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lunedì 27 giugno 2011

Verdi Edission. Aida a 78 giri in tedesco

Aida è fra i titoli del catalogo verdiano uno dei più copiosamente documentati dai 78 giri. Al punto che sarà necessario ripartire le registrazioni relative in almeno tre differenti puntate della nostra “Verdi Edission”. Abbiamo pensato di dedicare la prima alle incisioni in lingua tedesca. L’intento non è certo smentire la nostra presunta esterofobia (esterofobia già contraddetta in nuce dalla frequenza delle nostre cronache da teatri stranieri), bensì offrire al lettore, e più ancora all’ascoltatore, qualche spunto di riflessione in vista degli imminenti festival estivi.

Verdi è infatti uno dei pilastri dei cartelloni dei teatri en plein air, così come Wagner costituisce il solo autore rappresentabile nel festival estivo più austero e mitico dell’Europa continentale. Ebbene, proprio in questi 78 giri di Aida i due compositori si danno idealmente la mano, atteso che gli interpreti coinvolti furono tutti, per ragioni di carriera e repertorio, egualmente impegnati nel repertorio italiano e in quello tedesco.
L’ascolto di questi lacerti, a volte fortunosi (penso al live viennese di Maria Nemeth, purtroppo mutilo della parte conclusiva della romanza, ma che restituisce bene l’ampiezza e la cavata della voce della signora), altre volte di suono vivido e chiaro malgrado le arcaiche tecniche di registrazione, attesta oltre ogni ragionevole dubbio un generale livello esecutivo e interpretativo, che si oppone decisamente alla vulgata, ormai paleolitica, benché ancora diffusa in certi foyer virtuali e non, vulgata che associa ai dischi antichi la nomea di cimeli inservibili e inascoltabili, non solo, ma testimonianza di scarsa pratica con le regole del buon canto, di effetti facili ed esteriori, di scarsa o inesistente attenzione al testo, poetico o musicale che sia. Mai come in questi frammenti di Aida ascoltiamo infatti, oltre che ottimi esecutori, veri interpreti, musicisti completi e rifinitissimi. E non potrebbe essere altrimenti, atteso che una corretta esecuzione rimane il presupposto e la precondizione di una grande interpretazione, a qualunque latitudine, in qualsiasi repertorio e indipendentemente dalla lingua in cui il medesimo viene affrontato.
Si ascoltino ad esempio Jacques Urlus e Julius Patzak nella romanza che apre di fatto l’opera. Le voci non potrebbero essere più diverse, da tenore drammatico la prima, essenzialmente lirica, benché talvolta applicata ad un repertorio più oneroso, la seconda. Eppure la saldezza tecnica consente ad entrambi una realizzazione del personaggio, consona alle rispettive caratteristiche vocali (col che fra l’altro rammentiamo in primo luogo a noi stessi che il Radames giovanile e amoroso non è nato con Carlo Bergonzi, bensì molto prima), rispettosa del personaggio e del dettato dell’autore, anche per quanto attiene il tremendo (soprattutto per molti cantanti a noi più vicini nel tempo) si bemolle conclusivo.
Attenzione al testo, martellante scansione delle frasi, insomma quella che Verdi chiamava la parola scenica, tutto questo si trova in particolare nelle proposte raffigurazioni della principessa egizia. Non sarà forse inutile sottolineare come la lunga consuetudine con ruoli quali Ortrud, Fricka e Venere permetta a queste grandissime cantanti di variare opportunamente i colori e le inflessioni vocali, tanto nel duetto con la protagonista, in cui Amneris passa nel giro di poche battute dall’estasi sentimentale all’angoscia, alla cerimoniosa dissimulazione, fino all’esplosione dell’ira più autentica (esemplare, in questa climax, Margarete Klose), quanto nella scena con Radames, in cui, come scriveva Verdi a Ghislanzoni, la figlia del Re esordisce con una frase che potrebbe sembrare la comunicazione di un avvocato, ma che deve già suggerire, sottotraccia, la disperazione della donna, sentimento che esplode nel successivo “Morire? Ah, tu dei vivere”. Per certo l’ira e la disperazione non devono mutare il canto in qualcosa d’altro, perché anche nel massimo della concitazione la principessa rimane altera ed elegante. Si ascolti, tanto per non fare nomi, la solita Sigrid Onégin, alla quale si perdonano volentieri i suoni fissi a partire dal sol bemolle acuto (“e nunzia di perdono” e più ancora il successivo “tutto darei per te” con salita al la bemolle). Esemplare è anche Margarete Arndt-Ober, della quale proponiamo due incisioni realizzate a undici anni di distanza, al fianco di tenori anch’essi formidabili per saldezza e sobrietà espressiva. Ebbene, nella più tarda delle due esecuzioni la cantante è salda e autorevole quanto nella prima, emettendo suoni un poco ovattati solo nell’attacco della cabaletta, di scrittura piuttosto grave.
Addirittura rivoluzionario appare poi sentire interpreti di Amonasro, che non solo non sbraitano con la bava alla bocca, ma si concedono il lusso di cantare piano, smorzando i suoni e differenziando nel fraseggio le fasi del confronto con la figlia, suonando sempre determinati ma di volta in volta anche teneri, insinuanti, sdegnati e infine ipocritamente consolatori, come nel successivo incontro con il mancato genero.
Quanto poi alle Aide, siamo di fronte a un panorama quasi imbarazzante per quantità e varietà delle proposte, accomunate da una caratteristica di fondo che scarseggia nelle esecutrici a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Abbiamo infatti cantanti che sono nella meno felice delle ipotesi dei soprani lirici pieni (ma lirici da Wagner, quindi corposi e risonanti in tutta la gamma) e altrimenti lirico spinti e drammatici. Ebbene tutte queste Aide hanno in comune non solo rotondità di suono e fiati consoni alle lunghe frasi verdiane, conseguenza di un pieno e assoluto dominio tecnico dello strumento, ma accento castigato e dolente, che nulla ha da invidiare a quello sfoggiato dalle tanto vantate Aide liricizzate o liricizzande. Alcune di queste corpulente esecutrici, come la giustamente mitizzata Margarethe Siems, aggiungono poi qualcosa di personale alla definizione del personaggio, chiudendo ad esempio il primo monologo con una puntatura al la bemolle acuto in pianissimo, che delinea come meglio non si potrebbe l’animo trasognato della giovane e infelice schiava.
Una chiosa a sé merita il “Nume custode e vindice” inciso da Leo Slezak e Wilhelm Hesch, fra le maggiori star dell’Opera di Vienna nei primi anni del XX secolo. Pagina puramente esornativa, che nulla aggiunge alla vicenda ma risulta fondamentale nella definizione del clima di rigida sacralità che caratterizza la corte del Faraone, questo duetto con coro richiama palesemente il linguaggio del grand-opéra. Alcuni giorni fa, proponendo la canzone ugonotta dal capolavoro meyerbeeriano nell’esecuzione di Hesch, abbiamo ricordato come il basso boemo sia stato fra gli esecutori del titolo a Vienna proprio accanto a Slezak. E alle atmosfere del grand-opéra, malgrado la traduzione tedesca, fa pensare questa esecuzione, in cui i solisti svettano e fanno a gara per squillo, ampiezza, proiezione e astratta, quasi invasata magniloquenza. Ancora Slezak s’impone, nei duetti con l’amata, per facilità di esecuzione nelle zone più scomode e disagevoli della voce (quella del passaggio superiore su tutte), trovando degni rivali solo nel portentoso Marcel Wittrisch (sentire la facilità con cui quest’ultimo cesella, alla scena della tomba, “degli anni suoi nel fiore”, rendendo in uno la tenerezza dell’amante e la disperazione del condannato a morte) e nello squillo adamantino di Heinrich Knote (quest’ultimo, a onor del vero, un poco fisso nelle tremende frasi “Io son disonorato” al finale terzo).
E proprio Slezak, interprete di riferimento (come impietosamente documentato dalla discografia) tanto in Wagner quanto in Verdi e Meyerbeer (per tacere del suo Mozart), potrebbe forse fornire una risposta a chi domandi se sia possibile affrontare qualunque repertorio, in ambito lirico, con la medesima tecnica di base. Ma forse certi interrogativi vanno interpretati in funzione retorica e dialettica piuttosto che in altro e più concreto senso.


Gli ascolti

Verdi - Aida



Atto I

Celeste Aida - Jacques Urlus (1912), Julius Patzak (1931)

Quale insolita gioia nel tuo sguardo - Inger Karen, Helge Rosvaenge & Margarete Teschemacher (1938)

Su del Nilo al sacro lido - Meta Seinemeyer, Helene Jung, Max Hirzel, Willy Bader & Ivar Andresen (1927)

Ritorna vincitor! - Margarethe Siems (1908), Frida Leider (1921), Meta Seinemeyer (1927)

Nume, custode e vindice - Wilhelm Hesch & Leo Slezak (1904)


Atto II

Chi mai fra gl'inni e i plausi...Fu la sorte dell'armi - Ottilie Metzger & Melanie Kurt (1911), Margarete Klose & Margherita Perras (1937)

Gloria all'Egitto - Margarete Teschemacher, Inger Karen, Helge Rosvaenge, Georg Hann, Ludwig Weber & Karl Schmitt-Walter - dir. Joseph Keilberth (1938)


Atto III

Qui Radamès verrà...O cieli azzurri - Melanie Kurt (1911), Maria Nemeth (1936), Margarete Teschemacher (1938)

A te grave cagion m'adduce, Aida... Su! dunque sorgete, egizie coorti - Fritz Feinhals & Berta Morena (1908), Robert Burg & Meta Seinemeyer (1928)

Pur ti riveggo, mia dolce Aida...Fuggiam gli ardori inospiti - Leo Slezak & Elsa Bland (1906), Max Lorenz & Else Gentner (1930)

Ma dimmi: per qual via - Berta Morena, Heinrich Knote & Fritz Feinhals (1908), Melanie Kurt, Jacques Urlus & Desider Zador (1910)


Atto IV

L'aborrita rivale a me sfuggia - Karin Branzell (1927)

Già i sacerdoti adunansi - Rosa Olitzka (1906), Margarete Arndt-Ober & Karl Jorn (1913), Sigrid Onégin (1920), Sabine Kalter & Richard Tauber (1923), Margarete Arndt-Ober & Lauritz Melchior (1924)

La fatal pietra...Morir! sì pura e bella - Leo Slezak & Sofie Sedlmair (1904), Jacques Urlus & Melanie Kurt (1910), Marcel Wittrisch, Margarete Teschemacher & Margarete Klose (1932)

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domenica 10 aprile 2011

Verdi Edission. Il Trovatore a 78 giri... internessional!

Quando in un cantante l’elevata statura tecnica si coniuga con l’eleganza interpretativa ed il gusto ci troviamo, allora, in presenza di un artista, che trasforma il canto in poesia, in moto dell’anima. Ecco il messaggio comune a tutti i rappresentanti della scuola tedesca, che oggi chiudono la Verdi edission, dedicata al Trovatore. In un presente afflitto da soprani che nei casi migliori fraseggiano in modo marziale oppure sibilano con voce fissa, tenori abbaianti o sbadiglianti, mezzi sguaiati degni di esibirsi al circo, ecco qua il documento di un passato straordinario, direi quasi miracoloso. La lingua tedesca la fa da padrona perché i francesi hanno tradotto in misura assai inferiore, per nulla gli spagnoli che cantavano in italiano.

Quella di lingua tedesca ( con la sola eccezione di Leon Escalais, che canta in francese ) si rivela scuola di canto all’italiana, in nulla diversa da quelle che abbiamo incontrato nelle precedenti puntate. Tanto italiana che questi cantanti, certamente eccezionali, abituati al repertorio wagneriano o, comunque, pesante esibiscono con assoluta facilità non solo un fraseggio sfumato e lirico, retto da un canto perfettamente legato, una voce omogenea in tutta la gamma ed alta qualità timbrica, ma anche irreprensibile dimestichezza con i passi di scrittura fiorita, trilli in primis, e completo dominio del registro acuto. Alcuni di loro, aggiungo, si comportano come veri belcantisti, a cominciare da quella cantante quasi inumana che fu Siegrid Onegin, la sola in grado di sopravanzare la perfezione di Ebe Stignani; il baritono Heinrich Schlusnus, che canta e si esprime nel “Balen del suo sorriso” con l’eleganza, il legato, il lirismo e gli acuti squillanti di un grande amoroso romantico, per non parlare dell’aplomb esecutivo ed interpretativo del duetto del quarto atto, un modello di canto verdiano; di Frau Margarete Siems, allieva di Pauline Viardot e preziosa testimone audio della grande tecnica di canto del XIX secolo, falsamente ritenuta non documentata, che canta con assoluta facilità ed eleganza un lentissimo “D’amor sull’ali rosee”, mostrando un controllo della voce al di sopra del si bem da fare impallidire una Sutherland ( la signora amministrava contemporaneamente il Rigoletto, l’Aida, la Traviata, gli Ugonotti in entrambe le parti femminili, la Norma, il Ballo, la Lucia, la Marescialla e Zerbinetta, tanto per capire con quale fenomeno abbiamo a che fare ..); Frau Frieda Leider, wagneriana leggendaria, perfetta come nessuna dopo di lei, anzi ultima a sapere affrontare il repertorio italiano con lo stile, l’accento e la perfezione tecnica, che i passi di Leonora dimostrano. Per la Leider non esistono note acute, e nemmeno note gravi, ma solo note, tutte perfettamente identiche, emesse senza sforzo alcuno, trilli stupendi inclusi, i fiati sono di un’ampiezza, che impressiona: nessuna è mai più tornata al suo livello, a dispensare Brunhildi e Norme contemporaneamente in questo modo. La sua Leonora è strepitosa, dotata di eleganza e slancio davvero verdiani nel duetto del questo atto con Schlusnus, accento lirico e soavissimo nelle arie, dove esibisce prodigiose smorzature in tessitura acuta nell’aria finale ed un uso sapiente dei rallentando. Modalità espressiva questa che viene dall’antico perché è la medesima di Frau Siems. Nemmeno le agilità le costano fatica, il trillo poi è pari a quello delle belcantiste moderne.
Nel registro di mezzosoprano Margarete Matzenauer, versatile stella del Metropolitan negli anni ’10-’30, è un'altra cantante formidabile per mezzi e tecnica. Nel duetto con Knote ci ha lasciato una documentazione preziosa per gusto, accento e dei suoi celebri acuti in “falsetto femminile”, nella fattispecie il do5 scritto di “Perigliarti ancor languente”, probabilmente i modi dell’emissione dei leggendari re nat 5 di Rosmunda Pisaroni e che sentiamo anche nelle incisioni di Ernestine Schumann Heink. Ma c’erano anche interpreti come Barbara Kemp, soprano anni ’20, che, pur avendo calcato i maggiori palcoscenici tedeschi non uscì mai dai confini patri, ci ha lasciato un “D’amor sull’ali rosee” lunare, una sorta di “Casta diva” verdiana di grandissima suggestione cantata con voce bellissima, oppure il professionismo impeccabile, per emissione e gusto compostissimo di una Runger, che canta in compagnia del dolcissimo Julius Patzak dalla voce morbida e legata. Alle medesime conclusioni si giunge ascoltando Sabine Kalter capace congiuntamente di eleganza e compostezza, che le consente di essere alla conclusione del “Condotta ell’era in ceppi” allucinata ed espressiva al tempo stesso senza indulgere in alcuno degli effetti che rendono Azucena una caricatura. Tralasciamo poi che gli acuti e in generale la zona medio alta della voce ha una risonanza ed uno squillo di rara qualità.
Come già nella puntata sui 78 giri in lingua italiana rileviamo un cambio nel gusto tra i tenori dei primissimi anni del novecento e quelli immediatamente successivi. Tra i più arcaici Leo Slezak, tenore di forza solito praticare anche Ugonotti, Ernani e Lucia di Lammermoor, in subordine Lohengrin e Tannhauser, canta con i modi e le libertà dei tenori ottocenteschi, oltre che con una voce bellissima; Jacques Urlus, tenore spinto dalla voce forse un po’ meno “bella” di Slezak (che sia detto subito era un super dotato), ma che coniuga il canto del tenore eroico con la morbidezza, il legato, l’accento epico accompagnato ad un buon trillo e facili smorzature. Per la cronaca e la polemica il repertorio di Urlus coincide con quello dell’oggi ultra incensato Jonas! Di Heinrich Knote, il wagneriano della triade, si apprezzano le medesime qualità, il legato, lo squillo e le soluzioni espressive, come i piani e le messe di voce dell’ ”Ah si ben mio”, senza dimenticare che anche lui….trillava con facilità. Tenori come Voelker, Patzak e Roswaenge hanno già un gusto postottocentesco, secondo quell’evoluzione che abbiamo visto per i tenori della puntata scorsa. Franz Voelker, ad onta del repertorio spinto praticato, e Julius Patzak aderiscono ad una concezione più lirica di Manrico ( idea per nulla originale quella a noi contemporanea..!), di grande timbro e legato, mentre Roswaenge, al contrario del primo, canta con maggiore epica e piglio, e con un gusto ancora a mezza strada tra l’ottocento ed il tenore postcarusiano. Rimangono a noi documenti di una koinè culturale di aerea tedesca completamente estintasi col secondo dopoguerra. Giocate un po’ voi con l’immaginazione e mettete a cantare il Trovatore, nella vostra mente, le stelle della “Collina” wagneriana, soprattutto quelle recenti, ma fate attenzione perchè potreste morire di spavento!!!


Gli ascolti

Giuseppe Verdi

Il trovatore


Atto I



Tacea la notte placida...Di tale amor che dirsi - Irene Abendroth (1902), Barbara Kemp (1919), Frida Leider (1925), Tiana Lemnitz (1939)

Di geloso amor sprezzato - Heinrich Schlusnus, Frida Leider & Julius Huett (1925)


Atto II


Stride la vampa - Margarete Matzenauer (1910), Sigrid Onegin (1919)

Condotta ell'era in ceppi - Sabine Kalter (1926)

Mal reggendo all'aspro assalto - Julius Patzak & Gertrud Runger (1936)

Perigliarti ancor languente - Margarete Matzenauer & Heinrich Knote (1909)

Il balen del suo sorriso - Heinrich Schlusnus (1925)


Atto III


Ah sì, ben mio - Jacques Urlus (1923), Leo Slezak (1907), Heinrich Knote (1906), Leon Escalais (1906), Franz Voelker (1928), Helge Rosvaenge (1938)

Di quella pira - Tino Pattiera (1916), Leon Escalais (1906)


Atto IV


D'amor sull'ali rosee - Margarethe Siems (1908), Barbara Kemp (1919), Frida Leider (1925), Tiana Lemnitz (1939)

Miserere - Meta Seinemeyer & John Glaser (1928)

Mira d'acerbe lagrime - Frida Leider & Heinrich Schlusnus (1925)

Ai nostri monti - Julius Patzak & Getrud Runger (1936), Richard Tauber & Sabine Kalter (1926), Helge Rosvaenge & Friedel Beckmann (1943)

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domenica 23 novembre 2008

Il tenore prima di Caruso e del Verismo, parte I


La fama di Juan Diego Florez e la scelta dello stesso di dedicare a Giovan Battista Rubini il suo ultimo recital possono far discutere, per la quasi totale assenza di legame fra il tenore peruviano ed il divo bergamasco.
Contro i detrattori o gli scettici nei confronti di Florez viene avazata l’obiezione, assai facile, che non esistono documentazioni fonografiche di Rubini, ma solo descrizioni scritte che, come tutti i documenti cartacei, debbono, poi, essere interpretate.
Credo, al contrario, che, nonostante l'assenza di documentazione diretta, ci sia molto, molto di più ossia la tradizione vocale ed interpretativa del tenore prima di Caruso, che si rifà al tenore romantico di cui Rubini con Nourrit fu il paradigma e l’esempio. Sino alla svolta impressa da Caruso, in quanto modello del tenore verista, alla vocalità maschile.
I reperti del canto e del gusto dei tenori prima di Caruso sono numerosi e significativi. E se anche nessuno di questi può essere direttamente riferibile a Rubini può, però, essere l’immagine della tecnica e del gusto praticato ad ogni latitudine o longitudine sul finire del secolo XIX, prima del mutamento di gusto e l’affermarsi della vocalità verista
I tenori di estrazione ottocentesca, se non vogliamo usare il termine, rubiniana cantavano tutti in modo simile. La comunanza di lessico tecnico è evidentissima, come l’interpretativa.
Erano, famosissimi, famosi e “di fianco” tutti in grado di passare ad ogni altezza del pentagramma dal piano al forte, talvolta, anche partendo dal pianissimo, cantavano le note acute a piena voce, in falsettone e, talvolta, anche in falsetto (nota è la prodezza al do bem del duettone degli Ugonotti di ripetere la frase “dillo ancor” in falsetto, in falsettone e, poi, a piena voce), molti di loro eseguivano correttamente e qualcuno addirittura spericolatamente passi di agilità piuttosto complessi, molti trillavano con facilità, anche eseguendo le opere di Verdi, erano in genere rispettosi dei segni di espressione. Anzi spesso ne aggiungevano molti e propri, anche perché di segni di espressione e di dinamica, sino al primo Verdi, i compositori erano parchi, essendo dinamica ed agogica pertinenti la sfera dell’interpretazione e, quindi, esclusivo diritto del cantante.
In questo senso anche tenori del dopo Caruso come Fleta, Lauri-Volpi, Schipa, Wittrish e D’Arkor furono ancora vicini al modello ottocentesco.
Questo dominio tecnico consentiva a Manrico di essere il Conte d’Almaviva a don Ottavio di essere Raoul de Nangis a Tannahauser di essere Faust. E, più in generale, la padronanza tecnica era (e sarebbe anche oggi) un mezzo di espressione e, quindi, di rispetto della volontà dell’autore banditi come erano suoni forzati, esecuzioni stentoree e squadrate per dinamica e agogica. Un’altra costante è che anche i cosiddetti tenori di forza suonassero squillantissimi in alto, capaci di smorzature e, comunque, di colore chiaro, rispetto ai tenori cosiddetti di forza portati in auge proprio da Caruso, che nella fase finale della carriera suonava più scuro di un baritono. Al riguardo vedasi i duetti con De Luca del 1920, se, poi, si tiene conto che Caruso interpreta Nemorino..........
E chiaro che ci sono anche difetti che al nostro orecchio ed al nostro gusto suonano poco gradevoli.
In primo luogo la libertà dinamica ed agogica, può apparire leziosaggine, com’è sgradevole la tendenza di tutti i tenori, specie se di grazia, ad emettere molto aperte le vocali dei suoni centrali e magari, la libertà famosissima e censuratissima di far cadere suoni scomodi su vocali più comode di quelle del testo. In proposito, però, non vedo perché gridare allo scandalo per “il mio sol pensier sei te” di Fernando de Lucia e non per “le tenebre fonde” di Imogene secondo Felice Romani, trasformate in “ tenebre oscure” da Maria Callas.
L’ascolto, con queste premesse riserva sorprese assolute una sorta di viaggio nel tempo e nell’arte molto particolare ed interessante.
Gino Monaldi nel suo “cantanti celebri” scrive di Mario:" una sera del 1864 in casa di Paolina Lucca -nota editrice di musica- mi fu dato di sentirgli cantare la serenata del Barbiere e il duetto del Rigoletto. Mario era già avanti con l'età e aveva quasi abbandonato le scene: l suono della sua voce conservava nondimeno la purezza adamantina dei suoi verd'anni e il metodo era sempre quello suo squisitissimo e inimitabile che fece di lui il più geniale fra i cantanti di teatro. Ebbene, alle prime note uscite dalla sua gola confesso d'aver provato anch'io un senso spiacevole, quasi disgustoso. Quei suoni chiari ed aperti, quel fraseggiare scandito, quella sillabazione martellata, quel modo di cantare così singolare e cotanto dissimile da ogni altro, mi sembravano una leziosaggine e una smanceria antipatica. Man mano però, che quella voce e quel canto mi penetravano nell'anima provavo un gaudio e una dolcezza infinita. Mai la voce umana mi era apparsa così ricca e così varia di poetica espressione. Quando uscii da quella casa ero pieno d'una delizia intensa, non mai finora provata. Il fenomeno più strano fu questo: che per qualche tempo non seppi più tollerare altre voci e altri cantanti. Tutti, anche i migliori, mi sembravano quasi coristi al confronto de grande Mario."
Credo che non sia difficile trovare rispecchiate le parole di Monaldi dedicate a Mario con riferimento ad un altro mito di fine ottocento Francesco (meglio noto come Checco) Marconi (1855-1916), che cinquantacinquenne esegue, integrale, con Maria Galvany, la sezione conclusiva del duetto finale dei Puritani.
E’ un altro Bellini rispetto anche a quello cui la più celebrata coppia dei nostri giorni, (Sutherland-Kraus) ci ha abituati. Persino la più belliniana coppia, che la registrazione documenti, appare piatta e metronomica nel raffronto con questa primordiale registrazione. Le libertà (molte e soprattutto maschili) della coppia Marconi-Galvany in fatto di tempi e dinamica si risolvono in una esecuzione dolcissima, sfumatissima, veramente protoromantica, ma per nulla sdilinquita o asettica.
Ancora un Marconi esausto e di cui è evidente ormai la voce priva di smalto e di corpo cesella come il momento scenico impone il “cielo e mar” a tal punto da far apparire squadrato e poco fantasioso persino Beniamino Gigli, che della aria di Enzo ha offerto una esecuzione di assoluto riferimento. Non riesco ad immaginare il confronto con il poco felice Pavarotti della registrazione ufficiale Decca o Josè Cura, che il pubblico scaligero apostrofò per certi atteggiamenti più consoni ad un california dream men, che non al nobile Enzo Grimaldo.
Un altro stupore assoluto viene dall’esecuzione della cavatina di Almaviva di Hermann Jadlowker (1877-1953), il quale cantava d’abitudine Otello di Verdi o, magari, Bacchus di Ariadne auf Naxos, salvo, poi, eseguire a voce piena volate, scale ed arpeggi nei panni del Conte o, addirittura, rimpolpare la cadenza prevista per Raoul negli Ugonotti.
La corretta esecuzione dell’ornamentazione era comune e praticata anche da tenori wagneriani come il più celebre heldentenor prima di Melchior, ossia Jacques Urlus (1867-1935) che trilla nell’aria di Manrico o Heinrich Knote (1870-1953), che esegue il duetto con Azucena con inserimento di falsettoni e, comunque, con una precisione di espressione e rispetto dei segni di espressione rare, comunque, impensabili al momento attuale per un tenore, che eseguiva d’abitudine Wagner e ruoli spinti.
Ovvio che il falsettone era applicato sistematicamente al repertorio francese.
Un tenore ritenuto di forza, Otello e Jean de Leyda, che esegua con un legato immacolato ed un falsettone perfetto l’aria della Dame Blanche di Boieldeau, come Leo Slezak (1873-1946) oggi è impensabile.
Era poi ovvio logico e scontato che nei panni di Lohengrin fossero tutti estatici, dolcissimi e con una linea di canto esattissima e che ad un canto legato, sfumato e raccolto si attenesse anche l'esecuzione dell'aria di Manrico.
Ma l’esecuzione dei passi di agilità era la prassi anche per la scuola francese, come risulta dalla siciliana del Robert Le Diable di Leon Escalais (1859-1941).
Però Esclais, cui l’aspetto fisico, tutt’altro che avvenente, precluse il palcoscenico più importante di Francia esegue con estasi ed eleganza, oltre che acuti squillanti e penetrati, l’aria di Gaston dalla Jerusalem. E alle prese con “Suplice imfame”, versione francese della più nota pira esibisce una saldezza ed uno squillo in alto, che neppure i sistemi primordiali di registrazione possono tarpare. O se lo fanno consentono di ascoltare una vocalità ed un’interpretazione perdute come idea ancor prima che come realizzazione.



Ascolti


Checco Marconi - I Puritani - “Vieni fra queste braccia" - con Maria Galvany
Checco Marconi - La Gioconda - “Cielo e mar”


Hermann Jadlowker - Il Barbiere di Siviglia - “Ecco ridente in cielo”
Hermann Jadlowker - Gli Ugonotti - “Bianca al par di neve alpina”
Hermann Jadlowker - Lohengrin - " Mercè cigno gentile"

Jacques Urlus - Il Trovatore - “Ah si ben mio”

Heinrich Knote - Il Trovatore - “Mal reggendo” - con Margarete Matzenauer

Leo Slezak - La Dame Blanche - “ Vien gentile dame”
Leo Slezak - Les Huguenots - "Grande Duetto" - con Elsa Bland
Leo Slezak - Il Trovatore - "Ah si ben mio"

Leon Escalais - Robert Le Diable - “Au tournoi chevaliers”
Leon Escalais - Jerusalem - "Je veux encore entendre"
Leon Escalais - Le Trouvère - “Suplice infame”



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mercoledì 2 luglio 2008

Il tenore prima di Caruso e del Verismo, parte VI

L’ascolto delle registrazioni di Carl Jorn, Jacques Urlus, Heinrich Knote è ancor più esemplificativo e non solo del gusto e della tecnica di canto dei tenori pre carusiani di quanto non lo siano le registrazioni di Slezak ed Jadlowker.
In primo luogo dimostra come il canto wagneriano, se praticato con l’opportuno supporto tecnico non accorcia e non distrugge nessuna carriera e il più delle volte può essere praticato contemporaneamente a titoli ben differenti per esigenze vocali ed interpretative da quelli wagneriani, Mozart compreso.
Dimostrano poi e con particolare riferimento ad Heinrich Knote che le registrazioni acustiche possono restituire una immagine assolutamente parziale delle voci soprattutto sotto il profilo dell’ampiezza, penetrazione e vibrazione.
Heinrich Knote debuttò nel 1892, nei primi anni del XIX cantava ed incideva le più onerose parti di Wagner e gli estratti delle stese vennero riproposti in disco nel 1930. Nei venticinque anni, che intercorsero fra le due serie di registrazioni possiamo, con riferimento ai brani wagneriani, osservare come la voce si fosse un poco indurita, ma squillo, fermezza e saldezza in un cantante quasi sessantenne e con quella frequentazione di repertorio portano a ritenere che gli acustici del 1908 costituiscano immagine parziale delle doti vocali del cantante.
Siccome Knote sapeva cantare e con una linea di canto assolutamente scevra da ogni parlato non cantò mai a Bayreuth. L’ approccio al repertorio italiano e francese è quello di un cantante non forse fantasiosissimo, ma solido e tecnicamente di tale levatura da trillare nella aria di Manrico e capace di eseguire i passi di agilità, previsti da Flotow ,nell’aria dello Stradella, dove gli acuti suonano squillanti e penetranti, fatta la debita tara dei metodi di registrazione.
Quando esegue il repertorio italiano Knote restituisce anch’egli, senza la qualità timbrica eccezionale di Slezak un’immagine, scevra da ogni eccesso verista come accade nel duetto del secondo atto con Azucena, una Margarete Matzenauer, che nella propria esecuzione esplicita perché la zingara verdiana incontrasse i favori di cantanti di ascendenza, addirittura rossiniana, come la Borghi-Mamo o la Viardot.
Carl Jorn , che era lettone e coetaneo di Jadlowker è ancora più lontano da stilemi e gusto post ottocenteschi, anche eseguendo opere come Carmen e Cavalleria rusticana, che, della poetica e del gusto verista, sono gli assoluti paradigmi.
Nell’aria di don Josè l’incipit è dimesso, nessuna esagitazione e singhiozzo di marca verista, colpiscono nel passaggio di registro (l’aria non è affatto acuta) il pronunciato immascheramento dei suoni sicché quando arrivano i primi acuti la voce è squillante e brillante. Sul famoso si bem di "libero schiavo amor mi fe" Jorn esegue una prodezza, ossia inserisce una messa di voce, che nella nostra abitudine di ascoltatori è tipica delle voci femminili alla Olivero piuttosto che alla Caballé, golden age. Il suono è emesso con prevalenza delle risonanze di testa, che erano a regola dei tenori ante verismo e che per la verità venne anche praticata successivamente come attestano le registrazioni di Gigli e di Rosveange e di buona parte dei tenori di scuola francese. Andre d’Arkor sopratutti ed in tempi recenti Alain Vanzo. Altro accorgimento tipico della scuola antica (l’esempio nel bene e nel male è Fernando de Lucia) è attaccare piano o mezzo forte gli acuti per rinforzarli. Era un accorgimento che, sotto il profilo tecnico consentiva di controllare l’emissione del suono e sotto quello espressivo dava al canto, soprattutto d’amore una varietà di accento, oggi sconosciuta. A titolo di esempio e senza nessuna vis polemica invito a risentire l’ultima esecuzione dell’aria di Carmen ad opera di un tenore, oggi famosissimo come Marcelo Alvarez.
Fra l’altro in compagnia in Carmen di una della sacerdotesse del nascente verismo come la Destinn, e con un soprano wagneriano famoso per il rigore tecnico e stilistico come Melanie Kurt nei panni, invece di Santuzza, Jorn rimane sempre uguale a sé stesso, ossia composto ed attento ai segni di espressione, sempre misurato e con una voce, sotto il profilo della qualità, sorprendente ad onta di metodi di registrazione primitivi. Anche in personaggi, diciamo post romantici, Jorn non omette smorzature ed è prodigo di messe di voce, evita singulti e ricorsi al parlato. La differenza con la Destinn è assoluta. Sono, credo, due mondi che si confrontano. E se nelle frasi finali Jorn ricorre a qualche inflessione del declamato arrivato al "o mia Carmen adorata" canta e non grida.
L’esecuzione che desta stupore ed ammirazione agli ascoltatori moderni è quella del duettone degli Ugonotti e del duetto d’amore del Faust, due topici della vocalità tenorile ottocentesca. Le caratteristiche tecniche e stilistiche vengono esaltate e se anche l’attacco del re bem del famoso " ah vien" è incerto, la nota, poi, si amplia e sviluppa. Ma ancor più colpiscono l’accento dolente della prima sezione del duetto dell’eroe spaventato per l’imminente fine cui succede, poi, l’innamorato. Come le acclamate primedonne degli ultimi cinquant’anni Jorn pratica una dinamica sfumata, sicchè ogni nota medio alta è sempre attaccata piano, rinforzata e smorzata, analogo procedimento viene applicato a suoni di lunga durata e il famoso "dillo ah dillo" vede Jorn schierato alla tradizione dei do bem eseguiti in falsetto, in falsettone (sarebbe più corretto dire con un misto) e, poi, a piena voce.
Nel ruolo di Faust Jorn appartiene alla tradizione dei protagonisti dalla voce scura e possente ( Faust, a parte il do della "presence", non è affatto una parte acuta) ciò non gli impedisce di essere dolce e squillante al tempo stesso, di attaccare la sezione centrale "oh nuit d’amour" con un timbratissimo e squillante pianissimo, oggi sconosciuto e che rende il clima di estasi amorosa previsto dall’autore.

Dei tre tenori il più famoso fu Urlus. Il tenore olandese frequentò con poche esclusioni tutto il repertorio Wagner (fu il Tristano del primo cast al Covent Garden, al debutto di Lauritz Melchior, che gli subentrava in secondo), Mozart, ed il repertorio italiano, con una preferenza per Verdi e quello francese, dal grand-opera alla Carmen. Siccome operò in pratica in regime di monopolio in alcuni teatri come Lipsia, Monaco, sia pure sporadicamente si esibì nel repertorio post romantico. Sia detto per inciso il suo Mario Cavaradossi o il suo Rodolfo sono ben cantati ed anche ben interpretati, ma rimaneva un tenore di un’altra epoca e di un altro repertorio.
Il timbro, senza essere quello eccezionale di Slezak era bello, salvo qualche durezza e fissità negli acuti, specie nelle registrazioni dopo il 1920 (Urlus, allora era oltre i cinquanta ed in carriera da trenta).
Le osservazioni su Jacques Urlus devono essere le ultime perché credo che il tenore olandese, riassuma i pregi moltissimi ed i difetti pochi ( anzi personalmente non ne trovo se non certe durezze in zona alta) di tutti i tenori di area middle europea coetanei di Caruso, suoi antagonisti o metri di paragone al Met, interpreti tutti di rara completezza tecnica e misura interpretativa.
Una pattuglia così nutrita (la prossima riflessione e conclusiva sarà sui tenori di area francese) ricorda per caratteristiche tecniche ed espressive il plotone di agguerrite prime donne che seguì l’avvento della Callas. Solo che nel caso di questi cantori è estremamente difficili individuare un progenitore o un archetipo, anche perché il gusto e la tecnica italiana circolavano per l’Europa e spesso cantanti tedeschi, cechi, polacchi studiavano in Italia. Una cosa è certa il fenomeno Caruso, perché di fenomeno si trattò non li sfiorò neppure lontanamente. Basta per sincerarsene sentire Urlus che alterna la parte di Arnoldo a quella di Siegmund. E sino qui nulla di strano se non fosse che il nostro solido olandese squilla nei panni dell’eroe rossiniano ricordando la freschezza di un Tamagno o di un Escalais e regge senza sforzo (e in tutti e due i casi lo fece spesso in teatro) la scrittura centrale di Wagner. Nel primo caso senza strozzarsi nella zona di passaggio nel secondo senza uscire distrutto dalla scrittura. In realtà nella concezione interpretativa ( e qui so che i fautori di Wagner uber alles, grideranno allo scandalo) poco o nulla cambia siamo dinnanzi a due personaggi fortemente idealizzati, due eroi, che non possono che esprimersi che con il linguaggio aulico che all’eroe compete.
I pescatori, i commedianti, i seduttori di un assolato paese della Sicilia sono quanto di più lontano posse esserci dalla mentalità prima ancora che dall’esecuzione vocale del biondo tenore olandese.

Gli ascolti

Heinrich Knote

Flotow - Alessandro Stradella - Tief in den Abruzzen
Mozart - Die Zauberflöte - Dies Bildnis
Verdi - Il trovatore - Ah si, ben mio
Wagner - Die Meistersinger von Nurnberg - Am stillen Herd - 1906
Wagner - Die Meistersinger von Nurnberg - Am stillen Herd - 1930
Wagner - Die Meistersinger von Nurnberg - Morgendlich
Wagner - Lohengrin - Mein lieber Schwan
Wagner - Lohengrin - In fernem Land
Wagner - Die Walküre - Ein Schwert
Wagner - Siegfried - Nothung! Nothung!
Wagner - Götterdämmerung- Brunnhilde, heilige Braut


Karl Joern

Bizet - Carmen - La fleur que tu m'avais jetée
Bizet - Carmen - C'est toi?...C'est moi!
Gounod - Faust - Rien, en vain j'interroge
Gounod - Faust - Salut, demeure chaste et pure
Gounod - Faust - Il se fait tard (con Emmy Destinn)
Mascagni - Cavalleria rusticana - Tu qui Santuzza? (con Melanie Kurt)
Meyerbeer - Les Huguenots - O ciel! Où courez-vous? (con Emmy Destinn)
Wagner - Götterdämmerung - O heilige Goetter! (con Melanie Kurt)

Jacques Urlus

Massenet - Le Cid - O Souverain
Meyerbeer - Le Prophète - Pour Berthe
Puccini - Tosca - E lucevan le stelle
Rossini - Guillaume Tell - Ah, Mathilde
Verdi - Il trovatore - Ah sì, ben mio
Verdi - Aida - Celeste Aida
Verdi - Aida - O terra addio (con Melanie Kurt)
Verdi - Otello - Niun mi tema
Wagner - Lohengrin - In fernem Land
Wagner - Die Walküre - Annuncio di morte (con Melanie Kurt)

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sabato 12 aprile 2008

Il tenore prima di Caruso e del Verismo, parte V: Jadlowker e Slezak.

Le cronologie delle carriere dei cantanti e dei teatri possono, talvolta, non rivelarsi semplici elenchi di rappresentazioni, ma validi strumenti per riconsiderare o ridimensionare opinioni accreditate e miti. Quelle del Metropolitan, ad esempio, smentiscono che, nel periodo di permanenza nel teatro americano, Caruso avesse il monopolio dei ruoli tenorili e fosse l’unico grande tenore ad esibirsi sul massimo palcoscenico nordamericano, dove, a smentire la leggenda, dal 1905 al 1917 si produssero i più completi interpreti di area mitteleuropea e non limitati al repertorio tedesco: Jacques Urlus (1867-1935), Heinrich Knote (1870-1953), Leo Slezak (1873-1946, che fra l’altro affrontò il ruolo di Otello, che Caruso sempre evitò) Karl Jörn (1873-1947) ed Hermann Jadlowker (1877- 1953).
Non furono esclusivi tenori del Met, palcoscenico che, anzi, configurò per tutti una parentesi della carriera per essere, invece, indiscussi protagonisti nei maggiori teatri della Mitteleuropa, ossia Monaco, Berlino, Karlsruhe e Vienna con puntate al Met ed al Covent Garden. Se si eccettua la partecipazione di Slezak alla rappresentazione di Tannhäuser del 1905 alla Scala, non frequentarono alcun teatro italiano e le loro registrazioni non furono diffuse in Italia sino all’avvento delle ristampe dapprima in vinile e poi in cd, sicchè, anche la critica più attenta alla storia della vocalità spesso ne ha avuto una conoscenza limitata.Inoltre, benché coetanei di Caruso o addirittura di poco più giovani, furono tenori ottocenteschi per la scelta del repertorio e per gusto interpretativo.
I rapporti con il Verismo, che tanto deve a Caruso e cui Caruso molto deve, furono assolutamente sporadici e la loro interpretazione assolutamente svincolata da quella poetica. Il loro repertorio fu imperniato sul grand–opéra, Wagner (particolarmente Jörn, Urlus e Knote), molto repertorio francese post grand-opéra; soprattutto per Slezak, Jörn e Jadlowker il repertorio italiano, spesso in lingua originale. Tutti cantarono, inoltre, il ruolo di Tamino del Flauto magico ed Jadlowker, esimio virtuoso, anche il Ratto dal Serraglio. Quanto a Wagner va precisato che il solo Urlus, nel 1911 e 1912, si esibì a Bayreuth, a riprova che, nel luogo ufficialmente deputato alla corretta divulgazione del verbo wagneriano, i migliori cantanti non erano graditi ed apprezzati. Donde il legittimo dubbio che l’autentico canto wagneriano sia ab origine differente da quello proposto ed imposto nella “celeste Jerosolima” creata dal Maestro. Occasionalmente, poi, affrontarono il repertorio verista, con predilezione per la parte di Canio dei Pagliacci, modello del dramma e della vocalità verista, ma per i cantanti mitteleuropei l’unica opera contemporanea cantata da de Reszke, loro cantante di assoluto riferimento. Repertorio e conseguenti registrazioni offrono la possibilità di una dettagliata immagine di tutti questi cantanti e di un modo di affrontare il melodramma, irrimediabilmente perduto. Purtroppo perché il loro era un approccio non solo tecnicamente inappuntabile, ma di completezza musicale ed interpretativa, ormai perdute.
Oggi, dopo la Rossini renaissance, lo stupore maggiore e la curiosità maggiore la desta Hermann Jadlowker per l’esecuzione delle agilità di forza sia nell’aria di Almaviva del Barbiere, già proposta nel primo numero di queste riflessioni, sia, e soprattutto, per quella dell’Idomeneo eseguita in tedesco, ma con tecnica e gusto italiani.In generale dubito che le registrazioni siano in grado di rendere piena giustizia al tenore lettone, il cui timbro, paragonato, proprio dopo le apparizioni al Met, a quello di Caruso del periodo aureo, appare, invece, piuttosto anonimo e non certo peculiare, aggravato da un certa fissità della gamma acuta.
Jadlowker, però, oggi strabilia per altri aspetti della propria arte. Nessun tenore può competere con questo cimelio, per l’ampiezza e la facilità con cui sono sostenute la scrittura centrale da vero baritenore, il mordente lo slancio e la precisione delle esecuzione dei passi di agilità, che impongono all’esecutore ogni forma di ornamento, trilli compresi. Nel raffronto con una delle maggiori star del tempo, Frieda Hempel, il tenore, nel duetto primo di Traviata, eseguendo sul “di quell’amor” una variante acuta - credo di provenienza verdiana o autorizzata da Verdi- che tutte le grandi Violette interpolavano, ma alla grande aria ricorda i tenori della Rossini renaissance, assolutamente pari alle colleghe nel reclamare il diritto e il dovere di fare sfoggio di perizia tecnica.
Jadlowker, nonostante la voce scura e brunita (e con il limite degli acuti fissi), monta in cattedra, come un tenore del secolo XIX, quando affronta il grand-opéra. Nel duetto con Margherita è l’unico tenore che esegua integralmente le agilità e rivaleggi con la partner di elezione Frieda Hempel. L’esecuzione del duetto è un viaggio nel tempo; ci offre un’esecuzione cui siamo totalmente disabituati per la compresenza e dello slancio e la forza dell’agilità congiunti al languore, che la situazione, per certo erotica, impone, nonostante la ambientazione storica.Nella grande aria del primo atto degli Ugonotti, confronto per tutti i grandi tenori sino agli anni venti del XX secolo (qui eseguita in francese), Jadlowker, senza esibire il misto fascinoso di Slezak, allo “spectacle divin” sfoggia una paradisiaca smorzatura su uno scomodo mi bem e coglie il senso estatico del brano smorzando alla perfezione il sol acuto di “e le dicea”, sino ad arrivare alla cadenza, che come si conviene ad un grande virtuoso è debitamente rimpolpata rispetto al testo ed alla tradizione degli altri tenori.
La dimostrazione della grandezza del vocalista è nell’esecuzione dell’aria del terzo atto di Fra Diavolo di Auber (titolo che attirò tutti i maggiori tenori sino a Lauri-Volpi e Pertile) dove il tenore lettone canta, quando il testo gli chiede di imitare la voce femminile, con un falsetto penetrante e dolcissimo prendendosi, poi, il lusso di ritornare alla voce maschile senza presa di fiato e senza compromettere la linea musicale. L’esibizione del grande cantante comprende, nella sezione conclusiva dell’aria, dapprima sillabati e, poi, tutti i tipi di figure ornamentali, scale, volate e arpeggiati.Eppure Jadlowker è lo stesso cantante, che esegue con eleganza, precisione, accento ispirato l’addio al cigno del Lohengrin. Un protagonista wagneriano, che canta lega e fraseggia come i personaggi di Meyerbeer. Anche perché l’idea della discendenza di Wagner dal grand-opéra è rimarcata costantemente in questi cantanti.
Leo Slezak, che nella propria epoca era ritenuto un grandissimo cantante, dotato di presenza scenica per la statura gigantesca, anche se attore molto statico, ascoltato nelle registrazioni di cento anni or sono appare uno straordinario attore vocale. L’attore vocale è quell’artista che, all’opposto del cantante attore, nulla deve dei propri effetti espressivi ad elementi differenti dalla voce e dalla tecnica di canto. Per comune giudizio attore vocale per eccellenza fu Beniamino Gigli. Slezak ne è un precedente ancor più clamoroso e completo, in quanto nelle registrazioni non indulge a qualcuno degli effetti, che, secondo alcuni, offuscano la fama di Gigli. Nel volgere di dieci battute l’amoroso del grand-opéra è differente da quello di Verdi e da quello dell’opera francese, il personaggio wagneriano è sacrale ed ispirato come compete ad semidio.
L’attore vocale, dicevamo. Le scelte di ascolti cercano di esemplificarlo.Cantante del grand-opera alle prese con Raoul de Nangis, Slezak cambia colore ed accento in ogni brano. All’entrata (“Qui sotto il cielo di Turenna”) colpiscono gli acuti penetranti e squillanti. E’ la rappresentazione del nobiluomo fra i suoi pari. Arrivato alla famosissima aria Slezak cambia: è sognante ed estatico, oltretutto con una voce grande ed ampia. Nelle prime parole della sezione conclusiva del recitativo esibisce il “misto” quello di Gigli e, prima ancora,di Masini. Nel corso dell’aria, che insiste sulla zona del cosiddetto passaggio, la voce man mano che sale acquista proiezione e squillo. Nella cadenza, senza essere un virtuoso compiaciuto alla Jadlowker, esegue quanto previsto.
A differenza dei coevi tenori italiani o di tenori italiani, di identico gusto e repertorio, Slezak è molto meno arbitrario nei tempi, salvo alla sezione conclusiva dell’aria dove accelera e allarga con grande fantasia. Fantasia inspirata dall’autore stesso che sui vari “ognor” della chiusa prevede diminuendo e crescendo, cui Slezak aggiunge, appunto, rallentando ed accelerando, proponendo, poi, una cadenza ben più articolata di quella di un mitico Raoul come Giacomo Lauri Volpi.
Nel celebrato “duettone”, già proposto nella sezione centrale e conclusiva, alla frase “ dillo, ah dillo” Slezak rispecchia l’indicazione “con tenerezza” per, poi, squillare sugli acuti. Pur eseguendo la versione al si bem alla cadenza “ ah vieni” anziché il re bem Slezak smorza e rinforza la nota con irrisoria facilità. Alla sezione finale, quando all’estasi amorosa subentra la certezza della fine tragica ed imminente, il colore della voce, prima ancora che l’accento, netto e scandito, muta.
Slezak, però, non è solo un tenore da grand-opéra: è un grandissimo interprete di Verdi, più vario nell’accento della stragrande maggioranza dei tenori degli ultimi cinquant’anni e molto meno arbitrario di tutti i suoi coetanei, specie se di lingua italiana o spagnola. Il che non guasta al gusto attuale, ove compensato da una resa interpretativa.
Il colore della voce di Manrico, presago come Raoul della fine imminente, è, però, differente da quella dell’eroe di Meyerbeer. Slezak rispetta tutti i segni di espressione previsti da Verdi, sfoggia una espressivissima forcella sul “braccio avrò più forte”, cambia – ecco l’attore vocale - colore della voce per rispettare l’indicazione “con dolore” prevista su “ma pur se nella pagina”, con irrisoria facilità attacca, a mezza voce, la seconda sezione dell’aria dove (a differenza di Urlus e di Jadlowker) omette i trilli previsti da Verdi, ma inserisce un bellissimo pianissimo e una puntatura molto espressiva. Opta stranamente per una chiusura priva della cadenza di tradizione.
Nei panni del duca di Mantova, nessuna volgarità, nessun eccesso di ormoni ed istinto predatorio, che connotano i tenori, specie di genere spinto, nei panni dello sciagurato seduttore. Attacca la ballata con un suono dolce e levigatissimo (seduttore e perverso, ma sempre gran signore). Rispetto alle coeve esecuzioni dei tenori italiani gli arbitri sono pochissimi, gli acuti immascheretissimi e squillanti e quando inserisce un rallentando su “ non v’è amore” la scelta agogica si rivela azzeccatissima sotto il profilo espressivo.
Un attore vocale coglie nel colore della voce la differenza fra l’innamorato Raoul e il Riccardo, protagonista del Ballo. Ovvio che Slezak rispetti tutte le indicazioni dell’autore fra cui un paio di “dolcissimo” tutt’altro che agevoli per la zona in cui batte la scrittura e che non mostri difficoltà di sorta in una scrittura che impegna soprattutto il passaggio. Basta il solo colore della voce per dimostrare che fra Raoul e Riccardo passano vent’anni, ossia passiamo dagli albori del romanticismo alla fine di quella stagione artistica. Oltre al rispetto assoluto dei segni di espressioni bastano a Slezak un amorosissimo misto sul do centrale di “gemmata festa” e un rallentando su “la mia speme” per dimostrare la banalità e la piattezza esecutiva di quasi tutti i tenori venuti dopo di lui. Il particolare riferimento ad un recente Riccardo si impone per rispetto alla musica.
La maggior sorpresa di Leo Slezak interprete è nelle arie di Ernani e di Romeo dall’opera di Gounod. L’idolo dei tenori mitteleuropei era de Reszke, Romeo storico. Non so se Slezak si fosse ispirato a quella interpretazione, tenuto conto che le caratteristiche vocali erano differenti. Il tempo prescelto è lentissimo, il timbro dolcissimo, la dinamica sfumata, l’utilizzo di forcelle continuo. Pensiero musicale dell’autore e realizzazione del tenore moravo colgono il momento del risveglio dopo la notte d’amore ed il proseguire anche nel canto di quell’estasi.
Nei panni di Ernani l’esecuzione di Slezak per aderenza alle prescrizioni dell’autore e doti vocali e tecniche mette la distanza fra il tenore moravo ed ogni esecutore dell’aria successivo. Nessun Ernani alla fine del recitativo rispetta e realizza come Slezak la prescrizione morendo sulla parola “perduto”. Verdi prevede nell’aria una serie di forcelle che vengono eseguite tutte. Quando Verdi prescrive sulle parole “il vecchio Silva etc” declamato l’accento diviene subito scandito e vibrante e subito dopo alla prescrizione “adagio con espressione” sul punto coronato Slezak esegue un pianissimo dolce e penetrante, mentre quando la prescrizione “dolce” sul “d’affanno morirò" fa scendere la voce dal fa al do, Slezak amplifica il concetto dell’autore con un rallentando. Amplificare il concetto dell’autore: questa è la sigla, il messaggio, credo, che ancor oggi emerge dai cimeli di questi ed altri cantanti e che, duole per chi invita a glorificare l’attuale scarno presente, rende affascinante ed unico quel mondo e realisticamente triste il giudizio per l’attuale.



Hermann Jadlowker

Auber - Fra Diavolo - J'ai revu nos amis
Meyerbeer - Les Huguenots - Plus blanche que la blanche hermine
Meyerbeer - Les Huguenots - Beauté divine, enchanteresse (con Frieda Hempel)
Mozart - Idomeneo, re di Creta - Fuor del mar
Offenbach - Les Contes d'Hoffmann - Chanson de Kleinzach
Verdi - La traviata - Un dì, felice, eterea (con Frieda Hempel)
Wagner - Lohengrin - Mein Lieber Schwan

Leo Slezak

Gounod - Roméo et Juliette - Ah, lève-toi soleil
Meyerbeer - Les Huguenots - Sous le beau ciel de Touraine
Meyerbeer - Les Huguenots - Plus blanche que la blanche hermine
Meyerbeer - Les Huguenots - Oui, tu l'as dit (con Elsa Bland)
Verdi - Ernani - Mercè diletti amici...Come rugiada al cespite
Verdi - Rigoletto - Questa o quella
Verdi - Rigoletto - La donna è mobile
Verdi - Il trovatore - Ah sì, ben mio
Verdi - Un ballo in maschera - La rivedrà nell'estasi

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domenica 3 febbraio 2008

Hit Parade!

Cari amici,

siamo stati presi dalla curiosità di verificare l'effettivo gradimento dei lettori di questo sito per le nostre selezioni di ascolti. Il buon Nourrit, disc jockey ufficiale del Corriere, ha dato un'occhiata ai contatori del sito che ospita i nostri ascolti.

Che melomani siete? Che gusti avete? Chi sono i vostri preferiti? Cosa manca alle vostre collezioni?
Guardate un po' qui la vostra Hit Parade!

01. Verdi - Un ballo in maschera - Duetto d´amore - Mazzoleni & Fusati - 124

02. Rossini - La donna del lago - Oh quante lagrime - Z. Dolukhanova - 97

03. Rossini - Il barbiere di Siviglia - Ecco ridente in cielo - H. Jadlowker - 95

04. Rossini - Semiramide - Ah quel giorno - Z. Dolukhanova - 76

05. Verdi - Il trovatore - Ah si ben mio - J. Urlus - 76

06. Bellini - I puritani - Vieni fra queste braccia - Marconi & Galvany - 62

07. Rossini - La Cenerentola - Nacqui all´affanno - M. Dupuy - 62

08. Donizetti - Maria Stuarda - Confronto - Gruberova & Ganassi - 61

09. Donizetti - Maria Stuarda - Confronto - Gencer & Verrett - 60

10. Donizetti - Lucia di Lammermoor - Quando rapito in estasi - J. Pratt - 60


11. Meyerbeer - Les Huguenots - Plus blanche - H. Jadlowker - 53

12. Rossini - La Cenerentola - Sì ritrovarla io giuro - J. Osborn - 52

13. Donizetti - Lucia di Lammermoor - Il dolce suono - J. Pratt - 50

14. Wagner - Lohengrin - In fernem Land - H. Jadlowker - 46

15. Handel - Rinaldo - Or la tromba - M. Horne - 46

16. Verdi - Rigoletto - Parmi veder le lagrime - A. Bonci - 44

17. Meyerbeer - Robert le Diable - Au tournoi - L. Escalais - 43

18. Mozart - Exultate, Jubilate - Alleluja - Sigrid Onegin - 42

19. Donizetti - Lucrezia Borgia - Era desso il figlio mio - L. Gencer - 41

20. Donizetti - Maria Stuarda - Ah se un giorno - M. Caballè - 41

21. Rossini - La Cenerentola - Nacqui all´affanno - M. Horne - 41

22. Bellini - I Puritani - Qui la voce - J. Pratt - 41

23. Giordano - Fedora - Amor ti vieta - F. De Lucia - 40

24. Rossini - La Cenerentola - Sprezzo quei don - Z. Dolukhanova - 39

25. Verdi - Il trovatore - Ah si ben mio - L. Escalais - 39

26. Mozart - Don Giovanni - Deh vieni alla finestra - M. Battistini - 38

27. Puccini - Tosca - Recondita armonia - A. Bonci - 37

28. Gounod - Roméo et Juliette - Ah, lève-toi soleil - L. David - 36

29. Rossini - L´Italiana in Algeri - Amici in ogni evento - Z. Dolukhanova - 35

30. Rossini - L´Italiana in Algeri - Per lui che adoro - Z. Dolukhanova - 35

31. Wagner - Lohengrin - Cessaro i canti - De Lucia & Huguet - 33

32. Rossini - La Cenerentola - Pegno adorato - C. Valletti - 32

33. Rossini - La Cenerentola - Sì ritrovarla - R. Blake - 31

34. Rossini - Il barbiere di Siviglia - Cessa di più resistere - M. Angelini - 31

35. Verdi - Jérusalem - Je veux encore entendre - L. Escalais - 30

36. Mascagni - Cavalleria rusticana - O Lola - F. De Lucia - 30

Quindi, ecco per voi la più gettonata di tutti: ESTER MAZZOLENI!


Bellini - Norma - In mia man alfin tu sei (con Giovanni Zenatello) - 1911
Catalani - La Wally - Ebben, ne andrò lontana - 1909
Gomes - Il Guarany - Sento una forza indomita (con Giovanni Zenatello) - 1911
Mascagni - Iris - Un dì ero piccina - 1909
Ponchielli - La Gioconda - E un anatema! (con Elisa Bruno) - 1909
Ponchielli - La Gioconda - Laura! Laura! Ove sei? (con Giovanni Zenatello) - 1910
Ponchielli - La Gioconda - Enzo, sei tu? (con Giovanni Zenatello) - 1910
Ponchielli - La Gioconda - Così mantieni il patto? (con Pasquale Amato) - 1909
Puccini - Tosca - O dolci mani (con Giovanni Zenatello) - 1911
Spontini - La Vestale - Tu che invoco - 1910
Verdi - Il trovatore - Ciel! Non m'inganna (con Giovanni Zenatello & Elisa Bruno) - 1911
Verdi - Aida - Pur ti riveggo mia dolce Aida (con Francisco Vinas) - 1909
Verdi - Aida - O terra addio (con Giovanni Zenatello) - 1911

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