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lunedì 27 giugno 2011

Verdi Edission. Aida a 78 giri in tedesco

Aida è fra i titoli del catalogo verdiano uno dei più copiosamente documentati dai 78 giri. Al punto che sarà necessario ripartire le registrazioni relative in almeno tre differenti puntate della nostra “Verdi Edission”. Abbiamo pensato di dedicare la prima alle incisioni in lingua tedesca. L’intento non è certo smentire la nostra presunta esterofobia (esterofobia già contraddetta in nuce dalla frequenza delle nostre cronache da teatri stranieri), bensì offrire al lettore, e più ancora all’ascoltatore, qualche spunto di riflessione in vista degli imminenti festival estivi.

Verdi è infatti uno dei pilastri dei cartelloni dei teatri en plein air, così come Wagner costituisce il solo autore rappresentabile nel festival estivo più austero e mitico dell’Europa continentale. Ebbene, proprio in questi 78 giri di Aida i due compositori si danno idealmente la mano, atteso che gli interpreti coinvolti furono tutti, per ragioni di carriera e repertorio, egualmente impegnati nel repertorio italiano e in quello tedesco.
L’ascolto di questi lacerti, a volte fortunosi (penso al live viennese di Maria Nemeth, purtroppo mutilo della parte conclusiva della romanza, ma che restituisce bene l’ampiezza e la cavata della voce della signora), altre volte di suono vivido e chiaro malgrado le arcaiche tecniche di registrazione, attesta oltre ogni ragionevole dubbio un generale livello esecutivo e interpretativo, che si oppone decisamente alla vulgata, ormai paleolitica, benché ancora diffusa in certi foyer virtuali e non, vulgata che associa ai dischi antichi la nomea di cimeli inservibili e inascoltabili, non solo, ma testimonianza di scarsa pratica con le regole del buon canto, di effetti facili ed esteriori, di scarsa o inesistente attenzione al testo, poetico o musicale che sia. Mai come in questi frammenti di Aida ascoltiamo infatti, oltre che ottimi esecutori, veri interpreti, musicisti completi e rifinitissimi. E non potrebbe essere altrimenti, atteso che una corretta esecuzione rimane il presupposto e la precondizione di una grande interpretazione, a qualunque latitudine, in qualsiasi repertorio e indipendentemente dalla lingua in cui il medesimo viene affrontato.
Si ascoltino ad esempio Jacques Urlus e Julius Patzak nella romanza che apre di fatto l’opera. Le voci non potrebbero essere più diverse, da tenore drammatico la prima, essenzialmente lirica, benché talvolta applicata ad un repertorio più oneroso, la seconda. Eppure la saldezza tecnica consente ad entrambi una realizzazione del personaggio, consona alle rispettive caratteristiche vocali (col che fra l’altro rammentiamo in primo luogo a noi stessi che il Radames giovanile e amoroso non è nato con Carlo Bergonzi, bensì molto prima), rispettosa del personaggio e del dettato dell’autore, anche per quanto attiene il tremendo (soprattutto per molti cantanti a noi più vicini nel tempo) si bemolle conclusivo.
Attenzione al testo, martellante scansione delle frasi, insomma quella che Verdi chiamava la parola scenica, tutto questo si trova in particolare nelle proposte raffigurazioni della principessa egizia. Non sarà forse inutile sottolineare come la lunga consuetudine con ruoli quali Ortrud, Fricka e Venere permetta a queste grandissime cantanti di variare opportunamente i colori e le inflessioni vocali, tanto nel duetto con la protagonista, in cui Amneris passa nel giro di poche battute dall’estasi sentimentale all’angoscia, alla cerimoniosa dissimulazione, fino all’esplosione dell’ira più autentica (esemplare, in questa climax, Margarete Klose), quanto nella scena con Radames, in cui, come scriveva Verdi a Ghislanzoni, la figlia del Re esordisce con una frase che potrebbe sembrare la comunicazione di un avvocato, ma che deve già suggerire, sottotraccia, la disperazione della donna, sentimento che esplode nel successivo “Morire? Ah, tu dei vivere”. Per certo l’ira e la disperazione non devono mutare il canto in qualcosa d’altro, perché anche nel massimo della concitazione la principessa rimane altera ed elegante. Si ascolti, tanto per non fare nomi, la solita Sigrid Onégin, alla quale si perdonano volentieri i suoni fissi a partire dal sol bemolle acuto (“e nunzia di perdono” e più ancora il successivo “tutto darei per te” con salita al la bemolle). Esemplare è anche Margarete Arndt-Ober, della quale proponiamo due incisioni realizzate a undici anni di distanza, al fianco di tenori anch’essi formidabili per saldezza e sobrietà espressiva. Ebbene, nella più tarda delle due esecuzioni la cantante è salda e autorevole quanto nella prima, emettendo suoni un poco ovattati solo nell’attacco della cabaletta, di scrittura piuttosto grave.
Addirittura rivoluzionario appare poi sentire interpreti di Amonasro, che non solo non sbraitano con la bava alla bocca, ma si concedono il lusso di cantare piano, smorzando i suoni e differenziando nel fraseggio le fasi del confronto con la figlia, suonando sempre determinati ma di volta in volta anche teneri, insinuanti, sdegnati e infine ipocritamente consolatori, come nel successivo incontro con il mancato genero.
Quanto poi alle Aide, siamo di fronte a un panorama quasi imbarazzante per quantità e varietà delle proposte, accomunate da una caratteristica di fondo che scarseggia nelle esecutrici a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Abbiamo infatti cantanti che sono nella meno felice delle ipotesi dei soprani lirici pieni (ma lirici da Wagner, quindi corposi e risonanti in tutta la gamma) e altrimenti lirico spinti e drammatici. Ebbene tutte queste Aide hanno in comune non solo rotondità di suono e fiati consoni alle lunghe frasi verdiane, conseguenza di un pieno e assoluto dominio tecnico dello strumento, ma accento castigato e dolente, che nulla ha da invidiare a quello sfoggiato dalle tanto vantate Aide liricizzate o liricizzande. Alcune di queste corpulente esecutrici, come la giustamente mitizzata Margarethe Siems, aggiungono poi qualcosa di personale alla definizione del personaggio, chiudendo ad esempio il primo monologo con una puntatura al la bemolle acuto in pianissimo, che delinea come meglio non si potrebbe l’animo trasognato della giovane e infelice schiava.
Una chiosa a sé merita il “Nume custode e vindice” inciso da Leo Slezak e Wilhelm Hesch, fra le maggiori star dell’Opera di Vienna nei primi anni del XX secolo. Pagina puramente esornativa, che nulla aggiunge alla vicenda ma risulta fondamentale nella definizione del clima di rigida sacralità che caratterizza la corte del Faraone, questo duetto con coro richiama palesemente il linguaggio del grand-opéra. Alcuni giorni fa, proponendo la canzone ugonotta dal capolavoro meyerbeeriano nell’esecuzione di Hesch, abbiamo ricordato come il basso boemo sia stato fra gli esecutori del titolo a Vienna proprio accanto a Slezak. E alle atmosfere del grand-opéra, malgrado la traduzione tedesca, fa pensare questa esecuzione, in cui i solisti svettano e fanno a gara per squillo, ampiezza, proiezione e astratta, quasi invasata magniloquenza. Ancora Slezak s’impone, nei duetti con l’amata, per facilità di esecuzione nelle zone più scomode e disagevoli della voce (quella del passaggio superiore su tutte), trovando degni rivali solo nel portentoso Marcel Wittrisch (sentire la facilità con cui quest’ultimo cesella, alla scena della tomba, “degli anni suoi nel fiore”, rendendo in uno la tenerezza dell’amante e la disperazione del condannato a morte) e nello squillo adamantino di Heinrich Knote (quest’ultimo, a onor del vero, un poco fisso nelle tremende frasi “Io son disonorato” al finale terzo).
E proprio Slezak, interprete di riferimento (come impietosamente documentato dalla discografia) tanto in Wagner quanto in Verdi e Meyerbeer (per tacere del suo Mozart), potrebbe forse fornire una risposta a chi domandi se sia possibile affrontare qualunque repertorio, in ambito lirico, con la medesima tecnica di base. Ma forse certi interrogativi vanno interpretati in funzione retorica e dialettica piuttosto che in altro e più concreto senso.


Gli ascolti

Verdi - Aida



Atto I

Celeste Aida - Jacques Urlus (1912), Julius Patzak (1931)

Quale insolita gioia nel tuo sguardo - Inger Karen, Helge Rosvaenge & Margarete Teschemacher (1938)

Su del Nilo al sacro lido - Meta Seinemeyer, Helene Jung, Max Hirzel, Willy Bader & Ivar Andresen (1927)

Ritorna vincitor! - Margarethe Siems (1908), Frida Leider (1921), Meta Seinemeyer (1927)

Nume, custode e vindice - Wilhelm Hesch & Leo Slezak (1904)


Atto II

Chi mai fra gl'inni e i plausi...Fu la sorte dell'armi - Ottilie Metzger & Melanie Kurt (1911), Margarete Klose & Margherita Perras (1937)

Gloria all'Egitto - Margarete Teschemacher, Inger Karen, Helge Rosvaenge, Georg Hann, Ludwig Weber & Karl Schmitt-Walter - dir. Joseph Keilberth (1938)


Atto III

Qui Radamès verrà...O cieli azzurri - Melanie Kurt (1911), Maria Nemeth (1936), Margarete Teschemacher (1938)

A te grave cagion m'adduce, Aida... Su! dunque sorgete, egizie coorti - Fritz Feinhals & Berta Morena (1908), Robert Burg & Meta Seinemeyer (1928)

Pur ti riveggo, mia dolce Aida...Fuggiam gli ardori inospiti - Leo Slezak & Elsa Bland (1906), Max Lorenz & Else Gentner (1930)

Ma dimmi: per qual via - Berta Morena, Heinrich Knote & Fritz Feinhals (1908), Melanie Kurt, Jacques Urlus & Desider Zador (1910)


Atto IV

L'aborrita rivale a me sfuggia - Karin Branzell (1927)

Già i sacerdoti adunansi - Rosa Olitzka (1906), Margarete Arndt-Ober & Karl Jorn (1913), Sigrid Onégin (1920), Sabine Kalter & Richard Tauber (1923), Margarete Arndt-Ober & Lauritz Melchior (1924)

La fatal pietra...Morir! sì pura e bella - Leo Slezak & Sofie Sedlmair (1904), Jacques Urlus & Melanie Kurt (1910), Marcel Wittrisch, Margarete Teschemacher & Margarete Klose (1932)

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mercoledì 21 luglio 2010

Norma A.D. 1910

Norma un secolo prima di Cecilia Bartoli. Confessiamo: era un pensiero che a prescindere dall’improvvido approdo della diva ci incuriosiva e proprio con quella data 1910, perché il 1910 sancisce la transizione fra canto ottocentesco e canto verista. Da quella data in poi il filone del canto ottocentesco sarà, anche se costante, sotterraneo, predominate quello verista.

Canto verista, che influenzerà Norma, senza, però, a differenza di altri titoli espellerla mai dal repertorio. I contrasti della sacerdotessa fedifraga, amante tradita e madre sono troppo per non attirare le prime donne di ogni epoca; con qualche patteggiamento la parte può anche stare a cantanti che con il belcanto hanno rapporti diciamo conflittuali, purchè interpreti nel senso completo del termine.
1910 perché l’anno prima aveva dato l’addio all’opera in teatro quella che può ritenersi, dalle testimonianze discografiche la Norma dell’800 per antonomasia, Lilli Lehmann. Tanto era stata la sua grandezza nel ruolo cantato sia in italiano che in tedesco che il teatro Metropolitan (dove la Lehmann fu protagonista del titolo nel 1895) attese ben trent’anni e Rosa Ponselle per riproporlo.
Le registrazioni della cantante di Wurzburg fanno i conti con due aspetti: i 58 annidi età e la tecnica di registrazione. Eppure sono straordinarie. Qui non vogliamo considerare l’esecuzione ma la tecnica di canto e la aderenza al momento musicale, che giustificano la frase “Maria Callas non ha inventato nulla, c’era stata Lilli Lehmann“ e che danno a chi ritiene la codificazione di Garcia la codificazione della tecnica di canto la prova irrefutabile che le Norme di rango e di levatura storica hanno sempre cantato come le censurate Callas e Sutherland.
Basta sentire la facilità e la saldezza con cui una cantante affronta il primo passaggio di registro nell’incipit della cavatina, piuttosto che la facilità con cui sale ai la ribattuti della seconda sezione dell’aria ed in generale il senso di liquidità del suono e di galleggiamento sul fiato che sono le caratteristiche del canto di scuola. All’epoca della Lehmann come a quella di Callas e più ancora di Sutherland. E l’effetto vocale ed interpretativo si ripete alla cadenza dove la voce tocca senza sforzo il si nat acuto e scende con una scala assolutamente perfetta perché il suono nella discesa non subisce incertezze o manomissioni di sorta.
Questa è la rappresentazione del cantante che canta con la tecnica ottocentesca e questa è, mi sia consentita la franchezza, la dimostrazione che tutto il resto sono chiacchiere e fanfaronate compre ed interessate e che in quanto tali fanno danno, e che danno, al mondo del canto.
Una Margarethe Siems, Adalgisa proprio con la Lehmann e poi, Norma aveva davanti un modello che le consentì di navigare per vent’anni fra Crisotemide e Lucia, Norma e Philine.
Oggi il modello della giovane cantante, che ascolta l’ultima diva nei panni di Norma, le consentirebbe se dotata in natura un paio di stagioni.
La Lehmann resta la più completa esemplificazione di quello che per un secolo si era indicato come soprano drammatico di agilità, categoria cui dovevano appartenere le titolari di Norma.
A questa categorie appartengono almeno due delle Norme che proprio nell’anno di grazia 1910 erano accreditate e considerate esecutrici della sacerdotessa di Irminsul ossia Giannina Russ e Celestina Boninsegna. Cantanti soprattutto di carriera italiana e quanto alla Russ discograficamente piuttosto limitata. Molto più numerose le registrazioni della Boninsegna perché la cantante reggiana era, a differenza di quasi tutti i soprani spinti, straordinariamente fonogenica.
Anche in questi due casi colpisce il controllo del suono e la posizione costantemente “alta” dello stesso. Le esecuzioni della Russ e della Boninsegna della cavatina hanno una purezza di suono ed una proiezione, che rendono chiaro un altro dei criteri che erano esemplificativi del giudicare le voci di qualità e di scuola ossia che a mano a mano che la voce sale, quando impostata, assume una ampiezza ed una espansione interdetta a chi canti male, indietro ed in bocca. Sentire la facilità particolarmente della Russ, che nell’esecuzione della fiorettature è precisissima, o la Boninsegna che si prende, pure il lusso di inserire alla ripetizione (omettendo, però, parte delle fiorettature) un paio di puntature al si bemolle che la tradizione vuole (le eseguirà anche Rosa Raisa, cantante di assoluta discendenza belcantistica, credo la vera allieva di Barbara Marchisio) derivare direttamente dalla Grisi.
Le stesse osservazioni valgono per l’esecuzione della cabaletta che è fluida e scorrevole. La Boninsegna ricorre ad un paio di varianti, che dovevano essere di larga diffusione in quanto le propone anche Marcella Sembrich, che mai cantò l’intero ruolo. Nei duetti con Virginia Guerrini si sente perfettamente la differenza fra una cantante la Russ di scuola ancora ottocentesca ed una invece che inclina già a gusto e tecnica di impianto verista.
L’impianto verista ossia la transizione verso un canto e soprattutto una idea interpretativa che sente i tempi nuovi è di una certa evidenza in Ester Mazzoleni, Tina Poli Randaccio e soprattutto Eugenia Burzio.
Secondo una certa idea è l’inizio del verismo ove con verismo si intenda una esecuzione sciatta e incline al facile effetto.
Siamo in un’epoca di revisione e di ripensamento soprattutto alla luce di quanto ci viene regolarmente servito nei nostri teatri e il giudizio su queste cantanti è per forza di cose modificato o rivisto.
Nessuna di loro può competere con una Russ o una Siems nell’esecuzione del canto di agilità. La cabaletta di Eugenia Burzio per comune giudizio la patronessa del Verismo non è quella della Sutherland, ma ci sono accorgimenti come il suono addolcito, alleggerito e l’accento castigato, che contraddicono o almeno pongono seri dubbi sul malcanto tout court di questa cantante. Evidentemente persino ad una Burzio, fra l’altro eloquente e misurata nel “Dormono entrambi” non sfuggiva che a Norma, pur al centro di una tragedia, non si addicevano gli accenti di Santuzza o di Gioconda E le stesse argomentazioni possono valere per Ester Mazzoleni nella sezione conclusiva del duetto con Zenatello ricorre anche a qualche compromesso, ma rende il senso del dramma della sacerdotessa alle prese con l'ultimo disperato ricatto dove “mette sul piatto” figli ed amante. Peccato veniale rispetto a quanto sentiamo oggi. Al nostro gusto creano più problemi certi suoni di petto e certi scarti fra suoni bassi e suoni centrali, che suonano piuttosto vuoti e che abbiamo codificato come paradigma e vizio capitale dei soprani veristi.
Inutile negarli ci sono anche se in Norma sia pur meno accentuati che nei titoli del tardo Verdi o Veristi. Non erano, se ascoltiamo la Lehmann, un’invenzione della signorina Burzio o della signora Poli Randaccio (che sia detto se non avesse saputo cantare difficilmente avrebbe avuto quasi trent’anni di carriera), erano anche messi in una posizione ben più alta della maschera di quanto non facciamo oggi certe cantanti che, tecnicamente insipienti, si sono messe a riproporli al pubblico senza l’accento irresistibile di una Burzio. Erano il gusto del tempo, ma la domanda che mi faccio e che faccio è meglio certi fastidiosi “scarti” e cattive saldature fra i registri di Eugenia Burzio o la Barbarina vestita da Norma?


Vincenzo Bellini

Norma

Atto I


Ite sul colle, o Druidi - Feodor Chaliapin (1905), José Mardones (1924)

Meco all'altar di Venere - Erik Schmedes (1905), Carlo Albani (1910)

Casta Diva...Ah! Bello a me ritorna - Celestina Boninsegna (1904), Giannina Russ (1906/1914), Lilli Lehmann (1907), Marcella Sembrich (1907), Eugenia Burzio (1912)

Sgombra è la sacra selva - Armida Parsi-Pettinella (1907)

Sola, furtiva al tempio - Giannina Russ & Virginia Guerrini (1914)

Ah! Sì, fa core, abbracciami - Lilli Lehmann (1907)

Atto II

Dormono entrambi - Ester Mazzoleni (1911)

Deh! Con te li prendi...Mira, o Norma...Sì fino all'ore estreme - Lilli Lehmann & Hedwig Helbig (1907), Elise Elizza & Grete Forst (1908), Margarethe Siems & Gertrud Forstel (1908), Giannina Russ & Virginia Guerrini (1914)

In mia man alfin tu sei - Ester Mazzoleni & Giovanni Zenatello (1911)

Qual cor tradisti - Eugenia Burzio (1912)

Deh! Non volerli vittime - Lilli Lehmann (1907), Eugenia Burzio (1912), Tina Poli-Randaccio (con R. Bosacacci & Ezio Pinza - 1923)


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sabato 19 giugno 2010

600.000 contatti! Philine a 78 giri.

Torniamo all’antico per festeggiare i vostri 600.000 ingressi, gli ultimi 100.000 addirittura in tre mesi !!
Completiamo gli ascolti delle nostre Titanie con un gruppetto di grandissime dame della storia dell’opera, scatenate esecutrici di staccati, trilli e sestine. Una vera Scuola dell’Opera.


La guerra del canto mordente ha luogo tra le voci leggere di Maria Barrientos, Toti dal Monte, Amelita Galli Curci, Luisa Tetrazzini e Josephine Antoine e quelle più piene e liriche di scuola tedesca di Margarethe Siems, Irene Abendroth e Frieda Hempel.
Quanto ci divertono ed insegnano queste signore!

Nei cosiddetti leggeri è difficile scegliere tra la Barrientos e la Galli Curci, la prima perfettamente incisiva con una voce mordente, ma sempre cristallina, grande esecutrice di ribattiture e di una sontuosa cadenza; la seconda cede qualcosa al mordente per un languore che la distingue da tutti i coloratura del suo tempo ( e che tanto affascinò la Sutherland ) ed una leggerezza straordinaria nell’esecuzione dei picchettati finali. Poi la Tetrazzini, in una incisione con orchestra, esecutrice di una difficile puntatura alla chiusa prima della cadenza: canta bene anche se sconta l’assenza di un registro grave di qualità ( difficili soprattutto i suoni sul mi in primo rigo ). Il registro acuto è strepitoso, canta con raro slancio e la voce ha grande corpo. In coda la Toti, piuttosto meccanica e meno perfetta, per via dell’esecuzione di certi portamenti nelle salite all’acuto, le agilità piuttosto aspirate, il ricorso continuo agli staccati, spesso con eccesso di pause, ed incapacità di eseguire i trilli.

Strepitose le tedesche, macchine da canto fatte in serie come… i cannoni! Tutte e tre miti di Dame Joan Sutherland , come già la Galli Curci, e non a caso.
Margarethe Siems, che fu anche grande Norma ed Isotta del suo tempo, è assolutamente strepitosa. Un mezzo vocale sontuoso ed omogeneo, piegato in ogni modo e forma possibile, dalle messe di voce trillate agli staccati, unite a grande musicalità e personalità. Per noi ancora modernissima, sfida il tempo e il mutare del gusto.
Irene Abendroth canta con una voce bellissima e piena. Gli acuti, purtroppo, sono fissi, spesso attaccati in piano, difficili per noi: ricorda la Schumann-Heink nel modo di emetterli. In compenso esegue perfettamente la coloratura, con continui cambi di velocità, un megatrillo finale che introduce ad una monumentale cadenza finale che vale da sola tutto il pezzo.
Frieda Hempel, anche lei lirico di coloratura dal timbro bello e pieno. Il gusto è modernissimo, salvo in cadenza, dove suona piuttosto datata per noi. Il canto acrobatico è facilissimo, e si permette anche di non coprire tantissimo il centro, le A in particolare, come altre del suo tempo: il sostegno della voce è tale da consentirle anche questo tipo di emissione.

Josephine Antoine è una curiosità, perché è il primo live dell’aria. Canta con il centro molto aperto, le E le I non sono per niente belle, evidentemente scoperte. La voce suona, però, grande e squillante; ha un certo mordente ma in più punti "sgallina" apertamente le agilità. Un documento d’epoca, del gusto Pons style, tanto per intenderci.
Buon divertimento!


Gli ascolti

Thomas - Mignon


Atto II

Oui, pour ce soir je suis Reine des fées...Je suis Titania la blonde

1902 - Irene Abendroth

1905 - María Barrientos

1908 - Luisa Tetrazzini

1908 - Margarethe Siems

1909 - Frieda Hempel

1919 - Amelita Galli Curci

1929 - Toti dal Monte

1937 - Josephine Antoine

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