giovedì 30 giugno 2011

Sorella Radio. Macbeth al Covent Garden: l'altra Lady

Principia oggi sul blog della Grisi una nuova rubrica o meglio l'utilizzo di un titolo che accompagnerà -s ino a che non ne troveremo altro più acconcio - ciascun commento alle dirette o differite radiofoniche: SORELLA RADIO.
Per chi non lo sapesse Sorella Radio fu nell'Italia del dopoguerra e sino alla fine del boom economico una trasmissione del sabato pomeriggio dedicata ai malati ed ai sofferenti, in ossequio aperto e quindi onesto (a differenza del presente) ai temi ispiratori dell'allora direttore generale Bernabei, uomo di fanfaniana, incrollabile fede. Oggi in un'epoca di valori sconvolti e di messaggi occulti ci siamo presi la libertà di parodiare quel titolo. Parodiare perchè quei buoni e sani principi che la voce austera di Maria Luisa Boncompagni, madre spirituale di tutte le signorine buonasera della Rai, per essere stata lei loro pari e precedente nell'Eiar, oggi sono vilipesi e ridicolizzati, per certo nel mondo del melodramma e forse licenziando questo pensiero avrei dovuto presentare non già sorella Radio, ma RADIO MATRIGNA.
Cedo la penna alla divina Giuditta Pasta, che per prima ha aderito a questa iniziativa.
vostro
Domenico Donzelli




Dopo la disastrosa esperienza berlinese con la Lady Macbeth di Anna Smirnova non possiamo non condividere con i nostri cari lettori qualche pensiero sulla recente produzione del Macbeth alla Royal Opera House di Londra la cui registrazione ci ha proposta la BBC Radio 3. La produzione è diretta da Antonio Pappano e sono Simon Keenlyside e Liudmyla Monastyrska ad incarnare la coppia regicida. Vi riferiremo brevemente sul direttore e sugli interpreti maschili per soffermarci, poi, sulla sorpresa positiva, che è stata la prestazione della signora Monastyrska.
La direzione del maestro Pappano è stata semplicemente mediocre. Durante l’intera serata non si è sentito un singolo momento di slancio, un colore, un’idea. Pesante nel preludio, flemmatico nei pezzi d’assieme, piatto e rigido nell’accompagnamento dei solisti, ha pure perso il controllo sull’orchestra nel fugato marziale dell’ultimo quadro. Perciò possiamo solo essere grati che il maestro ci abbia risparmiato il balletto del terzo atto. Non male, invece, il coro, soprattutto nell’esecuzione di “Patria oppressa”.
Simon Keenlyside ha cantato l’intero ruolo con una concezione ed una tecnica che lo dimostrano più adatto al Macbeth letterario-teatrale che non al Macbeth verdiano, ossia musicale e vocale. Possedendo voce e tecnica al massimo da Papageno, ha spinto e forzato tutta la serata, declamando nel peggior modo naturalistico e pseudo-drammatico il monologo del primo atto, la scena dell’allucinazione e la scena delle apparizioni. Duro e privo di legato nel “Pietà, rispetto, amore”, ha dovuto anche cantare con una voce ormai completamente sbiancata e affranta l’aria “Mal per me” eliminata nella riedizione del 1865. Ancora peggio il Macduff di Dmitri Pittas, tenore leggerissimo, una voce che letteralmente piangeva e gemeva in ogni frase dimostrando la propria inadeguatezza al ruolo. Altrettanto pessimo il Banco soffocato e stomacale di Raymond Aceto.
E adesso la nostra “Lady Macbeth del distretto di Kiev”. Il soprano ucraino Liudmyla Monastyrska, ha debuttato nel 1996 all’Opera Nazionale Ucraina di Kiev quale Tatiana di Cajkovskij ed ha interpretato sia lì sia al Marinskij di San Pietroburgo ruoli come Aida, Amelia (Ballo), Gioconda, Lisa, Nedda e Santuzza. Una svolta nella sua carriera è stata segnata da una sostituzione last minute nella Tosca alla Deutsche Oper di Berlino nella stagione 2009-2010. La Lady Macbeth doveva essere il suo debutto ufficiale al Covent Garden, invece il forfait di Micaela Carosi nell’Aida le ha dato l’opportunità di esibirsi davanti al pubblico londinese ancora prima del Macbeth, ricevendo grandi lodi per la sua interpretazione della principessa etiope. Sarà questo il medesimo ruolo con cui il soprano debutterà alla Scala nella prossima stagione in secondo cast alla compatriota Oksana Dyka. Le registrazioni londinesi delle arie e dei duetti disponibili su YouTube fanno sentire una voce importante, con un apprezzabile sentore per il fraseggio, ma purtroppo non sempre sicura nell’effettivo solido sostegno del canto dolce ed elegiaco di Aida.
Premesso che Liudmyla Monastyrska canta ormai da una buona quindicina di anni e che ha sempre interpretato ruoli molto pesanti, facendo la primadonna dei centri della provincia operistica prima di essere stata “scoperta” dalle grandi agenzie e teatri occidentali, bisogna notare la freschezza e saldezza che dimostra il suo strumento. Possedendo una voce da lirico-spinto con una dote impressionante nel registro centro-acuto ed acuto, sia la sua lunga e pesante biografia vocale che la sua prestazione attuale della Lady testimonia di una cantante che, grazie ad una certa preparazione tecnica, può permettersi di avventurarsi anche in ruoli del repertorio spinto e drammatico. La voce è piuttosto scura, robusta e grossa di natura – caratteristica frequente delle voci femminili originarie dall’Europa post-sovietica – e possiede un volume la cui potenza, chiaramente percepibile anche attraverso un ascolto radiofonico, è stata l’oggetto di un entusiasmo di molte recensioni londinesi. E’ notevole la flessibilità della voce nella zona centro-acuta ed acuta dove il soprano dimostra la capacità di sviluppare un fraseggio ricco, di modulare il suono e di eseguire le agilità ed i picchettati correttamente e sempre con una chiara funzione espressiva. E’ così che ha cantato un brindisi pieno delle più varie inflessioni. Nella zona grave dove la voce risulta meno dotata e carente di una vera espansione pointrinée, il soprano tende talvolta a forzare, mentre nella zona media e medio-grave la minor duttilità della voce portano ad una tendenza di chiudere il suono e, nella scena del sonnambulismo, pure a parecchi attacchi fissi. Eppure, è riuscita ad interpretare con un buon legato e coerenza espressiva, ad esempio, l’inizio di “La luce langue”. Oltre a qualche frase di gusto troppo manierata-naturalista nel duetto dell’uccisione di Duncano e nel sonnambulismo, che erano poi quelle che l’hanno messa in difficoltà tecniche, la signora Monastyrska ha esibito un fraseggio di grande intuizione musicale, un’emissione corretta ed un controllo di fiato che le hanno conceduto di dimostrare con garbo e generosità le sue copiose doti ed intenzioni. Dopo aver letto la lettera del marito con uno spaventoso accento slavo, ha impressionato nelle primissime frasi cantate del recitativo per l’ampiezza e la sicurezza di fraseggio e suono, dimostrando tuttavia qualche acuto spinto sia nella prima aria che nel secondo finale. Ha dominato l’orchestra e l’ensemble nei pezzi d’assieme (di questo riferiscono anche chi ha seguito lo spettacolo dal vivo) ed in chiusura del pur non riuscitissimo sonnambulismo ha eseguito un re bemolle (e la seguente discesa) molto bello.
Insomma, una Lady che, senza essere un autentico soprano drammatico, ma possedendo una definita preparazione tecnica, riesce ad affermarsi in un repertorio colpito oggi da una crisi totale. E’ evidente che sia la sua potenza vocale nell'ottava superiore e l’accento energico sia proprio l’incompleta sicurezza nel cantare piano e pianissimo la rendono più adatta ad un ruolo la cui scrittura ed organizzazione vocale-drammatica concede la disparità fra una minima tecnica per un canto sostanzialmente lirico-elegiaco ed una maggiore predisposizione all'accento ampio ed al canto di forza. Eppure, essendo di natura un lirico-spinto, è forse proprio questa idoneità per limitazione tecnica e non per corrispondenza naturale a ruoli più ampi, ma meno vari e meno lirici in quanto alle esigenze espressive, che minaccia di diventare un importante problema per un talento che, ormai lanciato dalle agenzie sui più grandi palcoscenici, potrebbe facilmente soccombere alle ambiguità della propria vocalità.

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mercoledì 29 giugno 2011

Macbeth a Berlino. L’urlo di Lady Tarzan

E’ la solita storia della Pasta. Vorrei raccontarvi di una serata ordinaria alla Deutsche Oper di Berlino, una di quelle, senza troppo lusso e troppa gente, per cui fino all’ultimo momento al botteghino rimangono parecchi biglietti, svenduti last minute a giovani, studenti ed altri gruppi sociali destinatari di vari sconti. Mettiamoci per un attimo nei panni di un berlinese (cioè, di chiunque chi sia residente o di passaggio a Berlino, perché a Berlino tutti fino all’ultimo backpacker sono berlinesi e nessuno è berlinese) e proviamo a ricostruire la scena primordiale in cui accade la sua scelta per l’uscita in una sera normale, berlinamente metà piovosa metà serena, alla fine del mese di giugno.

Quando il nostro berlinese sfoglia il programma musicale che gli propone la capitale tedesca per la sera del 24 giugno, lui, senza biglietto, moderatamente appassionato di musica e con voglia di vedere/sentire qualcosa di interessante. Scopre che può scegliere fra la prima di Candide alla Staatsoper e la Sposa venduta alla Komische Oper, fra un concerto sinfonico di Mahler e Ravel al Konzerthaus e due concerti paralleli alla Philharmonie: Mozart e Bruckner con Herbert Blomstedt nella grande sala e nella Kammermusiksaal la Semele di Handel con uno dei numerosi gruppi vocali-orchestrali berlinesi. E, last but not least, l’attenzione del nostro berlinese è attirata da un Macbeth alla Deutsche Oper, in un vecchio allestimento di Carsen. Lui cerca velocemente in internet le recensioni della produzione e apprende che l’allestimento di Carsen (perché è maggiormente dell’allestimento e della sua concezione, cioè, di quello che “conta” ormai in una produzione operistica, che parlano quasi tutti gli articoli) è una lettura della tragedia shakespeariana quale storia di dittatori. Che originalità nel presentare Macbeth come dittatore! Mai fatto, mai visto. Il lettore passa da una dettagliata analisi registica all’altra ed arriva alla corta valutazione dei cantati (perché pare che ci sono anche dei cantanti in questo dramma dittatoriale). I due baritoni che alternano nel ruolo principale (Thomas J. Mayer e Anton Keremidtchiev) sono giudicati troppo lirici e fiacchi per la violenza della lettura carseniana. La Lady invece, unica (in tutti i sensi) di questa stagione, il mezzo-soprano russo Anna Smirnova, è lodata per la grande potenza ed autorevolità della sua interpretazione della moglie del dittatore. Tanto più che certe recensioni, toccando in qualche parola all’aspetto marginale dell’opera che è la vocalità, parlano pure dell’impressionante solidità del suo canto e addirittura di un approccio belcantistico. Insomma, un miracolo scenico-vocale. Avendo letto tutto questo, al nostro berlinese medio non resta altro che recarsi alla Bismarckstraße ed acquistare, senza fila e troppi problemi, un posto scontato nel vasto anfiteatro dove avrà magari la fortuna di trovarsi vicino all’astro eternamente brillante ed incantatore che sono io – la Pasta!
Raccontiamo adesso quali sono state le particolarità della recita. L’allestimento di Carsen si è rivelato moderatamente eurotrash, con qualche momento bello, come il finale secondo dove durante il “Sangue a me” i convitati, politici di rango dell’epoca nazista ovviamente, danzano un walzer sotto il ritmo della musica verdiana – una buona volta la regia ispirandosi dal “ritmo” della musica! Abbastanza cattivo di gusto l’approccio marcatamente “action” e la sovrabbondanza di pistolettate e di gesti di mira hollywoodiani. Molto suggestivo la scena delle apparizioni in cui abbiamo comunque dovuto notare una brutta manipolazione con i sopratitoli che sono in genere destinati a fare comprendere e/o tradurre il libretto. Eppure, durante l’apparizione degli otto futuri re di Scozia, i sopratitoli sono sospesi per non collidere con “l’interpretazione” del regista, che preferisce sostituire il défilé dei discendenti di Banco con un graduale avvicinamento verso di noi di una grande immagine di Banco. Non è che sia stato cambiato il testo originale di Piave, ma si chiede tuttavia se è un intervento legittimo di manipolare così i sopratitoli in tedesco, quando essi si trovano lì esplicitamente per chiarire il testo cantato. Si chiede inoltre di chi è stata l’idea d’intervenire copiosamente anche nella fattura musicale dell’opera, come il taglio del balletto, del coro/danza degli spiriti aerei, della scena di Macduff, Malcolm e coro dopo l’aria di Macduff, o ancora quell’inspiegabile “cadenza” alla fine della scena del sonnambulismo in cui, invece di ascendere al Re bemolle sopracuto o di eseguire la variante del La bemolle, la nostra Lady scende al Re bemolle grave.
Non è l’unica libertà che Anna Smirnova si è permessa durante l’intera serata. Ma forse le riprese di fiato assolutamente arbitrarie ed antimusicali sono state le cose meno catastrofiche della sua prestazione. La cantante russa passa per un mezzosoprano solo perché scurisce la voce e l’emette non si sa da dove, producendo suoni o tubati o stridenti o brontolanti o abbaianti su l’intera gamma e con un’arbitrarietà quasi incredibile. Lo strumento naturale sarà anche importante per volume e materia, ma a causa del “sistema” di canto di Anna Smirnova, diventa voluminoso solo se il mezzo-cantante che è senza dubbio il nostro mezzo-mezzosoprano spinge ed urla al pari di una furia scatenata. Sono, dunque, suoni strillati, muggiti, mormorati, che fuoriescono frammentariamente dal suo corpo senza l’ombra di legato o di qualsiasi controllo che i critici tedeschi salutano come un approccio "belcantistico". Spero avere l’occasione almeno una volta nella mia vita di chiedere a uno di questi esperti che cosa intendono con la parola “belcanto” o semplicemente con la parola “canto”, che gli capita di usare una o due volte all’anno nei loro meticolosi saggi filosofoidi sugli allestimenti e concetti registici. Che sul palcoscenico la cantante dimostri gesticolazioni aggressive e che divori con suoni ruttati e berciati qualche frase in modo agitato e pseudo-drammatico non mi sembra siano attributi sufficienti per qualificare come autorevole ed intensa la Lady Macbeth di Anna Smirnova.
Contrariamente alla presenza esasperante di Smirnova, è stato assolutamente grigio e modesto il Macbeth di Anton Keremidtchiev che ha tentato qua e là di fraseggiare, ma con voce piccola, senza timbro e proiezione, voce omogeneamente costruita su di un’assenza sistematica di appoggio, che spariva nei passaggi dell’allucinazione sotto l’orchestra oppure sotto le urla della moglie bestiale.
Mi è sembrato molto peggiorato il basso Ante Jerkunica, interprete di Banco, rispetto all’ultima volta quando lo sentii nel concerto di Matti Salminen novembre scorso. La voce è da autentico basso, ma nel registro acuto risulta completamente bloccata, quasi inesistente. Pure il centro, dove il giovane cantante possiede un timbro di notevole bellezza ed è capace di fraseggiare, è ormai privo di una vera sicurezza e saldezza.
Tremolante il Macduff del tenore leggerino che è la nuova star dell’opera, Pavol Breslik che per un “Ah, la paterna mano” affannato e nasale ha ricevuto i più grandi applausi a scena aperta dell'intera recita.
Bravissima, invece, l’orchestra della Deutsche Oper sotto la direzione energica ed avvincente di Roberto Rizzi Brignoli. In ogni momento dell’opera il maestro ha saputo di dare il tempo giusto, mai troppo lento (con l’unica eccezione forse per il coro delle streghe all’inizio del terzo atto), e di creare atmosfere e portarli verso una culminazione. Memorabile soprattutto la coerenza drammatica e la qualità sonora equilibrata e quasi mistica durante la scena delle apparizioni e la scena dei profughi, entrambe le volte – un perfetto complice l’ottimo coro della Deutsche Oper, l’unico degno protagonista sul palcoscenico. Sarebbero evitati pure quei rari momenti quando il coro delle streghe, rivestite da donne a mezzo servizio, è partito fuori tempo, se la regia di Carsen non avesse esatto permanenti movimenti frenetici da loro parte. Però, quando c’è una concezione registica talmente “originale”, perché badare alla pulizia ed all’espressività musicale? Sarebbero momenti di questo genere – tanti, permanenti, sistematici, nelle recite in tutti i teatri tedeschi o tedescheggianti – a dimostrare il valore dello spettacolo operistico quale Gesamtkunstwerk? Un misto ambiguo, confuso e dilettantesco in ogni suo elemento, con una vocalità che non sa più essere lo strumento espressivo del dramma musicale e con un approccio registico che, geloso della parte musicale ed in permanente ostinatezza contro il direttore d’orchestra, provvede un fracasso ed una frenesia sul palcoscenico che copre anche quel poco che rimane nell’opera odierna di un teatro fatto col suono musicale. Così non è neanche da meravigliarsi che sia nelle recensioni che nella percezione del pubblico dei paesi d'oltralpe un completo disastro vocale come Anna Smirnova possa apparire quale grande artista. Il vero problema è che i difetti vocali (oltre che quelli, ridicolissimi, della recitazione) di una Smirnova saranno anche percepiti dalla maggioranza degli spettatori, ma, nell’ambito di quell’amalgama senza gusto e forma, che è oggi prevalentemente l’opera (altro che opera d'arte totale!), sembra irrimediabilmente tramontata la capacità e la possibilità di valutare i difetti e i pregi di un cantante senza fare riferimento ad un’egemonica concezione registica.



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lunedì 27 giugno 2011

Verdi Edission. Aida a 78 giri in tedesco

Aida è fra i titoli del catalogo verdiano uno dei più copiosamente documentati dai 78 giri. Al punto che sarà necessario ripartire le registrazioni relative in almeno tre differenti puntate della nostra “Verdi Edission”. Abbiamo pensato di dedicare la prima alle incisioni in lingua tedesca. L’intento non è certo smentire la nostra presunta esterofobia (esterofobia già contraddetta in nuce dalla frequenza delle nostre cronache da teatri stranieri), bensì offrire al lettore, e più ancora all’ascoltatore, qualche spunto di riflessione in vista degli imminenti festival estivi.

Verdi è infatti uno dei pilastri dei cartelloni dei teatri en plein air, così come Wagner costituisce il solo autore rappresentabile nel festival estivo più austero e mitico dell’Europa continentale. Ebbene, proprio in questi 78 giri di Aida i due compositori si danno idealmente la mano, atteso che gli interpreti coinvolti furono tutti, per ragioni di carriera e repertorio, egualmente impegnati nel repertorio italiano e in quello tedesco.
L’ascolto di questi lacerti, a volte fortunosi (penso al live viennese di Maria Nemeth, purtroppo mutilo della parte conclusiva della romanza, ma che restituisce bene l’ampiezza e la cavata della voce della signora), altre volte di suono vivido e chiaro malgrado le arcaiche tecniche di registrazione, attesta oltre ogni ragionevole dubbio un generale livello esecutivo e interpretativo, che si oppone decisamente alla vulgata, ormai paleolitica, benché ancora diffusa in certi foyer virtuali e non, vulgata che associa ai dischi antichi la nomea di cimeli inservibili e inascoltabili, non solo, ma testimonianza di scarsa pratica con le regole del buon canto, di effetti facili ed esteriori, di scarsa o inesistente attenzione al testo, poetico o musicale che sia. Mai come in questi frammenti di Aida ascoltiamo infatti, oltre che ottimi esecutori, veri interpreti, musicisti completi e rifinitissimi. E non potrebbe essere altrimenti, atteso che una corretta esecuzione rimane il presupposto e la precondizione di una grande interpretazione, a qualunque latitudine, in qualsiasi repertorio e indipendentemente dalla lingua in cui il medesimo viene affrontato.
Si ascoltino ad esempio Jacques Urlus e Julius Patzak nella romanza che apre di fatto l’opera. Le voci non potrebbero essere più diverse, da tenore drammatico la prima, essenzialmente lirica, benché talvolta applicata ad un repertorio più oneroso, la seconda. Eppure la saldezza tecnica consente ad entrambi una realizzazione del personaggio, consona alle rispettive caratteristiche vocali (col che fra l’altro rammentiamo in primo luogo a noi stessi che il Radames giovanile e amoroso non è nato con Carlo Bergonzi, bensì molto prima), rispettosa del personaggio e del dettato dell’autore, anche per quanto attiene il tremendo (soprattutto per molti cantanti a noi più vicini nel tempo) si bemolle conclusivo.
Attenzione al testo, martellante scansione delle frasi, insomma quella che Verdi chiamava la parola scenica, tutto questo si trova in particolare nelle proposte raffigurazioni della principessa egizia. Non sarà forse inutile sottolineare come la lunga consuetudine con ruoli quali Ortrud, Fricka e Venere permetta a queste grandissime cantanti di variare opportunamente i colori e le inflessioni vocali, tanto nel duetto con la protagonista, in cui Amneris passa nel giro di poche battute dall’estasi sentimentale all’angoscia, alla cerimoniosa dissimulazione, fino all’esplosione dell’ira più autentica (esemplare, in questa climax, Margarete Klose), quanto nella scena con Radames, in cui, come scriveva Verdi a Ghislanzoni, la figlia del Re esordisce con una frase che potrebbe sembrare la comunicazione di un avvocato, ma che deve già suggerire, sottotraccia, la disperazione della donna, sentimento che esplode nel successivo “Morire? Ah, tu dei vivere”. Per certo l’ira e la disperazione non devono mutare il canto in qualcosa d’altro, perché anche nel massimo della concitazione la principessa rimane altera ed elegante. Si ascolti, tanto per non fare nomi, la solita Sigrid Onégin, alla quale si perdonano volentieri i suoni fissi a partire dal sol bemolle acuto (“e nunzia di perdono” e più ancora il successivo “tutto darei per te” con salita al la bemolle). Esemplare è anche Margarete Arndt-Ober, della quale proponiamo due incisioni realizzate a undici anni di distanza, al fianco di tenori anch’essi formidabili per saldezza e sobrietà espressiva. Ebbene, nella più tarda delle due esecuzioni la cantante è salda e autorevole quanto nella prima, emettendo suoni un poco ovattati solo nell’attacco della cabaletta, di scrittura piuttosto grave.
Addirittura rivoluzionario appare poi sentire interpreti di Amonasro, che non solo non sbraitano con la bava alla bocca, ma si concedono il lusso di cantare piano, smorzando i suoni e differenziando nel fraseggio le fasi del confronto con la figlia, suonando sempre determinati ma di volta in volta anche teneri, insinuanti, sdegnati e infine ipocritamente consolatori, come nel successivo incontro con il mancato genero.
Quanto poi alle Aide, siamo di fronte a un panorama quasi imbarazzante per quantità e varietà delle proposte, accomunate da una caratteristica di fondo che scarseggia nelle esecutrici a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Abbiamo infatti cantanti che sono nella meno felice delle ipotesi dei soprani lirici pieni (ma lirici da Wagner, quindi corposi e risonanti in tutta la gamma) e altrimenti lirico spinti e drammatici. Ebbene tutte queste Aide hanno in comune non solo rotondità di suono e fiati consoni alle lunghe frasi verdiane, conseguenza di un pieno e assoluto dominio tecnico dello strumento, ma accento castigato e dolente, che nulla ha da invidiare a quello sfoggiato dalle tanto vantate Aide liricizzate o liricizzande. Alcune di queste corpulente esecutrici, come la giustamente mitizzata Margarethe Siems, aggiungono poi qualcosa di personale alla definizione del personaggio, chiudendo ad esempio il primo monologo con una puntatura al la bemolle acuto in pianissimo, che delinea come meglio non si potrebbe l’animo trasognato della giovane e infelice schiava.
Una chiosa a sé merita il “Nume custode e vindice” inciso da Leo Slezak e Wilhelm Hesch, fra le maggiori star dell’Opera di Vienna nei primi anni del XX secolo. Pagina puramente esornativa, che nulla aggiunge alla vicenda ma risulta fondamentale nella definizione del clima di rigida sacralità che caratterizza la corte del Faraone, questo duetto con coro richiama palesemente il linguaggio del grand-opéra. Alcuni giorni fa, proponendo la canzone ugonotta dal capolavoro meyerbeeriano nell’esecuzione di Hesch, abbiamo ricordato come il basso boemo sia stato fra gli esecutori del titolo a Vienna proprio accanto a Slezak. E alle atmosfere del grand-opéra, malgrado la traduzione tedesca, fa pensare questa esecuzione, in cui i solisti svettano e fanno a gara per squillo, ampiezza, proiezione e astratta, quasi invasata magniloquenza. Ancora Slezak s’impone, nei duetti con l’amata, per facilità di esecuzione nelle zone più scomode e disagevoli della voce (quella del passaggio superiore su tutte), trovando degni rivali solo nel portentoso Marcel Wittrisch (sentire la facilità con cui quest’ultimo cesella, alla scena della tomba, “degli anni suoi nel fiore”, rendendo in uno la tenerezza dell’amante e la disperazione del condannato a morte) e nello squillo adamantino di Heinrich Knote (quest’ultimo, a onor del vero, un poco fisso nelle tremende frasi “Io son disonorato” al finale terzo).
E proprio Slezak, interprete di riferimento (come impietosamente documentato dalla discografia) tanto in Wagner quanto in Verdi e Meyerbeer (per tacere del suo Mozart), potrebbe forse fornire una risposta a chi domandi se sia possibile affrontare qualunque repertorio, in ambito lirico, con la medesima tecnica di base. Ma forse certi interrogativi vanno interpretati in funzione retorica e dialettica piuttosto che in altro e più concreto senso.


Gli ascolti

Verdi - Aida



Atto I

Celeste Aida - Jacques Urlus (1912), Julius Patzak (1931)

Quale insolita gioia nel tuo sguardo - Inger Karen, Helge Rosvaenge & Margarete Teschemacher (1938)

Su del Nilo al sacro lido - Meta Seinemeyer, Helene Jung, Max Hirzel, Willy Bader & Ivar Andresen (1927)

Ritorna vincitor! - Margarethe Siems (1908), Frida Leider (1921), Meta Seinemeyer (1927)

Nume, custode e vindice - Wilhelm Hesch & Leo Slezak (1904)


Atto II

Chi mai fra gl'inni e i plausi...Fu la sorte dell'armi - Ottilie Metzger & Melanie Kurt (1911), Margarete Klose & Margherita Perras (1937)

Gloria all'Egitto - Margarete Teschemacher, Inger Karen, Helge Rosvaenge, Georg Hann, Ludwig Weber & Karl Schmitt-Walter - dir. Joseph Keilberth (1938)


Atto III

Qui Radamès verrà...O cieli azzurri - Melanie Kurt (1911), Maria Nemeth (1936), Margarete Teschemacher (1938)

A te grave cagion m'adduce, Aida... Su! dunque sorgete, egizie coorti - Fritz Feinhals & Berta Morena (1908), Robert Burg & Meta Seinemeyer (1928)

Pur ti riveggo, mia dolce Aida...Fuggiam gli ardori inospiti - Leo Slezak & Elsa Bland (1906), Max Lorenz & Else Gentner (1930)

Ma dimmi: per qual via - Berta Morena, Heinrich Knote & Fritz Feinhals (1908), Melanie Kurt, Jacques Urlus & Desider Zador (1910)


Atto IV

L'aborrita rivale a me sfuggia - Karin Branzell (1927)

Già i sacerdoti adunansi - Rosa Olitzka (1906), Margarete Arndt-Ober & Karl Jorn (1913), Sigrid Onégin (1920), Sabine Kalter & Richard Tauber (1923), Margarete Arndt-Ober & Lauritz Melchior (1924)

La fatal pietra...Morir! sì pura e bella - Leo Slezak & Sofie Sedlmair (1904), Jacques Urlus & Melanie Kurt (1910), Marcel Wittrisch, Margarete Teschemacher & Margarete Klose (1932)

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sabato 25 giugno 2011

Firenze: la sindrome "filologica" di Poppea

Poppea viene incoronata all’interno del Teatro della Pergola, delizia architettonica barocca più “giovane” dell’opera monteverdiana di soli quindici anni.
E per rimanere in tema di “filologia”, probabilmente per farci sentire sulla pelle l’atmosfera della Firenze secentesca o di quella Venezia del Teatro dei SS Giovanni e Paolo dove ebbe la sua prima assoluta, la dirigenza del teatro si è premunito di non riparare l’impianto di areazione e di non acquistare acqua fresca a sufficienza per l’arsura del povero pubblico convenuto, trasformando così la sala in un enorme forno di marmo e legno, forse più adatto a chi si diletta di cannibalismo visto che le persone stipate sulle calde poltrone di velluto hanno subito letteralmente una lenta cottura di oltre tre ore neanche fossimo costolette di maiale o arrosti di vitello.
Ringrazio l’eccellenza (?) della macchina organizzativa del Maggio Musicale Fiorentino a nome di tutto il pubblico pagante.

Ho evitato accuratamente, dopo aver assistito ad una sciaguratissima ripresa di “Tosca” che non meritava commenti, gli spettacoli successivi proposti nel Teatro Comunale; i quali, come dimostrano le cronache e gli ascolti radiofonici, non hanno avuto un grande riscontro in termini di commenti lusinghieri da parte del pubblico (se si esclude l’incoraggiante prova di Hui He in “Aida”); dunque tornavo al Maggio Musicale per due ragioni: assistere ad un’opera di Monteverdi, “L’incoronazione di Poppea” per le cure del direttore Alan Curtis, in una edizione che si preannunciava “innovativa”, e per ascoltare dal vivo il mezzosoprano Susan Graham, interessante e non banale star internazionale.
Il direttore e musicologo Alan Curtis è partito dalla sua edizione critica pubblicata nel 1989 e basata sulle varie e differenti edizioni dei libretti (almeno una decina), e, per quanto attiene il basso continuo e la linea vocale, sugli studi effettuati sui due manoscritti, quello veneziano ritrovato nel 1888 e datato 1650, curato da Francesco Cavalli e conservato nella Biblioteca Marciana il quale si differenzia in alcune linee dal manoscritto napoletano risalente al 1651 utilizzato per una ripresa e ritenuto da Curtis più autentico.
Curtis opta per un organico ridotto all’osso, una ventina di elementi in tutto, così suddivisi: a destra gli archi dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino ed un cembalo; a sinistra il secondo cembalo suonato dallo stesso direttore, violone, lirone, le tiorbe, l’arpa, rigorosamente d’epoca, de “Il complesso barocco”, creato da Curtis stesso, a formare l’accompagnamento del basso continuo. Non tutto è “filologico” e integrale come ci si aspetterebbe in effetti: ad esempio, Curtis si aspettava di trovare tra le file dell’orchestra fiorentina archi antichi e flauti dolci, come si fa in Europa, cosa che già con Bolton nella “Poppea” del 2000 era stato impossibile da realizzare; dunque, taglio drastico dei fiati e degli ottoni; soppressione di due personaggi: Mercurio, nella scena del secondo annuncio di morte a Seneca, e Venere, con il coro che segue, nel tripudio che anticipa il finale; qualche piccolo taglio di frasi e ripetizioni di alcuni momenti comici e corali, cosa però già presente in alcune edizioni critiche.

Più problematica la scelta della vocalità dei protagonisti qui sottoposta ad alcune modifiche: Nerone, composto per voce di soprano-castrato e cantato più volte da soprani e mezzosoprani (come nell’edizione discografica di Curtis), qui è interpretato da un tenore, strada già intrapresa ad esempio da Harnoncourt; in questo caso scellerato l’affidare ad un cantante di dubbia classificazione e gusto (tenore corto? Controtenore? Attore di prosa?) un ruolo dalla tessitura contraltile e creato per un castrato come quello di Ottone; per le anziane nutrici la filologia è chiara: possono essere interpretate sia da voci contraltili, sia da voci tenorili, in questo caso un tenore (Arnalta) ed un controtenore (Nutrice di Ottavia); mentre nessun dubbio su Fortuna/Valletto, alla prima interpretato da un castrato-soprano e dunque accessibile sia per voce bianca che da una voce femminile.



Cosa ascoltiamo allora? Curtis riduce al minimo gli interventi degli archi “moderni” ad una manciata di note udibili brevemente in alcune sporadiche introduzioni e all’inizio di qualche momento solistico, mentre tutta l’opera è retta dal basso continuo; il quale non suona male, ma nemmeno tanto bene; le note ci sono tutte, sono ben scandite nell’agogica dilatatissima fino alla stasi impressa dal direttore: ma sono note bianche e tendenzialmente stridule, tipiche dei complessi barocchi, prive di qualunque morbidezza, prive del minimo spessore nella loro secchezza alla varecchina, eseguite in un grigiore cromatico esasperante; come esasperante nella totale incapacità di fraseggi, di colori, di sensualità, di accenti risulta la direzione di Curtis. Un suono, in breve, nella sua monotonia interpretativa, che pian piano sparisce, diventando nebuloso durante gli accompagnamenti, tanto che dopo essersi abituati, in pratica sembra di assistere ad un’opera “a cappella” per soli voci accompagnate da una nota ribattuta in perpetuo. Lettura scientifica? Lettura intimista? Interpretazione analitica? NO! Noiosa, narcolettica, testimoniata dalla moltitudine di persone cadute tra le braccia di Morfeo durante il primo e secondo atto, o da coloro che, a un quarto d’ora dall’inizio del terzo, hanno abbandonato il Teatro, vuoi per l’afa insostenibile, vuoi perché è meglio dormire in un letto con il condizionatore, che in una scomoda poltrona di caldo velluto dentro una sauna.



Una breve parentesi la meritano le “voci”.
Gli albori dell’opera, il “recitar cantando”, non c’era ancora il Garcia con il suo manuale: e quindi?
Tra la “Dafne” di Peri (1598), storicamente riconosciuta come “la prima opera” e la “Poppea” di Monteverdi (1642) c’è una differenza di ben quarantacinque anni! Un periodo in cui si arriva al “cantar recitando”, in cui l’evoluzione della tecnica era andata avanti, in cui il canto dei castrati era diventato paradigmatico e avrebbe gettato le basi per la scuola stessa dei cantanti contemporanei e futuri (sette e ottocento) e oggetto di studio dei grandi insegnanti, i quali, a loro volta scriveranno fior di trattati, di cui il Garcia è solo la summa applicata ad un’altra epoca e ad un altro stile! Un’epoca talmente vivace che fece nascere il mito della “primadonna” incarnata nel soprano Anna Renzi: carriera ventennale, applaudita ed idolatrata, prima Ottavia e dedicataria di odi, poesie, sonetti, uno dei quali trovato in un libretto della “Poppea”, e protagonista di opere brillanti e tragiche!
Con questa premessa come giudicare “questi” cantanti?
Cosa dire di Serena Malfi, sostituta della prevista Marina Comparato, nei ruoli di Fortuna e Valletto, di Anna Kasyan (Virtù/Pallade), di Francesca Lombardi Mazzulli (Amore), di Ana Quintans (Drusilla), Maria Laura Martorana (Damigella) di fronte a timbri tanto pallenti e filiformi, ad un registro grave parlato ed acuti che fanno rimpiangere il suono di un trapano e ad un conglomerato così evidente di fissità, tanto da far passare, ad esempio, inosservato, dunque inutile, il bellissimo duettino tra il Valletto e la Damigella?
Cosa dire delle pur scenicamente godibili Nutrici: il fragile e non molto intonato tenore Krystian Adam, costretto a cantare la nenia in un terrificante falsetto, e del controtenore (categoria che faccio fatica ad ascoltare) Nicola Marchesini?
Come definire la vocalità ruvida, “digestiva” e secca del Seneca monocromatico di Matthew Brook?
Soprattutto come definire quella “cosa” grottesca rappresentata da Anders Dahlin, la cui interpretazione è lamentosa oltre ogni umana idea arrivando a superare in noia persino Curtis? “Tenore” (sic!) sulla carta, Dahlin, ma attore di prosa nei fatti, che “parla” con la sua voce afonoide emettendo gli acuti in un delirante falsetto calante o crescente.
Non sarebbe stato meglio abbassare la parte, allora, o usare un mezzosoprano onde evitare inutili e imbarazzanti “rumori” stilisticamente molto dubbi ed evitare le molte sofferenze uditive?
Un supplizio “filologico”!
Meglio allora l’Ottavia piena di aristocratico temperamento di José Maria Lo Monaco, dotata di una buona proiezione e di un timbro suadente nonostante pecchi e faccia penare con la fissità, che potrebbe facilmente evitare, negli acuti e nei portamenti; ma ha cantato con proprietà, compostezza e giusto accento entrambi i “lamenti”, ritagliandosi un buon successo personale.
Meglio allora il tenore Jeremy Ovenden, Nerone: non trascendentale quanto a vocalità e tecnica, tanto da arrivare stanco alla fine del primo e del terzo atto, incontrando qualche svarione nell’intonazione soprattutto durante il “processo” a Drusilla e nel duetto conclusivo; eppure gradevole timbricamente e duttile nelle agilità, riuscendo ad evitare, quando può, i suoni fissi, e regalandoci una interpretazione dell’imperatore tutta incentrata su una ironica ambiguità sensuale e sessuale in cui la morte di Seneca é solo il perfido capriccio di un bambino perverso; molto riusciti i duetti con Poppea ed il sorprendente duetto, qui omoerotico e ad alto tasso di erotismo, con Lucano, l’agile e languido Nicholas Phan.

Migliore tra tutti Susan Graham, grazie al cielo! La Graham ha principalmente due difetti: una percettibile ingolatura nel registro centrale, che si manifesta all’inizio di ogni attacco, ed il timbro da soprano lirico, probabilmente corto, più che da mezzosoprano, categoria in cui si è maggiormente identificata in questi anni. Ha quasi del miracoloso, ai giorni nostri e con cantanti che si sfasciano nel giro di cinque o dieci anni, il fatto che questa cantante, in carriera da vent’anni, abbia mantenuto la voce timbricamente inalterata senza quei segni d’usura che affliggono cantanti più giovani di lei o a lei contemporanei. Non è una grande virtuosa nell’utilizzo della veloce coloratura monteverdiana, che la mette un po’ a disagio, ma nulla di preoccupante né di scandaloso, nonostante nel secondo atto si lasci trascinare dall’azione interpolando gemiti e gridolini; ma il resto è cantato con serietà e dignità che riescono a isolarla, per fortuna, dal mediocre panorama attuale dei cantanti “baroccari” vuoti e intercambiabili.
Timbro sopranile, quindi, che corre senza sforzo nella sala della Pergola, ambrato quel tanto che serve per renderlo naturalmente sensuale, ma mai monotono, né tantomeno algido, al contrario estremamente femminile. L’emissione è morbida, controllata, così la voce si presenta omogenea, il che ci risparmia, ed è l’unica in questo, da suoni stridenti o fissi sostituiti da piani e pianissimi molto suggestivi. L’interprete disegna una Poppea, consapevole del proprio potere di seduzione e manipolazione, che rivendica la propria libertà e la propria posizione politica più con l’egocentrismo e la determinazione che con il cinismo. Un’abile e irresistibile doppiogiochista, una Venere dorata, resa fragile solo dalla acerba passionalità di Ottone, presto cancellato dal sorriso per la vittoria ottenuta.
Senza essere la Sutherland o la Horne, si può cantare bene questo repertorio evitando i vezzi, le caccole e le incrostazioni "baroccare" dure a morire o a evolversi.

Pierluigi Pizzi colloca l’azione su una pedana circolare che, ruotando, mostra i tre ambienti principali in stile black-neoclassico: un doppio ordine di colonne per le sale nella reggia di Nerone; una facciata stilizzata e marmorea per gli appartamenti di Poppea; un muro dotato di biblioteca per la casa di Seneca. Quando vuole Pizzi, ispirato anche da Carsen invero e dai movimenti coreografici di Roberto Maria Pizzuto, crea un’azione che per fortuna non conosce momenti di stanchezza, i cui intenti sono l’esaltazione dell’eleganza formale delle scene e degli splendidi costumi, e movimenti appropriati per far muovere i singoli ed i loro sentimenti allo scopo di differenziarli e renderli coerenti. Non manca un tocco di ironia maliziosa nel delineare, oltre che i protagonisti, anche i gustosi e numerosi comprimari, le due Nutrici su tutti; quella di Ottavia quasi una monaca con la passione per il ballo, quella di Poppea, più smaliziata, dalle pose plastiche e “divine” e dai vestiti sgargianti da drag-queen nel finale. Qualche licenza al contemporaneo solo nei costumi di Ottone e in alcuni famigliari. Le luci di Sergio Rossi sono praticamente fisse con qualche cono di luce o tagli argentei a isolare qualche duetto o qualche momento solitario.

Quando l’opera termina, il pubblico dormiente si risveglia applaudendo un po’ a casaccio tutto il cast e non decretando i soliti dieci minuti di applausi stavolta, nonostante il trionfo per la Graham e Ovenden, il buon successo per la Lo Monaco, quello di simpatia per le due Nutrici (soprattutto l’Arnalta di Adam) e quello realmente inspiegabile per Dahlin, forse applaudito per l’avvenenza più che per la bravura; ma si sa, oggi conta più questo del canto o della filologia probabilmente!



Gli ascolti

Monteverdi - L'Incoronazione di Poppea


Atto I

Disprezzata Regina - Teresa Berganza (1961)

Atto III

Addio Roma - Leyla Gencer (1967)

Idolo del cor mio - Maria Vitale & Carlo Bergonzi (1954)





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giovedì 23 giugno 2011

Les Huguenots a Bruxelles

Il grand-opéra è – tra tutti i generi operistici – quello che oggi ci appare più distante dalla nostra sensibilità. Finita l’epoca dei grandi divi, infatti, e dell’opera intesa come mero intrattenimento popolare (ruolo oggi ricoperto dal cinema o da altre forme di spettacoli di massa) – entrambi elementi portanti del genere – il grand-opéra ha mostrato tutti i suoi limiti. E’ necesssario, dunque, trovare nuovi motivi d’interesse per una sua moderna riproposizione: circoscrivendoli essenzialmente alle sue ragioni musicali e culturali. Nato “ufficialmente” nel 1828 (tradizionalmente si indica La Muette de Portici di Auber, come “primo” grand-opéra), in realtà deriva da una precisa evoluzione di certi elementi del teatro musicale francese (anche se non propriamente autoctoni): la tradizione delle opéra-ballet secentesche (introdotte dall’italiano Lully e poi sviluppatesi nella tragédie-lyrique), le grandi costruzioni spontiniane e cherubiniane modellate su Gluck, la vocalità rossiniana che nella prima metà dell’800 aveva conquistato Parigi (si pensi al Rossini francese del Moïse et Pharaon, Le siége de Corinthe e, successivamente, del Guillaume Tell). Il genere presto conquistò il pubblico della Francia restaurata e del secondo Impero, creando una generazione di compositori “specializzati” e favorendo la nascita di una vera e propria “industria” di grand-opéra che, tra alterne fortune, restò vitale sino alla fine del secolo.

Il teatro musicale francese (particolarmente rigido nelle categorie e nelle codificazioni) si trovò così suddiviso in opéra-comique (composizioni più agili e “leggere”, caratterizzate dall’alternanza tra brani cantati e dialoghi recitati) e, appunto, grand-opéra. Campioni del genere furono Auber, indicato (anche se erroneamente) come capostipite, Meyerbeer, Halevy, Gounod, Thomas sino a Massenet e Saint-Saens, oltre a tutti i minori. Naturalmente anche i compositori stranieri che sbarcavano a Parigi – a parte la parentesi del Theatre des Italiennes – dovevano adeguarsi alle esigenze del nuovo genere componendo (o rielaborando) dei veri e propri grand-opéra: da Donizetti (con La Favorite e il Dom Sebastien) a Verdi (Jerusalem, Les Vêpres Siciliennes e, soprattutto, Don Carlos) sino allo sfortunato Wagner (con l’incompreso Tannhauser). Gli ingredienti comuni, coi quali venivano “confezionati” senza possibilità di varianti rispetto al modello, possono essere sintetizzati in questi elementi:
1) uno sfondo storico “grandioso”, basato su scontri epocali, epopee religiose o grandi conflitti, preferibilmente collocati nel periodo rinascimentale o medievale (erano gli anni della riscoperta romantica dei “secoli bui” e delle suggestioni “gotiche”);
2) passioni “private” che si intrecciano alle vicende storiche e che ne sono condizionate: amori contrastati da culture o fedi diverse, destinati a tragici epiloghi;
3) una struttura drammatica monumentale: divisione in cinque atti ricchi di cambi di scena, con larga presenza di cori e personaggi minori;
4) balletti “obbligatori” solitamente inseriti a metà dell’opera, per permettere ai ritardatari di potervi assistere (tra le critiche mosse a Wagner vi fu l’accusa di aver inserito i balletti al primo atto di Tannhauser);
5) esibizionismo canoro particolarmente “spinto”, derivato essenzialmente dalla elaborata (e imprescindibile) esuberanza vocale rossiniana.
Incontrastato sovrano del genere fu per lungo tempo Giacomo Meyerbeer.
Nato vicino a Berlino nel 1791, dopo la gavetta musicale in Italia (dove, scrivendo opere lunghissime e noiosissime sulla falsariga di Rossini, apprenderà il “mestiere”), trovò il successo vero a Parigi, dove legò il suo nome ai maggiori trionfi del genere (da Robert le Diable a Les Huguenots, da Le Prophéte a L’Africaine, rappresentata postuma). La musica di Meyerbeer – fatto oggetto di un vergognoso libello antisemita scritto dal livoroso Wagner (invidioso per i successi da cui lui era ancora escluso) e largamente sfruttato dalla politica culturale nazionalsocialista nell’edificazione del Reich “millenario” – si caratterizza per un uso sapiente di tutto l’armamentario di cui allora disponeva il teatro musicale. La mancanza di una vena originale e di un’ispirazione autentica, veniva compensata da un’orchestrazione virtuosistica e ricca di effetti, assai complessa e “d’impatto” sicuro, dalla sicurezza nella gestione di una macchina teatrale “smisurata” (anche nella durata), dalla delirante difficoltà della scrittura vocale. Les Huguenots (che, sullo sfondo dei massacri della Notte di San Bartolomeo, quando i cattolici trucidarono nella sola Parigi più di 2.000 protestanti, narra le vicende contrastate di un amore reso impossibile dal fanatismo religioso) furono rappresentati la prima volta alla Salle Le Peletier, il 29 febbraio del 1836, protagonisti i principali divi dell’epoca: Julie Dorus-Gras (Marguerite de Valois), Marie Cornélie Falcon (Valentine), Adolphe Nourrit (Raoul de Nangis), Nicolas-Prosper Levasseur (Marcel) e Prosper Dérivis (Comte de Nevers) – in una ripresa successiva venne ampliato il ruolo del paggio Urbain, in omaggio all’interprete: Marietta Alboni. Fu un successo senza precedenti: tanto da raggiungere le 1.000 repliche nel 1906, e, per più di un secolo dalla sua composizione, non conobbe declino (fu eseguita in tutti i teatri del mondo e da tutti i più grandi interpreti). Ovviamente il successo e la diffusione comportarono necessariamente patteggiamenti (a volte particolarmente dolorosi) con il mutare del gusto e delle circostanze: tagli, modifiche, aggiunte, spostamenti interni, sfigurarono – nel tempo – la complessa architettura immaginata da Meyerbeer, banalizzandola inesorabilmente. Sino ad arrivare ai giorni nostri: l’opera, almeno nella forma maggiormente conosciuta oggi, e di cui si ha memoria o testimonianza, è molto diversa dalla creazione originale, poiché su di essa si sono stratificate tradizioni differenti. Tuttavia, nonostante i rimaneggiamenti posteriori, Les Huguenots (o Gli Ugonotti, nella pessima traduzione italiana con cui si è diffusa), lentamente è sparita dalla programmazione teatrale. Imperdibile, dunque, la ripresa alla Monnaie di Bruxelles, in questo giugno 2011 (personalmente ho assistito alla recita del 17). Innanzitutto per l’approccio esecutivo: l’opera, infatti, viene eseguita nella sua integralità (per un totale di 4 ore e 10 minuti di musica – per intenderci, Bonynge, nella sua incisione “ufficiale”, elimina più di mezz’ora), salvo alcuni piccolissimi tagli, necessari per non superare il limite delle 5 ore (intervalli compresi) previsto contrattualmente per le maestranze del teatro, e limitati a qualche breve passaggio di recitativo, la ripetizione di un coro di damigelle nell’atto II oltre a qualche potatura nel balletto e nel finale III, per dare un po’ di respiro a Raoul (quello che Bonynge, ancora, riduce ad uno scampolo di pochi minuti, è, in realtà, un lungo brano dalla struttura musicale elaborata e imponente). In compenso sono stati reinseriti il Rondeau di Urbain “Non, non, non, vous n’avez jamais je gage”, aggiunto da Meyerbeer per la ripresa del 1847 a Londra, e il suggestivo Choral di Marcel “Veille sur nous, grand Dieu du Ciel” dopo il coprifuoco dell’atto III, non incluso da Meyerbeer nella versione definitiva dell’opera. Viene poi utilizzata la nuova edizione critica predisposta da Ricordi (ma non ancora pubblicata), permettendo così di riscoprire il vero aspetto dell’opera, ripulito da tutte le aggiunte e incrostazioni che ne avevano snaturato il volto (si sono ritrovate molte finezze strumentali andate perdute nel corso degli anni, a causa di certa tradizione esecutiva).

A tenere le fila di questa complessa operazione culturale (che ha comportato enormi sforzi organizzativi, impegno artistico e filologico, senza mai confondere lo spettacolo con il saggio musicologico), il francese Marc Minkowski: direttore che garantisce la necessaria correttezza metodologica e che, contemporaneamente, è sempre molto attento alle ragioni del teatro. Più conosciuto – almeno in Italia – per le sue frequentazioni “barocche” (le più testimoniate discograficamente, attraverso l’attività dei “suoi” Musiciens du Louvre), in realtà i suoi interessi si sono sempre rivolti ad orizzonti più vasti (la sua attività teatrale è molto varia), in particolare quella terra sterminata (e ancora poco esplorata), che è l’800 musicale, di cui ha approfondito con passione e competenza la prassi esecutiva. Particolarmente congeniale gli è la materia del grand-opéra che ha già dimostrato di saper gestire con dimestichezza e visione d’insieme (nel 2001 diresse un’attendibile Robert le Diable a Berlino). Pregio maggiore della sua direzione, infatti, è la restituzione di unitarietà ad un genere che (anche nel recente passato) è stato ridotto ad un insieme insipido di singoli episodi isolati, funzionale alla mera esibizione divistica (complice il gusto dell’epoca, i tanti tagli – che impedivano una visione complessiva dell’opera – e la qualità non certo indimenticabile della musica). Merito di Minkowski, dunque, è dare un significato al tutto, senza cali di tensione nel discorso narrativo: per la prima volta Les Huguenots possiedono un certo senso teatrale! Altro merito non da poco è l’esserci riusciti disponendo di un’orchestra tutt’altro che impeccabile (la scrittura di Meyerbeer è molto complessa). Nonostante le sbavature e qualche sbandamento, però, l’Orchestre symphonique de la Monnaie, osserva con scrupolo le prescrizioni del direttore circa la prassi esecutiva strumentale: ripensamento degli equilibri orchestrali senza la predominanza degli archi, uso attento ed espressivo del vibrato, sonorità trasparenti, fraseggio sfumato, dinamica variegata, senza alcuna concessione a certa retorica, al clangore di piatti e timpani o a volumi eccessivi). Da rimarcare (grazie all’utilizzo della nuova edizione critica) l’utilizzo di strumenti particolari: la viola d’amore che accompagna l’aria di Raoul “Plus blanche que la blanche hermine” (con un effetto nuovo e straniante che avrebbe però beneficiato di un più valente strumentista) o il clarinetto basso nella scena del cimitero nell’atto V. Preziosismi, forse, ma che contribuiscono a dare la misura dell’importanza e della serietà della produzione. Minkowski, dal vivo, si conferma un ottimo concertatore: gestisce con sicurezza e precisione il rapporto palco/buca, nulla sfuggendo al suo gesto (emblematici i grandi finali d’atto o il Settimino). Particolarmente apprezzabile, poi (nella generale scarsità di direttori sensibili alle ragioni del canto e capaci di lavorare “con” e non “contro” il cantante) l’accompagnamento dei solisti: Minkowski aiuta, sostiene, segue i suoi interpreti, soprattutto quando la stanchezza (inevitabile per durata e impegno) inizia a farsi sentire. Anche la musica delle danze è restituita con quel giusto garbo frizzante, leggero e ironico, che ne rende piacevole la sostanziale inconsistenza. Ottimo anche il coro (diretto da Martino Faggiani, già direttore di Santa Cecilia). Quanto alla compagnia di canto, com’era logico aspettarsi (data la lunghezza e gli sforzi richiesti), ha alternato a momenti buoni o ottimi, altri di stanchezza e difficoltà. Prima di considerare in modo più analitico i singoli interpreti è opportuna una premessa: ho ascoltato il secondo cast dell’opera per una scelta ben precisa, e non come ripiego maldestro. Lo stesso Minkowski, peraltro, esplicita le ragioni della scelta dei diversi cantanti, per nulla condotta con la logica del “rimpiazzo”, ma secondo precise valutazioni artistiche: del resto in un lavoro così esigente e vocalmente ambiguo, due cast complementari e diversi, permettono maggiori possibilità di esplorazione. Ma riporta le sue stesse parole (onde evitare polemiche pretestuose o sgradevoli malizie): “nous avons prévu une double distribution pour les rôles principaux, avec parfois des types de voix différents pour un méme rôle: Urbain est par example tour à tour incarné par une sopran lyrique et une mezzo. Nous avons un Raoul grand lyrique, un autre lyrique léger, ce qui correspond à ce que Meyerbeer a pu connaître avec Nourrit et Gilbert Duprez (le successeur de Nourrit dans Robert le diable, Les Huguenots, La Juive et la Muette de Portici”. Cast scientemente diversi, dunque, e non scelta casuale o “low cost”.
Ma procediamo con ordine. Henriette Bonde-Hansen (Marguerite de Valois), è stata, per me, la sorpresa della serata: pur con qualche difficoltà nel registro superiore (percepibile talora in “Ô beau pays de la Touraine”), ha dominato il ruolo con sorprendente sicurezza, buona coloratura e voce piena e sonora: ottimo il duetto con Raoul e splendido il Finale II dove “tira” il concertato e non si risparmia in nulla. Ingela Brimberg (Valentine), applauditissima alla fine, ha avuto qualche momento di incertezza nell’aria dell’atto III “Parmi le pleurs”, ma per il resto ha ben rappresentato il suo personaggio (sottolineandone la drammatica fierezza piuttosto che la malinconica mestizia). Blandine Staskiewicz (Urbain), è stata, invece, un paggio deludente: ma più dei suoni a volte ingolati e di certi acuti difficoltosi, sono mancati quella frivolezza e quel brio che caratterizzano la parte (soprattutto – come in questo caso – se si aggiunge il Rondeau), così come la spregiudicatezza nella coloratura. John Osborn (Raoul de Nangis) ha reso in modo attendibile una parte ingrata, lunghissima e ambigua. A cominciare dalla sortita con i suoi recitativi martellanti, a seguire un’aria di delirante difficoltà (per la sollecitazione del registro sovracuto “di testa” e l’uso delle mezzevoci) e poi duetti, arie e concertati dove nessuno sconto viene fatto al tenore. Osborn, forse non in forma perfetta, è apparso alterno: la prima strofa della prima aria ha denunciato qualche problema, ma già nel secondo couplet l’esecuzione è stata perfetta (peccato per il maldestro accompagnamento della viola d’amore); eccellenti il duetto con Marguerite “Beauté divine, enchantresse” e il Finale II; nel complesso buono l’atto III (in particolare il Finale, seppur alleggerito di qualche passaggio); deludente nel Gran Duo (a parte la stretta); davvero buono l’ultimo atto. La voce è sonora e abbastanza sicura, sale con facilità all’acuto e gestisce bene il registro “di testa”, ma, come Merritt, pare sbandare talvolta nell’intonazione. La lunghezza della parte, tuttavia, deve essere considerata una valida attenuante, così come la conseguente stanchezza (i due brevi intervalli, di 20 minuti ciascuno, erano collocati dopo i primi due atti e dopo il terzo: massacrante!). Buono nel complesso il reparto delle voci gravi, a parte il torniturante Philippe Rouillon (Comte de Saint-Bris). François Lis (Marcel), dopo un esordio non esaltante (a causa della bassissima tessitura del corale luterano) ha dipinto un personaggio agli antipodi delle grottesche caratterizzazioni in cui è degenerato il ruolo: un Marcel elegante, giocato sulla parola, che guarda a Plançon piuttosto che a Christoff. La stessa “Piff, paff” (brano di rara bruttezza), risultava meno volgare del solito. Tuttavia il migliore è stato Jean-François Lapointe (Comte de Nevers), che è riescito a mostrare le due anime del personaggio e il passaggio da nobile frivolo e annoiato (dedito ai piaceri del letto e della tavola, piuttosto che alle dispute religiose) al fiero guerriero d’un tempo, che si rifiuta di diventare un volgare assassino, attraverso un canto nobile e giovanile, non da orco trucibaldo. Senza infamia e senza lode i comprimari (ad eccezione dello sgradevole Tavannes di Avi Klemberg). Infine la deludente regia di Olivier Py. Nella cornice gradevole di una scena molto agile e dai colori ferrigni e opprimenti – che permetteva cambi veloci di scena e la possibilità di costruire diversi “ambienti”, attraverso l’utilizzo di quinte mobili, scalinate, archi, facciate di palazzi e larghi finestroni – si muove una regia che, per l’ansia di voler caricare di significati sottesi, finisce per risultare confusionaria e dispersiva. Premessa la scarsa dimestichezza con la gestione delle masse (il coro è quasi sempre lasciato immobile, schierato sulle ampie scalinate o in fila dietro ai solisti) Py si lascia andare a soluzioni spesso di cattivo gusto, di facile provocazione o di provinciale banalità. Molto maldestra (ed eccessivamente caricata) la festa dell’atto primo, trasformata in una specie di orgia maschile con tanto di accoppiamenti e svestizioni (ma per una sorta di par condicio, la stessa soluzione è adottata – in chiave saffica – nell’atto II con le baigneuses seminude); chiaramente ispirata al bel film di Chéreau La Reine Margot, da cui cerca di riprodurre con poco successo talune atmosfere, la presenza muta (quasi una sorta di eminenza grigia) di Caterina de’ Medici: idea narrativa interessante, ma che diviene grottesca nell’atto IV, quando, mentre i cattolici di Saint-Bris organizzano il massacro dei protestanti, la “vecchia megera”, seduta al tavolo con loro, sbocconcella un pezzo di pollo e tracanna un bicchiere di vino, per poi lasciarsi andare a smorfie orgasmiche durante la benedizione dei pugnali; poco intellegibile la scelta dei costumi: le donne con abiti rinascimentali, mentre gli uomini (all’inizio in giacca e cravatta) alternavano, nel corso dell'opera, armature dorate con gorgiere (cattolici) e marsine ottocentesche (protestanti), brandendo a turno mitragliatori e croci bianche. Belle alcune soluzioni come la luna enorme che illumina la scena all'apertura dell'atto II. Di sconfortante banalità la scena finale: il coro, vestito come gli ebrei cacciati dal ghetto di Varsavia, veniva sterminato contro un muro da una specie di automa senza volto in armatura dorata che brandiva due crocifissi. Nel complesso uno spettacolo importante che, pur tra alti e bassi, è riuscito a dare un senso (soprattutto teatrale e musicale) alla riproposta di un titolo mitico e complesso come Les Huguenots. Non tutto ha funzionato alla perfezione (in particolare l'aspetto visivo), ma resta comunque un evento che segna uno spartiacque nella storia della recente interpretazione operistica.


Cogliamo l'occasione offerta dalla recensione di Duprez per riproporre il Grande concerto meyerbeeriano dei 75.000 ingressi e gli articoli dedicati da Vivian Liff alla discografia de Les Huguenots. Gli ascolti sono stati ripristinati per l'occasione. Buon ascolto e, perdonate l'immodestia, buone riflessioni. - GG & soci

http://ilcorrieredellagrisi.blogspot.com/search/label/huguenots


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martedì 21 giugno 2011

Attila in Scala: un trionfo di barbarie.

Ieri alla Scala è andato in scena Attila, con un cast completamente riformato rispetto all’originario progetto ed ulteriormente modificato dal cambio last minute della titolare del ruolo di Odabella. Sicchè nel ruolo della vergine guerriera è stata proposta la terza scelta.
Un successo pieno e convinto, tributato da parte del teatro ad una produzione che ancora una volta ci ha dimostrato quali siano le “poetiche” esecutive oramai gradite ai più: le urla sul palco ed il fracasso della buca.

Che poi i cantanti debbano urlare oltre le loro possibilità per superare il muro di suono, che si frappone tra loro e la platea, o che il direttore debba ricorrere ad un numero esagerato di decibel e ad un quarantottismo orchestrale superficiale ed inutile per occultare, coprire e/o supplire a guai e carenze del palco è speculazione oziosa e che non porta da nessuna parte. Il dato di fatto è uno: rumore e chiasso. Ma siccome paga, perché la gente applaude, bravi loro!...e povero Verdi!
Anche se riteniamo doveroso raccontare, atteso che nessun altro lo farà la formazione del pubblico ossia: claque a ranghi serrati per evitare disavventure come Tosca o Cavalleria e Pagliacci; giovani studenti di conservatorio d'ambo i sessi e di variegata nazionalità sul lato Filodrammatici della seconda galleria, che vengono portati a educare gusto ed orecchio; vecchio pubblico che applaude del pari sordo e convinto, perchè riprovare la Scala è dire che non si è veri intenditori e allora ci si nutre del prodotto scaligero. Non comprendo nè le faccie scontente di parecchi all'uscita piuttosto che nell'unico intervallo, nè chi cerca di limitare peso e portata dal recente passato, pur di non ammettere che sotto il profilo vocale e musicale siamo a Waterloo. Gli uni mancano di coraggio, gli altri necessitano di molto molto fosforo.
Non è solo opinione di questo sito che il maestro Luisotti sia sicuro amministratore e concertatore delle compagini in buca e sul palco, autorevole e chiaro nel gesto, soccorrevole con i cantanti laddove occorre lasciar loro prendere un fiato abusivo o coprirli quando serve, e, come altri spettatori del recente concerto con la Filarmonica hanno verificato di persona che al maestro piacciano i F ed i FF, che ne abusi privando completamente il proprio dirigere di ogni slancio lirico, ogni afflato, ogni attimo di poesia. Nel sorbire una bibita al bar prima della recita, una coppia di signori non più giovan,i che evidentemente aveva assistito al concerto di Tchajkovsky e Prokofiev, assicurava ai presenti al tavolo che l’Attila sarebbe stato diretto da….“un rumorista”. Una battuta simpatica e garbata che, però, rende benissimo il senso della questione. Il signor Luisotti ha diretto con velocità, altissima intensità sonora ( da fare impallidire le serate più arrabbiate e nevrotiche del maestro Muti ), nessuna poesia e atmosfera ( si veda l’alba sulla laguna, che precede la sortita di Foresto, l’introduzione al primo atto cui segue il Fuggente nuvolo, il terzetto finale..etc..), mancando talora di nerbo ( paradosso dei paradossi!) negli accompagnamenti al canto ( la sortita di Odabella in particolare ) o di quella intensità ed espansione tipicamente verdiane che, valga per tutti, il concertato all’atto I o quello che precede le mancate nozze del secondo.
Ho letto or ora un’ inopinato paragone tra la direzione di ier sera e quelle celebratissime del maestro Muti. Non posso per nulla trovarmi d’accordo. Riccardo Muti, anche quello delle serate peggiori, non si è mai abbandonato a tanta gratuità bandistica, a tanto bimbarabum ossessivo e martellante quale quello udito ieri. Poteva essere nevrotico, scatenato, esagerato, ma mai così piatto, senza idee e rumoroso. Il Verdi tutto sangue e cabalette era quello di Muti, ma era Verdi, piacesse o meno. C’erano anche gli archi, certi colori dei violoncelli e dei contrabbassi, l’accompagnamento melodico al canto ( magari senza prese di fiato per i cantanti!...), ma anche il senso ottocentesco del testo, dei grandi momenti espressivi e teatrali di Verdi. Nella direzione di Luisotti, purtroppo no, e dirige senza che alcuna somiglianza possa mai essere invocata, per giustificarlo, con un Levine, ma anche con un più nostrano Patanè. Piace il fragore? Benissimo, è un fatto di gusti. Noi pretendiamo qualcosa di più, perchè secondo noi Attila è qualcosa di più di una banda.

La compagine vocale ha di certo fatto meglio di quanto avrebbero mai potuto fare gli interpreti originariamente chiamati, ma da qui a dire che si sia ben cantato ce ne corre. E parecchio!
In primo luogo va sottolineato, poiché è il problema cogente del canto lirico odierno, che nessuno del quartetto protagonistico esibisce una tecnica di canto “sul fiato”, ossia quella che, per intenderci, consente di manovrare la voce con facilità, guidandola dal piano al forte e viceversa con morbidezza ed omogeneità, emissione composta esente da forzature, finalizzata all’esecuzione della miriade di segni di espressione di cui Verdi costella la scrittura del canto o che l'autentico interprete deve di sua iniziativa inserire. Nel canto sul fiato il suono arriva nella sala senza ricordare allo spettatore la gola o qualsiasi altro organo del cantante, la voce suona “fuori dal corpo”, perfettamente udibile e sonora anche nei piani. Non c’è mai senso di fatica in questo modo di cantare, mai sforzo, mai lotta con la voce.
Ciò premesso, possiamo dire che ieri nessuno ha cantato secondo questi che sono i modi della tradizione vocale italiana.
Abbiamo udito gole ipersollecitate, canto di fibra, note spinte, gutturalità sparse, acuti indietro, voci gonfiate oltre il limite della razionalità per voler essere ciò che naturalmente e per tecnica non sono e non possono essere. Alla poetica del rumore si affianca oggi quello dello sforzo e dell’urlo dei cantanti, che cantano con fatica evidente e non possono restituire il personaggio che interpretano, le sue emozioni, gli intenti espressivi che l’autore voleva raggiungere. Tutto è atletico, muscolare, è una lotta con i propri mezzi. E non è l'atletismo vocala praticato da cantanti di cognizioni tecniche meditate di un Corelli, di una Nilsson, di una Price o anche di una Arroyo o diuna Cossotto, si badi bene. E’, viceversa, il frutto della perdita di certi saperi tecnici, dell’alchimia del canto all’italiana, che ha subito una progressiva vicarianza, vuoi per insipienza via via sempre più diffusa, vuoi per mal gusto anch’esso sempre più diffuso, da parte di tecniche che mettono il cantante in grado soltanto di spingere a più non posso, di non governare la linea di canto sul centro, di emettere acuti sul forte o falsettati. Tecniche inadeguate agli spartiti che, poi, si pretende di eseguire, che consentono l’ispessimento della voce ma ne compromettono la duttilità, la manovrabilità spontanea. I passaggi di registro, superiori o inferiori, si eseguono senza perizia, più frequentemente non si eseguono del tutto, e così si grida sopra e ci si ingolfa nei gravi. Il canto che ne discende è quello odierno ( si badi bene, odierno, non solo quello di ieri sera, ma quello normalmente dispensato dalla maggior parte dei cantanti odierni..), piatto, monotono, sempre forte o mezzoforte, che dei segni di espressioni ( centinaia, migliaia ) che costellano gli spartiti verdiani fa piazza pulita senza troppi problemi. Da un lato abbiamo i filologi, discorsi dotti sul rispetto dell'autore, l'autenticità della lezione, i fans del rigore mutiano al testo e dall'altra abbiamo nei teatri esecuzioni che dello spartito e di quanto in esso contenuto bellamente fanno piazza pulita ( e ieri sera eravamo in linea con l'andazzo generale, Verdi festival docet ) mentre il pubblico applaude soddisfatto. L'importante è stato.....assuefare il pubblico a tale estetica antistorica, ed il gioco ormai pare riuscito.

Ma vediamo da vicno i "lottatori" in campo.
Lotta con tutta evidenza il signor Sartori, alla prese da subito con il muro di suono che gli si para davanti alla sortita: l'onda de "La tempesta perfetta"! La voce si è fatta meno facile sul centro rispetto alle ultime prove scaligere, gli acuti sono sempre là, mai sfogati e squillanti, il legato è deteriorato, e Foresto gli costa grandissima fatica, nonostante sia uno dei pochi tenori che sul passaggio riesce un po’ districarsi, più per dote naturale che per tecnica. La cabaletta della sortita gli è costata uno sforzo enorme causa il fragore dell’orchestra, si è barcamenato al duetto con Odabella ma senza esprimere alcunché, ha messo lì la seconda aria alla meno peggio, senza mai avere la necessaria ampiezza di fraseggio e volume, per affrontare il terzetto finale senza benzina, dove puntualmente ha inciampato.
Lotta anche il il signor Vratogna, che canta alla Nucci senza le qualità vocali e tecniche di Nucci. Il gusto è quello attuale, contaminato e deteriore, la voce evidentemente fibrosa, la tessitura di “Dagli immortali vertici” troppo alta per dar luogo ad un canto con un po’ di legato e morbidezza, il personaggio monotono e truce, mai nobile, il canto senza intenzioni espressive, piatto anche lui.

Lotta Orlin Anastassov, basso verdiano cui manca di fondo l’ampiezza per cantare Verdi, almeno in sale grandi come la Scala. Le cose “migliori” le ha fatte sentire lui, ossia la sua quarta centrale, cui non sta appiccicato né un registro acuto udibile, dato che, pure lui, non sapendo eseguire il passaggio superiore, in alto talmente indietro da non sentirsi per nulla ( soccorrevole nella cabaletta il F di Luisotti sui vari fa acuti scritti, di cui non ne abbiamo udito uno solo..!) , men che meno un registro grave ( per un parte che poi grave non è ). Gli manca l’ampleur ad Anastassov, e soprattutto la risonanza che, con la giusta tecnica, un Ramey sapeva metter in campo per sopperire alla propria natura vocale, spontaneamente non consona a Verdi. L’ampleur ed il legato, udito solo a tratti, come al concertato davanti a Papa Leone. Il segno dei tempi è tutto qui: Ramey approcciò Verdi sporadicamente, con cautela e furbizia, conscio di non essere vera voce verdiana; Anastassov, che non ha la tecnica di Ramey nè una voce davvero importante, canta sopratutto Verdi....

Lotta la signora Lucrezia Garcia, ritenuta giovane promessa (in carriera da dieci anni, stando al sito della sua agenzia!), che forse dovrebbe attendere di essere più solida tecnicamente prima di darsi ai ruoli pesanti. La signora Garcia ha colpito il pubblico per una certa penetrazione degli acuti, frutto, però, di un canto di spinta, dunque incontrollato e non sempre a fuoco nell’intonazione. Il centro è debole, però, secondo i modi del canto odierno. Quando arrivano le frasi centrali da emettere con lirismo e dolcezza, basti pensare al terzetto finale, la voce si riduce in volume, il legato latita, il timbro è chioccio, per una certa tendenza a schiacciare i suoni. Se poi la tessitura si alza e non basta buttarla fuori, i guai sono lì sotto gli occhi e le orecchie di tutti. Il “Fuggente nuvolo”, grande scena di ripiegamento lirico e nostalgico del personaggio, di scrittura aerea, costellata da segni di piano e pianissimo e forcelle è stato eseguito sul mezzoforte per non dire sul forte, i segni di espressione bellamente spianati, e prese abusive di fiato clamorose, rabberci alla linea vocale e musicale come la salita al do, con paziente pausa della buca, per tacere della cadenza maldestramente scorciata e pasticciata. Il brano ne è uscito snaturato nella sua essenza espressiva e lirica, difficile da riconoscere. Avrà anche fatto buona impressione nell’entrata, dove la freschezza le ha consentito di lanciare gli acuti con una certa facilità e di eseguire la cabaletta con bella correttezza, ma poi tutto è finito lì. Una "promessa", a mio modo di vedere, deve provare di saper fare ciò che fa con sapienza tecnica non per dote naturale, e la signora Garcia non mi ha trasmesso alcun senso di solidità.


Lo spettacolo di Gabriele Lavia ha avuto bei momenti, il prologo in particolare ( a meno delle compagne di Odabella in mimetica ed anfibi ), con le rovine del teatro romano in primo piano, e momenti grotteschi, come la tavolata anni ’30 con le coriste in calottine di strass, lampadari e tavolata da ricevimento mondano antistante un frammento a rudere della Scala bombardata, metafora, immagino, sul declino del teatro piuttosto insignificante. Idem dicasi per l’ultimo atto, con la solita proiezione su maxischermo di film hollywoodiano sui Attila, stile fratelli Lumiere ( 3° o 4° volta quest’anno?...), poltroncine anni ’50 tra le quali si aggirano i protagonisti della tragedia. Regia pochetta e piuttosto banale, qualche cappotto in pelle immancabile, piuttosto una certa incoerenza di cifra tra le scene, ma forse era il male minore. Tanto valeva riprendere la produzione precedente assai meglio riuscita, dato l’esito alterna, di poca inventiva, che non mi ha convinto per nulla, a differenza di altri spettacoli dello stesso Lavia.

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domenica 19 giugno 2011

Les Huguenots: Marcel

E’ naturale che quelli del Corriere della Grisi ritengano la ripresa del titolo meyerbeeriano un avvenimento di rilievo e come tale la firma più vicina a quel titolo ne riferirà nei prossimi giorni.
Gli Ugonotti ancor oggi godono di una fama tutta loro e particolare per quel che nella storia del melodramma rappresentano ad onta delle scarse rappresentazioni, dettate dalla difficoltà di reperire oggi assai più di ieri le cosiddette sette stelle per i ruoli protagonistici. Ma questo è problema e realizzazione che riguarderà Duprez e non già Donzelli.

Quando si pensa agli Ugonotti si pensa ora a Raoul de Nangis ossia l’innamorato folle per amore, folle per l’antinomia delle scelte amorose rispetto al credo religioso, folle per scrittura vocale, folle per gesti scenici (il quarto atto, che un tempo era la fine dell’opera, termina con il protagonista, che si getta dal verone del palazzo di Nevers), ora agli artifizi vocali di Margherita di Valois o del paggio Urbain (magari con le aggiunte previste per Marietta Alboni). Sono queste le chiavi di lettura o gli approcci oggi più comuni agli Ugonotti. Non sono i soli e soprattutto non lo furono nel tempo passato. Per gli Scapigliati milanesi furono l’opera antiverdiana e dei tempi nuovi, per i francesi il paradigma di un modo diverso di fare teatro (e ripeto teatro più che musica), per il mondo anticlericale francese ed anche italiano della seconda metà dell’800 un esempio di dramma, che apertamente contrastasse morale e pensiero storico di ispirazione cattolica.
Di questo aspetto di polemica e critica verso il Cattolicesimo, ben differente nel suo rapporto con il secolare dall’attuale, negli Ugonotti il portavoce è Marcel, il servitore, tutore e maestro di fede dell’amoroso. Marcel non parla di cattolici, parla di papisti quando entra e, riconosciuto, dai gentiluomini cattolici intona una canzone, che costituisce la cavatina di sortita di Marcello. Non è il solo brano perché a Marcel compete un ampio duetto al terzo atto dell’opera con Valentina , oltre che la presenza vocale rilevante nel settimino “per vendicar si grave offesa” e tutto il grandioso finale dove Marcel è celebrante del matrimonio di Raoul e Valentina e loro guida al martirio per la religione.
Non per nulla per tutto il XIX secolo e i primi trent’anni del XX, ovvero sino a quando gli Ugonotti ebbero regolare rappresentazione tutti i più grandi bassi avevano in repertorio la parte. La parte è davvero strana e posso avanzare il dubbio che quando venne scritta e pensata le condizioni vocali di Nicolas Prosper Levasseur (1791-1871) non fossero più freschissime. Era in carriera da vent’anni ed era un cantante di formazione, tecnica e gusto rossiniani. Di questa caratteristica tenne ben conto Meyerbeer visto che la parte presenta qualche parco passo di coloratura (soprattutto al duetto con Valentina) e soprattutto abbonda di trilli spesso ad esaltare (vedi cadenza del corale di entrata) l’aspetto sacerdotale del personaggio e, forse, pensati per dargli quel senso di astrattezza ed estasi religiosa che lo connota. Non dimentichiamoci che la prima indicazione di Meyerbeer è “en exstase”. Perché condizioni vocali non più freschissime? perché Meyerbeer utilizza le zone estreme della voce e di fatto Marcel se si esclude il duetto con Valentina, dove il personaggio è paterno ed accorato, quasi mai il canto è nella zona centrale della voce. Può anche esserci una spiegazione drammaturgica ossia l’esaltazione e il fervore religioso del personaggio sono resi grazie a zone della voce diciamo soprannaturali. In fondo era accaduto lo stesso con il satanismo di Bertram pensato anch’esso da Meyerbeer per Levasseur qualche anno prima ed ancora Brogni, il terribile inquisitore dell’Ebrea di Halévy scritto nel 1835 presenta scrittura bassa, priva, però, di queste caratteristiche estreme.
Gli ascolti che proponiamo sono tutti degni della massima attenzione. Non certo perché proposti, o per meglio dire, riproposti da noi - le nostre persone, come sempre ricordiamo, contando nulla -bensì in quanto esemplificativi, nella diversità e peculiarità di ciascuna voce, di una koinè professionale della quale oggi sembra essersi smarrito persino il ricordo. Ciò emerge con evidenza proprio nella canzone di sortita, in cui gli esecutori si differenziano piuttosto per la cavata, il gioco di accelerando e rallentando, la maestosità conferita a certe frasi (come l’inciso in do maggiore “qu’ils pleurent, qu’ils meurent”) che non per la facilità o la difficoltà di salita agli acuti.
Certo che poi ascoltando un fortunoso cilindro Mapleson appaiono chiari i motivi che resero Edouard de Reszke il re incontrastato della parte al Metropolitan dal 1891 al 1903. L’ampiezza, l’espansione della voce sono evidenti e schiaccianti malgrado la precarietà della registrazione e le non più perfette condizioni vocali, che di lì a pochi mesi avrebbero persuaso il cantante a ritirarsi dalle scene, chiudendo in tal modo una carriera quasi trentennale. Con quello che abbiamo ascoltato in tempi recenti, viene da pensare che la carriera di de Reszke avrebbe potuto durare almeno un ulteriore lustro.
Interessante il confronto tra De Reszke e uno dei suoi diretti rivali, Pol Plançon, che non sostenne mai nel teatro newyorkese la parte di Marcel, ma solo quella di Saint Bris (come del resto fece nel 1891 lo stesso De Reszke, di fresco approdato al Met). La realizzazione della canzone ugonotta è pregevole, come quasi sempre accade per il basso francese, ma forse un poco troppo sussiegosa per la circostanza drammatica e soprattutto se si consideri il carattere rude e vigoroso del personaggio.
I successori del Marcel di De Reszke furono Marcel Journet e successivamente Adamo Didur (che chiude la sua incisione interpolando uno spavaldo sol acuto). Nel 1915 ebbe luogo l’ultima ripresa newyorkese del titolo e quindi José Mardones, approdato al Met solo un paio d’anni dopo, non poté inserirsi nella scia di cotanti predecessori, anche se propose in più di un’occasione, in concerto, la canzone ugonotta. E proprio Mardones consegna al disco una delle realizzazioni più pregnanti, prima di tutto per la voce di vero basso, poi per l’accento, se non vario, almeno incisivo e quindi efficace, tanto più sorprendente in un cantante abitualmente tacciato di essere piatto e monocorde o al massimo dedito a discutibili prodezze vocali (ma la puntatura finale è molto più discreta di quella proposta da Didur).
Un altro appuntamento irrinunciabile, per chi voglia comprendere come possa e debba suonare una vera voce di basso cantante, è quello con Wilhelm Hesch, Marcel di riferimento alla Staatsoper di Vienna (debutto nel 1902 in compagnia di Leo Slezak-Raoul e Selma Kurz-Urbano sotto la bacchetta di Gustav Mahler: quando si dice partire alla grande) e al quale si può muovere un solo appunto, comune del resto agli altri colleghi: la mancata risoluzione dei trilli previsti sul sol grave. Ma forse il cantante che meglio di tutti coglie la doppia natura di Marcel, pilastro della fede e guerriero a riposo, ma sempre pronto a riprendere le armi, è Lev Sibiryakov, che risulta fatalmente umiliante, in Meyerbeer come in Verdi, per tutti i bassi slavi a lui successivi.
Buon ascolto.



Gli ascolti

Meyerbeer - Les Huguenots


Atto I

Seigneur, rempart et seul soutien - Paul Aumonier (1908)

Piff! paff! - Pol Plançon (1902), Adamo Didur (1903), Wilhelm Hesch (1905), Marcel Journet (1910), Lev Sibiryakov (1912), José Mardones (1919), Tancredi Pasero (1927)

Atto III

Dans la nuit où seul je veille - Johanna Gadski & Edouard de Reszke (Mapleson - 1903), Barbara Kemp & Paul Knüpfer (1915)

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venerdì 17 giugno 2011

Stagioni 2011-12, la Quaresima perpetua. Stazione dodicesima: Royal Opera House, Covent Garden


Altro feudo storico del teatro lirico internazionale, la “Royal Opera House”, meglio conosciuta, per traslazione sineddochica, come “Covent Garden”. Un teatro identificato dunque con il nome del quartiere che lo ospita. E a ragione, se proviamo a scorrerne la cronologia. Peccato che oggi, subìto il contrappasso – si risentano le ultime Aide e Adriana – in compagnia di altre scene oltreconfine, abbia assunto le fattezze di un’arena in cui si consumano i più efferati eccidi. In luogo dei gladiatori, il canto di scuola.

Se il pacchetto dei titoli è noto da tempo, la composizione dei cast per la stagione 2011-2012 non è ancora definitiva, almeno ufficialmente. I rumors in rete danno però un’idea approssimativa – oltre che lacunosa – di chi saranno gli “artisti” scritturati. Considerata la variabilità con cui il resto dei teatri – sia nostrani che non – sono soliti sorprenderci con aggiustamenti dell’ultim’ora, mi affiderò senza troppe remore alle suddette “indiscrezioni”, che con ogni probabilità saranno a breve confermate, per poi essere puntualmente riviste, e poi ancora…
Se luci e ombre si proiettano sulla triade di teatri della Parigi lirica, su Londra è buio pesto. Due i motivi. Soliti. Da una parte le poche lungimiranza e fantasia nella scelta dei titoli, tanto da spingere il pubblico melomane – senza alcun sintomo di crisi egolatrica – a sentirsi una falange di Pizie o di altre, più generali figure oracolari. Dall’altra il bacino di pescaggio dei cast e la conseguente retorica della combinazione star-systemica: un parterre di “cantanti” già visto e sentito più volte negli stessi ruoli – per la maggior parte mal interpretati – idonea giusto a negare e l’effetto propulsivo del ricambio artistico – se pur si fatica a trovarlo, almeno lo si cerchi… – e il salutare ingresso di repertori più congeniali alla diffusa minidotazione delle maestranze del palco. Riveliamo in primis le eccezioni, tali più per l’originalità della proposta che per le qualità intrinseche degli esecutori: si tratta del debutto alla Royal Opera House di Rusalka, per cui incuriosisce la direzione di Nézet-Séguin ma non il cast (Camilla Nylund e Bryan Hymel) e una nuova edizione dei Troyens (McVicar) con a capo Pappano. Grottesca, se ci affidiamo alle previsioni, la partecipazione di Jonas Kaufmann quale Enea, parte che prevede una magistrale capacità di sostegno del fiato nelle ardue salite dei pezzi più noti. Completano il cast Anna Caterina Antonacci e Eva-Maria Westbrock…
Desta più di una perplessità la presenza di Aleksandrs Antonenko in ruoli del tutto speculari alle sue peculiarità vocali, di un cabotaggio insufficiente per sostenere le tessiture di Luigi del Tabarro e soprattutto di Otello (in scena in questi giorni anche a Parigi), peraltro quando la riprova (il suo recente Cavaradossi al Piermarini), sulla carta molto più abbordabile, è sotto gli occhi – e le orecchie – di tutti. La recente esecuzione di Pappano nel verismo kaufmanniano mi porta a scommettere qualcosa in più su Otello che sul Trittico. Stessa previsione anche per Anja Harteros, più a suo agio con Puccini (nella fattispecie, Suor Angelica) che con l’ibrido Verdi di Desdemona. Per finire, ancora Eva-Maria Westbroek, che ci risparmia il suo Wagner in onor a Giorgetta.
Il cartellone prosegue una volta in più col Verdi maturo di Falstaff, con Ambrogio Maestri, uno tra i… meno convincenti baritoni italiani in circolazione – e quindi ospite fisso in Scala, laddove è riuscito nell’impresa di volgarizzare pure Canio dei Pagliacci – nel title role e Ana Maria Martinez – soprano dall’acuto ghermito – che nel giro di un paio di mesi alterna Puccini, Verdi, Rossini e Mozart manco fosse una Eleanor Steber rediviva. Sul podio, Daniele Gatti, reduce da un Falstaff di successo a Zurigo ma – a dispetto dei filosofanti e petizionari del bene in musica – da sempre incompatibile con le partiture del genio di Busseto. Nuova produzione firmata Robert Carsen.
Di nuovo Verdi, con due terzi della trilogia popolare. Per Traviata, che verrà allestita da ottobre a gennaio, è previsto un triplo cast, direttore compreso. Si alternano, nei panni dei due protagonisti: Marina Poplavskaya – che ha fatto scempio della parte lo scorso gennaio al Met nella nuova produzione di Willy Decker – e James Valenti, “specialista” mannequin dell’amoroso da grosso pubblico; Piotr Beczala e Ailyn Perez, regina dell’ingolfatura calante; e infine Anna Netrebko – in ulteriore alternanza con Ermonela Jaho, forse la meno problematica del quartetto di tisiche, seppur penalizzata da qualche ferrosità di troppo – con la stella (dalla voce) gonfiata Vittorio Grigolo. Autentici Gérmont, più per anagrafe che per attitudini vocali, Leo Nucci – finalmente in una parte meno onerosa – e Simon Keenlyside. Il terzetto di direttori è composto dal patrio Jan Latham-Koenig, Patrick Lange e Maurizio Benini, da sempre più avvezzo al melodramma romantico pre-verdiano. Si cavalca il ritorno dell’identico anche per Rigoletto, con Grigolo e la problematica – in termini di timbratura del suono – Ekaterina Siurina, mentre la bacchetta di John Eliot Gardiner non spazza certo via lo spettro di un Verdi barocchizzato.
Altra trilogia, in questo caso completa, quella dapontiana, che potrebbe essere ben riassunta con un’headline debitrice a Klimt: “Le tre età del cantante”. A fronte di un Così fan tutte in cui spunta il solo nome di Tom Allen (!), troviamo in Don Giovanni (doppio cast) l’essenza tutta British del tenore votato all’"Eterno Femminino" – Matthew Polenzani e Pavol Breslik come Don Ottavio – l’addome scolpito ma soprattutto statico di Erwin Schrott e il bass-baryton Gerald Finley, entrambi nel ruolo del seduttore. Dirige la sempre interlocutoria bacchetta di Colin Davis, mentre Antonio Pappano sarà ancora sul podio per Le nozze di Figaro. Sul palco si esibirà invece il classico cast da spedizione punitiva: Aleksandra Kurzak, Kate Royal, Simon Keenlyside e Ildebrando D’Arcangelo.
Lasciate alle spalle una Sonnambula con i problematici portamenti e l’approssimata coloratura di Eglise Gutierrez, una Bohème – di totale disinteresse – con Roberto Alagna e una Fille du Régiment da riciclo con la Marie di Patrizia Ciofi e il Tonio di Clin Lee, tenore dalle non poche difficoltà con l’attacco sul passaggio (non a caso Edgardo l’ha cantato una sola volta in carriera), balza all’occhio una vera produzione all star (più cadenti che nascenti): Faust. Se stupisce la presenza di Dmitri Hvrostovsky – oramai “verdiano” doc – in un ruolo pressoché secondario quale è Valentine, il resto del cast traccia di nuovo il sentiero del cliché da scrittura: il Mefistofele di René Pape, la Marguerite da Arena di Angela Gheorghiu e il Faust di Vittorio Grigolo, vero padrino della stagione, in una parte decisamente più abbordabile rispetto al Duca di Mantova. Il sedicente esperto dell’Ottocento romantico Evelino Pidò terrà insieme le fila della ripresa.
Latitano invece i titoli di area germanica: fatti salvi i Maestri cantori – titolo senza ragione dimenticato dai cartelloni nostrani – diretti da Pappano, con un cast che compendia il peggior vecchio e nuovo dei tempi wagneriani che corrono (Emma Bell, John Tomlinson, Simon O’Neill, Wolfgang Koch), e fatto salvo un Olandese volante con la durezza di emissione e il legato opzionale di Anja Kempe, oltre all’anonimia di Ensrik Wottirch e Falk Struckmann (sul podio, Jeffrey Tate), l’unica produzione è il solito Strauss di Salome con l’ennesima Denoke. La bacchetta è del giovane lettone Andris Nelsons, amante di ritmi – come dire – poco sbrigativi.
Per finire, un tocco di macabro londinese. Nella cornice cupa e brumosa di fine ottobre, il concerto di Placido Domingo – canterà gli ultimi atti di Rigoletto, Boccanegra e Otello – richiama il frame di una celebrazione funeraria, mentre il dinner gala che lo segue ha tutta l’aria di un banchetto post esequie. Roba d’altri tempi, appunto. Per questo, e un po’ per l’intera stagione tout cout, la nuova opera – in programma per marzo 2012 e al debutto sul palco di Bregenz il prossimo mese – sottende una speranza che va ben a di là della forza dei mezzi (e pure delle preghiere). Il titolo è Miss Fortune




Gli ascolti

Mozart - Don Giovanni

Atto I - Fuggi, crudele, fuggi - Maria Cebotari & Richard Tauber (1947)


Berlioz - Les Troyens

Atto IV - Chasse royale et orage. Pantomime - Sir Thomas Beecham (1947)


Verdi - Rigoletto

Atto I - Caro nome - Lina Pagliughi (1938)


Verdi - Traviata

Atto I - Follie, follie!...Sempre libera - Maria Caniglia (con Beniamino Gigli - 1939)


Verdi - Otello

Atto IV - Ave Maria - Nellie Melba (1926)


Gounod - Faust

Atto III - Ah! Je ris de me voir si belle - Nellie Melba (1907)





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