacco «No, più non reggo», che inframmezza l’aria finale di Amina, pronunciato con una durezza (e non sono andato a teatro sperando di sentire un Valletti o un Kraus…) tale da rendere quasi precario, per lo spavento, l’equilibrio della sonnambula, costretta a barcollare, per “esigenze registiche”, su una tavola messa a soqquadro da una tempesta di neve.

Michele Pertusi, promosso dall’establishment discografico come Conto Rodolfo di riferimento, è stato forse la vera delusione della serata. Non ha nulla della morbidezza di emissione e d’accento che dovrebbe possedere un autentico personaggio aristocratico, quale tradizionalmente si confà alla tessitura di basso. Eppure l’avevo trovato piuttosto in forma nel Don Pasquale bolognese, al suo debutto nel personaggio donizettiano. Qui, invece, il do3 sulla O dei «luoghi ameni» viene “dal profondo” e non è a fuoco, così come il reb3 su «io vi trovai» e il do3 sulla E di «a qual tu sei», nella cabaletta «Tu non sai con quei begl’occhi». Non solo. Oltre alla prima ottava sempre vuota, si esibisce con spavalderia grossolana, per altro con un declamato davvero volgare. Quando va bene, perché per la maggiore ho sentito una sorta di prova di scena di uno spettacolo preso direttamente dal teatro di prosa, cui mi aspetto venga presto destinato. Con i migliori auguri…
Sulle orme di una direzione artistica convinta che Lisa sia personaggio di contorno, alla stregua di una comprimaria di poco conto e non della vera antagonista, mi limito a constatare in Marie-Adeline Henry una voce acidula, refrattaria all’appoggio e berciante in acuto tre volte su tre. Misteriosa, considerata l’acerbità delle condizioni vocali della signora, la scelta di eseguire anche la seconda aria («De’ lieti auguri»), nel secondo atto, per altro con “da capo” (chiedere a Pidò).
Stesso discorso, ma di minor peso e quindi gravità, per la Teresa di Cornelia Oncioiu, che sarebbe scivolata via senza gravi danni se non avesse rovinato in toto, con urla da altoparlante al museo delle torture, il quartetto al secondo atto.
Nahuel Di Pierro (Alessio) è un (pessimo) attore di prosa.

La direzione di Evelino Pidò ha invece la responsabilità di aver diretto la baraonda vocale staccando tempi quasi sempre slentati, soporiferi. Nessuna traccia di soavità, anni luce da un accompagnamento etereo, che diventa addirittura greve quando i corni sparacchiano indefessi sotto «Prendi l’anel ti dono». Inspiegabile, se non per risonanza mediatica intorno alla diva Dessay, la decisione del doppio “da capo” in coda alla cabaletta di sortita di Amina. Come inspiegabile, se non per snellimento legato a questioni “ritmiche” (e in questo caso la prosa sarebbe davvero dietro l’angolo) il taglio netto del coro in apertura al secondo atto che, detto tra noi, non è proprio un mal sentire. Come inspiegabile, infine, se non per vera, autentica mancanza di lucidità, la decisione di non sopprimere la seconda aria di Lisa.
Gradimento del pubblico in sala: applausi scroscianti per tutti, Dessay in primis, e un paio di sacrosante sbuazzate rivolte a Pidò, al regista Marco Arturo Marelli e alla costumista Dagmar Niefind.

Tripsinogeno

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Sogno o son desto?

Varrebbe la pena, prima o poi, di cominciare ad affiancare alle recensioni degli spettacoli operistici tout court, anche una “nota a margine” di costume, un’appendice testuale birichina, dove poter rendere conto del corollario di bestialità e farneticazioni che si sono udite prima, durante, e dopo la rappresentazione, da parte di quel variopinto sottobosco umano che si è mobilitato per gremire, vestito a festa, la sala del teatro. Avanzo questa idea, certamente provocatoria, perché credo che, oltre a dar vita ad un impietoso frasario tragicomico sui “plaudenti della domenica”, si potrebbe, forse, avere un’ulteriore chiave interpretativa circa l’esito della serata. E forse adesso, a distanza di qualche giorno, sarei in grado di capacitarmi del trionfale esito con cui è stata salutata la première di La sonnambula (cui ho assistito).
Una première che ha rappresentato sicuramente, per me spettatore, un punto di non ritorno. Lo dirò francamente: non avrei mai immaginato di assistere ad uno scempio vocale e musicale di siffatta portata. Ma tanto più il mio sbigottimento è cresciuto col proceder della serata (mentre la partitura di Bellini (spietata !) si inghiottiva poco per volta tutti i suoi interpreti) tanto meno il pubblico sembrava accorgersene, deglutendo senza batter ciglio qualunque suono (o simil tale) provenisse dal palco, e riservando nel finale consensi incondizionati a tutti (o quasi).

E in particolare all’idolo nazionale Natalie Dessay. Che ha pensato bene, per la sua ultima sonnambula parigina, e secondo ormai prassi consumata tra divi starpagati e da palesi insicurezze tecniche, di incerottare preliminarmente il SUO pubblico, facendosi annunciare “souffrante” ma intenzionata a portare a termine la recita. Come dire: se il mio canto non sarà proprio ineccepibile, non vogliatemene (e soprattutto non fischiatemi!), canto solo per il rispetto che ho per voi-pubblico e per amore della partitura. La Amina della Dessay si è dimostrata sotto il profilo vocale non soltanto gravemente lacunosa, ma ha risentito in maniera progressiva delle mende vocali (ormai ai limiti dell’accettabile) della sua interprete. La voce del soprano è ormai un fantasma di sé stesso: piccola e ridotta al lumicino quanto a volume (faticosamente udibile nelle ultime file), è completamente svuotata nei gravi (inesistenti), migolante e malferma nei centri, e fibrosa nonché schiacciata nel registro acuto, dove peraltro, l’eccessivo fiato con cui articola, produce un fastidiosissimo sbiancamento del suono. Si ha perennemente l’impressione che ogni attacco, che ogni incipit di frase sia spoggiato e che il supporto del diaframma subentri solo in un secondo momento quasi fosse un orpello accessorio alla tecnica di canto dell’interprete. L’intonazione poi, diventa seriamente periclitante nei passaggi al sovracuto, che la signora ha garantito a tutti i costi producendosi in suoni spintissimi (in chiusa del primo atto), trasformatisi poi in vere e proprie grida nel finale. E proprio sul rondò conclusivo mi soffermo. La Dessay è arrivata all’ “Ah, non giunge” completamente sfiancata e sfibrata nella voce, dimostrando gravi carenze nella economizzazione delle proprie risorse. Energie che però non si è fatta mancare sotto il profilo interpretativo e fisico, secondo una logica di furbissima compensazione scenica: laddove non arriva la voce, arrivano le mossettine e le increspature del viso. Non è un caso che, degna figlia di Arturo Brachetti, è riuscita in 10 secondi ad uscire dalle quinte, a dismettere i panni di cameriera (!!!) (ah già, parleremo dell’allestimento!) a rientrare in scena e cantare, a sipario chiuso e con l’occhio di bue puntato, la cabaletta finale vestita da femme fatale con un abito rosso fuoco, sottratto forse al guardaroba di Rossella O’Hara. Certo, nel daccapo non ha eseguito alcuna variazione, e non c’era più un suono che non fosse strozzato e afono, ma volete mettere per i parigini vedere la loro Natalie dimenarsi come una bailaora de flamenco?

Dell’Elvino di Javier Camarena c’è poco da dire. La sua performance, più di tutte le altre forse, ha seguito una traiettoria parabolica discendente e precipitosa col progredire della serata. Se ho ammirato la freschezza della voce e lo splendido legato con cui ha interpretato “Prendi l’anel ti dono”, riuscendo a calibrare in maniera sorprendente, secondo me, fiato e mezzevoci sul tempo, troppo slentato che ha battuto Pidò, ha dimostrato tuttavia poco dopo, già a partire dalla cabaletta, tutte le mende tecniche del suo mezzo. A partire dai grossi problemi di intonazione che la sua linea di canto, tutta indietro e ingolata, presenta ogni due per tre. Problemi di intonazione che, se percepibili in maniera discontinua nel primo atto, sono lievitati mastodonticamente nel secondo, arrivando addirittura a ridestare la platea della Bastille dal torpore diffuso. Rumoreggiamento generale nell “Ah perché non posso odiarti”, dove Camarena ha pure “scragnato” nel ah del tutto ancora non sei/cancellata dal mio cor e ammutolimento collettivo con palpabile disagio, durante il quartetto, il momento sicuramente più buio e inquietante di tutta la serata.

Complici di questa “danse macabre a quattro” gli altri comprimari della serata, su cui veramente sarebbe educato censurarsi. Rimango tuttora basito dalla performance di uno che professionista, almeno sulla carta, dovrebbe esserlo, quale Michele Pertusi. Il basso parmense ha cantato un Conte Rodolfo intubatissimo e sfiaccato nella linea di canto, incapace di articolare i recitativi se non in un imbarazzante declamato e con grossi problemi di intonazione. Quanto alla Lisa della “vibrantissima” e petulante Marie-Adeline Henry e alla Teresa della rumena Cornelia Oncioiu mi auspico soltanto di rimuovere rapidamente e in maniera indolore il ricordo della loro “performance”. La dimostrazione più alta del pressapochismo canoro che soltanto un dilettante spudorato potrebbe oggi, così placidamente e in maniera altrettanto sfacciata, offrire ad un pubblico pagante. Davvero no comment.

Censurabile, e molto, la direzione di Pidò, che non a caso è stato buato dalle 4 teste pensanti (e dotate di un apparato uditivo funzionante) presenti in sala. A lui va imputata una direzione che non solo non è stata capace di restituire le infinite nuances presenti nella partitura di Bellini ma che non è stata nemmeno in grado di piegarsi alle mediocri risorse vocali del cast arruolato, con l’obiettivo di contenerne quantomeno le rispettive derive canore, puntualmente e immancabilmente verificatesi, al contrario. Slentato e piatto nella resa delle rarefazioni belliniane, fracassone e stordente nelle scene corali e nelle cabalette (al punto da creare un paradossale “effetto acquario” in scena), Pidò, ha impresso alla serata un ritmo sincopato e disomogeneo, mal amalgamando un’orchestra già di suo zoppicante (impressionanti i problemi di intonazione del comparto degli ottoni) e operando scelte musicali fortemente arbitrarie (come l’eliminazione tout court della scena corale ad inizio del secondo atto).

Un ultimo appunto sull’aspetto visivo. Non sono contrario alle messinscene che operano una qualche forma di slittamento temporale o simbolico rispetto alla drammaturgia di partenza; amo, tuttavia, in qualità di spettatore, che vengano rispettati quantomeno i cardini di coerenza logica che il libretto sollecita in maniera più o meno vincolante tra testo, azione drammatica, e potenziale trasposizione visiva. Ecco, mi chiedo se Marco Arturo Marelli, non avesse come riferimento Il viaggio a Reims quando ha pensato la scena per questa Sonnambula parigina. Non solo, infatti l’azione è traslata in un sanatorium di lusso anni 40-50, che tradisce visibilmente l’originaria location del villaggio svizzero (evidentemente poco à la page per Parigi), ma gli stessi personaggi perdono inevitabilmente i loro caratteri popolani e alpestri per adeguarsi a questa trasfigurazione che li catapulta nel “resort termale a 5 stelle”. Basti dire che Amina, in livrea nera e crestina bianca, diventa all’Opéra Bastille una femme de ménage al servizio della “locandiera” Lisa, che Alessio si tramuta in un sovreccitato lacché frenetico come solo le gag di Benny Hill possono rievocare, e che la stessa Lisa polarizza i suoi tratti riducendosi a frigida e cleptomane (ebbene sì!!) direttrice d’albergo. I momenti di disagio? Non si contano. A cominciare dal coro introduttivo “Viva! Viva Amina!” cantato da una schiera di cameriere dell’albergo in versione cheerleaders, sbandieranti manifesti e festoni pro-Amina, fino ad arrivare al “Vi ravviso o luoghi ameni” cantato da un Conte Rodolfo avventore per caso, seduto al bar dell’albergo e in contemplazione di bottiglie e di bicchieri di whisky . Il mulino, il fonte e il bosco invece, non pervenuti!

Fantedipicche






Gli ascolti

Bellini - La sonnambula


Atto I

Come per me sereno...Sovra il sen la man mi posa - Lina Pagliughi (1934)

Prendi, l'anel ti dono - Fernando de Lucia & María Galvany (1908)

Atto II

Ah, non credea mirarti - Luisa Tetrazzini (1909), Selma Kurz (1911)

Ah, non giunge uman pensiero - María Barrientos (1920)



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