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mercoledì 18 agosto 2010

Mese di agosto X - La Cenerentola della riparazione

La Cenerentola, atteso il cast approntato dalla direzione artistica del Festival Rossini di Pesaro ci aveva indotto a predisporre ascolti definiti riparatori.

Al termine delle trasmissioni radiofoniche e non certo per i gratuiti commenti di cui fatti oggetto per la definizione di canto antirossiniano con riferimento a quello della signora Barcellona, il vero ascolto riparatorio avrebbe dovuto avere per oggetto l'esecuzione delle parti di Marietta Marcolini, primo Sigismondo, ossia
il contralto en travesti, considerata l'espansione del repertorio in questa direzione della signora Barcellona. Ma queste riflessioni sono soltanto rinviate e, quindi, rimangono gli ascolti riparatori di Cenerentola.
Riferiti alla protagonista gli ascolti cosiddetti riparatori costituiscono il primo passo nella direzione impostaci dall'esecuzione della signora Barcellona.
Mi spiego negli ascolti compaiono almeno due cantanti Teresa Berganza e Martine Dupuy, che, più volte, forse troppe, abbiamo avuto occasione di indicare per spontanea arte vocale e per completezza tecnica quali irripetibili interpreti del ruolo. La scelta, però, non è limitata a questo: abbiamo, infatti ritenuto essenziale proporre una pressochè sconosciuta esecuzione di Christa Ludwig, quando la cantante era poco più che trentenne, alla vigilia della fama internazionale ed ancora orientata su un repertorio di mezzo soprano acutissimo, rappresentato da ruoli mozartiani e da Oktavian, ovvero l'attuale repertorio di Joyce di Donato. Credo, in attesa di smentita, che Angelina sia l'unico ruolo rossiniano documentato di Christa Ludwig. Eppure abbiamo un'esecuzione fluida della coloratura, grande facilità in alto e, ed siamo all'aspetto di maggiore interesse, inserimenti e variazioni che poi direttori e filologi à la page avrebbero dapprima censurato, come antirossiniani, per poi riproporli. Quel che insegna l'Angelina della Ludwig è che il primo passo per essere cantanti rossiniani è la disponibilità di un bagaglio tecnico, che consenta a qualsiasi altezza del pentagramma di emettere suoni morbidi rotondi e sul fiato, e di eseguire rispettosamente la coloratura prevista. Non significa rivelare gli accenti nascosti, ma avere i mezzi per poterlo fare.

Gli ascolti

Gioachino Rossini

La Cenerentola


Atto I


Ouverture - Vittorio Gui (1968)

Miei rampolli femminini - Enzo Dara (1978)

Un soave non so che - Anatoli Orfenov & Zara Dolukhanova (1951), Waldemar Kmentt & Christa Ludwig (1959), Ugo Benelli & Frederica Von Stade (1974), Rockwell Blake & Martine Dupuy (1990)

Prendi la sposa, affrettati...Come un'ape nei giorni d'Aprile - Sesto Bruscantini (1968)

Signor, una parola...Nel volto estatico - Conchita Supervia & Vincenzo Bettoni (1929), Frederica Von Stade, Ugo Benelli, Paolo Montarsolo, Renato Capecchi & E. Lee Davis (1974)

Conciossiacosacché...Intendente? Direttor? - Enzo Dara (1978)

Ah, se velata ancor...Parlar, pensar, vorrei...Mi par d'essere sognando - Christa Ludwig (con Waldemar Kmentt, Walter Berry, Emmy Loose, Dagmar Hermann, Karl Donch & Ludwig Welter - 1959), Teresa Berganza (con Luigi Alva, Sesto Bruscantini, Rita Talarico, Rosa Laghezza, Paolo Montarsolo & Giannicola Pigliucci - 1968), Marilyn Horne (con Francisco Araiza, Sesto Bruscantini, Evelyn de la Rosa, Leslie Richards, Paolo Montarsolo & John Del Carlo - 1982)

Atto II

Sia qualunque delle figlie - Enzo Dara (1968)

Sì, ritrovarla io giuro - Chris Merritt (1987), William Matteuzzi (1992)

Siete voi?...Questo è un nodo avviluppato...Ah! Signor, s'è ver che in petto - Teresa Berganza (con Luigi Alva, Renato Capecchi, Paolo Montarsolo, Margherita Guglielmi, Laura Zannini - 1971), Martine Dupuy (con Rockwell Blake, Enrico Fissore & Georges Pappas - 1990)

Sventurata! Mi credea - Gianna Rolandi (1980)

Nacqui all'affanno e al pianto - Eugenia Mantelli (1905), Conchita Supervia (1927), Christa Ludwig (1959), Teresa Berganza (1971), Martine Dupuy (1990), Sonia Ganassi (2000), Olga Borodina (2005)



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venerdì 13 novembre 2009

Celebrazione di Rossini: Giovanna d'Arco

Ricordiamo oggi Rossini, nell’anniversario della morte, con una puntata dedicata ad una delle sue più straordinarie composizioni, la cantata per piano e voce Giovanna d’Arco (1832).
Soggetto teatrale prima ancora che mito storiografico della Terza Repubblica francese, che ne fece un'eroina simbolo della laicità dello stato, all’epoca in cui Rossini compose la cantata Giovanna d’arco era ancora un'eroina letteraria di fama controversa, come ben si vede nei testi di Voltaire e Schiller. Giovanna, però, era stata protagonista di composizioni operistiche negli anni immediatamente precedenti il momento in cui venne scritta la cantata, con Carafa (1821), Vaccai (1827), Pacini (1830). Non sono chiare le ragioni per le quali Rossini non la fece eseguire da subito in pubblico, ma attese il 1859, interprete l’Alboni. In quegli anni la Pulzella di Orléans era già un mito nella storia di Francia.

Per noi oggi la cantata, straordinaria, è uno dei massimi cimenti vocali ed espressivi per mezzosoprani che si confrontino con il Rossini serio. Terreno d’elezione delle grandi primedonne virtuose, appuntamento immancabile nella programmazione concertistica della belcantista di rango. Dunque, ecco qui un’esposizione in parallelo di grandi cantanti che vi si sono impegnate, ieri come oggi, e che danno spunto ad una riflessione sui mutamenti (o la degenerazione) del canto rossiniano nella corda di mezzo.

Teresa Berganza. Lo stile. La precisione esecutiva. L’incarnazione vivente della concezione del canto come arte della mìmesis, della stilizzazione, che trasmette idee astratte e perfette, depurate da ogni minima traccia di realismo. La Berganza, ancor prima della Horne, ha affermato la secondarietà del mezzo naturale rispetto alla tecnica ed alla musicalità. La voce, qui presa molto da vicino in una trasmissione radio che non rende per nulla il modo in cui questa risuonava in teatro, non colpisce, e l’interprete resta sempre composta e misurata. Ma tutto procede perfettamente, senza intoppi, cricche, disturbi di fondo di alcuna sorta. Il sound è pulito, quasi parlato, a fior di labbra, dizione chiarissima. E la sua Giovanna risulta semplicissima, dolce e femminile, chiara e del tutto logica nell’esattezza delle scelte espressive, negli accenti. Nulla è di troppo, nulla è tolto, nulla è fine a se stesso, nessuna gratuità. La voce è sempre in ordine, in zona centro grave soprattutto, laddove altre, ben più dotate di lei, fanno sfracelli. Mai un calo di sonorità, mai una forzatura, piuttosto qualche fissità in zona mi-re, sul passaggio acuto ( la signora ha qui 55 anni, circa 34 di carriera). La virtuosa aveva dei limiti, si sa, ed emergono nella sezione acrobatica finale, “ Corre la gioja…”in particolare in quanto scritto nelle ultime battute di “…che in Dio sperò...”, in chiusa alla prima strofa, ma esegue la sezione per intero variando pure il da capo. Il brano è troppo vigoroso per la voce della cantante madrilena, che però lascia vivida impressione. Sarà anche datata, espressione di un Rossini, depurato e classicheggiante, lontano dalle eclatanti acrobazie di scuola americana, ma ancor oggi preferibile a certi scempi vocali spacciati per “belcanto”.


La cantata con Marilyn Horne trova forse la sua più completa e paradigmatica esecuzione. L’approccio è pensato in ogni nota, perfetto sul piano musicale, razionale come non mai. La voce è costantemente dominata e piegata ad ogni più sottile sfumatura, nuance, intento espressivo. Tutto è costruito con lucidità e maestria impressionanti, pensato, meditato e rimeditato come nessuno oggi sa più fare nella pratica del canto. La Giovanna della Horne è complessivamente monumentale, come l’ampiezza della cantata richiede, ma variegata, perché la voce della diva asseconda i mutamenti del brano da una sezione all’altra e da una frase all’altra all’interno di ciascuna sezione, con precisione e puntigliosità straordinarie. Il canto è nobile; eroico e del tutto privo di quella retorica pompière che a volte screzia gli eroi en travesti della Horne; il legato, di altissima qualità dato che la voce è sempre ferma e galleggiante sul fiato, le consente di dare ampiezza alle frasi e pienezza d’accento, cui partecipa una dizione nitida ed incisiva; il canto di coloratura, impeccabile, ciascuna nota sempre ben riconoscibile, e accentata, eseguita con perfezione e facilità assoluta. Più la si ascolta e più risalta lo studio accurato che si cela dietro l’esecuzione, l’aver scomposto la cantata passo passo, una frase dopo l’altra, per poi ricomporre il tutto in un’esecuzione fluida ed apparentemente immediata, perché così è il belcanto della Horne, costruito ed architettato per intero, a cominciare dalla voce.
Non si può non ricordare che l’esecuzione della Horne è tutt’uno con quella del suo pianista accompagnatore di tante serate, Martin Katz. All’introduzione di P. Gossett all’edizione Ricordi della cantata orchestrata da Sciarrino, in cui lo studioso americano sottolinea come nel catalogo di Rossini non vi sia composizione che “reclami una veste orchestrale più fortemente della Giovanna d’arco” ( ! ), verrebbe da aggiungere la chiosa “a meno che non suoni Martin Katz !”. Stupendo, onnipresente, accompagna e trascina, commenta e sottolinea il canto della Horne con la forza di un’orchestra, perché ha di certo ben presente che questa “gran scena” rifletteva i modelli delle composizioni operistiche, e proprio riecheggiando quei modi esegue l’accompagnamento.

Approccio assolutamente opposto è quello di Martine Dupuy, superba, malinconica ed orgogliosa Giovanna. Il canto rossiniano trova in lei una rappresentazione intuitiva e sensibilissima della “mozione degli affetti” figlia di un approccio personale, un'interpretazione del tutto soggettiva, aderente alle corde della cantante. Il canto è facilissimo, di qualità il legato che sostiene anche le frasi di scrittura più centrale, perfetto quello di agilità. La ricerca è sempre quella dell’atmosfera, del clima che connota le varie sezioni della cantata. L’incipit del recitativo sottolinea la solitudine notturna di Giovanna, circondata da una natura silente ed anche misteriosa. La contemplazione è interrotta dalla visione repentina “O Patria! O Re! L’Onnipossente dal gregge…”, per poi placarsi nella nostalgia del ricordo. Quindi la cantata si apre alla parte più suggestiva dell’esecuzione della Dupuy, quella dell’Andantino grazioso “ Oh mia madre e tu frattanto …”, dove il canto scorre morbido, lirico ed emozionante ( “…la mia madre invidierà..”; ”…..se affannata chiamerai, questo suon rispenderà…” ), perché aderente al tipo di espressività caratteristica della Dupuy. Le innumerevoli forcelle previste da Rossini sono, tra l’altro, di grande intensità emotiva mentre l’esecuzione non risulta mai manierata o compiaciuta, ed il timbro del mezzo francese contribuisce a venare di malinconia il canto. La terza sezione, poi, è quella delle visioni, dell’epica di Giovanna, della prefigurazione della battaglia e della vittoria. Ed il canto, come nei suoi guerrieri en travesti, si fa irruente, di slancio. Il sacro fuoco della Giovanna visionaria prende corpo sempre nella misura, lontano dall’eccesso, e nella compostezza del canto, e trova grande forza nello slancio all’acuto. Esecuzione emozionante e vera, sempre di dimensione cameristica, accompagnata da quel maestro di chincaglieria salottiera che è Vincent Scalera. L’accompagnamento è talora perfino caramelloso, ma ben rende il senso del salotto ottocentesco, il colore, l’atmosfera cui la composizione, al di là della sua evidente ascendenza operistica, era destinata.

Voce di mezzo per autonomasia, più dotata di tutte, Lucia Valentini Terrani, che eseguì raramente la cantata, sebbene assolutamente adatta alla sua voce per timbro ed estensione.
Meno analitica e personale sul piano interpretativo, la Terrani pare adagiare la sua voce sul pentagramma limitandosi a seguirlo nei suoi saliscendi con un canto che da subito suona monotono. La sua Giovanna affascina per il timbro, sontuoso e ricco, straordinario, e di questo pare accontentarsi la cantante.
La Terrani intende eseguire il recitativo con toni imperiosi e magniloquenti, sebbene talune frasi le escano affettate. Spiana qualche agilità in “ il mormorar del vento”, ed approda alla sezione centrale, quella sulla carta a lei più congeniale per tessitura. Attacca “ Oh mia madre “ con un tempo sostenuto, sul mezzoforte, che però stenta ad abbandonare laddove Rossini mette forcelle, eseguendo solo qualche rallentando. Il canto è privo di malinconia e generico per assenza di nuances, ma la voce è bellissima, e questo parzialmente compensa la latitanza sul piano interpretativo. Appaiono alcuni suoni gonfi al di sotto del rigo, che poi si ripetono in modo manifesto nell’allegro vivace, “…già m’ha tocca,mi investe, già m’arde..”. Non brilla nell’esecuzione della coloratura, quando Rossini prevede serie di quartine in “…si la vittoria è con me…”. Purtroppo la delusione vera arriva nella sezione finale, che sarebbe anch’essa allegro vivace,“ Corre la gioja di core in core….”. Il piano stacca un tempo di una lentezza mortifera ed insensata, tanto che il canto perde il vigore che richiede il significato drammaturgico del testo. Varia già in primo enunciato dato che taglia la ripetizione prevista, e si sistema tutte le code, fatto incredibile per una belcantista del suo calibro. Il finale viene dunque mozzato, la chiusa arronzata alla bell’è meglio: l’effetto è tremendo, duramente in contrasto con la monumentalità dell’intera cantata, che finisce così…in modo brutale. E deludente.

Cantante della stagione “di mezzo”, a cavallo tra ieri ed oggi, Ewa Podles, vocalista particolarissima e difficile per chi era abituato al prima. E’ duro accettare la sua ottava grave, l’esistenza di due voci nettamente distinte, la natura inumana ed androgina della voce. La registrazione è abbastanza recente, e l’anagrafe non è dalla sua, ma la sostanza del canto si coglie assai bene. La sua Giovanna è una sorta di creatura silvana, figlia di una natura spaventosa e terribile. La foresta che avvolge Giovanna al recitativo non è Fontainebleau o qualche angolo recondito di Francia medioevale, ma uno spaventoso bosco di saga nordica. Di primo acchito il timbro terrorizza lo spettatore: la voce è ovattata, di petto sotto il rigo. Il canto vigoroso è più nelle corde della Podles di quello patetico: “O mia madre…” è anche attaccato con esattezza interpretativa, ma non emoziona, non commuove come dovrebbe perchè presto afflitto dall’emissione sgraziata dei gravi. La cantante pare aspettare le frasi più forti, “…ma tra poco d’alte imprese verrà un suon….”, dove il canto si rifà subito pugnace ed aggressivo. Quella Giovanna chissà che avrebbe mai fatto ai nemici…!!! Insomma, la Podles è spesso sopra le righe e non vuole abbandonarsi all’estasi lirica, alla nostalgia che attraversa il canto di Giovanna. Nella sezione centrale manca la struggente intensità della Giovanna della Dupuy, ad esempio. Di umanità e fragilità, in questa esecuzione, proprio non ce n’è, a differenza di certi en travestì rossiniani impersonati più volte dalla Podles.
La sezione finale, veloce ed acrobatica, ha un vigore ragguardevole, ed è la parte migliore dell’esecuzione della cantata. A parte certe note di petto e/o aperte, troppo volgari, elettrizza per la forza che ha il suo canto di agilità, preciso e facile come sempre. In questo Superewa sa il fatto suo, ed appartiene ancora alla tradizione di ieri: una volta che ha abituato lo spettatore al suo sound, lo trascina vigorosamente con lei, su e giù per il pentagramma, con assoluta confidenza e facilità, conferendo pieno senso al lato visionario dell’eroina guerriera. Di forza e per forza, ma solo quello.

Daniela Barcellona canta da mezzosoprano con una voce importante, di grande qualità e volume. Amante di Rossini e lontana dalle ciance dei baroccari (fatto per cui la ringraziamo), per indole e cultura ricerca un canto composto, scevro da platealità, lirico. La sua Giovanna è approcciata al pari degli eroi di Rossini en travesti che porta solitamente in teatro. Gli intenti interpretativi sono belli, esattamente aderenti al testo. Condivide con la Dupuy la sottolineatura del lato malinconico del personaggio, venato forse anche da una certa tristezza di fondo. Tristezza che alla lunga, con lo scorrere delle battute, si trasforma in monotonia ed inerzia interpretativa. La voce è imponente, e trova un confronto nella sola Terrani, cui somiglia molto nell’esito finale della cantata (che la Barcellona, però, esegue integralmente, qui nella versione Sciarrino). Iperdotata, di una natura che diversamente acconciata l’avrebbe da subito collocata su Verdi, non so se come mezzo acuto o soprano drammatico vero alla Burzio o alla Poli Randaccio... Il suono è composto, ma costantemente connotato o da una certa fissità di fondo o da sonorità tubate in zona grave. La modulazione dei suoni ha luogo in bocca, come si può udire nell’ ” O mia madre……questo suon risponderà…”, oppure in quelle frasi che introducono la sezione finale, “Repente qual luce balenò nell’oriente…..più grande che non suole empie il ciel fulminando…..io vegno…” dove le note re-mi-fa alti sono regolarmente fisse. E credo che il quid di questa cantante stia tutto qui, nel fatto che la voce non è mai davvero retta dal fiato, non galleggi, e quindi si fletta con minor facilità rispetto ad una Horne, una Dupuy o una Berganza. E’ tutto giusto quello che la Barcellona vuole fare, ma la resa è statica, la sua Giovanna esce fiacca nell’accento patetico come nei momenti di virtuosismo, perché l’agilità è scolastica o poco incisiva, eseguita con esiti alterni. Le bastano frasi interlocutorie come “Ah la fiamma che t’esce dal guardo…..m’arde” oppure in chiusa al “ che in Dio, che in Dio sperò…” per trovarsi a pasticciare o spappolare la scrittura rossiniana. In altri passi regge, invece, abbastanza bene, come in “Guida i forti la vergine al campo….”, ma siamo lontani da quella perfezione esecutiva che fa di Rossini la palestra dei migliori vocalisti della storia del canto. Poco vale la messe di variazioni che esibisce nel da capo di “Corre la gioja di core in core….”, perché la voce suona fissa (per giunta di grande volume) e sgraziata, in particolare salendo ai primi acuti, tanto da rendere davvero poco piacevole l’ascolto del suo canto. Peccato.

Con Joyce Di Donato ci troviamo in piena Rossini décadence. Se qualcuno avesse ancora bisogno di essere certiorato circa il dilettantismo tecnico di questa cantante, ascolti l’audio di questa esecuzione. Primo problema della Di Donato, la centralità della scrittura nella sezione mediana dell’andantino, ove esibisce un canto frequentemente aperto e sguaiato, spesso completamente di petto in zona mi-fa–sol, con frasi addirittura veriste come “ Repente qual luce balenò nell’oriente..”, inammissibili nel belcanto, anche in quello che si pratichi nel Caucaso, nel Tibet o nel deserto australiano! Di nuovo nella sezione finale, quindi, nel “Corre la gioia di core in core”, che batte ripetutamente sul sol in primo rigo, il mezzo americano viaggia di canto aperto e di petto puro non sapendo a che santo votarsi, tanto che nel da capo attacca a puntare verso l’alto, e giustamente, ma provata da quanto eseguito sino a quel punto, finisce poi per gridare nella chiusa. La metterei in confronto con la più sopranile delle prime tre voci, T.Berganza, meno dotata in natura a mio modo di vedere. La voce della spagnola nella stessa zona mi-fa-sol non è gran chè, eppure canta, e con gran fluidità senza aprire o andare di petto, mentre la Di Donato si arrabatta malamente, alla fine anche senza gusto. E questo è sufficiente per provare il gap tecnico tra le due cantanti, ma anche tra due diverse epoche del belcanto. Quanto al canto di agilità, le cose non vanno affatto meglio, per forza di cose. La cantata basta ed avanza per mettere la simpatica Joyce a dura prova. Si trova alla corda sin dal recitativo, la stessa frasetta ove pasticcia la Terrani “il mormorar del vento”, per non parlare dello scempio che compie su quanto scritto da Rossini in chiusa a “questo suon risponderà” ( per nulla compensato dalla precedente interpolazione nella ripetizione di “questo suon” che precede la cadenza scritta……un vezzo inutile, quando poi si elidono le difficoltà vere che seguono ). All’arrivo della sezione finale, poi, accadono cataclismi vocali di vario tipo, dai pasticci in “Ah la fiamma che t’esce dal guardo…”, per non parlare dell’esecuzione “Singer style” ( o bartolesca, come vi pare..) di “Guida i forti la vergine al campo…”, lontanissima dall’agilità di forza necessaria per Rossini.
Insomma, una moltitudine di magagne vocali che impediscono alla pugnace Giovanna della Di Donato di convincere e di affascinare. All’immagine intellettuale (e simpatica) che questa cantante offre di sé, corrisponde, al contrario, un canto istintivo ma brado ed ineducato, estraneo alla vocalità Rossiniana, fatta, in primis, di emissione stilizzata, suoni immascherati ed astratti, virtuosismo eccelso e varietà di accento. Il tutto, tra l’altro, eseguito... al ROF, dove qualcuno avrebbe potuto e dovuto mostrarle come e perché si canta Rossini etc. etc.

Quanto a Cecilia Bartoli, vi prego di esimermi dalla recensione.
Già Duprez ha compiuto un sovrumano sforzo “sacrificandosi” per voi in questi giorni. Brevi estratti del prodigio vocale che è questa Giovanna d’Arco bartolesca possono ben provare che... abbiamo ragione noi. L’opera è finita perchè se questi sono i modelli odierni, il canto è arte perduta e sconosciuta, gli autori traditi dai loro custodi più blasonati e remunerati.
E Rossini, stando a come cantano le star odierne nell’anniversario della sua morte, è più morto oggi che all’epoca delle vituperate Pederzini e Supervía, perché ne è stata uccisa la lezione esecutiva ed interpretativa assieme ai necessari presupposti tecnici. Non è possibile continuare ad affermare genericamente la validità del modo di cantare ed interpretare di queste moderne signore barocchiste al pari del modo di una Horne, di una Berganza, di una Dupuy, di una Terrani. O ricusiamo il presente o ricusiamo il passato. Ma chi sceglierà questo presente dovrà poi anche dimostrarci, e con argomenti e non con ciance da giornalino-catalogo, come e perché quanto è trascorso non sia più la vera lectio, e lì li aspetteremo al varco!

PS
Un rimpianto.
Peccato la riscoperta tardiva di questa cantata di Gioachino, perché se l’avessero conosciuta la Schumann-Heink, la Onégin, la Matzenauer, la Stignani e la Doloukhanova ne avremmo sentite... delle belle!!!


Gli ascolti

Rossini - Giovanna d'Arco


1968 - Renata Scotto
1979 - Marilyn Horne
1986 - Martine Dupuy
1988 - Teresa Berganza
1989 - Lucia Valentini-Terrani
1997 - Violeta Urmana
2001 - Daniela Barcellona
2001 - Cecilia Bartoli
2003 - Ewa Podles
2005 - Joyce Di Donato


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mercoledì 19 agosto 2009

La Scena della Lezione di Rosina : "Io canto un'aria di bravura!"

L’edizione critica del Barbiere di Siviglia edita da Ricordi nel 1968 e curata da Alberto Zedda non si soffermava più di tanto sulla scena della lezione e sui cambiamenti che nel corso del tempo ha subito, indicando nella tradizione di sostituire “Contro un cor” un uso barbaro contro le ragioni della musica e del dramma, inaccettabile, ad avviso del maestro Zedda, per il pubblico e per gli esecutori moderni. Non dimenticava però di ricordare che un simile uso era accettato senza nessun problema da Rossini già all’epoca delle prime rappresentazioni.

L’edizione critica riporta infatti nelle note riguardanti l’aria della lezione quanto segue :

Rossini scrive : “Segue Aria Rosina” e sotto :“ Dovunque si desse quest’opera è Pregato il Sig. copista dopo l’”incominciamo” segnare il segno X sopra indicato. Rossini”. Indicazione dopo la prima romana a dimostrare come sin dalle primissime repliche dell’opera Rossini accettasse l’eventualità di sostituire l’aria della lezione originale con altra. Ancora una prova della cedevolezza rossiniana che può e va considerata nel quadro delle trasformazioni subite dal Barbiere col passaggio della protagonista da mezzosoprano a soprano. Difatti nei libretti successivi a quello romano del ’16 al posto del testo originale se ne trovano altri :

L 1817 Caro bene in tale istante Più non regge questo cor
L 1819 Perché non può calmar Amore il mio dolor
L 1820 Oggetto amabile

Vale solo la pena di accennare alle usanze di tempi non lontani quando soprani più o meno celebri usavano gorgheggiare, al posto di quest’aria, le più assurde contaminazioni, atte solo a spezzare nel migliore dei casi, l’unità musicale e teatrale dell’opera. Oggi rinunciare all’originale rossiniano è impensabile dovendosi anche rispettare il necessario contrasto fra quest’aria composta nello “stile nuovo” e la successiva di Don Bartolo per esaltare lo “stile vecchio” in polemica opposizione. Si aggiunga ancora l’importanza del testo, così pertinente all’azione scenica, specie nella parte centrale dove Rosina si rivolge all’amato con supplice fiducia : uno dei rari momenti “amorosi” dell’opera. L’aria originale risente tuttavia in misura notevole gli svantaggi della trasposizione del ruolo da mezzosoprano a soprano. Per un soprano coloratura l’originale in Re maggiore presenta difficoltà notevoli. La tradizione consiglia in questo caso di spostare l’aria di una terza minore sopra, in Fa maggiore. Quando il trasporto non fosse gradito si suggeriscono alcuni tradizionali adattamenti che possono semplificare il compito al soprano.


Ridurre la tradizione della sostituzione di “Contro un cor” alla cedevolezza di Rossini verso le primedonne della sua epoca e al passaggio di Rosina dal registro mezzosopranile a quello di soprano appare piuttosto riduttivo. Non solo perché le prime sostituzioni furono praticamente adottate da subito nella storia dell’opera, quanto perché le prime modifiche, coeve alle prime rappresentazioni, furono attuate per voce di mezzosoprano e molto prima dell’avvento del cosiddetto soprano coloratura addirittura come categoria vocale. Rossini stesso scrisse una nuova aria già alcuni mesi dopo la prima romana, in occasione della ripresa bolognese dello stesso anno su richiesta del mezzosoprano Geltrude Righetti-Giorgi, prima interprete del ruolo, che in quell’occasione si appropriò anche del Rondò di Almaviva (poi trasformato nel finale di Cenerentola sempre per la Righetti-Giorgi). L’aria che Rossini scrisse per l’occasione, “La mia pace, la mia calma”, è di minore durata rispetto all’originale “Contro un cor”, è ugualmente tripartita con identica sezione centrale e non certo di minore virtuosismo, assestandosi su una tessitura meno grave ma incline agli sbalzi di tessitura da frasi basse ai vocalizzi in zona acuta.

Direi, ma correva l’anno 1968 e certe costanti prassi esecutive del melodramma, non solo rossiniano ma anche di Donizetti e Verdi, non erano ancora conosciute e se lo erano , venivano stigmatizzate come vizi e vezzi di primedonne e primi uomini, che la sostituzione dell’aria faceva parte di una normale prassi del tempo. Nel correre di questi quarant’anni abbiamo poi scoperto che Giuditta Pasta, interprete sublime del Tancredi cantasse ben poco di quello che l’edizione critica ci ha detto essere il Tancredi di Rossini.
E in questi quarant’anni abbiamo imparato che l’arbitrio della sostituzione non è affatto ascrivibile ai soprani di coloratura. Geltrude Righetti-Giorgi era un mezzo acuto come lo erano a Pasta e la Malibran, Marietta Alboni un contralto, la Sontag un soprano assoluto e tutte indistintamente mettevano quel che più aggradava nella scena della lezione.
Vale assai più del’opinione di Zedda quella di Stendhal perché il pubblico moderno comprenda in che tipo di tradizione esecutiva venissero fin da subito eseguite queste modifiche all’opera. Testimonianza di come la sostituzione dell’aria della lezione venisse recepita all’epoca del compositore ci viene dalla “Vita di Rossini” scritta da Stendhal, che scrive a proposito della Scena della Lezione:

In Italia si canta, per la lezione di musica di Rosina, quest’aria deliziosa che ha la disgrazia di essere troppo nota: La biondina in gondoleta.
Vi sarebbero mille cose da dire sullo stile della musica veneziana; sarebbe un libro nel libro. Equivale, in pittura, allo stile del Parmigianino contrapposto a quello calmo e severo del Domenichino o del Poussin; questa musica è come l’eco indebolita della felicità voluttuosa che si godeva a Venezia verso il 1760.


E ancora:

In un teatro ben diretto, Rosina dovrebbe cambiare l’aria della sua lezione ogni due o tre rappresentazioni. A Parigi la signora Fodor, che peraltro cantava questa parte in modo stupendo, e come prabilmente non è mai stata cantata, ci dava sempre l’aria del Tancredi “Di tanti palpiti”, arrangiata in contraddanza, il che deliziava tutte le teste imparruccate dell’epoca. Mentr’ella cantava, si vedevano tutte le teste incipriate agitarsi ritmicamente nella sala.

Quanto al genere degli inserimenti ne comprendiamo la tipologia proprio a partire dalla prima Rosina. Tralasciamo l’aria autentica di Rossini “ La mia pace la mia calma” di dimensioni più ridotte rispetto all’originale “Contro un cor” di cui abbiamo detto sopra, Geltrude Righetti Giorgi inseriva ora la cavatina dei palpiti del Tancredi ora le variazioni della “Biondina in gondoleta”.
L’aggiunta di questi due brani rappresentò all’epoca di Rossini una vera e propria tradizione riconducibile alla grande popolarità di entrambe le arie. Anche Maria Malibran, per esempio, Rosina nell’esecuzione milanese nel 1835, cantava Di tanti palpiti al posto dell’originale brano rossiniano.

“La biondina in gondoleta” ebbe grande popolarità all’inizio dell’800. Questo testo, scritto in onore di una celebre nobildonna veneziana, ebbe poi l’onore di essere trasposto in musica da Reynaldo Hahn, da Giovanni Simone Mayr e persino da Ludwig van Beethoven. La composizione di Mayr fu probabilmente quella che più di tutte incontrò il favore delle primedonne, in ispecie di quelle interpreti del ruolo di Rosina, ovvio che l’esecuzione fosse poi quella delle “variazioni sul tema”.

Non solo, ma grande popolarità come aria della lezione ebbero anche nella metà dell’800 le variazioni del violinista e compositore Pierre Rode, che scrisse un tema e variazioni per Henriette Sontag: le variazioni sull’aria di Paisiello “Nel cor più non mi sento”. Variazioni nate dapprima come brani per violino e di cui le primedonne si invaghirono subito inserendole come Scena della Lezione nel Barbiere. Oltre alla Sontag anche Giuditta Grisi e l’ultima allieva di Rossini Marietta Alboni amavano inserire le variazioni di Rode.

Molte furono però le primedonne che scrissero le loro personali variazioni su Nel cor più non mi sento, come Angelica Catalani, Maria Malibran e Barbara Marchisio (e forse anche la sorella Carlotta, atteso che entrambe cantarono Rosina) che provvide con personalissime variazioni su brani come “Nel cor più non mi sento”, con un fantasmagorico finale in tempo di polka.


La tradizione e la moda di improvvisare virtuosistiche variazioni su temi ci porta a parlare di un altro celebre contralto rossiniano, Adelaide Borghi Mamo, che inseriva le variazioni della famosissima canzone “Santa Lucia” di Cottrau.

La seconda metà dell’ottocento per quanto ci è stato possibile documentare porta ad un ampliamento degli inserimenti della scena della lezione.
E se Pauline Viardot-Garcia amava inserire un brano di zarzuela, probabilmente La Calesera, la grande “rivoluzione” della scena della lezione è documentata ad opera di Adeina Patti. Per la cronaca anche lei inseriva La Calesera. Inserimento documentato a Parigi nel 1867, occasione in cui Rossini, dopo le critiche alle eccessive varizioni esibite dalla Patti nella cavatina di Rosina, ebbe modo di definire la Rosina della Patti come “adorabile”.

Adelina Patti amava dire che le ragioni per cui prediligeva il ruolo di Rosina erano la vivacità dell’azione drammatica e del carattere del personaggio e, soprattutto, la possibilità di sbizzarrirsi nell’aggiunta di brani nella scena della lezione per mettere in mostra tutte le proprie doti di virtuosa. Non solo, la Patti trovava divertente aggiungere brani quanto più moderni possibili e lontani dall’epoca della composizione dell’opera. La Patti sicuramente fece scuola nella tradizione di improvvisare veri e propri concerti all’interno della Scena della lezione, e sicuramente rimane ineguagliata per la varietà e il numero di brani proposti. Non solo la Calesera, ma anche la celebre Bourbonnaise della Manon di Auber, fortunatamente immortalata in un cilindro Edison del 1895, persino La serenata di Tosti, oltre al finale e immancabile bis di Home sweet home di Bishop. Le cronache, per esempio, riportano che in un Barbiere americano la Patti nella Scena della Lezione cantò Il bacio di Arditi, il Bolero di Elena nei Vespri siciliani verdiani, la scena di pazzia di Dinorah di Meyerbeer e infine l’immancabile Home sweet home. Ancora al Metropolitan nel 1892 si limitò ad inserire tre brani, la Swiss Echo Song di Eckert, The last rose of summer dalla Martha (opera di cui fu protagonista nella stessa stagione) e Home sweet home, salvo poi cedere alle lusinghe del pubblico alla fine dell’opera cantando come ultimo bis il tradizionale Comin thro’ the rye. Che i concerti della Patti nella Scena della Lezione fossero preparati con intenzione lo sappiamo per certo. E in questo fece scuola.

Dopo di lei, infatti, tutti i soprani che interpretarono il ruolo di Rosina, inserirono nella Scena della Lezione uno o più cavalli di battaglia del proprio repertorio per rendere la lezione di canto di Rosina una grande lezione di canto. Non ci è dato sapere se l’abitudine di inserire un vero e proprio concerto di canto all’interno della scena fosse una tradizione in voga già nella prima metà dell’800, certo è che con la Patti questa tradizione comincia ad essere documentata e ripresa poi da tutti i soprani coloratura. Categoria vocale che si rifaceva al modello interpretativo e vocale di Adelina Patti, che, dopo essere stata epigona di Giulia Grisi divenne appunto un modello per i soprani coloratura. Modello anche per quanto riguarda l’aggiunta di brani moderni, si pensi ad esempio alle aggiunte dela Melba che, come la Patti, non si faceva scrupolo di inserire brani di Tosti, Arditi o Massenet.

Subito dopo Adelina Patti è di Marcella Sembrich che si deve parlare, anche lei erede della tradizione di improvvisare dei piccoli concerti di canto nell’opera rossiniana e autrice di particolarissime aggiunte, come accadde al Met nella stagione 1884 in cui la Sembrich-Rosina coronò il lieto fine dell’opera con l’aggiunta del rondò finale di Sonnambula. Scelta forse discutibile filologicamente, ma sicuramente di grande effetto per il pubblico e di grande successo per la Sembrich. Il repertorio di aggiunte della Sembrich appare quanto mai vasto e vario: al Met infatti, la Sembrich era solita inserire a seconda della recita le variazioni di Proch insieme a Lieder di Ries e Foerster, la seconda aria della Regina della Notte e Someday di Wellings, Ah non giunge (anche nella Scena della Lezione), Ombre légère della Dinorah e un’altra aria di pazzia meyerbeeriana, quella di Catherine dell’Etoile du Nord oltre al Bolero dei Vespri di Verdi. Dal 1898 in poi fu una presenza fissa nella Scena della Lezione di Marcella Sembrich, il valzer che Johann Strauss jr. scrisse appositamente per lei, Voci di primavera oltre che A maiden’s wish, brano di Chopin che la Sembrich eseguiva quasi sempre accompagnandosi da sola al pianoforte. Nel 1907 al Met la Scena della Lezione fu terreno per rivaleggiare idealmente con la Patti, eseguendo il Bel raggio lusinghier della Semiramide, titolo che proprio la Patti, e poi la Melba, integralmente eseguirono al Metropolitan sul finire dell’800.

Nei primi decenni del 900 praticamente ogni primadonna era pronta a variare la propria scena della Lezione inserendo brani di diversa natura e genere. A seconda dell’interprete si sono susseguiti brani brillanti e virtuosistici come i valzer di Arditi o Strauss o il Carnevale di Venezia di Benedict, presenza fissa della Scena della lezione di cantanti come Luisa Tetrazzini e Toti dal Monte oppure anche le Variazioni di Proch. Addirittura Lieder, brani da camera (si pensi alle già citate Patti e Melba che inserivano brani di Tosti), composizioni di stampo tradizionale come il motivo scozzese “Comin’ thro the rye” (amato dalla Patti come anche dalla Sembrich) oppure vere e proprie arie d’opera. Ed anche in questo caso la natura del brano poteva essere la più disparata. Del repertorio rossiniano sopravvisse come aggiunta alla Scena della Lezione soprattutto “Bel raggio lusinghier”, ma l’aggiunta di questo brano probabilmente risale ad epoca precedente alla Patti, a primedonne serie interpreti di Rosina come di Semiramide. Per quanto riguarda brani come Ombre légère, la pazzia di Lucia e di Elvira, p i brani di Auber e Adam possono essere ricondotti alla scelta della primadonna che proponeva un cavallo di battaglia del proprio repertorio.

Frieda Hempel per esempio eseguiva in sere diverse i valzer di Arditi Parla e Il bacio ma anche Ah vous dirai-je maman e Il bel Danubio blu di Strauss jr. María Barrientos spaziava da Charmant oiseau da La perle du Brésil di David, al valzer Voci di primavera, persino un’aria da concerto di Mozart, Ah non sai qual pena sia, mentre Selma Kurz era solita proporre le variazioni da Le diamant de la couronne di Auber.

Anche Amelita Galli-Curci si distinse per le proprie scene della lezione. Sulla scia della Patti e della Sembrich inseriva la seconda aria della Regina della Notte, la Bourbonnaise di Auber e Charmant oiseau. Accompagnandosi al piano cantava anche The last rose of summer e Home sweet home, ma anche l’aria di Philine della Mignon di Thomas, Ah vous dirai-je maman da Le toreador di Adam, le variazioni di Proch, la scena di pazzia di Elvira dei Puritani e Ombre legere della Dinorah di Meyerbeer. In pratica tutto il repertorio del soprano di coloratura.

La palma delle aggiunte più eclettiche va sicuramente a Nellie Melba, sull’esempio della Patti. Preoccupata soprattutto di dimostrare le ragioni del proprio successo e di dimostrare le proprie capacità virtuosistiche, inseriva nella Scena della Lezione Se saran rose, il valzer per lei composto da Luigi Arditi, la Sevillana dell’opera Don César de Bazan di Massenet, Mattinata di Tosti e persino la Scena della Pazzia di Lucia di Lammermoor. In un Barbiere americano del 1898 a San Francisco cantò addirittura l’inno americano, una scelta veramente strappa applausi per la Diva e sicuramente più inappropriata che mai secondo le ragioni drammatiche e musicali ma anche del gusto.

Nel solco delle Rosine soprano leggero non si può trascurare Lily Pons, interprete dal virtuosismo brillante sempre pronta ad esibire i suoi picchettati e sovracuti, nella Scena della lezione aggiungendo a tale scopo le variazioni di Proch, Lo! Here the gentle lark di Bishop, Charmant oiseau di David, l’arietta da Zémire et Azor di Grétry, Villanelle e infine l’aria delle campanelle della Lakmé di Delibes.

Mentre Lina Pagliughi, Rosina occasionale nel corso della propria carriera, interprete dal virtuosismo patetico più che brillante amava eseguire la Scena della pazzia di Lucia di Lammermoor.

Bidú Sayao, nelle occasioni in cui fu interprete di Rosina alternò l’aria de Le toreador di Adam, fu persino esecutrice di Bel raggio lusinghier, mentre nelle ultime esecuzioni proponeva Deh vieni non tardar da Le nozze di Figaro. Al Metropolitan inserì anche in una serie di recite un’arietta dal titolo “L’inutile precauzione” su musica di Pietro Cimara, composta su richiesta della stessa Sayao.

Fino agli anni 40-50 dunque la tradizione di rendere la scena della lezione un momento di personale virtuosismo dell’interprete di Rosina tramite la sostituzione di Contro un cor con uno o più brani di diverso tipo fu certamente sentita come naturale da moltissime primedonne, un'occasione in fondo per onorare se stesse e la loro arte canora oltre che il pubblico, pronto ad apprezzare queste esibizioni vocali.

Mentre dagli anni 50 in poi, con il ritorno del ruolo all’originale registro mezzosopranile, Rosina ricominciò a cantare nella Scena della Lezione l’originale “Contro un cor” pur sottoposta magari a tagli e a trasporti per modificarne di volta in volta la tessitura o per diminuirne la durata e di conseguenza anche le difficoltà. Celebri interpreti del ruolo come Giulietta Simionato e grandi interpreti di Rossini come Teresa Berganza o Lucia Valentini-Terrani, ma anche Martine Dupuy intepretarono sempre e solo l’originale aria prevista da Rossini per la scena della lezione. Delle eccezioni a questa regola in tempi moderni furono Marilyn Horne e Beverly Sills, quest’ultima legata ancora alla tradizione della Rosina soprano di coloratura.

La prima è stata l’unica protagonista moderna a proporre in teatro le due arie composte da Rossini per la Scena della lezione e ad effettuare ugualmente di volta in volta sostituzioni e modifiche. Celeberrima fu l’aggiunta che fece nel 1968 a Firenze dove nel bel mezzo della scena della lezione di Rosina cantò l’intera entrata di Arsace preannunciando a Lindoro-Kraus :”Io canto un’aria di bravura!”. Aggiunta al tempo polemica ma da autentica primadonna rossiniana. Particolarmente felice risultò anche l’inserimento del rondò della Donna del lago al Met negli anni 70, con modifiche di tempo e dinamica per facilitarne l’inserimento nella Scena della lezione, scelta che rendeva il risultato finale particolarmente valido anche sotto il profilo drammatico. In altre occasioni tra l’altro la Horne ebbe anche modo di riprendere la tradizione ottocentesca dell’aggiunta dei “palpiti”, eseguedo l’entrata di Tancredi completa del recitativo.

Beverly Sills, ultima epigone della tradizione delle Patti e della Galli-Curci, interpretò Rosina trasformandola in un effettivo tour de force che solo una grande Primadonna può permettersi, cantando nella Scena della lezione l'originae Contro un cor, ovviamente trasportato in tonalità più alta, e aggiungendo subito dopo Ah vous dirai-je maman da Le toreador di Adam. Aggiunta giustificata dall'esigenza di eseguire un brano "meno nuovo" dell'aria rossiniana. E solo a mo' di nota vale la pena ricordare che nella stessa sera eseguiva l’aria aggiunta composta per la Fodor “Ah se è ver che in tal momento” per poi appropriarsi della cabaletta del rondò di Almaviva. Qualcuno accuserà trovate del genere di essere meri e vuoti esibizionismi vocali, ma se a farli è una grande cantante e una grande primadonna sono momenti di vero e puro Belcanto e in questo assolutamente nel solco della tradizione esecutiva cara all’autore dell’opera.


Gli ascolti

Rossini - Il barbiere di Siviglia


Atto II

Contro un cor che accende amore - Teresa Berganza (1968), Beverly Sills (1974), Martine Dupuy (1982)

Arie Alternative per la Scena della Lezione :

Adam - Le toréador
Ah! Vous dirais-je maman - Frieda Hempel (1912), Beverly Sills (1974)

Arditi - Il bacio - Adelina Patti (1905), Frieda Hempel (1907)

Arditi - Parla - Frieda Hempel (1907)

Arditi - Se saran rose - Nellie Melba (1904)

Auber - Manon
Atto II - C'est l'histoire amoureuse - Adelina Patti (1895), Amelita Galli-Curci

Bellini - La sonnambula
Atto II - Ah! Non giunge - Marcella Sembrich (1904)

Bellini - I puritani
Atto II - Qui la voce sua soave - Amelita Galli-Curci

Benedict - Carnevale di Venezia - Luisa Tetrazzini

Bishop - Home sweet home - Adelina Patti (1905), Amelita Galli-Curci

Bishop - Lo! Here the gentle lark - Lily Pons (1935)

Chopin - A Maiden's wish - Marcella Sembrich

Comin' thro' the rye - Adelina Patti (1905), Marcella Sembrich

Cottrau - Santa Lucia - Martine Dupuy (1983)

David - La perle du Brésil
Charmant oiseau - Maria Barrientos

Delibes - Lakmé
Atto II - Où va la jeune Indoue - Lily Pons (1930)

Dell'Acqua - Villanelle - Lily Pons (1939)

Donizetti - Lucia di Lammermoor
Atto III - Del ciel clemente - Nellie Melba (1904)

Donizetti - Linda di Chamounix
Atto I - O luce di quest'anima - Marcella Sembrich

Flotow - Martha
Atto II - The last rose of summer - Amelita Galli-Curci

Grétry - Zémire et Azor
La fauvette avec ses petits - Lily Pons (1950)

Massenet - Don César de Bazan
Sevillana - Nellie Melba (1906)

Meyerbeer - L'étoile du Nord
Atto III - La la la, air chéri - Luisa Tetrazzini

Meyerbeer - Dinorah
Atto II - Ombre légere - Amelita Galli-Curci

Paisiello - La molinara
Atto II - Nel cor più non mi sento - Martine Dupuy (1983)

Proch - Deh! Torna mio bene - Amelita Galli-Curci (1920)

Rossini - Tancredi
Atto I - O patria...Tu che accendi...Di tanti palpiti - Marilyn Horne (1983)

Rossini - La donna del lago
Atto II - Tanti affetti - Marilyn Horne (1971)

Rossini - Semiramide
Atto I - Ah! Quel giorno ognor rammento - Marilyn Horne (1968)
Atto I - Bel raggio lusinghier - Marcella Sembrich (1905)

Strauss II - Voci di primavera - Marcella Sembrich (Bettini Cylinder - 1901), Marcella Sembrich (1906), Maria Barrientos (1916)

Tosti - Mattinata - Nellie Melba (1904)

Verdi - I vespri siciliani
Atto V - Mercè dilette amiche - Marcella Sembrich

Yradier - La Calesera - Adelina Patti (1906)



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venerdì 16 gennaio 2009

"Pensa alla Patria"


“Buon Dio, ecco terminata questa povera piccola Messa. Io sono nato per l’opera buffa, Tu lo sai bene! Poca scienza, poco cuore, ecco fatto! Sii dunque benedetto e concedimi il Paradiso…” scriveva Rossini, riferendosi alla Petite Messe Solennelle, tracciando così di sè un ritratto ironicamente umile, leggero e con la tipica modestia di chi sa di essere il più grande... Questa affermazione e la sprezzante incomprensione di Beethoven (a cui, evidentemente, rimanda), sono testimonianza di quella malinconia e di quella leggerezza che è l’universo musicale rossiniano: serio o buffo che sia. Innanzitutto per constarne la difficoltà di ridurre quest’ultimo, in particolare, alla semplice dimensione del comico! Vi sono ambiguità, segreti, malinconie, nel gioco delle costruzioni musicali, nell’apparente perfezione dei meccanismi del surreale, che mostrano quale e quanta complessità e finezza innervi la musica del pesarese che sembra sempre sollevarsi distaccata, con aristocratica leggerezza “dalle cose del mondo”, dai drammi così come dalla commedia.

Nessun titolo buffo di Rossini può essere inquadrato nel genere meramente comico, si diceva: in ciascuno vi è qualcosa di più, forse nemmeno intuito dal librettista (e spesso nemmeno colto dal pubblico, ora come allora), ma ricercato e raggiunto attraverso una certa distanza disillusa, a testimoniare la nostalgia per la fine di un mondo ormai passato e l’inadeguatezza e l’estraneità agli eccessi di quello nuovo (così irragionevole e primitivo nel dar sfogo ai suoi istinti più immediati – laddove Rossini mediava e stemperava ogni passione, ogni dolore, ogni risata, attraverso una trasfigurazione ideale e musicale, che la rendeva astratta e quasi metafisica...trasportandola ad un livello di superiore razionalità). Nemmeno nelle farse definite tali dall’autore stesso, peraltro, vi è spazio per il puro abbandono al ridicolo: ognuna nasconde un lato oscuro, segreto...niente di insistito, di troppo marcato, ma solo qualche accenno che si percepisce appena nella scelta della strumentazione, ad esempio, nell’abbandono di certe frasi di oboi o clarinetti, nel languore del canto dei corni...magari incastonati tra crescendo e concertati in cui le parole perdono significato proprio e diventano solo fonemi prestati alla musica per dar forma ad una follia del tutto razionale. Come nelle farse così nelle opere buffe: l’intima crudeltà del Barbiere di Siviglia, la nostalgia mozartiana del Turco in Italia, il malinconico lirismo della Cenerentola. Per non parlare delle grandi opere semiserie, la cui ambiguità è scelta di genere. Il grado di tale ambivalenza è ben rilevabile, poi, anche dai frequenti autoimprestiti: lo stesso brano, la stessa cellula musicale, assume significati antitetici a seconda del contesto in cui viene inserito, e la stessa musica che pareva attagliarsi perfettamente ad un ingarbugliato intreccio comico, appare inspiegabilmente perfetta (con leggere modifiche di dettagli) per esprimere situazioni e sentimenti opposti. Questa ambiguità è presente pure in quella che viene spesso indicata come il più puro esempio del buffo astratto rossiniano, della pura “follia organizzata”, del comico assoluto...la cui musica per dirla con Stendhal avrebbe fatto “dimenticare tutta la tristezza del mondo”. L’Italiana in Algeri, dramma giocoso in due atti, su libretto di Angelo Anelli, rappresentato per la prima volta a Venezia il 22 maggio 1813. In una struttura certamente incentrata sul gioco degli inganni, sull’assurdo e il surreale – in cui però emergono talvolta inaspettati squarci di lirismo e malinconia: si sentano i corni della cavatina di Lindoro – si staglia una protagonista del tutto atipica rispetto al genere: Isabella. Creato per l’ugola e la tecnica di Marietta Marcolini (che ottenne così un enorme successo) è ruolo che per statura e complessità, si pone a mezza via tra la commedia e la tragedia (ossia in quel luogo dove Rossini amava di più transitare) in un’ambiguità e polivalenza (rilevabile anche dai segni scritti in partitura) che contribuisce – forse anche inconsciamente – ad attribuirle tutto quel fascino. In particolare la grande scena con Rondò nel secondo atto, “Pensa alla Patria”, che per struttura, intensità e livello di virtuosismo, richiama l’Opera Seria. Stendhal la definisce un monumento storico! Ed in effetti si staglia come unicum nel resto dell’opera.

Il brano, il N. 15 della partitura, si presenta come una lunga scena di 228 battute strutturata in coro introduttivo, recitativo accompagnato e Rondò, composto di andante iniziale e allegro per la cabaletta. L’incipit, dopo la breve introduzione strumentale, dà già la dimensione drammatica del pezzo. A piacere, è indicato in partitura, mentre la voce scende nelle zone più basse della tessitura sino ad una cadenza in crescendo (di mano dell’autore) piuttosto intricata e con salti ascendenti di nona (SI2-RE#4; RE#3-FA#4) per poi chiudersi in un SI2. Dopo la pausa il cantabile vero e proprio caratterizzato da sestine ascendenti e discendenti e da una scrittura insistita nelle zone centrali e basse della tessitura. Segue l’allegro, dove, dopo le brevi battute in cui Isabella prima zittisce l’inopportuna ilarità di Taddeo (con un impeto e una dignità da vera eroina tragica) e poi si rivolge con severa dolcezza all’amato Lindoro (che poco prima era “impallidito” di fronte alla risoluta fermezza della protagonista), la linea vocale si arricchisce di abbellimenti e agilità di forza, nella ricerca di un estremo virtuosismo (peraltro insistito sempre in centro e in basso) che fa turbinare la voce in un vero delirio di scale, cadenze, colorature: “Qual piacer! Fra pochi istanti” con una teoria di quartine che si susseguono su e giù per il pentagramma, per concludersi, dopo la ripetizione variata, nella cadenza di prammatica, lasciata all’interprete.

Il brano proprio per quelle caratteristiche di atipicità (che non può essere considerata mera parodia dell’Opera Seria) e per la sua estrema difficoltà, è stato banco di prova di tante primedonne, tra cui non può essere dimenticata la Laura Cinti-Damoreau: una delle più grandi cantanti del suo tempo, a Parigi collaborò direttamente con Rossini, nella stagione del Théatre-Italien. Per il ruolo di Isabella scrisse una serie di variazioni e di cadenze che ben danno l’idea di cosa fosse il canto d’opera nella prima metà dell’800 e di quale fosse allora il ruolo dell’interprete (che – spesso si dimentica, suggestionati da certe vulgate che risalgono alle ottuse incomprensioni di certi campioni del germanesimo musicale – era anch’esso e prima di tutto, musicista e non ignorante e capriccioso guitto da palcoscenico come amano rappresentare i suddetti). Dette variazioni – che si possono leggere nella loro interezza in nota all’edizione critica dell’opera – si caratterizzano per una vera e propria riscrittura acrobatica del brano: non solo, infatti, si inseriscono nelle corone a fine frase (luoghi deputati alla cadenza), ma anche, e soprattutto, nel cantabile (battute 87-99) e nella ripresa del tema dell’allegro (battute 184-207). La Cinti-Damoreau nell’arricchire la scrittura rossiniana, insiste nella zona acuta (più congeniale alle sue corde). Particolarmente impressionante è la grande cadenza nella sezione finale dell’andante, con quattro salti ascendenti di ottava (SI2-SI3; RE#3-RE#4; FA#3-FA#4 e LA3-LA4) inseriti in quartine discendenti, seguiti da una lunga scala cromatica che sale e scende dal SI acuto al RE, per chiudersi sulla tonica della tonalità. Non da meno, naturalmente, le cadenze finali tendenti allo sfogo in acuto.

Tuttavia, pur divenendo in fretta il brano più famoso dell’opera (vuoi per l’atipicità del suo carattere, vuoi per l’esibizione vituosistica), non passò indenne alle sue successive revisioni, spesso dovute ad esigenze di censura: a Roma vennero cambiate le parole in “Pensa alla sposa”, a Venezia fu sostituito il coro introduttivo a causa della sua nascosta citazione della Marsigliese. Ma l’intervento più radicale fu la sostituzione del brano per la ripresa al San Carlo di Napoli nel 1815, dove il pezzo che mai avrebbe potuto passare la rigida censura borbonica, fu rimpiazzato dal N. 15a, “Sullo stil dei viaggiatori”, anch’esso di notevole impronta virtuosistica, caratterizzato da una scrittura più acuta, ma assai più convenzionale e inevitabilmente inferiore rispetto all’originale. Il ruolo di Isabella attirò le grandi primedonne dell’epoca, e anche nel secolo successivo non smise di affascinare le grandi dive.

La riscoperta novecentesca dell’opera si può far risalire alla sera del 26 novembre 1925 quando Vittorio Gui accompagnò Conchita Supervia a Torino. E da lì sino alle protagoniste della Rossini-renaissance a partire dagli anni ’60/’70 e cioè Teresa Berganza, Marilyn Horne, Lucia Valentini-Terrani, Martine Dupuy e, più recentemente, Ewa Podles (tralascio volutamente Agnes Baltsa, poiché fenomeno legato alla moda dell’epoca e alle majors del disco – e perché, oltre alle evidenti mancanze tecniche, poco interessante dal punto di vista esecutivo: mera lettura della pagina scritta, seguita pedissequamente senza alcuna fantasia o libertà…in ossequio alla fondamentale incomprensione di Abbado dell’opera belcantista e rossiniana – così come Jennifer Larmore che si limita a fare la parodia della Horne). Ognuna di esse con un approccio differente al ruolo e al brano, derivante da diversità di tecnica e di personalità artistica.

Si consideri ad esempio la morbida eleganza della Berganza (mi riferisco all’incisione ufficiale del ’63), vellutata e venata di malinconia, ma con una coloratura perfetta (anche se non si avventura in iperbolici sfoggi di virtuosismo, mantenendo, e semplificando, per lo più le cadenze originali e senza variare più di tanto la ripresa dell’allegro), nitida, brillante, oppure l’Isabella della Valentini-Terrani (sul finire degli anni ’70): coloratura fluente, pulita, linea di canto sicura in tutta la gamma dell’estensione.

Importante punto di svolta, però, è costituito dalla Horne: mi riferisco a due incisioni diversissime tra loro. L’incisione in studio dell’opera integrale (1980 con Scimone) e il recital “Souvenir of a Golden Age” (recentemente ristampato) che contiene il Rondò e che risale al 1966. La Horne affronta il personaggio con piglio “eroico”, come sfoggio di un vertiginoso vituosismo “di forza”. L’esibizione vocale è, in entrambi i casi, stupefacente. Le quartine sgranate in modo perfetto, la voce sicura che spazia in alto e in basso con una facilità disarmante, le cadenze pirotecniche e le ricche e fantasiose variazioni nelle riprese. Mentre nell’incisione integrale, però, la Horne si attiene fondamentalmente alla redazione rossiniana (pur prendendosi tutte le libertà dovute all’interprete, come nelle variazioni dell’allegro, risolte nel registro basso) ed esegue, ad esempio, solo parte della grande cadenza prevista dall’autore prima del cantabile dell’andante, nel recital recupera alcune delle variazioni della Cinti-Damoreau (sia nelle due cadenze dell’andante stesso che in quelle finali, mentre le variazioni nella ripresa dell’allegro sono più o meno le stesse che riproporrà 15 anni dopo con Scimone), in uno strepitoso esempio di acrobatico virtuosismo.

Sulla stessa linea, ma ancor più indirizzata verso un’interpretazione eroica e guerriera del brano, è il Rondò della Podles (in un bel disco del '95), dove sfrutta appieno il sontuoso registro basso e l’incredibile facilità nello sgranare la coloratura: la Podles nell’andante non esegue le cadenze di Rossini, ma opta per formule più ridotte, tuttavia nell’allegro (sia nelle variazioni della ripresa, sia nella cadenza finale) recupera alcuni stralci della Cinti-Damoreau.

Una lettura meno “di forza”, ma pur sempre di grandissimo impatto virtuosistico, è quella della Dupuy (dal vivo a Bologna nel 1987), che pure si attiene alla scrittura rossiniana, sostituendo – come tutte finora – le cadenze originali con altre, meno impegnative. In effetti non mi risulta che, sino ad ora, siano mai state riproposte integralmente le variazioni della Cinti-Damoreau, né che sia mai stata eseguita integralmente la grande cadenza scritta da Rossini prima della sezione cantabile dell’andante. Scelta comprensibile e filologicamente ineccepibile (almeno per una filologia rettamente intesa): ogni cantante ha la sua propria personalità, le sue caratteristiche vocali e, soprattutto, è interprete del ruolo. E un vero interprete, almeno nel senso ottocentesco del termine, contribuisce alla configurazione del ruolo, lo adatta alle proprie capacità e peculiarità, ne arrichisce la scrittura dove e come può o vuole. Non ripropone meccanicamente e non riproduce (almeno tendenzialmente) interpretazioni che appartengono ad altri: sennò si rischia di ricadere nella mera archeologia musicale. Resta il fatto che sulla carta sono incredibili e piacerebbe ascoltarle prima o poi…anche se, visto il livello delle odierne e sedicenti primedonne – che usurpano il ruolo di cantanti rossiniane – forse è meglio immaginarsele o leggerle, piuttosto che ascoltarle, magari stuprate dalla tecnica periclitante di qualche starlette da rivista patinata che scimiotta le grandi dive del passato (in operazioni commerciali giocate su improbabili e improponibili parallelismi).

Gli ascolti

Rossini: L'Italiana in Algeri

Atto II


Pronti abbiamo e ferri e mani... Amici, in ogni evento... Pensa alla Patria... Qual piacer! Fra pochi istanti - Teresa Berganza (1957), Marilyn Horne (1981), Lucia Valentini-Terrani (1985), Martine Dupuy (1987), Ewa Podles (2002)


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venerdì 16 maggio 2008

Oh vera delizia dei mortali! La Clemenza di Tito

Il giudizio di Maria Luisa di Borbone, sposa di Leopoldo II, sulla Clemenza di Tito eseguita per l'incoronazione del marito a Re di Boemia è tanto celebre che non avrebbe neppure bisogno di essere menzionato. Eppure quella sprezzante definizione di "porcheria tedesca in lingua italiana" esprime bene il carattere ibrido e di assoluta novità dell'ultima opera seria di Mozart.

La Clemenza, libretto metastasiano per eccellenza (prima di Mozart fu musicato, fra i molti altri, da Hasse e Gluck), viene "sventrata" dal poeta di corte dell'Elettore sassone, Caterino Mazzolà, il quale, annota lo stesso Mozart sul catalogo delle sue opere, la trasforma in "vera opera" eliminando in sostanza tutto il secondo atto (con la peripezia dello scambio di manti fra Sesto e Annio, ritenuto per questo responsabile della congiura fino alla confessione di Lentulo) e trasformando molte arie solistiche in pezzi d'assieme (la revisione forse più celebre è quella che riguarda l'aria di Sesto "Se mai senti spirarti sul volto", mutata nel terzetto "Se al volto mai ti senti" in cui si affiancano allo sventurato quasi-regicida le voci di Vitellia e Publio). Alcune arie vengono cassate, altre ampliate (ad esempio l'ultima aria di Sesto). Ed è su questo testo insieme antico e nuovo che s'innesta una musica in eguale misura vecchia e innovativa.

Non è strano che all'Imperatrice, figlia di Carlo III, nata e cresciuta a Napoli, la musica di Mozart apparisse un curioso ibrido fra la "cantilena" di scuola italiana (quella che Stendhal avrebbe rintracciato nelle opere del giovane Rossini, riconoscendola come eredità del "soave melodiare" di Paisiello e Cimarosa), la maestosità haendeliana degli intermezzi e dei cori, il virtuosismo "strumentale" di pagine come il rondò finale di Vitellia e la brevità ardita e violenta del finale primo, chiuso in pianissimo come il finale primo del Fidelio.

Più tradizionale appare la distribuzione delle parti vocali e il loro rispettivo peso nella composizione: quella dell'Imperatore, che pure è "doppio" in scena del committente in sala, è una parte drammaticamente e musicalmente marginale rispetto ai "villain" Vitellia (primadonna soprano) e Sesto (primo uomo, e oggi eventualmente altra primadonna soprano).
E non c'è da stupirsi, visto che il primo Tito, Antonio Baglioni, fu anche il primo Don Ottavio, mentre gli antagonisti del clementissimo prence furono Maria Marchetti-Fantozzi e il castrato Domenico Bedini. Baglioni non doveva essere un grande virtuoso (le sue arie nel Don Giovanni, per quanto ispirate, non presentano un quarto delle difficoltà tecniche richieste a un cantante per giunta anziano come Anton Raaff, primo Idomeneo), tanto che nello stesso 1791, in occasione di una ripresa del Così fan tutte, ebbe serie difficoltà con le arie di Ferrando, guadagnandosi da parte del biografo mozartiano Franz Niemetschek l'appellativo di "mezzo basso".

La Marchetti-Fantozzi, di contro, si mise in discreta luce anche alla Scala tra la fine degli anni '80 e i primi '90, affrontando opere come l'Ifigenia in Aulide di Cherubini e l'Olimpiade di Cimarosa. Basterebbero questi titoli a darci l'idea di una voce estesa in acuto ma anche in grado di scendere con disinvoltura e di non soccombere di fronte al canto tanto fiorito quanto declamato. E se non bastassero i titoli, abbiamo la partitura mozartiana a testimoniare la valentia della signora.

Quanto a Domenico Bedini, cantore della Cappella lauretana, era rinomato per i fiati lunghi, e Mozart, riscrivendo per lui la parte di Sesto inizialmente concepita per tenore, trovò il modo di sfruttare questa caratteristica particolarmente nei due grandi rondò e nel terzetto "Se al volto mai ti senti". Ovvio che al castrato Mozart non richiedesse tanto il virtuosismo (che pure non manca) quanto l'accentuazione della corda patetica, che si ritrova in tutti i personaggi concepiti dal Salisburgese per cantanti evirati, dal Sifare del Mitridate al Cecilio del Lucio Silla, al vertice di Idamante.

Ma sarebbe ingiusto non citare anche il quarto grande interprete coinvolto nella prima, il clarinettista Anton Stadler, amico di Mozart e destinatario del Quintetto eponimo KV 581, nonché del Concerto KV 622. A Stadler, che nell'orchestra di Praga suonava il clarinetto e il corno di bassetto, Mozart pensa al momento di stendere i due grandi rondò con strumento obbligato, collocati poco prima dei finali d'atto: "Parto, ma tu ben mio" (in cui la voce di Sesto dialoga con il clarinetto) e "Non più di fiori" (in cui al canto di Vitellia si affianca quello del corno di bassetto). Tito non solo non ha arie concertanti, ma canta assoli "col da capo", che seguono lo schema canonico dell'aria da opera seria, mentre le arie di Vitellia e Sesto sono in due sezioni (Adagio - Allegro) e prefigurano la successione ottocentesca cantabile-cabaletta. C'è insomma nelle parti di Vitellia e Sesto un trattamento da un lato più virtuosistico e dall'altro maggiormente aperto al futuro. E' vero che a Tito spettano anche il breve e delizioso arioso con coro "Ah no, sventurato" e ben due recitativi accompagnati (al momento in cui ha prova definitiva della colpevolezza di Sesto e subito prima del finale II), ma su Sesto grava l'intero finale primo, aperto da una Scena a piena orchestra di alto impatto drammatico, mentre Vitellia conclude di fatto l'opera con un Rondò preceduto dal recitativo obbligato e unito senza soluzione di continuità al coro che apre l'ultima scena.

Può essere interessante ricordare che, quando l'opera fu presentata alla Scala nel 1818, la parte di Vitellia era sostenuta da Francesca Festa Maffei, "specialista" delle eroine di Mozart (sempre a Milano aveva cantato Fiordiligi e Donna Anna) ma anche prima Fiorilla nel Turco in Italia rossiniano. E il Rondò finale di Fiorilla, "Squallida veste e bruna", presenta più di un'analogia, formale, contenutistica e di collocazione nel corpo dell'opera, con la grande scena di Vitellia. Accanto alla Festa Maffei si esibirono Violante Camporesi (che l'anno dopo sarebbe stata la prima Bianca nel Bianca e Falliero: facile immaginare generosi trasporti) e il baritenore Gaetano Crivelli.

Se il ruolo tenorile risulta molto meno oneroso di quelli che spettano alle voci femminili, tutte le parti (anche quelle che si elevano poco al di sopra del comprimariato) esigono perfetta rotondità di emissione, canto sul fiato, estrema mobidezza, espressione nobile e composta onde poter adeguatamente figurare in questo dramma di carne e sangue ma anche di concetti e "ragionamenti", apogeo ed epitaffio di un'epoca irripetibile.

Atto I

Deh, se piacer mi vuoi - Christine Deutekom, Carol Vaness
Del più sublime soglio - Dano Raffanti
Parto, ma tu ben mio - Ernestine Schumann-Heink, Teresa Berganza, Christa Ludwig
Vengo... Aspettate... Sesto! - Carol Vaness, Susan Graham & Mark S. Doss
Finale I - Martine Dupuy, Susanna Anselmi, Adelina Scarabelli, Natale de Carolis & Mariana Nicolesco

Atto II

Se al volto mai ti senti - Tatiana Troyanos, Carol Vaness & Mark S. Doss
Deh per questo istante solo - Martine Dupuy, Teresa Berganza, Christa Ludwig
Se all'Impero, amici Dèi - Rockwell Blake
S'altro che lagrime - Giulietta Simionato
Non più di fiori - Joan Sutherland, Christine Deutekom, Renata Scotto, Carol Vaness

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sabato 22 marzo 2008

La buona Pasqua: Teresa Berganza alla Scala (1975)


Quando entrava in sala per tenere un concerto T.B. appariva una signora di misurata statura sorridente ed elegante. Il sorriso era misurato come pure l’eleganza del vestire. Misura ed eleganza, d’altra parte, erano le autentiche sigle di T.B. Non solo quale concertista. I programmi avevano temi fissi: le arie antiche del Parisotti, la musica da camera in ogni lingua, fosse russa, tedesca, francese o italiana, e, naturalmente, il folklore spagnolo ove la zarzuela spesso aveva parte preponderante. Misura ed eleganza: perché T.B. non si è mai fatta prendere da foje filologiche da baroccari e baracconi, quali oggi praticati da molte sue colleghe, che malamente la imitano nell’emissione, tanto meno da manie pseudoculturaloidi, che, postulando la superiorità della produzione liederistica, ne infliggono una ventina di brani ad un pubblico poco avvezzo ad idioma e cultura di Goethe. Misura ed eleganza: perché i brani del folklore non avevano alcunché di rumoroso per un malinteso esser popolare, ma erano, com’è giusto, la Spagna proposta da un’elegante señora madrilena.
Forse la misura veniva meno quando T.B. iniziava la terza, e ufficialmente non prevista, parte del proprio recital, dedicata ai bis. L’eleganza invece rimaneva intatta. Il pubblico, ben avvezzo a questa sovrabbondanza di bis, sapeva che la fine sarebbe stata il più delle volte decretata con la famosissima Tarántula. Spesso settimo od ottavo bis. E questo accadeva anche negli anni Novanta quando T.B. si scusava con il pubblico dicendo: “Sono una nonna” e poi cantava il rondò di Cenerentola. L’arte di T.B. era quella di essere al tempo stesso raffinata cantante da camera e diva sul palcoscenico, ben conscia del suo status e dell’autentica venerazione di cui il pubblico la rendeva oggetto. Credo, anche, che T.B. per tutta la sua carriera sia sempre stata assolutamente conscia dei propri limiti vocali e di temperamento e con questa chiara cognizione abbia costruito una carriera che, proprio nel concerto di canto, ha sempre trovato la sua più alta espressione. Pur nella consapevolezza dell’ammirazione incondizionata di cui godeva presso il pubblico, T.B. non ha mai osato ruoli, o anche brani, che pur minimamente esulassero dalle sue possibilità e di cui non avesse pieno dominio. Con quello che oggi, velleitario ed impunito, circola, una lezione ulteriore e più alta ancora rispetto a tante raffinate Violette o a sofferte Nebbie di Respighi. Grazie, veramente, a Domenico T., melomane ben oltre le nozze d’oro con il loggione scaligero, alla cui gentilezza dobbiamo la registrazione di questo concerto.

Teresa Berganza - Teatro alla Scala 5 Febbraio 1975

pianoforte : Ricardo Requejo

Carissimi - No, no, non si speri
Scarlatti - Le violette
Pergolesi - Confusa, smarrita (da Catone in Utica)
Rossini - Anzoleta avanti la regata (da La regata veneziana)
Donizetti - Ne ornerà la bruna chioma
Wolf - Sagt, seid Ihr es, feiner Herr (da Das Spanische Liederbuch)
Fauré - L'absente (Hugo)
- Mandoline (Verlaine)
- Après un rêve ( da Poesie toscane)
Granados - La Maja dolorosa n°3 (Periquet)
- El majo tímido
- La Maja dolorosa n°1
- El tra la la y el punteado
Montsalvatge - Cinco canciones negras :
- A. Cuba dentro de un piano (Alberti)
- B. Punto de habanera
- C. Chévere
- D. Canción de cuna para dormir a un negrito
- E. Canto negro

Bis :

Mozart - Voi che sapete (da Le nozze di Figaro)
Rossini - Nacqui all'affanno (da La Cenerentola)
Giménez - La tarántula (da La tempranica)
Bizet - L'amour est un oiseau rebelle (da Carmen)
Thomas - Connais-tu le pays (da Mignon)
Bizet - Près des remparts de Séville (da Carmen)
Pergolesi - Se tu m'ami

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lunedì 4 febbraio 2008

Cenerentola: l'arte del rondò finale.......presente.

Ogni promessa è debito. Una volta passate al vaglio e ricordate le interpreti di levatura storica del personaggio di Angelina - Cenerentola, veniamo alle ultime due in ordine di tempo ed in teatri assolutamente primari. Ossia Joyce di Donato al Liceu di Barcellona e Magdalena Kozena al Covent Garden di Londra.
Mi limito alle prestazioni vocali delle due signore, una della quali debuttante nel ruolo.


Cenerentola è parte cosiddetta di contraltino e non di contralto profondissimo. Esiste, ignota o meglio conosciuta da pochissimi appassionati, anche la versione con le varianti di Giuditta Pasta, varianti che eliminano tutte le discese oltre il si nat sotto il rigo. Le trasposizioni per la Pasta, che a detta di Stendhal fu una grandissima interprete del ruolo, confermano gli assunti della prima Cenerentola Geltrude Righetti Giorgi, che esclude la natura di soprano per il ruolo di Cenerentola.
L’excursus storico non è certo per inutile erudizione quanto per concludere che, spartito alla mano ad ascolto effettuato, le attuali protagoniste sono inadeguate. Anche Teresa Berganza e Martine Dupuy erano mezzo soprani acutissimi e di colore chiaro, ma mezzosoprani ed inoltre sì rifinite da superare tutte le difficoltà del ruolo quando impegnava la zona medio grave della voce e gli estremi acuti
Preciso anche che da quasi vent’anni circolano, con qualifica mezzo soprani, cantanti che in realtà sono per volume ed estensione soprani lirici, che se, sapessero cantare potrebbero farsi valere quali Mimi, Micaela, Manon e magari Butterfly. Siccome ignorano il canto professionale in particolare come funzioni nella voce femminile il primo passaggio sono corte, non reggono le tessiture sopranili e vanno ad infestare il repertorio mozartiano, quello barocco, talvolta si peritano di essere Rosina, Cenerentola e magari tentano anche sortite nei ruoli Colbran dimentiche di che sia la adamantina esecuzione delle agilità di forza e l’accento tragico.
L’elenco è lunghissimo e ne fanno, senza dubbio parte le ultime due Cenerentole.
Delle due certamente l’autentica dilettante è Magdalena Kozena, nota per la sua folgorante carriera nelle riserve di caccia delle major discografiche, delle quali è accreditata rappresentante. La attente un recital in Scala il prossimo 3 marzo.
Partendo dalla fine dell’opera: arriva stremata alla fine del rondò dove, complici anche variazioni rispetto alle variazioni previste da Rossini che inesorabili mettono in evidenza una serie di suoni di volume inesistente, bianchi e fissi.
Nel recitativo introduttivo e nell’andante del finale i suoni gergalmente detti “spoggiati” si sprecano e compaiono puntuali ogni qualvolta la scrittura preveda figure ornamentali, che investano uno dei due passaggi della voce. Le volate del “baleno rapido” sono imprecise, eseguite con una emissione non professionale.
Siccome il personaggio, al pari delle parti tragiche composte per Isabella Colbran si esprime per la maggior parte con il canto di agilità sillabica, l’esecuzione è insoddisfacente sia negli interventi della protagonista al sestetto “questo è un nodo avviluppato” che la quintetto “signor una parola una parola” e soprattutto nell’ingresso del finale primo, dove la fanciulla, mascherata da principessa, canta come tale.
Con una simile esecuzione vocale è il personaggio, che esce falsato nelle proprie caratteristiche essenziali. La favola richiede la metafora e la metafora di Rossini si esprime con l’acrobazia e l’ornamentazione.
Questa Cenerentola nel duetto d’amor, dove l’esecuzione dell’allegro conclusivo “ ah ci lascia proprio il core” è impacciata e siglata da due urletti in luogo dei la nat ribattuti previsti da Rossini (tutt’altro che facili), è una sorta di compromesso fra Mimì e Cherubino.
L’esecuzione e l’interpretazione non vanno molto meglio con la Di Donato. Anni fa in Scala, quale doppio alla strillacchiata protagonista offerta da Sonia Ganassi, aveva esibito una voce di mezzo acutissimo con un registro acuto un po’ chiaro e sopranile oltre misura, tipico dei mezzo soprani che, in natura soprani, non saldano correttamente gli acuti estremi al resto della voce.
L’esecuzione dei passi di agilità era, però, facile e la voce nella propria zona naturale ben proiettata.
Da quella performance si sono aggiunti personaggi di scrittura molto acuta, spesso spianata o quasi ed una cospicua frequentazione del repertorio sopranile. In più, e la circostanza è stata evidente nell’ultima presenza milanese della Di Donato, Alcina nell’ottobre scorso la voce non presenta l’emissione omogenea ed astratta dell’autentica belcantista. Ad una Alcina, che occhieggiava per limitazioni tecniche nelle grandi scene di furore Santuzza, è seguita una Cenerentola ora bamboleggiante in zona acuta, tanta è la somiglianza del timbro a quello del sopranini di coloratura degli anni trenta, ora tubata ed artefatta quando è chiamata a gravitare nella zona medio grave. E se nel rondò lo slancio era maggiore di quello della Kozena e non si percepivano suoni fissi e voce esausta siamo, comunque, lontani dal rendere l’idea molto rossiniana di una coloratura fastosa e mirabolante.
Neanche nei passi patetici, oltre tutto sempre virtuosistici, con la voce scissa in due tronconi, la realizzazione del personaggio è soddisfacente. Nulla da più fastidio in Rossini dell’emissione poco calibrata ed omogenea, che non è solo un mezzo tecnico, ma prima di tutto un mezzo espressivo, idonea come è a garantire il legato, la liquidità dei passi acrobatici e patetici e capace di far sognare anche quando il timbro non è spontaneamente privilegiato.
Perdonate lo sfogo, perdonate la costante lamentela, continuo a ritenere Rossini, proprio per lo stretto legame con la tecnica di canto un autore difficilissimo non solo da eseguire, ma soprattutto da interpretare, un autore che dieci o quindici interpreti ha avuto nell’epoca di composizione delle sue opere e una decina fra il 1965 ed il 1990. Poi le Kozena, le Di Donato, le Ganassi, per rimanere alla corde di sedicenti mezzo soprani.

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