Per chi non lo sapesse Sorella Radio fu nell'Italia del dopoguerra e sino alla fine del boom economico una trasmissione del sabato pomeriggio dedicata ai malati ed ai sofferenti, in ossequio aperto e quindi onesto (a differenza del presente) ai temi ispiratori dell'allora direttore generale Bernabei, uomo di fanfaniana, incrollabile fede. Oggi in un'epoca di valori sconvolti e di messaggi occulti ci siamo presi la libertà di parodiare quel titolo. Parodiare perchè quei buoni e sani principi che la voce austera di Maria Luisa Boncompagni, madre spirituale di tutte le signorine buonasera della Rai, per essere stata lei loro pari e precedente nell'Eiar, oggi sono vilipesi e ridicolizzati, per certo nel mondo del melodramma e forse licenziando questo pensiero avrei dovuto presentare non già sorella Radio, ma RADIO MATRIGNA.
Cedo la penna alla divina Giuditta Pasta, che per prima ha aderito a questa iniziativa.
vostro
Domenico Donzelli
Dopo la disastrosa esperienza berlinese con la Lady Macbeth di Anna Smirnova non possiamo non condividere con i nostri cari lettori qualche pensiero sulla recente produzione del Macbeth alla Royal Opera House di Londra la cui registrazione ci ha proposta la BBC Radio 3. La produzione è diretta da Antonio Pappano e sono Simon Keenlyside e Liudmyla Monastyrska ad incarnare la coppia regicida. Vi riferiremo brevemente sul direttore e sugli interpreti maschili per soffermarci, poi, sulla sorpresa positiva, che è stata la prestazione della signora Monastyrska.
La direzione del maestro Pappano è stata semplicemente mediocre. Durante l’intera serata non si è sentito un singolo momento di slancio, un colore, un’idea. Pesante nel preludio, flemmatico nei pezzi d’assieme, piatto e rigido nell’accompagnamento dei solisti, ha pure perso il controllo sull’orchestra nel fugato marziale dell’ultimo quadro. Perciò possiamo solo essere grati che il maestro ci abbia risparmiato il balletto del terzo atto. Non male, invece, il coro, soprattutto nell’esecuzione di “Patria oppressa”.
Simon Keenlyside ha cantato l’intero ruolo con una concezione ed una tecnica che lo dimostrano più adatto al Macbeth letterario-teatrale che non al Macbeth verdiano, ossia musicale e vocale. Possedendo voce e tecnica al massimo da Papageno, ha spinto e forzato tutta la serata, declamando nel peggior modo naturalistico e pseudo-drammatico il monologo del primo atto, la scena dell’allucinazione e la scena delle apparizioni. Duro e privo di legato nel “Pietà, rispetto, amore”, ha dovuto anche cantare con una voce ormai completamente sbiancata e affranta l’aria “Mal per me” eliminata nella riedizione del 1865. Ancora peggio il Macduff di Dmitri Pittas, tenore leggerissimo, una voce che letteralmente piangeva e gemeva in ogni frase dimostrando la propria inadeguatezza al ruolo. Altrettanto pessimo il Banco soffocato e stomacale di Raymond Aceto.
E adesso la nostra “Lady Macbeth del distretto di Kiev”. Il soprano ucraino Liudmyla Monastyrska, ha debuttato nel 1996 all’Opera Nazionale Ucraina di Kiev quale Tatiana di Cajkovskij ed ha interpretato sia lì sia al Marinskij di San Pietroburgo ruoli come Aida, Amelia (Ballo), Gioconda, Lisa, Nedda e Santuzza. Una svolta nella sua carriera è stata segnata da una sostituzione last minute nella Tosca alla Deutsche Oper di Berlino nella stagione 2009-2010. La Lady Macbeth doveva essere il suo debutto ufficiale al Covent Garden, invece il forfait di Micaela Carosi nell’Aida le ha dato l’opportunità di esibirsi davanti al pubblico londinese ancora prima del Macbeth, ricevendo grandi lodi per la sua interpretazione della principessa etiope. Sarà questo il medesimo ruolo con cui il soprano debutterà alla Scala nella prossima stagione in secondo cast alla compatriota Oksana Dyka. Le registrazioni londinesi delle arie e dei duetti disponibili su YouTube fanno sentire una voce importante, con un apprezzabile sentore per il fraseggio, ma purtroppo non sempre sicura nell’effettivo solido sostegno del canto dolce ed elegiaco di Aida.
Premesso che Liudmyla Monastyrska canta ormai da una buona quindicina di anni e che ha sempre interpretato ruoli molto pesanti, facendo la primadonna dei centri della provincia operistica prima di essere stata “scoperta” dalle grandi agenzie e teatri occidentali, bisogna notare la freschezza e saldezza che dimostra il suo strumento. Possedendo una voce da lirico-spinto con una dote impressionante nel registro centro-acuto ed acuto, sia la sua lunga e pesante biografia vocale che la sua prestazione attuale della Lady testimonia di una cantante che, grazie ad una certa preparazione tecnica, può permettersi di avventurarsi anche in ruoli del repertorio spinto e drammatico. La voce è piuttosto scura, robusta e grossa di natura – caratteristica frequente delle voci femminili originarie dall’Europa post-sovietica – e possiede un volume la cui potenza, chiaramente percepibile anche attraverso un ascolto radiofonico, è stata l’oggetto di un entusiasmo di molte recensioni londinesi. E’ notevole la flessibilità della voce nella zona centro-acuta ed acuta dove il soprano dimostra la capacità di sviluppare un fraseggio ricco, di modulare il suono e di eseguire le agilità ed i picchettati correttamente e sempre con una chiara funzione espressiva. E’ così che ha cantato un brindisi pieno delle più varie inflessioni. Nella zona grave dove la voce risulta meno dotata e carente di una vera espansione pointrinée, il soprano tende talvolta a forzare, mentre nella zona media e medio-grave la minor duttilità della voce portano ad una tendenza di chiudere il suono e, nella scena del sonnambulismo, pure a parecchi attacchi fissi. Eppure, è riuscita ad interpretare con un buon legato e coerenza espressiva, ad esempio, l’inizio di “La luce langue”. Oltre a qualche frase di gusto troppo manierata-naturalista nel duetto dell’uccisione di Duncano e nel sonnambulismo, che erano poi quelle che l’hanno messa in difficoltà tecniche, la signora Monastyrska ha esibito un fraseggio di grande intuizione musicale, un’emissione corretta ed un controllo di fiato che le hanno conceduto di dimostrare con garbo e generosità le sue copiose doti ed intenzioni. Dopo aver letto la lettera del marito con uno spaventoso accento slavo, ha impressionato nelle primissime frasi cantate del recitativo per l’ampiezza e la sicurezza di fraseggio e suono, dimostrando tuttavia qualche acuto spinto sia nella prima aria che nel secondo finale. Ha dominato l’orchestra e l’ensemble nei pezzi d’assieme (di questo riferiscono anche chi ha seguito lo spettacolo dal vivo) ed in chiusura del pur non riuscitissimo sonnambulismo ha eseguito un re bemolle (e la seguente discesa) molto bello.
Insomma, una Lady che, senza essere un autentico soprano drammatico, ma possedendo una definita preparazione tecnica, riesce ad affermarsi in un repertorio colpito oggi da una crisi totale. E’ evidente che sia la sua potenza vocale nell'ottava superiore e l’accento energico sia proprio l’incompleta sicurezza nel cantare piano e pianissimo la rendono più adatta ad un ruolo la cui scrittura ed organizzazione vocale-drammatica concede la disparità fra una minima tecnica per un canto sostanzialmente lirico-elegiaco ed una maggiore predisposizione all'accento ampio ed al canto di forza. Eppure, essendo di natura un lirico-spinto, è forse proprio questa idoneità per limitazione tecnica e non per corrispondenza naturale a ruoli più ampi, ma meno vari e meno lirici in quanto alle esigenze espressive, che minaccia di diventare un importante problema per un talento che, ormai lanciato dalle agenzie sui più grandi palcoscenici, potrebbe facilmente soccombere alle ambiguità della propria vocalità.









Nato vicino a Berlino nel 1791, dopo la gavetta musicale in Italia (dove, scrivendo opere lunghissime e noiosissime sulla falsariga di Rossini, apprenderà il “mestiere”), trovò il successo vero a Parigi, dove legò il suo nome ai maggiori trionfi del genere (da Robert le Diable a Les Huguenots, da Le Prophéte a L’Africaine, rappresentata postuma). La musica di Meyerbeer – fatto oggetto di un vergognoso libello antisemita scritto dal livoroso Wagner (invidioso per i successi da cui lui era ancora escluso) e largamente sfruttato dalla politica culturale nazionalsocialista nell’edificazione del Reich “millenario” – si caratterizza per un uso sapiente di tutto l’armamentario di cui allora disponeva il teatro musicale. La mancanza di una vena originale e di un’ispirazione autentica, veniva compensata da un’orchestrazione virtuosistica e ricca di effetti, assai complessa e “d’impatto” sicuro, dalla sicurezza nella gestione di una macchina teatrale “smisurata” (anche nella durata), dalla delirante difficoltà della scrittura vocale. Les Huguenots (che, sullo sfondo dei massacri della Notte di San Bartolomeo, quando i cattolici trucidarono nella sola Parigi più di 2.000 protestanti, narra le vicende contrastate di un amore reso impossibile dal fanatismo religioso) furono rappresentati la prima volta alla Salle Le Peletier, il 29 febbraio del 1836, protagonisti i principali divi dell’epoca: Julie Dorus-Gras (Marguerite de Valois), Marie Cornélie Falcon (Valentine), Adolphe Nourrit (Raoul de Nangis), Nicolas-Prosper Levasseur (Marcel) e Prosper Dérivis (Comte de Nevers) – in una ripresa successiva venne ampliato il ruolo del paggio Urbain, in omaggio all’interprete: Marietta Alboni. Fu un successo senza precedenti: tanto da raggiungere le 1.000 repliche nel 1906, e, per più di un secolo dalla sua composizione, non conobbe declino (fu eseguita in tutti i teatri del mondo e da tutti i più grandi interpreti). Ovviamente il successo e la diffusione comportarono necessariamente patteggiamenti (a volte particolarmente dolorosi) con il mutare del gusto e delle circostanze: tagli, modifiche, aggiunte, spostamenti interni, sfigurarono – nel tempo – la complessa architettura immaginata da Meyerbeer, banalizzandola inesorabilmente. Sino ad arrivare ai giorni nostri: l’opera, almeno nella forma maggiormente conosciuta oggi, e di cui si ha memoria o testimonianza, è molto diversa dalla creazione originale, poiché su di essa si sono stratificate tradizioni differenti. Tuttavia, nonostante i rimaneggiamenti posteriori, Les Huguenots (o Gli Ugonotti, nella pessima traduzione italiana con cui si è diffusa), lentamente è sparita dalla programmazione teatrale. Imperdibile, dunque, la ripresa alla Monnaie di Bruxelles, in questo giugno 2011 (personalmente ho assistito alla recita del 17). Innanzitutto per l’approccio esecutivo: l’opera, infatti, viene eseguita nella sua integralità (per un totale di 4 ore e 10 minuti di musica – per intenderci, Bonynge, nella sua incisione “ufficiale”, elimina più di mezz’ora), salvo alcuni piccolissimi tagli, necessari per non superare il limite delle 5 ore (intervalli compresi) previsto contrattualmente per le maestranze del teatro, e limitati a qualche breve passaggio di recitativo, la ripetizione di un coro di damigelle nell’atto II oltre a qualche potatura nel balletto e nel finale III, per dare un po’ di respiro a Raoul (quello che Bonynge, ancora, riduce ad uno scampolo di pochi minuti, è, in realtà, un lungo brano dalla struttura musicale elaborata e imponente). In compenso sono stati reinseriti il Rondeau di Urbain “Non, non, non, vous n’avez jamais je gage”, aggiunto da Meyerbeer per la ripresa del 1847 a Londra, e il suggestivo Choral di Marcel “Veille sur nous, grand Dieu du Ciel” dopo il coprifuoco dell’atto III, non incluso da Meyerbeer nella versione definitiva dell’opera. Viene poi utilizzata la nuova edizione critica predisposta da Ricordi (ma non ancora pubblicata), permettendo così di riscoprire il vero aspetto dell’opera, ripulito da tutte le aggiunte e incrostazioni che ne avevano snaturato il volto (si sono ritrovate molte finezze strumentali andate perdute nel corso degli anni, a causa di certa tradizione esecutiva).
A tenere le fila di questa complessa operazione culturale (che ha comportato enormi sforzi organizzativi, impegno artistico e filologico, senza mai confondere lo spettacolo con il saggio musicologico), il francese Marc Minkowski: direttore che garantisce la necessaria correttezza metodologica e che, contemporaneamente, è sempre molto attento alle ragioni del teatro. Più conosciuto – almeno in Italia – per le sue frequentazioni “barocche” (le più testimoniate discograficamente, attraverso l’attività dei “suoi” Musiciens du Louvre), in realtà i suoi interessi si sono sempre rivolti ad orizzonti più vasti (la sua attività teatrale è molto varia), in particolare quella terra sterminata (e ancora poco esplorata), che è l’800 musicale, di cui ha approfondito con passione e competenza la prassi esecutiva. Particolarmente congeniale gli è la materia del grand-opéra che ha già dimostrato di saper gestire con dimestichezza e visione d’insieme (nel 2001 diresse un’attendibile Robert le Diable a Berlino). Pregio maggiore della sua direzione, infatti, è la restituzione di unitarietà ad un genere che (anche nel recente passato) è stato ridotto ad un insieme insipido di singoli episodi isolati, funzionale alla mera esibizione divistica (complice il gusto dell’epoca, i tanti tagli – che impedivano una visione complessiva dell’opera – e la qualità non certo indimenticabile della musica). Merito di Minkowski, dunque, è dare un significato al tutto, senza cali di tensione nel discorso narrativo: per la prima volta Les Huguenots possiedono un certo senso teatrale! Altro merito non da poco è l’esserci riusciti disponendo di un’orchestra tutt’altro che impeccabile (la scrittura di Meyerbeer è molto complessa). Nonostante le sbavature e qualche sbandamento, però, l’Orchestre symphonique de la Monnaie, osserva con scrupolo le prescrizioni del direttore circa la prassi esecutiva strumentale: ripensamento degli equilibri orchestrali senza la predominanza degli archi, uso attento ed espressivo del vibrato, sonorità trasparenti, fraseggio sfumato, dinamica variegata, senza alcuna concessione a certa retorica, al clangore di piatti e timpani o a volumi eccessivi). Da rimarcare (grazie all’utilizzo della nuova edizione critica) l’utilizzo di strumenti particolari: la viola d’amore che accompagna l’aria di Raoul “Plus blanche que la blanche hermine” (con un effetto nuovo e straniante che avrebbe però beneficiato di un più valente strumentista) o il clarinetto basso nella scena del cimitero nell’atto V. Preziosismi, forse, ma che contribuiscono a dare la misura dell’importanza e della serietà della produzione. Minkowski, dal vivo, si conferma un ottimo concertatore: gestisce con sicurezza e precisione il rapporto palco/buca, nulla sfuggendo al suo gesto (emblematici i grandi finali d’atto o il Settimino). Particolarmente apprezzabile, poi (nella generale scarsità di direttori sensibili alle ragioni del canto e capaci di lavorare “con” e non “contro” il cantante) l’accompagnamento dei solisti: Minkowski aiuta, sostiene, segue i suoi interpreti, soprattutto quando la stanchezza (inevitabile per durata e impegno) inizia a farsi sentire. Anche la musica delle danze è restituita con quel giusto garbo frizzante, leggero e ironico, che ne rende piacevole la sostanziale inconsistenza. Ottimo anche il coro (diretto da Martino Faggiani, già direttore di Santa Cecilia). Quanto alla compagnia di canto, com’era logico aspettarsi (data la lunghezza e gli sforzi richiesti), ha alternato a momenti buoni o ottimi, altri di stanchezza e difficoltà. Prima di considerare in modo più analitico i singoli interpreti è opportuna una premessa: ho ascoltato il secondo cast dell’opera per una scelta ben precisa, e non come ripiego maldestro. Lo stesso Minkowski, peraltro, esplicita le ragioni della scelta dei diversi cantanti, per nulla condotta con la logica del “rimpiazzo”, ma secondo precise valutazioni artistiche: del resto in un lavoro così esigente e vocalmente ambiguo, due cast complementari e diversi, permettono maggiori possibilità di esplorazione. Ma riporta le sue stesse parole (onde evitare polemiche pretestuose o sgradevoli malizie): “nous avons prévu une double distribution pour les rôles principaux, avec parfois des types de voix différents pour un méme rôle: Urbain est par example tour à tour incarné par une sopran lyrique et une mezzo. Nous avons un Raoul grand lyrique, un autre lyrique léger, ce qui correspond à ce que Meyerbeer a pu connaître avec Nourrit et Gilbert Duprez (le successeur de Nourrit dans Robert le diable, Les Huguenots, La Juive et la Muette de Portici”. Cast scientemente diversi, dunque, e non scelta casuale o “low cost”.
Ma procediamo con ordine. Henriette Bonde-Hansen (Marguerite de Valois), è stata, per me, la sorpresa della serata: pur con qualche difficoltà nel registro superiore (percepibile talora in “Ô beau pays de la Touraine”), ha dominato il ruolo con sorprendente sicurezza, buona coloratura e voce piena e sonora: ottimo il duetto con Raoul e splendido il Finale II dove “tira” il concertato e non si risparmia in nulla. Ingela Brimberg (Valentine), applauditissima alla fine, ha avuto qualche momento di incertezza nell’aria dell’atto III “Parmi le pleurs”, ma per il resto ha ben rappresentato il suo personaggio (sottolineandone la drammatica fierezza piuttosto che la malinconica mestizia). Blandine Staskiewicz (Urbain), è stata, invece, un paggio deludente: ma più dei suoni a volte ingolati e di certi acuti difficoltosi, sono mancati quella frivolezza e quel brio che caratterizzano la parte (soprattutto – come in questo caso – se si aggiunge il Rondeau), così come la spregiudicatezza nella coloratura. John Osborn (Raoul de Nangis) ha reso in modo attendibile una parte ingrata, lunghissima e ambigua. A cominciare dalla sortita con i suoi recitativi martellanti, a seguire un’aria di delirante difficoltà (per la sollecitazione del registro sovracuto “di testa” e l’uso delle mezzevoci) e poi duetti, arie e concertati dove nessuno sconto viene fatto al tenore. Osborn, forse non in forma perfetta, è apparso alterno: la prima strofa della prima aria ha denunciato qualche problema, ma già nel secondo couplet l’esecuzione è stata perfetta (peccato per il maldestro accompagnamento della viola d’amore); eccellenti il duetto con Marguerite “Beauté divine, enchantresse” e il Finale II; nel complesso buono l’atto III (in particolare il Finale, seppur alleggerito di qualche passaggio); deludente nel Gran Duo (a parte la stretta); davvero buono l’ultimo atto. La voce è sonora e abbastanza sicura, sale con facilità all’acuto e gestisce bene il registro “di testa”, ma, come Merritt, pare sbandare talvolta nell’intonazione. La lunghezza della parte, tuttavia, deve essere considerata una valida attenuante, così come la conseguente stanchezza (i due brevi intervalli, di 20 minuti ciascuno, erano collocati dopo i primi due atti e dopo il terzo: massacrante!). Buono nel complesso il reparto delle voci gravi, a parte il torniturante Philippe Rouillon (Comte de Saint-Bris). François Lis (Marcel), dopo un esordio non esaltante (a causa della bassissima tessitura del corale luterano) ha dipinto un personaggio agli antipodi delle grottesche caratterizzazioni in cui è degenerato il ruolo: un Marcel elegante, giocato sulla parola, che guarda a Plançon piuttosto che a Christoff. La stessa “Piff, paff” (brano di rara bruttezza), risultava meno volgare del solito. Tuttavia il migliore è stato Jean-François Lapointe (Comte de Nevers), che è riescito a mostrare le due anime del personaggio e il passaggio da nobile frivolo e annoiato (dedito ai piaceri del letto e della tavola, piuttosto che alle dispute religiose) al fiero guerriero d’un tempo, che si rifiuta di diventare un volgare assassino, attraverso un canto nobile e giovanile, non da orco trucibaldo. Senza infamia e senza lode i comprimari (ad eccezione dello sgradevole Tavannes di Avi Klemberg). Infine la deludente regia di Olivier Py. Nella cornice gradevole di una scena molto agile e dai colori ferrigni e opprimenti – che permetteva cambi veloci di scena e la possibilità di costruire diversi “ambienti”, attraverso l’utilizzo di quinte mobili, scalinate, archi, facciate di palazzi e larghi finestroni – si muove una regia che, per l’ansia di voler caricare di significati sottesi, finisce per risultare confusionaria e dispersiva. Premessa la scarsa dimestichezza con la gestione delle masse (il coro è quasi sempre lasciato immobile, schierato sulle ampie scalinate o in fila dietro ai solisti) Py si lascia andare a soluzioni spesso di cattivo gusto, di facile provocazione o di provinciale banalità. Molto maldestra (ed eccessivamente caricata) la festa dell’atto primo, trasformata in una specie di orgia maschile con tanto di accoppiamenti e svestizioni (ma per una sorta di par condicio, la stessa soluzione è adottata – in chiave saffica – nell’atto II con le baigneuses seminude); chiaramente ispirata al bel film di Chéreau La Reine Margot, da cui cerca di riprodurre con poco successo talune atmosfere, la presenza muta (quasi una sorta di eminenza grigia) di Caterina de’ Medici: idea narrativa interessante, ma che diviene grottesca nell’atto IV, quando, mentre i cattolici di Saint-Bris organizzano il massacro dei protestanti, la “vecchia megera”, seduta al tavolo con loro, sbocconcella un pezzo di pollo e tracanna un bicchiere di vino, per poi lasciarsi andare a smorfie orgasmiche durante la benedizione dei pugnali; poco intellegibile la scelta dei costumi: le donne con abiti rinascimentali, mentre gli uomini (all’inizio in giacca e cravatta) alternavano, nel corso dell'opera, armature dorate con gorgiere (cattolici) e marsine ottocentesche (protestanti), brandendo a turno mitragliatori e croci bianche. Belle alcune soluzioni come la luna enorme che illumina la scena all'apertura dell'atto II. Di sconfortante banalità la scena finale: il coro, vestito come gli ebrei cacciati dal ghetto di Varsavia, veniva sterminato contro un muro da una specie di automa senza volto in armatura dorata che brandiva due crocifissi. Nel complesso uno spettacolo importante che, pur tra alti e bassi, è riuscito a dare un senso (soprattutto teatrale e musicale) alla riproposta di un titolo mitico e complesso come Les Huguenots. Non tutto ha funzionato alla perfezione (in particolare l'aspetto visivo), ma resta comunque un evento che segna uno spartiacque nella storia della recente interpretazione operistica.

