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sabato 12 marzo 2011

Evadere la posta 2

"Alla Scala resa dei conti tra loggionisti. La ''Tosca'' contestata dal solito gruppo di provocatori, i melomani ufficiali insorgono", Egle Santolini, La Stampa, 24 febbraio 2011.

Cara Egle,

molti anni or sono le pagine de più rinomato quotidiano italiano ospitarono una tenzone fra due delle più illustri firme della testata. Di quelle buone, ossia Indro Montanelli e Camilla Cederna, quest’ultima trapassata, dopo una folgorazione in zona via Fatebenefratelli- Questura, dai salotti buoni della Milano bene all’impegno sociale. Il ragazzino, decenne, rimase molto colpito dagli incipit del Maestro assoluto di giornalismo, appunto: “cara Camilla”. Null’altro in comune con quella storia, ma la penna sapida di Montanelli era esempio anche per temi e “temini” di italiano.

E soprattutto era esempio del grande giornalista l’assoluta onesta e buona fede. Lezione, questa, assai più dimenticata e persa del bello scrivere e dell’italiano di scuola e tradizione.
Ella, cara Egle, della perdita della lezione montanelliana ha offerto, nel minimo cosmo del mondo dell’opera, una significativa esemplificazione.
All’indomani della sua rhesis nei confronti del Corriere della Grisi Le ho inviato una mail ove chiedevo chiarimenti per i fatti che, di seguito, andrò a richiamare, oggi noti a tutti. L’ha letta, non ha risposto. Il suo direttore non l’ha neppure letta. Il maestro è sempre tale.
Certo la mia persona conta niente,il blog per cui scrivo meno ancora. Al contrario chi ha tentato di picchiare un ragazzo di vent’anni ed offerto prova di precoce senescenza e grave inciviltà è assurto agli onori della cronaca additato quale esempio di civiche virtù.
Mala tempora currunt? Figuriamoci, semplicemente l’etica si piega all’effettaccio. Ciò in assoluta assonanza con quel che quella sera avevamo appena finito di sentire, nonostante il marchio Scala, difeso acriticamente dai nostri assalitori.
Quanto all’episodio ed al sapore volgare ed intimidatorio se ne sono occupati altrove e con completezza di narrazione e dettagli, che può equivalere ad un corretto esercizio del dovere di cronaca.
E ciò potrebbe bastare. Stranamente e nonostante qualche egle possiamo –noi del corriere della Grisi- essere anche soddisfatti o almeno meno insoddisfatti che dal trattamento che Ella ci ha riservato.
Però…. Però c’è sempre un però altrimenti non avrei perso tempo a contattarLa, cara Egle, e non lo perderei ora utilizzando l’unico modo che mi ha concesso ossia dal blog della Grisi. Ripeto uso quello che ho a disposizione e che Lei consente.
Vede, cara Egle, la dovizia di particolari sulla mia corporatura ( che vuole siano 112 kilogrammi per 1,92 cm di altezza, quel che serve ad arrestare le mani di quattro damazzine e tre ululanti vecchi), sulla mia attività professionale, mutuati dai nostri assalitori, confermano come Ella conosca benissimo anche il mio nome e cognome e che, quindi, la primula rossa (molto romantico) avrebbe ben potuto esser contatta l’indomani dell’assalto per conoscerne la versione dei fatti. Lo hanno fatto alcuni Suoi colleghi e, quindi, l’impresa era normale per un professionista di media diligenza e volontà di corretto esercizio della professione.
Comprendo che sentire anche l’altra campana avrebbe precluso la chiusura del pezzo che per effetto ricorda certi suoni di petto dei più rappresentativi soprani (altrove definiti con l’accrescitivo sopranacci) veristi e che per Sua informazione e auxesis culturale Le accludo.
Non me ne voglia, cara Egle, è solo per rammentare in primis a me stesso che una telefonata costa fra l’altro alla Sua testata circa 50 centesimi. Un click sui nostri indirizzi l’avrebbe condotta direttamente alle caselle di posta elettronica di molti di noi. E la spesa si riduceva ulteriormente.
E siccome il Carnevale ambrosiano non è ancora terminato dedico alla più scalmanata delle nostre assalitrici non solo l’esecuzione –paradigmatica- del Carnevale di Venezia di una divina, il cui ascolto apre orizzonti, se in grado di sentire, ma anche la mia ricetta delle chiacchiere, della cui superiorità sono certo.


LE CHIACCHIERE DI DOMENICO DONZELLI

UN UOVO INTERO
UN BICCHIERE DI LATTE
MEZZO BICCHIERE DI GRAPPA
LA BUCCIA DI UN LIMONE GRATTUGGIATA
UN PIZZICO DI SALE
IL CONTENUTO DI UNA BACCA DI VANIGLIA
QUATTRO CUCCHIAI BEN COLMI DI ZUCCHERO
FARINA QUANTO BASTA
STRUTTO FINISSIMO

UNIRE TUTTI GLI INGREDIENTI ESCLUSA LA FARINA. UNA VOLTA BEN MESCOLATI AGGIUNGERE LA FARINA SINO AD OTTENERE UN IMPASTO PIUTTOSTO CONSISTENTE (PIÙ SOLIDO DI QUELLO DELLA PASTA ALL’UOVO).
LASCIAR RIPOSARE MEZZ’ORA
STENDERE L’IMPASTO POCO PER VOLTA SOTTILISSIMO (SE SI UTILIZZA LA MACCHINA ALL’ULTIMA TACCA).
IN UNA PENTOLA ABBASTANZA ALTA E DAL FONDO RESISTENTE FONDERE LO STRUTTO. QUANDO SFRIGOLA BUTTARE LA CHIACCHIERE UNA O DUE PER VOLTA. COTTURA RAPIDISSIMA
LASCIAR RAFFREDDARE E SPOLVERIZZARE DI ZUCCHERO A VELO.
ACCOMPAGNAMENTO CANONICO: PANNA MONTATA.



Gli ascolti

Giordano - Andrea Chénier

Atto III - La mamma morta - Lina Bruna Rasa (1930)

Benedict - Il Carnevale di Venezia - Luisa Tetrazzini (1909)


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mercoledì 2 marzo 2011

Tosca International

Come di consueto, un poco di "rassegna stampa" in lingua straniera.


Am 22. Februar haben wir der zweiten Vorstellung der Mailänder „Tosca“ mit Jonas Kaufmann beigewohnt, die für den deutschen Startenor eigentlich die vierte sein sollte. Diese neue Produktion des Meisterwerks von Puccini hat sich seit dem Tag der Premiere am 15. Februar an der Scala als eine Fehlgeburt erwiesen. Nicht nur die konzeptuell inkongruente, oft lächerliche, und auch visuell völlig unattraktive Inszenierung von Luc Bondy oder die äußerst unpräzise, lahme und für die Sänger nicht besonders freundliche Leitung des jungen Barenboim-Schützlings Omer Meir Wellber hat die Produktion auf fatale Weise markiert, sondern auch die chaotischen Umstellungen in der Besetzung der Hauptdarsteller. Dass seit einiger Zeit vor jeder Mailänder Premiere ein Großteil der Hauptdarsteller erkrankt, nimmt der Geschichte der gleichzeitigen Erkrankung von Jonas Kaufmann (Cavaradossi des „first cast“), Oksana Dyka (die Tosca des „first cast“), Marco Berti (Cavaradossi des „second cast“) und, last but not least, des Interpreten der Nebenrolle des Sciarrone, jede Glaubwürdigkeit ab. So hat am 15. Februar statt der vorgesehenen Oksana Dyka die Amerikanerin Sondra Radvanovsky (sonst Protagonistin des „second cast“) auftreten müssen und hat damit die einzig wertvolle musikalische Leistung nicht nur der Premiere, sondern auch der nachfolgenden Aufführungen einkassiert.

Herr Wellber wurde nach jeder der bisher realisierten vier Vorstellungen vom Publikum für seine unzulängliche Leistung ausgebuht. Die sowohl stimmlich unakzeptable als auch interpretatorisch platte Tosca der Oksana Dyka sorgte am 20. und 22. Februar nicht nur am Ende, sondern schon gleich nach der berühmten zentralen Arie „Vissi d’arte“ des zweiten Aktes für einen Protestausbruch bei einem Teil des Publikums. Man fragt sich, wie die Leitung der Mailänder Scala eine Partie wie die der Tosca einer Sopranistin anvertrauen konnte, die noch vor einem Monat als Nedda im „Bajazzo“ von Leoncavallo heftige Buuhs geerntet hatte. Neben der totalen Abwesenheit jeglicher eleganten Phrasierung, sind die hohen Noten von Oksana Dyka meistens nichts als Geschrei, im von Natur aus etwas leeren Mittelregister neigt sie zu künstlichen Aufblähungen sowohl der Farbe als auch des Volumens der Stimme, und die wenigen Passagen der Tosca, die im unteren Register kreisen, wird von der ukrainischen Sopranistin auf eine komplett vulgäre Weise eingesetzt. Ihre dürftige Atemtechnik hindert sie außerdem daran, Legato zu singen, und bricht und verblasst gleich beim ersten Versuch eines Piano. Oksana Dyka gehört eindeutig zur überlangen Reihe von Sängern, die an die Mailänder Scala nicht wegen ihrer stimmlichen Begabung und Leistungen berufen werden, sondern weil sie verschiedenen mächtigen Opernagenturen angehören, die durch die starren Kriterien des sogenannten „star system“ jegliche qualitative Differenz zwischen anständigem Singen und reiner Marketing-Produktion verwischen.

Und nun zum Cavaradossi von Jonas Kaufmann. Es mag sein, dass er ein gewisses darstellerisches Talent besitzt und damit weltweit die unmittelbare Sympathie eines Teils des Publikums verdient. Dass er über eine bestimmte Gesangsmethode verfügt und nicht ohne jegliche Stimmtechnik singt, ist ebenfalls hörbar. Dass aber gerade diese Methode völlig falsch ist und dem italienischen Stimmideal (das im italienischen Opernrepertoire a priori vorausgesetzt ist) auf die krasseste Weise widerspricht, bezeugen die folgenden Hauptmerkmale der Gesangsmethode des deutschen Tenors. Die gesamte Stimme ist ganz in der Kehle positioniert und wird künstlich verdunkelt, um ihr eine dramatischere Farbe zu verleihen. Auch die berühmten kaufmann‘schen „mezze voci“ sind letztendlich nichts anderes, als ein Produkt einer noch tieferen Verlegung der Stimme in die Kehle, weswegen dabei die Stimme stets an Farbe und Gewicht einbüßt und zu einem körperlosen Falsetto degradiert. Wenn im Gesang Forte verlangt wird, neigt der Tenor dazu, der Stimme ein größeres Volumen mittels einer gewaltsamen Kontraktion in der Kehle abzuzwingen, anstatt sie durch das Einsetzen der notwendigen Atemtechnik zu einer klanglichen Expansion zu führen. Dies ist besonders bemerkbar, wenn Kaufmann im höheren Register singt. Die hohen Noten entbehren jeden strahlenden Charakters (dem sogenannten „squillo“), da ihr Volumen und ihre Farbe nicht durch eine Platzierung der Stimme in der „Maske“ und den Druck des Atemapparats erlangt wird. Diese generelle gutturale Herangehensweise an die Stimmführung wird bei Jonas Kaufmann zum Ersatz der eigentlichen Technik der italienischen Schule und manifestiert sich auf besonders schrille Weise in seiner Unfähigkeit, den „passaggio“ (den Übergangsregister) zu meistern und oberhalb des „passaggio“, statt der Produktion eines gedeckten, in der Maske abgerundeten Tons, nicht einem „offenen“, d.h. vulgär kehligen Tonproduktion zu verfallen.

Nach den beiden Arien – kein Zeichen von Beifall, den bei der Premiere sogar der Ersatz-Cavaradossi Aleksandrs Antonenko geerntet hatte. Am Ende der Vorstellung – ein mit Buuhs vermischter beträchtlicher Beifall. Man fragt sich, nachdem man ein Phänomen wie Jonas Kaufmann im Theater erlebt hat, was die Lebensdauer einer Karriere sein kann, die auf einer äußerst fragwürdigen Stimmtechnik aufgebaut ist und durch eine künstliche Verdunkelung der Stimme sich in einem immer schwereren Repertoire zu behaupten sucht. Das Problem ist letztendlich, wie bei den meisten der heutigen Star-Sänger, dasselbe: Wie weit kann diese Stimme als physiologische und stimmtechnische Einheit den Ansprüchen der in der Opernindustrie ständig mächtiger werdenden Marketing-Interessen gerecht werden, die doch alles andere als die naturgegebenen Qualitäten der jeweiligen Stimme als auch ihre technische Vorbereitung in Rücksicht nehmen? Im Falle von Jonas Kaufmann stellt man sich diese Frage nicht ohne großes Bedauern, da es sich um einen Sänger handelt, der a priori doch eine gewisse Musikalität und schätzenswerte interpretatorische Absichten besitzt.

Giuditta Pasta



Martes 22 de Febrero 2011: Tosca en el Teatro Alla Scala. Cantan Jonas Kaufmann y Oksana Dyka, en los papeles principales. No niego que fue una noche de gran intensidad y tension no solo por lo que pasò adentro del teatro entre algunos “loggionisti” despues de diversos abucheos al terminar el “Vissi d’arte”, si no tambien, y sobre todo, por lo que ocurriò afuera.
Empezamos hablando de los dos protagonistas de esta Tosca milanesa.
Oksana Dyka, como Tosca, no diò mejor pureba que la de Pagliacci pocas semanas antes en la misma sala lirica: ya se habia dicho que el canto no es el arte de la Cabala, hablando de su Nedda, que con esa calidad vocal no lograria hacer mas de dos o tres noches como Tosca. Puntual, a la tercera representacion, escuchamos una voz excesivamente dura, rugosa, sin “legato” y muy muy gritona en la escena de la tortura, sin elegancia en el “Vissi d’arte”, descompuesta en los diversos registros. Merece una nota el cuento de la muerte de Scarpia en donde dicha cantante tuvo que arrastrarse hasta el final sin tecnica vocal y medios expresivos.
El verdadero cuerno de la discordia fue Jonas Kaufmann.
Invito a escuchar como su voz sonaba en el tubo al principio de su carrera Kaufmann y cómo suena ahora. No es la maduración normal de una voz, que desde el principio tenia serias limitaciones técnicas, si no el cantar en la zona baja con sonidos con una técnica precisa parecida a la de Vickers y Domingo, sin el apoyo de la respiración, con emisión de “falsettini” en la zona central, gritando en la zon alta, con una monotonía absoluta de énfasis, ya que el método no permite dar ni modulacion ni colores en su voz, que resulta siempre en la garganta, y no en la posicion corecta. Estas fueron las caracteristicas que nos demonstrò Herr Kaufmann en “Recondita armonia”, en la escena con Angelotti, y bueno, en todo el III acto.
Muy mal el director, que pasò de ser, la primera noche, una revelacion en su ambito, a ser considerado un joven sin experiencia si capacidad de relacionarse con las orquestas e incapaz de dar el color adecuado en cada momento de la partitura.

Pasamos al lo que sucediò fuera del teatro: todo empezò con una agresion, gritos ofensivos y amenazas contra un joven que habia abucheado pocos minutos antes. Cuando estos 20/30 “loggionisti” lograron que el joven se fuera, concentraron su coraje, su rabia y su enojo contra los que seguian alli llenandolos de “buu” y mas amenazas. Treinta contra cuatro. Fue una clara y evidente demonstracion de la poca educacion del publico milanes, de su poca capacidad de respetar las reglas universales de la convivencia y del respeto.
Cuando nuestros atacantes lograran ponerse en posición vertical, como los primates, para unir con el meñique el pulgar? La palabra, de hecho, ya la han perdido.
Los que nos atacaron, ha demostrado que sólo quieren arrogarse el derecho de decir lo que es bueno y lo malo, han demostrado que sólo quieren imponer sus puntos de vista sobre lo que la opinión de la galería. Esto también puede ser agradable a los cantantes y sus agentes, que con esta ayuda, puede continuar para colocar sus productos, pero no aparece oficialmente compartida por el teatro.

Hipolito Lazaro




Puccini - Tosca

Atto II


Vissi d'arte - Lotte Lehmann (1929)

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giovedì 24 febbraio 2011

Tosca in Scala: terza stazione.

EXORDIUM

Aggressore: Voi ascoltate solo dischi, dovete smettere ed ascoltare in teatro.

Donzelli: Ad arrivare alle estreme conseguenze del vostro pensare chiudiamo Brera e diamo fuoco al museo di fresco aperto del Novecento, che raccolgono opere cui si può compare un disco di Fleta o della Callas. Non solo, ma chiedete al commendatore Bergonzi a che può servire un disco di Aureliano Pertile e chiedeteVi a che può servire un disco di Jonas Kaufmann.

Aggressore: Andate ad insultare i cantanti in Via Filodrammatici!

Donzelli: Spiacente, la prestazione professionale e le approvazioni e riprovazioni connesse si svolgono sul palcoscenico non nelle vie adiacenti il teatro. Nelle via adiacenti, forse fate dell’autobiografia, circolano persone, che abusano di interessata piaggeria e adulazione. Noi non siamo quelli.

Aggressore: Chi vi paga?

Donzelli: Anche qui siete straordinariamente autobiografici nell’insulto. Ci paga la cultura, la curiosità ed il desiderio di imparare ed apprendere. Si impara assai più da un disco di Ernestine Schumann-Heink, che canta una canzoncina folk americana, che dalle orde che qui vogliono imporre la loro opinione, autoproclamatisi difensori di un teatro che ha, o avrebbe, altri argomenti per difendersi, se volesse.

Aggressore: Le do un cartone che l’addormento!"

Donzelli: Faccia pure così anziché un sordo per strada ne avremo uno al due (NdD: per chi non lo sapesse il "due" è San Vittore, il carcere mandamentale di Milano, situato in piazza Filangieri 2).


NARRATIO

E’ quanto sopra riportato lo stralcio, una porzione dei concitati dialoghi di martedì ore 23.30 circa in largo Ghiringhelli, innanzi quella che, ai tempi delle mie prime serate, era la biglietteria del teatro. Aggiungete grida, insulti e minacce di percosse e l’indecoroso spettacolo di persone anziane, docenti universitari, credo, difensori strenui di supposte esautorate bacchette, signore, che da ieri prontamente avranno già adito salotti e amiche a la page per dolersi di quattro ignoranti scalmanati, che sono state costrette anziché a parlare a fischiare e buare per insegnare ai detrattori della Scala educazione e cultura.
Quale eduzione ci chiediamo perchè fischiare e buare le persone, che non sono artisti, è spettacolo inammissibile, incivile ed indecoroso fuori di un teatro, dove è, piaccia o no, prassi accettata. Siffatto comportamento denota un pericoloso percorso inverso all’evoluzionismo. Sino a quando i nostri aggressori saranno in posizione eretta e riusciranno, come i primati, a congiungere pollice con mignolo? La parola di fatto l’hanno già persa.
Quale cultura se abiurano, per dire a sé stessi di avere sentito spettacoli encomiabili, il recente passato e cadono in palesi contraddizioni come quelle di uno dei miei aggressori, che mi invitava –novello fra’ Girolamo- ad un rogo delle vanità.
Quale cultura ed insegnamento, che sarebbe di pertinenza dei majores, compiacersi di avere tenuto i comportamenti sopra descritti, vantarsene nel mondo virtuale e sulla carta stampata. Personalmente se lo ritengo prassi all’interno del teatro lo reputo vergognoso ed incivile fuori.
Tutto ciò mi addolora e quel che è peggio diseduca ed allontana i giovani dal teatro e della cultura.
Era, lo ricordo, se il titolo non fosse stato sufficiente la fine della quarta recita di Tosca, seconda del tenore Jonas Kaufmann. Brevemente lo svolgimento della serata: sotto il più assoluto silenzio le celeberrime romanze di Cavaradossi ed il duetto d’amore nella chiesa – quella di Centocelle, che sarebbe, nel libretto, Sant’Andrea della Valle, alla fine del “Vissi d’arte” vi erano state contestazioni sostanziose per la protagonista, qualcuno, apostrofati i contestatori con “imbecilli”, è stato prontamente rimbeccato con un “cretino”. Alla fine della serata graziato Lucic, Scarpia da teatro di Satu Mare (Bulgaria), riprovato, assai meno di domenica Herr Kaufmann, buata pesantemente Oksana Dyka.
Non debbo nella narratio aggiungere quel che è successo fuori del teatro perché i protagonisti ne hanno menato vanto ovunque potessero e del fatto se ne occupata, con opinioni piuttosto differente dal manipolo di Vestali e Flamini della sera precedente persino la trasmissione radiofonica più ascoltata in Italia.
Del vanto del comportamento aggressivo, che è confessione dei fatti, altrove impone la nostra dignità ed onestà dovrà occuparsi chi a ciò deputato. Me ne dolgo, ma non si può agire differentemente.
Non si può – ripeto- agire differentemente perché gli incriminati buatori hanno, more solito dimostrato comportamento civile e consono al luogo.
Chi ci ha aggrediti ha dimostrato solo di volersi arrogare il diritto, che non può e deve avere, di dire ciò che è bene e ciò che è male, ha dimostrato solo di voler imporre la propria opinione quale opinione del loggione. Questo può anche essere gradito a cantanti e loro agenti, che con questo aiuto, possono continuare a piazzare i loro prodotti, ma non sembra ufficialmente condiviso dal teatro. Mi domando il senso di questo comportamento autarchico. Credo sia il retaggio del passato recente e non (insomma degli ultimi quarant’anni) e della presunzione tutta scaligera di quelli ( ed erano in scena l’altra sera fuori dal teatro) che rispondevano al ventenne reduce, magari dal Tancredi veneziano “ se la Horne e la Cuberli non cantano in Scala non sono da Scala”. Il tutto nell’intervallo di Anacreonte con Elisabeth Connell !!!

DEMONSTRATIO

L’oggetto principale non può che essere il nuovo arrivo, l’arrivo del divo.
Però si deve, anche, ricordare come guardando lo spettacolo abbiamo apprezzato splendidi gesti registici di sublime cretineria come il sacrestano, che entra con un secchio di acqua e ne versa parte nella pila dell’acqua Santa e parte nel pilozzo di Cavaradossi. Si voleva essere blasfemi e si è finiti con l’essere cretini. Ancora Scarpia che “si rigira il pacco” e principia a slacciare la braghetta dicendo “Tosca finalmente mia”. Si voleva essere a luci rosse e si è fatta la figura del “vorrei, ma non posso” perché un gesto simile imporrebbe l’esibizione di un qualche cosa alla Rocco Siffredi, che estasi il pubblico a ciò interessato, esattamente come la Tosca che si “tira su” le calze rosse sul canapè prima di simulare l’adesione alla proposta di Scarpia è solo ridicola, specie se la caviglia è un po’ forte.
Qualcuno ha detto che Lucic faceva rimpiangere il più becero Silvano Carroli e il vecchio Ruggero Raimondi. Condivido e li faceva rimpiangere perché quelli, almeno, quanto a volume non tenevano confronti. Qui né volume né intenzioni interpretative e tono laido, che sono di Scarpia la sigla.
Peggio che mai la protagonista. Siccome più volte abbiamo scritto che il canto non è l’arte della cabala, recensendo la prima avevamo per inciso detto che con quella tecnica approssimativa il numero di recite previste sarebbe stato oneroso se non impossibile. Puntuale alla terza recita abbiamo sentito una “casetta” che ricordava per durezza ed asperità di suoni una cassetta di ferri, nessun legato uno strillo scomposto per il la delle “voci delle cose”. Quanto ad acuti scomposti la signori in tale modo li ha emessi tutti al di sopra del si bem. Urla nella scena della tortura, nessuna smorzatura nel Vissi d’arte, un do della lama che era li pronto per qualche commento del pubblico (pietoso verso la cantante). Non solo, ma tutte le pacchianate veriste che tutte le Tosche demodé hanno praticato come “assassino”, “sogghigno di demone”, “muri dannato, muori” erano presenti e puntuali all’appello a confermare che la cantante non ce la faceva più.
Mi meraviglio che non sia comparso “l’orribil mercato” ispirato a quello della divina Emma Carelli, non dispero, ma per certi colpi di teatro ci vuole, comunque, una autentica prima donna.
Il terzo atto dal racconto dell’uccisione di Scarpia alla trionfalata ( per dirla con Puccini) è stato un trascinarsi senza mezzi vocali e risorse espressive.
Quanto al direttore, che da rivelazione assoluta, la cautela ha imposto si dica potrebbe essere una rivelazione se, ma , forse continua a colpirmi l’incapacità nei momenti descrittivi e se non si descrive in Puccini soprattutto in quello di Tosca, che ha un quarto protagoniste nell’Urbe a tutte le ore ed in diversi luoghi si scentra l’obiettivo.
Ascoltare la compilazione del salvacondotto, che è descrizione della preparazione di un gesto disperato come l’omicidio, l’alba su Roma e l’introduzione di Cavaradossi al terzo atto per non sentire nulla se non il cattivo suono dei violoncelli, ascoltare tutta la scena della tortura per sentire solo fragore e non tensione, isteria in buca, persecuzione psicologica nell’orchestra, che dovrebbe sottolineare (visto che il baritono non canta) i “dite dov’è Angelotti”. Anche qui, e tenuto conto che per certi versi Tosca non propone i problemi di tenuta palco - buca di una Fanciulla, di una Turandot o anche del finale secondo di Boheme ( Gustavo Dudamel docet) la direzione è ben lontana da quella del direttore di talento o almeno talentuoso.
Infine il vero corno della discordia è Herr Jonas Kaufmann. Richiamo che alla domenicale assenti i crudi grisini ed i loro adepti è stato riprovato dal pubblico, sicchè il concorso dei laudatores la successiva rappresentazione è stato copioso ed agguerrito.
Tanto nome, tanta fama discografica meritano un esame attento.
Invito a sentire sul tubo come suonasse la voce di Kaufmann agli inizi di carriera e come suoni ora. Non è la normale maturazione di una voce, che sin dall’inizio aveva limiti tecnici, ma il cantare per ben precisa tecnica con suoni bassi, in zona parotidea, imitando ora Vickers ora Domingo, senza sostegno della respirazione, emettendo smunti falsettini limitatamente alla zona centrale della voce, che magari in disco sembrano anche decenti, gridando senza neppure troppo volume in zona alta, con assoluta monotonia di accento perché quel metodo di canto non consente nè modulazioni, né colori nella voce.
Esempi:
Recondita Armonia: Tralascio che sia l’attacco in pp della romanza, mi soffermo, invece, su quel che succede alla frase “ e te beltade ignota” che prevede un sol acuto risolto con un attacco duro e fisso del suono. E’ una romanza d’amore per la cronaca E che il signore in questione chiuda con fa falsettante tenuto a dismisura per propiziare il non pervenuto applauso nonfa certo onore ad un cantante, che vorrebbe avere fra le proprie prerogative la musicalità
Attacco di “qual guardo al mondo” Kaufmann utilizza per le prime frasi ( nota più acuta un fa) ii falsetti indietro, che simulano amore e sesso, poi arriva la salita al la nat di “occhio all’amor soave” e la voce diventa dura fissa e il canti sul forte. Amore, sesso e passione pochini. Sentire, prima che venga bruciato il disco come si comportano Beniamino Gigli, voce d’oro, o Carlo Bergonzi voce di ben altro metallo o più di tutti Richard Tucker, anche lui squillante, ma non sfumatissimo ( errata communis opinio).
Scena con Angelotti e frase “la vita mi costasse” con forcella e salita al si bem. Rimane solo un si bem ghermito di strozza.
Ne volete ancora per completezza di demonstratio?
Andate a sentire al terzo atto l’attacco di “e lucevan le stelle” piuttosto che di “o dolci mani”. La scrittura è sempre la stessa ossia il brano comincia in zona centrale e poi progressivamente sale, chiedendo al cantante un si bem decente e squillante, facilità sul passaggio. L’esecuzione è sempre la stessa falsetto opaco ed afono nelle prime battute suoni incontrollabili nella zona acuta seguente, accento e colore della voce da sfida Lohengrin- Telramund.
Esausto il cantante al si bem di trionfal

PERORATIO

Tutti si aspetterebbero che invocassi da buon nostalgico i soliti Gigli, Caniglia, magari l’Olivero e la Raina, poi Molinari-Pradelli o Votto.
Ed invece no. Invoco il decoro, la buona educazione ed il rispetto delle norme consuetudinarie, che ammettono riprovazioni in teatro ed all’indirizzo dei cantanti, tanto da non dover sentire né gli orgogliosi deliri e vanterie di chi avrebbe principiato la fischiata ai fischiatori, né le miserande accuse che ho riportato nell’exordium.
E poi loggionisti magari violenti, magari dalla lingua tagliente e pronta al lazzo, ma dall’orecchio fine, onesto sopratutto ed allenato come la Rina, pesera di via Falcone o il nostro Tino.


Gli ascolti

Puccini - Tosca

Atto II


Ed or fra noi parliam da buoni amici - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda(1929)

Orsù, Tosca, parlate - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929)

Atto III

E lucevan le stelle - Miguel Fleta (1924)




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sabato 19 febbraio 2011

Tosca alla Scala: seconda stazione

Giovedì sera seconda recita di Tosca in Scala. Una via dolorosa non per gli interpreti ma per il pubblico, di cui facciamo parte, regolarmente e paganti.



Per la seconda la prevista protagonista era risanata, malattia fulminante, istantaneo risanamento.
Oksana Dyka è stata un mese or sono una insufficiente Nedda dei Pagliacci, riprovata dal pubblico. Non ci sarebbe voluto né un pozzo di scienza, né una professionalità esemplare per esercitare il diritto di protesta nei confronti dell’incauta scritturata. Invece abbiamo dovuto sopportare una Tosca assolutamente inidonea ed insufficiente. Sia la cantante che l’interprete. Vuota sotto la voce, spinta dal la acuto in su (era infatti un bercio quello che ha chiuso l’aria di Nedda alla prima) ha cantato piattamente fra il mezzoforte e il forte, urlato senza risparmio (ma ci sono svariate altre recite!) le note acute, nemmeno tentate un paio di smorzature di tradizione, come sul la bemolle acuto in chiusa al Vissi d’arte. Per la cronaca la eseguiva anche Maria Caniglia nel 1956, perdonerà il paragone la signora Donati Caniglia. L’interprete, attesa l’assenza di dinamica, inesistente, si badi non limitata e carente, inesistente. Sbagliato non fare le singole uscite, perché al diritto della cantante non protestata di esibirsi, corrisponde quello del pubblico di esprimere la propria opinione, Opinione ugualmente negativa riguardo Carlo Ventre, recuperato dopo il perdurare della malattia di Jonas Kaufmann, che dal sito della Scala sembra essere il vero protagonista del titolo pucciniano. Ma è legge consuetudinaria non disapprovare i sostituti, anche se il loro posto sarebbe la provincia, atteso che anche in quest’epoca di carestia quella lombarda ha offerto rappresentazioni encomiabili.
La malattia del prescelto pare, salvo smentite coi fatti di domani, essere grave, ricorrente e perdurante. Con autentico spregio e dileggio del pubblico accorso ad ascoltare il miracolo vivente della corda tenorile, miracolo creato dalle centrali del consenso, il teatro non dice esplicitamente se e come il divo canterà.
In compenso vediamo, nostro malgrado, una critica sempre attiva, sempre pronta a difendere chi, per superiore scelta ed ordine, DEVE essere encomiasticamente recensito, strenuamente difeso. Tanto è che dalle pagine dei quotidiani milanesi le penne deputate, parlando della bacchetta, si sono scagliate a dire dell’ignoranza crassa del pubblico, delle preordinate contestazioni, del mirabile curriculum di chi abbia diretto il melodramma in quel di Padova e Tel Aviv.
Allora un po’ di chiarezza, un po’ di coerenza. Quando si parli di fischi e contestazioni ordite e preordinate lo si deve fare ben certi di quel che si fa dicendo, in difetto “interessar se ne potria un tantin l’autorità”. E, poi, si perde la faccia, a dirlo allorché la propria esclusiva fonte sia un becero bercio di platea prontamente ridicolizzato e zittito dal loggione. All’unanimità. Quando si santifica un direttore per acclamazione popolare si deve, almeno, spiegare al popolo bue (altrimenti perché viene lautamente pagato il critico?) l’ubi consistam delle virtù eroiche e della santità. Perché per due sere di virtù e miracoli non ne abbiamo uditi e visti punto. Alle spicce perché altrove si è divertito a vagliare battuta per battuta l’intera partitura: orchestra pesante sempre, ottoni spernacchiati (dalle prime tre battute dell’opera in poi), archi, violoncelli in particolare al terzo atto, dalle sonorità acide e baroccare, campane all’alba su Roma da “Avemo er Papa novo” e passando dalla grammatica alla sintassi (ma quella del caso!) evidente mancanza di un disegno interpretativo. Tosca può essere esasperatamente lenta e languida ad evocare la sensualità della donna che tutto muove e tutti eccita, oppure violenta, drammatica, parossistica nelle sonorità e dichiaratamente novecentesca nelle scene di scontro e tortura, non solo fisiche ma soprattutto psicologiche (Te Deum compreso, a sposare conati laicistici), che sostengono la vicenda. Nulla di tutto questo se non tempi ora inutilmente lenti, diffuso fragore, nessuna finezza orchestrale e sottolineatura degli episodi topici e neppure la sicurezza dei direttori di tradizione alla Molinari-Pradelli. Tralascio poi, strombazzate e sonorità pesante e pestate alla chiusa di ciascun atto nell’inutile tentativo di recuperare drammaticità e vigore. Questo tanto per esser chiari, è il marchio di fabbrica, identico a quello propostoci alla chiusa del secondo e terz’atto di Aida dal maestro del “maestro rivelazione”. Noi poveri ignoranti non siamo stati illuminati, rischiarati nella nostra ottusità, anzi per difendere il palcoscenico siamo stati insultati, senza motivo e senza risparmio, dimostrando un’altra volta come la critica intenda molta diversamente dal passato e dal codice deontologico, il proprio compito.
Alle spiegazioni, partitura alla mano, siamo ben disposti. Anzi, noi le pretendiamo.
Quando poi, e qui la pianto, si riprova l’idea di controlli e censure, inneggiando allo spirito liberale della dirigenza, coerenza vorrebbe, in uno con informazione e professionalità, rammentare che si può essere gendarmi in altri modi come il ripulire il facebook della Scala da ogni commento negativo secondo il provinciale perbenismo del “contenemo lo scandalo”. Buona domenica a tutti.

Consoliamoci con l'unica valida rilettura moderna di Tosca.



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mercoledì 16 febbraio 2011

Tosca alla Scala

Dialogo tra regista e cantante, tra modernismo e passatismo:



Eravamo in coda per la ripresa, ripulita, del brutto Idomeneo del regista Luc Bondy più di un anno fa quando da New York giugeva l’eco del megaflop al Met della nuova produzione di Tosca, firmata dal medesimo regista e coprodotta anche dal nostro teatro milanese.

Un‘ondata “passatista” si riversò sul teatro americano a favore della trentennale produzione zeffirelliana e per la dismissione del nuovo prodotto d’avanguardia. Pare che la direzione del Met avesse pure indetto una conferenza stampa per spiegare al pubblico la novità dell’incompreso spettacolo, ma senza ottenere effetto. Grande polverone mediatico, con tanto di dichiarazioni di fuoco di Franco Zeffirelli…..insomma, uno degli spettacoli più discutibili e perciò criticati di cui si sia mai sentito parlare.
E noi ci domandammo se era proprio il caso di continuare nell’impresa facendo arrivare fino a qui una Tosca, che si diceva all’insegna della volgarità, a tratti anche del ridicolo, contraria alla poetica dell’opera pucciniana. Decisi a non farci mancare nulla, nessuna delle chicche registiche à la page che gravano pesantemente sui bilanci dei teatri d’opera, abbiamo compiuto anche ieri sera il rito modernista, in uno spettacolo pure questo “limato “ e “accomodato”, depurato dal sommo gesto registico della fellatio ad inizio del secondo atto e da altre “novità” affini, ma comunque sempre brutto, volgare, nel migliore dei casi insignificante. Anzi, anche insensato, come il cambio d’abito che Tosca compie dopo avere ammazzato Scarpia, presentandosi all’esecuzione di Castel Sant’Angelo diversamente vestita dal secondo atto. Ieri sera la gente ha riso nel momento della morte di Scarpia, come pure al terzo atto, quando il soprano viene costretta a mimare la morte di Cavaradossi sulle parole “ E cadi bene- Come la Tosca in teatro-così—così” perché a volte il riso è consolatorio. Una parola speciale, però, và anche spesa per lo “scenografo-muratore” (perdonatemi la battuta ma…) Richard Peduzzi, che da trent’anni “mura” ripetitivamente ogni produzione con i suoi fondali in mattoni: è dal Lucio Silla del 1984 che vediamo queste quinte, sempre la medesima variazione sul tema, fattesi un po’ troppo frequenti in questi anni di Tristano ed Isotta, Carmen, ed ora Tosca. Questa l’ha pure murata male, tra l’altro, dato che il soggetto dell’opera non si presta affatto ad essere trasferita in un non-luogo dal sapore industriale. Ieri, il primo atto, più che la chiesa di Sant’Andrea della Valle pareva un brutto scorcio, troppo buio, della metafisica Chandigart di L. Kahn e il secondo atto l’ufficio di un questurino di un paese dell’agro romano degli anni ’30, arredato modestamente con gusto vintage.
Roma è dappertutto nella Tosca, è nella musica, Puccini la crea e la pretende anche in scena, dato che questa è la poetica dell’opera, che non può e non deve essere annientata, perché sennò si annienta l’autore, che fino, a prova del contrario, è il protagonista, colui che detta la cifra del testo. E Tosca, da questo punto di vista, è opera determinatissima, che lascia assai poco spazio alla novità, che non sia registica. Zeffirelli, Ronconi, De Ana, Bolognini, loro si che han messo in scena “la Tosca”. Ieri sera abbiamo sopportato una bruttura gratuita ed incongrua.
Ha sopportato il pubblico, ma hanno sopportato anche i cantanti, che oggi più che mai hanno bisogno di essere aiutati, coadiuvati, corroborati in ciò che fanno, perché non sono in grado di andare lontano con le proprie gambe.

Alla produzione sciagurata si è unita la prova mediocre del maestro Wellber, che udivamo per la prima volta. Al signor Wellber è mancato semplicemente una minimale conoscenza ed aderenza al titolo, non alla sola tradizione, fondamentale per opere come questa, il suo colore romano, l’atmosfera grandiosa e perversa del Te Deum, come quella dell’agro romano ad inizio del terzo atto (ma che fracasso quelle campane fuori scena!). E’ mancata anche certa tensione drammatica al secondo ( alludo alla scena della tortura, ove l’orchestra non era in grado di suonare il ritmo incalzante dei “ Più forte - più forte…” di Scarpia e Tosca ), ma anche al duetto del terzo, dove assieme a lui sono mancati pure i cantanti, visibilmente stanchi. Insomma, una direzione che non ha mai preso il pubblico né creato la dovuta atmosfera, che sarebbe stata tanto necessaria al cast. Già, perché nel teatro accade anche che quando il cast canta poco, il direttore si faccia “ cantante”, e la Tosca a questo si presta moltissimo. Ma ieri sera non è stato proprio così.

Quanto ai protagonisti, non si commentano le rocambolesche avventure del “virus” scaligero, perché, lo abbiamo già osservato altre volte, i virus nell’opera paiono gli esseri viventi, che brillano per tempismo e coordinamento con gli eventi e le difficoltà organizzative degli enti lirici. Fatto sta che il teatro si è aggrappato alla signora Radvanovsky, causa defezioni varie, ed ha rimediato un tenore, quello sì, imprevisto, il signor Antonenko, spiazzando tutte le chiacchiere sul tototenore, che preconizzava rimpiazzi con alcuni . Ed il pubblico ha apprezzato la loro disponibilità nel soccorrere la serata, il loro non tirarsi indietro di fronte ad una produzione, che li esponeva a dei rischi.

Parliamo di canto, quello vero.
Il cast vocale, in realtà, non è piaciuto al pubblico, che ha avuto parole positive per la sola qualità vera apprezzabile in campo: una serie di intenzioni musicali, di fraseggio, fatte udire dalla signora Radvanovsky, che, ad onta di una voce sgradevole al centro soprattutto per limiti tecnici, ha però avuto saputo porsi da cantante di rango, che deve “dire”, cioè esprimere.
Ha costruito un personaggio plausibile anche sul piano scenico, mai volgare ( qualche notaccia di petto al secondo atto, al momento dell’assassinio di Scarpia, ma come di prammatica….), con bel fraseggio nell’aria, che le è valso il solo applauso della serata. Abbiamo apprezzato la sua preparazione musicale, meno quella tecnica. La voce è importante per volume, estesa in alto, non certo bella di natura. Sopratutto e versiamo nei limiti tecnici al centro è fortemente tubata, vibrata e “di fibra”, “chevrotante” come dice il gergo francese. Al centro i suoni sono spesso presi “da sotto” e corretti nell’intonazione, con difficoltà di legato, causa un uso del fiato non di scuola. In un‘opera come Tosca, di scrittura centrale nei cantabili e che guizza all’acuto prevalentemente nei momenti drammatici, il difetto ha grande rilevanza, soprattutto in una voce di grande volume, ed il pubblico ha faticato ad accettare questa voce, giunta anche molto affaticata al terzo atto. Ed in fondo è Tosca, non Aida o Ballo.

Quanto ai due protagonisti maschili nulla di speciale. Il tenore, signor Antonenko, ha una voce spessa e non a fuoco. Ha cantato con solidità ma anche con cali di intonazione sensibili, fraseggiando pochissimo e portando a termine la sua serata con una “solidità” poco elegante ed inespressiva, ma che lo ha messo al riparo dalle reazioni suscitate dai protagonisti del dittico verista. Il secondo, signor Lucic, è stato uno Scarpia greve, anche volgare a tratti, dalla voce insufficiente in volume e dagli acuti sistematicamente indietro, tanto da essere in difficoltà nel Te Deum, ove ha faticato a farsi udire. Complice la regia, il suo Scarpia di baronale aveva assai poco, e più che elegantemente laido e perverso, è parso assai triviale e truculento. Le "limature" di regia quasi che il pubblico milanese sia moralista e facile allo scandalo hanno aggravato la situazione. Anche per lui l’efficacia di chi esegue il proprio compito al riparo dai disastri, ma anche lontano dal cantare con arte.

Leggiamo or ora le dichiarazioni di stampa e direzione del teatro, che meritano qualche chiosa anche da parte nostra.
Che la produzione sarebbe stata fischiata lo si sapeva da mesi, ha ragione il signor Lissner. Ma questo non per un progetto di deliberato danno al teatro, ma semplicemente perché si trattava notoriamente di uno spettacolo brutto, sbagliato in partenza, e contestatissimo ab origo, per giunta trasmesso nelle recite di Monaco anche dalla televisione. Sono state tolte le escursioni nel pornografico gratuito ma l’essenza è rimasta invariata. Al pubblico non spetta entrare nel merito della gestione delle cose, dei costi, dell’acquisto fatto molti mesi addietro, ma solo l’espressione del proprio apprezzamento. E così è stato:abbiamo dovuto vederla per forza? L’opinione è stata quella espressa ieri sera, controversa.
In fatto di cantanti, non la penso però come la maggior parte del pubblico di ieri sera.
La Scala ha peccato di leggerezza al momento della dipartita della signora Serafin dalla produzione, per motivi personali, avventurandosi in una promozione al primo cast di una cantante che forse andava meglio soppesata nelle sue qualità. I milanesi ben sapevano del Trovatore comasco in cui era incappata la signora Dyka non molto tempo fa e gli audio disponibili in internet proprio di Tosca suggerivano una maggiore prudenza. Il teatro, però, è corso ai ripari, anche con fortuna, recuperando una protagonista, originariamente chiamata per supplire solo alcune recite, che è comunque la massima Tosca oggi presente sul mercato. O meglio, sul mercato dei “divi”, perché, ad onta di alcuni miei vecchi compagni di loggione, la signora Radvanovsky ha fior di carriera e curriculum professionale e non è, come alcuni han creduto, “un secondo cast” recuperato alla bell’è meglio. Il virus tempista ha fatto il resto, e il teatro ci ha comunque esibito la Tosca più blasonata di oggi, ed in questo ha fatto, almeno sulla carta, il suo dovere.
Mentre forse non l’ha fatto nella scelta della bacchetta e nel perseverare con una produzione che non può piacere a nessuno.
Il teatro ha anche subito il forfait di Jonas Kaufmann, peraltro previsto in cartellone a Monaco di Baviera sino al giorno 13 febbraio in Carmen, recita cancellata all’ultimo, in coincidenza della prova generale di Tosca a Milano. Ammalatosi il secondo tenore designato, signor Berti, si ammala anche Kaufmann, e la Scala resta senza tenori. Ed il pubblico rispetta la prova del signor Antonenko giunto all’ultimo, perché così funziona il teatro da che mondo è mondo. Certo, se poi la recita del 17 viene cancellata per assenza di tenori, come ha annunciato oggi su un quotidiano il signor Soprintendente, nessuno ne ha colpa, men che meno il pubblico, che ha applaudito l’uscita del cast vocale.
Certo, continuare ad organizzare scritture di cantanti che per calendario arrivano all’ultimissimo minuto, andando in scena senza prove, è esporsi a questi rischi, perché i cantanti di oggi non sono quelli di ieri. Non è più il tempo dei Domingo, delle Caballè, dei big “last minute”, in grado di cantare sempre e comunque. I cantanti di oggi non hanno più la stessa preparazione tecnica, quella che consentiva ad alcuni di loro, i big appunto di cantare ogni sera, e talora cancellano semplicemente perché….non ce la fanno. Nessuno è esente da questi problemi, salvo le vecchie signore nominate Gruberova, Devia, o signori nominati Nucci etcc, che possono andare in scena sempre.

Cosa è opportuno dire a questo punto?
Che assieme alle scelte imprudenti o errate, la Scala paga anche lo scotto dell’adeguamento inevitabile (davvero?) ad un sistema, il cosiddetto “star system”, che è arrivato al capolinea. I cantanti sono cambiati perché è cambiato il modo di cantare: il loro bagaglio tecnico si è impoverito oltre il limite consentito per reggere ritmi e repertori che sino agli anni ’80 erano ritenuti normali. Eppure a questo dato lampante, che tutti constatano ogni sera, il sistema non sa trovare il giusto rimedio. La Scala è in crisi? Assediata dai bu e dai fischi? La qualità che il teatro sta esprimendo vi pare davvero inferiore a quella espressa da un teatro come il Met ? Il problema è che un teatro esprima la propria opinione, sempre fondata tra l’altro, o che, a furia di storture, di un sistema di falsi valori extravocali, ci si sia ridotti a non poter allestire perfino la Tosca, che da che mondo è mondo si allestiva nei massimi teatri di tutto il mondo come in quelli di provincia? Parliamo di fischi o di qualità artistica intrinseca agli spettacoli?
Il problema và ben oltre la dualità passatisti –modernisti, ma sta nel modo in cui si operano le scelte artistiche ma sta anche nel rimettere a fuoco quali debbano essere le qualità tecniche di chi và in scena ed alza la bacchetta, e dove andare a recuperare quegli strumenti di lavoro perduti.
Ieri sera il pubblico è stato molto giusto, almeno a mio avviso, perché ha detto di no là dove si poteva far meglio, ed ha lasciato andare dove il teatro non poteva, lì per lì, metter rimedio.
Avremo comunque occasione di riparlare di questi temi al più presto.
E partiremo dalla considerazione di un'altra "sopravvissuta"della vecchia generazione Miss June Anderson, che ci ha ricordato come un tempo si fosse divi dello stars system per scelta e decreto del pubblico, mentre oggi i divi dello stars system sono quelli che per tali vengono propagandati ed imposti.
E questa la regola che MAI il pubblico italiano, scaligero in particolare, potrà accettare e condividere. Alla prossima!

Puccini - Tosca

Atto III


Io de' sospiri...Mario Cavaradossi?...E lucevan le stelle...Franchigia a Floria Tosca...O dolci mani...Trionfal di nova speme - Antonietta Stella & Richard Tucker - dir. Dimitri Mitropoulos - Met 1958

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giovedì 3 febbraio 2011

Tosca alla Scala

Tosca, ruolo simbolo della cantante attrice di epoca liberty, è un personaggio a tinte forti, capace di grande lirismo come di intensa forza tragica, talora eccessivo, come spesso accade nel teatro di Belle-Epoque. Con Tosca il soprano incarna se stesso, o meglio, si trova ad cantare e a recitare alcuni degli stereotipi che compongono l’immagine comune della primadonna, la gelosia, la passionalità, la volitività e l’ingenuità, la sensualità.

Stereotipi, ripeto, piuttosto che aspetti caratteriali veri e propri, perché nello snodarsi della vicenda il personaggio pare attraversare mutevoli stati d’animo, rapide successioni di umori e pensieri, senza una plausibilità e veridicità consona al nostro modo di concepire un personaggio. L’enfasi non abbandona mai Tosca, quasi sempre al di sopra delle righe, a delineare una primadonna incapace di vivere senza recitare la realtà. La primadonna recita nell’arrivo in chiesa, con i fiori in mano, rappresentazione esaltata della devota; recita la sua fede cristiana davanti all’altare della Madonna; recita nell’invitare l’amante nella loro casetta nel bosco, dipingendo con il canto i luoghi e l’incontro amoroso; recita nel manifestare la propria gelosia, forse il tratto caratteriale più veritiero del personaggio, lanciando esagitata il ventaglio contro il ritratto dell’Attavanti; recita davanti a Scarpia nel ritorno in chiesa, per dissimulare timori e gelosia; recita nella cantata fuori scena al secondo atto; recita nell’allestimento del corpo di Scarpia prima di uscire da palazzo Farnese, il momento meno credibile e realistico del dramma; recita il racconto dello scontro e del delitto di Scarpia con sottolineato orrore; recita nel momento del suicidio, teatralissimo lancio nel vuoto da Castel Sant’Angelo. Tutto sopra le righe, fatto salvo lo scontro con Scarpia, dove però la diva non manca di minacciare che piuttosto che cedere si getterà dal finestrone.
Un soggetto per noi oggi datato, nella misura in cui certa enfasi, anzi certa retorica del teatro come della letteratura dell’epoca, sono da noi lontani, e non incontrano il nostro moderno “Kunstwollen”, per dirla con certi storici dell’arte della Vienna contemporanea al capolavoro pucciniano. Per questo chi scrive comprende benissimo la poca simpatia di una Callas o di una Kabaivanska di fronte a questo personaggio, che si presta ad esagerazioni fino al ridicolo, sebbene abbia loro portato grande fortuna e merito. E per questo motivo risulta ben comprensibile che il personaggio abbia subito una sensibile evoluzione nel gusto interpretativo, negli stilemi espressivi, soprattutto da parte delle grandi fraseggiatrici moderne, allontanandola dagli eccessi tipici del canto verista.
Puccini, un genio nel creare climi ed atmosfere, incardina il dramma entro una cornice fortemente romana, ricca di colori e suggestioni, che anche senza l’ausilio della scena rendono la città, la sua sensualità, la sua opulenza barocca, il suo sfondo agreste lontano, viva e presente, chiaramente percettibili allo spettatore, che vi si trova immerso sempre e comunque. Il paesaggio dell’azione non è mai cambiato di fatto, mentre il personaggio ha vissuto in modi diversi tali da staccare Tosca dagli eccessi del teatro di inizio novecento, per conferirle una veridicità drammatica ed una intensità emotiva più congeniale al teatro moderno.
L’interrogarsi sul senso profondo delle parole e del fraseggio di Tosca da parte delle primedonne moderne è stato il contraltare del fascino esercitato dal ruolo, un fascino legato alla grande invenzione di Puccini come al protagonismo assoluto del personaggio all’interno dell’opera, cui solo Scarpia può opporsi in alcuni momenti dell’azione. La primadonna amministra e gestisce la scena incontrastata, l’allestimento dell’opera si giustifica per la sua presenza, lo spazio per esprimersi è comunque ampio. Al di là della vocalità, del peso oggettivo che il concitato secondo atto implica, terreno d’elezione delle voci spinte, la grandezza di una Tosca si misura oggi nella capacità di fraseggiare e dar vita al personaggio con “gusto”, perché il personaggio con gran facilità può trasformarsi in “parodia” della primadonna.
Cantante – attrice, si dice di Tosca, ossia artista in grado di unire fraseggio e recitazione in un binomio che raramente si è riscontrato perfettamente bilanciato in un’artista. Un lato poteva prevalere sull’altro perché la presenza fisica, statuarietà e bellezza, non sempre implicava qualità attoriali, perlomeno come le intendiamo noi oggi; sul piano del canto, poi, vi sono state grandi Tosche “di timbro” a fronte di grandi fraseggiatrici “di cesello”. Qualità attoriali che, al pari del tipo di fraseggio, sono mutate nell’arco del secolo scorso, perché grandissima è la distanza maturata dal gusto liberty ad oggi.
La storia delle interpretazioni di Tosca alla Scala esemplifica bene i modi in cui il personaggio è stato interpretato in passato, anche se dalla lista dei nomi mancano alcune cantanti che hanno fatto la storia del ruolo, come l’Olivero, la Callas o la Price, tanto per nominare esempi preclari.
Proprio la prima interprete del ruolo, Hariclea Darclée, Tosca a Milano nel 1900, sotto la bacchetta di Toscanini subito dopo le prime rappresentazioni romane, era ritenuta nel suo tempo una grandissima cantante, di grande fascino timbrico e scenico oltre che elegante sul piano interpretativo. La Darclée, però, era una cantante dal gusto ancora molto contenuto, poco propensa agli eccessi temperamentali tipici che fecero di un'altra voce lirica, Emma Carelli, la diva verista per autonomasia. Alla Scala Tosca trovò da subito anche interpreti dalla voce spinta, avvezze al repertorio pesante: Eugenia Burzio fu Tosca sempre con la direzione di Toscanini, nella prima ripresa del 1907.
L’opera attese poi circa un ventennio prima di essere riproposta, nel 1928, con la più grande cantante attrice del tempo, Claudia Muzio, modernissima e tutt’oggi attuale nei suoi modi interpretativi, in alternanza ad un soprano da lei assai diverso, Bianca Scacciati, quindi, l’anno dopo da Gilda Dalla Rizza, e di nuovo da una voce spinta, nel 1931, l’elegantissima ( ed anomala anche lei nel suo tempo ) Giuseppina Cobelli.
L’ascolto di quanto rimane di queste interpreti, a meno della Muzio, rivela in modo tangibile il cambiamento avvenuto successivamente nel gusto, e forse ad alcune protagoniste non rende nemmeno giustizia, come nel caso della Dalla Rizza, tanto amata per le sue qualità attoriali e, soprattutto, musicali da Puccini e Mascagni, ma la cui incisione dell’aria è scadente. Il gusto è per un canto con i centri aperti e bianchi, non esagerato oltre misura come la Carelli nella nota incisione con Sanmarco, ma comunque vario nell’accento, anche quando per noi datato, con momenti di canto composto alternati a passi concitati, esagerati per noi oggi, come ben documenta l’incisione integrale della Scacciati. Gli eccessi venivano variamente amministrati dalle dive veriste anche secondo lo specifico tonnellaggio vocale di ognuna, in forma di leziosaggini, nei duetti con Mario, o in forma di “vis tragica” nel secondo e nel terzo atto, tornando periodicamente all’ortodossia dell’emissione nel registro acuto o in certe frasi melodiche dell’aria o dei duetti.
Claudia Muzio appare, dunque, come una anomalia per il gusto contenuto, compostissimo, l’emissione mai volgare, ed il fraseggio straordinariamente vario e ricco di inventiva, depurato da ogni enfasi. Della “divina” ci restano due “Vissi d’arte”, il migliore quello del 1935, ed il notissimo live del primo atto di San Francisco con Borgioli e Gandolfi. Basta la battuta finale dell’uscita dalla scena con Scarpia, “egli vede ch’io piango”, con la frase troncata repentinamente per il pianto, a descrivere l’artista ed il suo peculiare senso del canto. Nessuna esteriorità o luogo comune è nella Tosca di Claudia Muzio, ma una sorpresa continua, battuta per battuta, quasi un’opera nuova, la “sua” Tosca, come accade per i grandi artisti, quelli che hanno qualcosa di vissuto nell’anima da cantare. Il suo fraseggio era molto vario, e soprattutto spontaneo, ma sempre e comunque verista, per quel fremito, quella nevrosi che segna certe frasi, come “Ah quegli occhi”…E’ probabile che quella della Muzio sia stata, almeno in ambito italiano, la prima Tosca “moderna”, cioè più donna vera e meno diva, meno “soprano”, dato che anche l’ultima diva del verismo, Magda Olivero, fraseggiò poi il ruolo parola per parola, in modo perfino ridondante, ma sempre con connotazioni enfatiche da grande diva liberty.
Anche senza analizzare casi di grandi interpreti straniere, come la Jeritza o la Lehmann, si deduce come il ruolo da subito sia stato praticato sia da soprani lirici, più o meno virtuosi nel fraseggio, che da soprani spinti quando non drammatici. Il necessario aplomb scenico corrispondeva sia a quello dell’attrice recitante come a quello della bella donna, dalla presenza fisica statuaria.
Alla Scala, dagli anni ’30 in poi, il ruolo venne affidato a voci di soprani spinti, dapprima la Pacetti, in due produzioni, nel ’34 e nel ’40, quindi due volte alla Caniglia, nel ’37 e nel ’50, in alternanza con la Milanov, quindi alla Cigna, nel ’39, poi a cantanti di secondo piano, come la Carbone, la Di Giulio e la Sacchi negli anni ’40. Di queste ci restano solo le testimonianze di Caniglia e Milanov, con incisioni in studio e live, mentre della Cigna nemmeno un frammento che io sappia. Sono tutte più composte delle voci spinte del periodo verista. Il loro grado di “matronalità” e l’enfasi del loro fraseggio è variabile, ma sono modi espressivi riconducibile in parte al retaggio verista ma in parte all’aulicità del fraseggio del soprano pesante del tempo.
Le loro voci importanti e piene, di timbro sontuoso, si accompagnavano a un fraseggio certo più sobrio ma anche meno vario di quello che caratterizzò alcune grandi Tosche del dopoguerra: la qualità del mezzo aveva grandissimo peso nella costruzione del personaggio. E’ chiaro dunque come la Tosca per autonomasia del dopoguerra scaligero, Renata Tebaldi, protagonista di quattro riprese dal 1953 al 1960, si inserisse nella scia di queste voci spinte. Il suo lirismo e la grande dolcezza del bellissimo timbro nel canto a fior di labbro, unitamente alla presenza giunonica, furono le prerogative su cui costruì il suo amatissimo personaggio. Una Tosca all’opposto di quelle molto fraseggiate di una Olivero o di una Callas, ancora screziata da una certa enfasi verista ( si pensi al modo in cui era solita pronunciare “sogghigno di demone”…), destinata comunque a sopravvivere in talune frasi anche nelle interpreti recenti, perchè componente specifica del personaggio.
Di qui la Tosca elegantissima, molto fraseggiata e plausibile di Raina Kabaivanska, figlia delle grandi dicitrici Muzio, Olivero e Callas, forte di una bellissima presenza scenica e di una acuta intelligenza interpretativa, protagonista delle produzioni del 1975 e del 1980. Autobiografica la sua Tosca, perlomeno nell'intepretazione della diva affascinante, intelligente e volitiva.
Al 1975 appartiene anche la prova di Grace Bumbry, numerose volte Tosca in carriera, dal canto non rifinitissimo ma dal personaggio forte ed aggressivo, primadonna forte e sensuale.


Gli ascolti

Giacomo Puccini

Tosca


Atto I


Mario! Mario! Mario! - Renata Tebaldi & Richard Tucker (1955)

Or tutto è chiaro...Ed io veniva a lui - Claudia Muzio & Alfredo Gandolfi (1932)


Atto II

Ed or fra noi parliam - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929), Leonardo Warren, Renata Tebaldi & Richard Tucker (1955)

Orsù Tosca, parlate - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929)

Basta, Roberti! - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929)

Nel pozzo del giardino! - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929)

Se la giurata fede debbo tradir - Enrico Molinari & Bianca Scacciati (1929)

Vissi d'arte - Maria Caniglia (1941), Zinka Milanov (1956)


Atto III

Ah! Franchigia a Floria Tosca!...Com'è lunga l'attesa - Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929), Grace Bumbry & Placido Domingo (1982)







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martedì 13 luglio 2010

Horror-Tosca da Monaco di Baviera

Probabilmente vi diranno che si è trattata di “Tosca” sublime, sganciata da tutte quelle convenzioni, che per oltre un secolo l’hanno scelleratamente incatramata nel torbido mare dei luoghi comuni; che assistere a questo spettacolo è stato come ascoltare quest’opera per la prima volta; che la regia ha rivelato cose che voi umani non potete neanche immaginarvi; che il cast scelto è il migliore in assoluto dell’intera discografia pucciniana; che la Mattila ha finalmente rivelato chissà quali pieghe della psiche di questa primadonna con una recitazione moderna ed esemplare; che Kaufmann con le sue “mezzevoci paradisiache”, il suo fraseggio analitico e nevrotico, il suo timbro così sfaccettato è un Cavaradossi finalmente pieno di inedite “nuances” ed ha con sol gesto mandato in cantina tutti quei menzogneri, poco stilizzati cantanti del passato, anticaglia mistificatrice di uno stile che solo oggi è stato ripristinato; che Uusitalo è probabilmente lo Scarpia più ambiguo e blasfemo che un artista abbia mai concepito; che l’allestimento di Bondy ha finalmente rivelato con la sua geniale sfrontatezza e grazie ai “non luoghi” scenografici disegnati da Peduzzi, ciò che di più recondito è nascosto nelle parole di Sardou-Illica-Giacosa e tra le note di Puccini e che nessuno, prima d’ora, ha mai osato affrontare. Il tutto infarcito con uno stile pomposo, ricco di aggettivazioni inaudite, soavissime metafore, emozionanti iperboli, metafisiche paranoie, degne di Liala, Carolina Invernizio, o, meglio ancora, un “Harmony”!
E se invece prevarrà un minimo di decenza e onestà intellettuale, abbonderanno i distinguo, i prudenti rilievi, le frasi a metà, scandite dai mantra "tanto non c'è di meglio" e "sempre meglio che la provincia italiota".
Probabilmente…
Sicuramente, la realtà dei fatti è ben altra.

Quello che ARTE ha trasmesso in diretta dall’ Opern-Festspiele di Monaco di Baviera è la constatazione che scavando oltre il fondo si trova sempre qualcos’altro da spalare che cela un limite immediatamente successivo e pronto per essere superato.
Si, perché questa “Tosca” musicalmente e vocalmente ha dimostrato come oggi nemmeno Puccini sia esente da quell’alone di “rappresentabilità”, che affligge molti compositori, se i cast proposti sono di tale livello; a meno che non si voglia mettere in scena una sua comicissima parodia, cioè quello che esattamente è accaduto a Monaco.
Quando i teatri decidono di comune accordo ed in maniera molto intelligente, di produrre insieme un nuovo allestimento, sanno riconoscere la qualità delle proposte a cui daranno vita con i loro investimenti ? Oppure con superficiale fiducia accordano i finanziamenti in base alla “griffe”?
A osservare questo allestimento nato al Metropolitan di New York, e subito contestato, penso che la fiducia in Bondy sia stata molto mal riposta per non dire insensata.
Lasciamo perdere le bruttissime non-scenografie di Richard Peduzzi, riciclatore di se stesso all’infinito che propone, ormai imbiancati di colore diverso, ma sono sempre quelli, i medesimi muri di mattoni alti e incombenti di varie fogge e di vari tagli, accessoriati con scale, scalini, rampe e torrette, che ci perseguitano dal “Lucio Silla”, passando poi per “Tristan und Isolde”, “Così fan tutte” e “Carmen” e che creano non-luoghi potenzialmente adatti a qualunque opera (dal “Pirata” a “Elektra”, da “Otello” a “Gli Ugonotti”, etc.); lasciamo perdere gli inappropriati e comici costumi di Milena Canonero che addobba Scarpia come un rettile (che ardita metafora, eh!) e la povera Tosca come una “damazza” dal gusto pacchiano (le fasce per capelli e le calze rosse velate al secondo atto abbinate all’abito: particolari di gran classe!); lasciamo perdere la regia dalla comicità involontaria di Luc Bondy che sfrutta particolari e controscene inutili facendoli passare per approfondite analisi sui personaggi, trasformandoli invece in maschere grottesche.
Qualche esempio: Tosca che lacera il quadro della “Maddalena”; Scarpia che compie gesti blasfemi sulla statua della Madonna; Spoletta innamorato di Tosca; le vogliose Scarpia-Girls al posto della cena; Tosca in varie posizioni ginecologiche; il ventaglio dell’Attavanti usato da Tosca per farsi aria dopo il ridicolo omicidio del suo aguzzino; il finale in odor di bungee jumping che dovrebbe essere invece un coup de théâtre (presente al Met, del tutto assente a Monaco, che termina con una corsa nella torretta).
Cogliamo l’occasione per ringraziare le dirigenze del Teatro alla Scala, grazie al quale potremo ammirare anche noi in Italia tale obbrobrio nella prossima stagione.
Concentriamoci sul canto, anche se non abitava più qui.
Fuori parte Karita Mattila, la protagonista, che con Puccini (vedi “Manon Lescaut”) ha fatto sempre a botte: voce ormai spaccata in due registri, quello “parlato” per il grave e quello strillato per il centro acuto. Timbro ormai inafferrabile, emissione oscillante, tremula ed in debito, oltre che di ossigeno, anche di intonazione; fraseggio dal gusto becero e prepotente mantenuto coerentemente talmente sopra le righe da stridere con le note, tanto da risultare irritante nella sua monotonia: così il personaggio che ne esce fuori è quello di una nevrastenica in costante affanno e fuori controllo, dotata di ben poco sensuali occhiatacce killer e volto tagliato da una bocca serrata e digrignante. Parlare di rispetto per le note, per il legato e per le espressioni previste sarebbe argomento da barzelletta.
Sullo stesso livello lo Scarpia interpretato da Juha Uusitalo: lo avevo lasciato come Wotan di tutto rispetto a Firenze e Valencia, lo ritrovo a Monaco con un timbro essiccato più vicino a Spoletta, un’emissione totalmente rozza per non dire disordinata aggrappata disperatamente alle corde vocali ed allo stomaco al posto di essere sostenuta dal diaframma e dal fiato; il bass-baritono letteralmente reinventa note (“Te deum” e tutto l’inizio del II atto) stonandole, perde la coesione con l’orchestra, perché troppo impegnato a sedersi su divani e poltroncine o a stendersi sulla Mattila, gli acuti si spezzano tutti, perché l’estensione non gli permette di raggiungerli ed il personaggio, di fronte a questi deficit, non è nemmeno sbozzato.
Kaufmann è più furbo, ma non viene premiato dal pubblico al termine delle arie, passate praticamente sotto silenzio.
Le “mezze voci paradisiache” che il tenore sistema a macchia di leopardo un po’ dove capita in realtà sono sbadigli; le “nuances” tanto care ai suoi fans hanno un nome proprio: falsettini. Il timbro è baritonale, più scuro in molti casi, come alcuni attacchi al III, atto di quello di Uusitalo, e non ricorda affatto né Vickers, né Thill, né van Dyck, né Wittrisch, ma più un Vinay senescente, un Giacomini in serata sfortunata, un Cura prima di perdere il registro acuto, che Kaufmann ancora possiede, sforzato, fumoso, ma lo possiede. L’emissione aperta non gli permette di ammorbidire il canto nei recitativi che così risultano ruvidi e grossolani come nei dialoghi con il Sagrestano e con Angelotti. Il fraseggio ritrae un Cavaradossi scostante, spaesato, non molto coinvolto, né tantomeno coinvolgente.
Il basso-buffo Enrico Fissore non maschera i segni del tempo data l’emissione traballante, ma cerca di evitare la macchietta nonostante la regia gli imponga tale atteggiamento. Kevin Conners, Spoletta, che poco tempo fa avevo ascoltato nel “Die Entführung aus dem Serail” fiorentino risulta molto a disagio se non addirittura usurato nei panni dello scherano di Scarpia. Ruvidi sia l’Angelotti di Christian van Horn che lo Sciarrone di Rüdiger Trebes.
La direzione di Fabio Luisi è attentissima a sottolineare tutti i temi ed i preziosismi sinfonici pucciniani, indugiando su tempi fin troppo dilatati e dilavati da quella verità teatrale che deve coinvolgere il pubblico e creare l’intesa con il palcoscenico: che in questo caso si risolve in scollamenti vistosi soprattutto nel II atto ed in perdite di intonazione nel settore degli archi e dei fiati che si perdono in fastidiosi stridori.
Una “Tosca”, nel complesso, di bassa provincia Tedesca che vorrebbero farci passare per prelibato caviale.





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lunedì 14 giugno 2010

Le cento primavere della signora Olivero. Quarta puntata: Puccini

Ancor più che con riferimento alla protagonista di Traviata parlare di Madga Olivero interprete pucciniana può risolversi in ripetizioni e tautologie. Per la cronaca poche sono le parti pucciniane che la Madga non abbia affrontato, ossia la protagonista di Turandot, quella di Rondine (compensando però con un’esecuzione magistrale del sogno di Doretta, nonostante gli anni) Anna della Villi e la Fidelia di Edgar.
Più debutti da quello in carriera con la Lauretta dello Schicchi o quello al Met nel 1975 sino all’addio al “repertorio” sempre con Tosca sono stati nel nome di Puccini.
Quanto all’indiscusso riconoscimento di grande pucciniana per l’Olivero basta leggere i nomi delle dive, capitanate da Maria Jeritza, che assistettero ai debutti del soprano a New York.

Riconoscimenti e curiosità delle colleghe sono state una peculiarità della parabola artistica di Madga Olivero, di cui l’analisi delle interpretazioni pucciniane richiederebbe pagine perché ogni nota e non solo ogni frase è, oltre che cantata, interpretata e recitata degna di memoria, fonte di ispirazione ed insegnamento. E basta a confermarlo la reazione del pubblico napoletano durante una recita di Butterfly nel 1961.Per esemplificare l’approccio dell’Olivero a Puccini basta sentire certe frasi che possono essere l’appena alitato “fra le tue braccia amore” della agonizzante Manon, piuttosto che il tragico, eppure detto piano, “tornar a divertir la gente” di Butterfly piuttosto che il sussiegoso “ho sempre pensato bene di voi” dell’elettrico incontro-scontro al tavolo verde con lo sceriffo Jack Rance per tacere delle soluzioni interpretative dei momenti solistici ed anche a certi eccessi, che talvolta hanno fornito i soli appigli ai detrattori della cantante, che dell’artista e della poetica di Puccini e contemporanei non hanno capito molto.
Nonostante tutti questi ben noti elementi altri meritano rilievo per l’omaggio alla grande pucciniana.
Ad esempio il rapporto Olivero – Mimì. Mimì è sempre stata croce e delizia per le cosiddette cantanti attrici, cui i panni della fioraia vanno, in assenza di canapè e tendaggi, piuttosto stretti, talché la dicitrice in Mimì pecca di eccessiva ricerca coloristica e finisce con il diventare leziosa ed affettata.
Madga Olivero cantò spessissimo Mimì nella prima parte della carriera, fu l’opera del rientro ufficiale al Grande di Brescia il 20 gennaio 1951 e rimase ancora per un paio di anni in repertorio, poi, spesso nei successivi l’artista piemontese propose passi di Bohème nei propri concerti.
La parte da lirico puro si confaceva più delle altre alle caratteristiche vocali della cantante.
Nei brani solistici l’Olivero è varia e sfumata, more solito, i piani ed i pianissimi nonché le messe di voce sono propositi ed amministrati per indurre a credere l’ascoltatore che la voce abbia negli slanci tipo “ma quando vien lo sgelo” un’ampiezza ed un tonnellaggio di cui, invece, era priva o, almeno, assai meno dotata di altre colleghe coeve come la Favero e la Tassinari. Per altro l’Olivero nell’esecuzione del racconto del primo atto è straordinariamente fedele alle indicazioni di Puccini, che non sono di dinamica, ma di espressione. Realizza infatti il con semplicità dell’incipit, il “dolcemente” di “mi piaccion quelle cose” e rende il senso delle indicazioni di “con molta anima” e con “grande espansione” dello sgelo.
E questo accade appunto alla presentazione di Mimì piuttosto che al terzo atto nel passo topico “ se vuoi” che lancia la voce al si nat su di un orchestrale tutt’altro che leggero.
L’ascolto della Mimì dell’Olivero, poi, ci ricorda che certi effetti come il “profumo dei fiori” che porta la voce ad uno scomodo si bem, con obbligo di legare la frase e prescrizione dell’autore di allargare sono da lungo tempo praticati e non li ha inventati una, per altri motivi, grande Mimì come la Caballé.
Altri, però, sono i personaggi che hanno fatto dell’Olivero una paradigmatica declinazione del soprano pucciniano, ossia Cio Cio San, Tosca, Manon, Minnie e le due protagoniste dei noir del Trittico. Preciso non l’unica declinazione perché il contraltare dell’Olivero ossia la soluzione differente, ma altrettanto valida è quella rappresentata da Renata Tebaldi e Leontyne Price, che, però, non hanno la stessa estesa gamma di personaggi in repertorio.
Per chiarezza tutti questi personaggi sono stati scritti e soprattutto praticati da cantanti di tonnellaggio vocale ben maggior di quello dell’Olivero, perché persino i cimeli di Rosina Storchio fanno pensare ad un centro più sonoro ed ampio.
In tutti questi casi Madga Olivero esemplifica ed insegna come il fraseggio sfumato consenta il raggiungimento degli effetti previsti da Puccini, spesso la loro amplificazione senza compromettere mai la qualità vocale e, si passi la battuta la eternità della carriera.
E’ noto come in Butterfly il canto di conversazione insista nella zona di passaggio e come un volta massacrata la voce in quella zona delicata è, poi, richiesta di slancio in zona acuta. Esemplare il secondo atto a partire dalla scrittura della più famosa aria dell’opera per arrivare allo slancio sui si bem si nat di “morta morta” del racconto “Che tua madre” o peggio ancora al si bem si slancio, tenuto sull’orchestra del “Ei torna e m'ama” alla chiusa del febbrile racconto “il cannone del porto” per poi imporre leggiadria e leggerezza vocale al successivo duetto dei fiori.
Con queste difficoltà e con l’unica attenuate che il canto di conversazione pucciniano esenta dalle grandi arcate di fiato del canto verdiano Madga-Butterfly è sussiegosa all’incipit del duetto con Sharpless, diventa risentita ed indispettita al “sua grazia se ne va”, nello strazio dell’abbandono è delicatissima ai “riccioli di oro schietto”, poi è tragica e cupa nel racconto “Che tua madre”. Inutile ed accademico sarebbe contare quante volte sulla medesima parola la cantante, per giunta in una serata dal vivo, modifichi colore della voce, dinamica ed intensità.
Cambiare, ripensare le proprie interpretazioni è una caratteristica dell’Olivero pucciniana e più in generale della grande artista. Accade con il “vissi d’arte” di Tosca nel raffronto fra il debutto del 1957 ed il debutto nuovayorkese del 1975. Nel confronto la Tosca americana è più consumata, distrutta e diafana, saldissimi gli acuti, smorzati esemplarmente, indiscutibile la capacità di far dimenticare che quella proprio non sia la voce di Tosca.
Osservazione, che potrebbe essere confutata dal fatto che la prima interprete, Hericlea Darclèè, ed alcune nel primo ventennio di circolazione del titolo fossero soprani lirici come l’Olivero.
L’Olivero insegna che si possa essere una Tosca di levatura storica senza la voce ed il tonnellaggio delle Tosche tradizionali e allora il “non la sospiri la nostra casetta” è giocato sulle mezze tinte e sull’ammiccamento di quello che sarà per Cavaradossi il piacevole dopo teatro, ovvero la seduzione è tale anche senza timbro seducente e sensuale alla Tebaldi o alla Price; all’opposto nella tensione emotiva del secondo atto la Tosca dell’Olivero è isterica, nervosa ed esplode nei saldissimi e penetrati acuti, che svettano sull’orchestra e il corollario dell’isteria è il parossistico “sogghigni di demone” che è uno del cavalli di battaglia dei detrattori della cantante. Peccato che quell’eccesso sia coerente al personaggio ed al gusto del personaggio.
Taluni eccessi vuoi, appunto, il “sogghigno di demone”o la ricercata esecuzione della romanza sono al peculiarità ed il distinguo della diva verista, stesa sul canapè attaccata ai tendaggi, come il trillo fuori ordinanza o la spettacolare cadenza lo costituiscono per le primedonne rossiniane. Non per nulla al Met l’Olivero vi arrivò per le vibranti richieste di Marilyn Horne, a sua volta ipostasi di altro genere di prima donna. E’ evidente che la primadonna riconosce la prima donna. E se non pratica il proprio repertorio l’apprezza.
All’immagine della divina stesa o gettata sul canapè avvinghiata alla tenda ossia alle ginocchia dell’amato Madga Olivero ha sempre fermamente creduto, aderito e risposto, senza tirarsi indietro, senza compromessi, sconti e patteggiamenti, anche a costo di guadagnarsi la taccia di cantante esagerata ed esagitata.
Prendiamo Manon, ruolo nel quale la cantante piemontese ha dato luogo a manifestazioni di autentico delirio, quand’anche aveva il triplo degli anni della protagonista. La descrizione dell’entusiasmo da stadio e della coerenza delle scelte di Madga-Manon è descritta perfettamente da Rodolfo Celletti.
Sovrana di coerenza e sempre chiara nelle proprie scelte artistiche è la Manon, sia quella Manon areniana o che la sud americana dove l’Olivero è in gara, artistica con Tucker, donna vissuta e appassionata amante. Sin dal primo atto la ritrosia, il candore di queste Manon sono falsi e di maniera, i suoni dolci e chiari e certe contenute leziosità sono una sigla interpretativa, prima che un riposo per la voce, perché Manon è già in potenza la “deserta donna” del quarto atto. All’ascoltatore attento non sfugge che il colore della voce cambia dal primo incontro con Renato alla chiusa del primo atto, dove Manon ha scelto strada ben diversa dal convento.
Non solo l’Olivero alla medesima intensità di suono cambia colore della voce. I pianissimi del quarto atto non sono, pur con la medesima intensità i pianissimi del primo o peggio ancora della scena da cocotte di lusso dell’inizio del secondo. Al quarto atto, infatti, dove il forte è, salvo un paio di acuti, bandito è il mutato colore della voce che da senso ad ogni frase. Sentire i luoghi tipici come “qui fra le tue braccia amore” oppure “era amorosa la tua Manon” alitati con la voce del morente, ma al contempo con un controllo del fiato in assenza del quale avremmo solo una maldestra e poco musicale sceneggiata, mentre siamo davanti alla sublimazione del canto e dell’amore, ovvero all’ARTE.


Gli ascolti

Magda Olivero / 4


Puccini

Manon Lescaut

Atto II

Tu, tu, amore (con Richard Tucker - 1972)

Sola, perduta, abbandonata...Fra le tue braccia, amore (con Plácido Domingo - 1970)

La Bohème

Atto I

Sì. Mi chiamano Mimì (1938)

Atto III

Sa dirmi, scusi (con Cor Niessen - 1967)

Donde lieta uscì (1967)

Dunque è proprio finita? (con Luigi Lega, Cor Niessen & Karin Ostar - 1967)

Tosca

Atto I

Mario! Mario! Mario! (con Luciano Pavarotti - 1979)

Atto II

Ed or fra noi parliam da buoni amici (con Cornell MacNeil & Luciano Pavarotti - 1979)

Vissi d'arte (1975)



Madama Butterfly

Atto II

Ora a noi (con Mario Sereni - 1961)

Il cannone del porto! (1961)

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lunedì 13 aprile 2009

Tosca al Regio di Parma

Impossibilitati per ragioni di lavoro a partecipare alla prima di Tosca al Regio di Parma, e incuriositi dalle reazioni contrastanti suscitate dallo spettacolo, accolto da ovazioni e reiterate e prontamente esaudite richieste di bis in teatro, aspramente stigmatizzato e in taluni casi perfino sbeffeggiato in Internet, ci siamo recati nella città di Maria Luigia per verificare con i nostri occhi e soprattutto con le nostre orecchie. Da un comodo posto di parapetto in galleria centrale abbiamo assistito alla replica pomeridiana di sabato 11, quarta rappresentazione del ciclo.

Un plauso va, prima di ogni altra considerazione, al direttore, Massimo Zanetti, che senza avere a disposizione un’orchestra impeccabile ha condotto in porto una Tosca di buon livello, tesa ma quasi mai fracassona, e a dispetto di qualche attacco sporco ha saputo rendere dignitosamente i toni e le atmosfere sempre cangianti di questa musica, accompagnando inoltre al meglio i solisti. Una sana routine, insomma, cui non è sembrata estranea neppure la regia di Alberto Fassini, proveniente da Bologna e rivista per l’occasione da Joseph Franconi Lee, regia caratterizzata da una semplicità quanto mai apprezzabile, in tempo di tagli al Fus. La scena, sostanzialmente unica, è costituita da una grande scalinata, dominata man mano da elementi diversi, connotanti i differenti luoghi dell’azione: il quadro della Maddalena al primo atto, una grande tela raffigurante la crocifissione di San Pietro apostolo al secondo, la sagoma dell’Angelo al terzo. Belli i costumi, persino eccessiva la sobrietà degli arredi scenici, massime al secondo atto, in cui il povero Cavaradossi di fresco torturato non ha a disposizione neppure un canapè e deve distendersi a terra.

Tosca era Micaela Carosi. Fin dalla sortita la voce, di buon volume (visti anche i magri tempi che corrono) ma senza particolari attrattive timbriche, è risultata priva dello spessore drammatico richiesto, segnatamente nei gravi, spesso letteralmente inghiottiti dall’orchestra. Le cose vanno meglio nel registro medio, sebbene la scelta di aprire sistematicamente i centri per guadagnare un poco in sonorità conduca a sbracamenti in perfetto stile verista, o meglio, paraverista, e comprometta in più punti anche la tenuta dell’intonazione (e per dimostrarlo basta sentire la frasetta “Ma falle gli occhi neri”, con l’attacco sul fa/fa diesis centrale calante due volte su due). Gli acuti sono semplicemente delle urla, a volte intonate (il do della lama), spesso e volentieri calanti, in tutti i casi suoni assai inappropriati, anche a voler considerare Tosca niente più che una donnina allegra che meriti tutto sommato extra artistici hanno portato a cantare per re e cardinali. L’incipit del “Vissi d’arte” riassume bene le difficoltà incontrate dalla cantante: l’attacco sul mi bemolle centrale è calante, il legato inesistente, il tentativo di accentare il secondo mi bemolle lo trasforma in un suono forzato e porta la voce a spegnersi nelle note successive, e l’effetto si ripresenta poche battute dopo, al la bemolle di “quante miserie”. La signora Carosi tenta a più riprese di fraseggiare, sia pure in modo decisamente scolastico, e persino di rispettare i segni di espressione scritti (specie nel “Vissi d’arte” e nel duetto finale, molto meno nel dolente assolo “Ed io venivo a lui tutta dogliosa”, piatto e quasi buttato via), ma la voce è sgangherata – e ciò, va ribadito, non per deficienze naturali ma per carenze tecniche – e i fiati di così scarsa consistenza che i piani risultano falsettini, e il canto non possiede dolcezza né morbidezza e neppure imperiosità, in questo complice una condotta scenica da principiante, per giunta enfatizzata da gesti plateali che, lungi dall’infondere pathos, sono semplicemente ridicoli (il lancio del ventaglio dopo l’invettiva contro l’Attavanti richiama recenti e funesti lanci di seggiole, mentre l’uccisione di Scarpia sembra presa di peso da uno spettacolo di marionette) e trasformano Tosca, da esaltazione della Diva operistica, a sua parodia involontaria. E si taccia dei parlati al secondo atto, privi di eleganza quanto di incisività.

Marcelo Alvarez, fattosi annunciare indisposto, ha cantato il primo atto in modo più sorvegliato del solito, con voce sempre bellissima ma come alleggerita e impoverita rispetto a quanto ricordavamo. In particolare ci hanno colpito la precarietà del registro acuto, non solo privo di squillo ma a più riprese decisamente faticoso, e la difficoltà nel legare i suoni. Molto generico il fraseggio, ma questa non è certo una sorpresa. Al secondo atto il “Vittoria! Vittoria!” vede il tenore argentino arrivare al la diesis e tenerlo con maggiore resistenza, ma sempre con la voce come bloccata sul palcoscenico, priva di proiezione e mordente. Non vanno meglio le cose al terzo atto: la romanza, marcatamente centrale, è caratterizzata da suoni duri e da un’intonazione sempre al limite. Ma il peggio arriva nel duetto con Tosca: l’attacco di “O dolci mani” è stimbrato e la frase, per la quale Puccini abbonda in indicazioni quali “teneramente” e “dolcissimo”, si chiude con una marcata afonia, mentre il passaggio “Amaro sol per te m’era il morire”, che l’autore indica “dolcissimo” e il librettista precisa “colla più tenera commozione”, fa pensare piuttosto a una canzone da osteria. L’annunciata indisposizione non può fare dimenticare, come abbiamo avuto modo di osservare a proposito dei Puritani bolognesi di Celso Albelo, che proprio nelle serate di minore forma fisica è o dovrebbe essere la tecnica la maggiore alleata del cantante.

Scarpia era Marco Vratogna. Voce legnosetta, povera nel grave e limitata in acuto, fa pensare a un tenore non sfogato piuttosto che a un autentico baritono. Visto anche lo scarso peso vocale, sembra opportuna la scelta di rendere un Barone mellifluo e insinuante, ma questo approccio al personaggio è contraddetto non solo dalle urla cui ogni tanto il cantante si abbandona (segnatamente nel secondo atto), ma anche da una linea di canto sistematicamente malferma e da un’intonazione assai precaria.

Resta da dire del pubblico, che ha accolto i protagonisti, soprattutto la Carosi, con vere e proprie manifestazioni di entusiasmo, chiedendo e ottenendo il bis di “Vissi d’arte”. Un paio di mesi fa riferimmo delle accese reazioni suscitate in Parma dalla Lucia di Lammermoor di Désirée Rancatore. Ebbene, alla luce del trionfo della Carosi e, in misura minore, di Alvarez (che pure è un beniamino del pubblico parmense), la signora Rancatore avrebbe, a conti fatti, ogni motivo di dolersi dell’accoglienza riservatale, considerato che, a parità di prestazioni canore, le reazioni del pubblico dovrebbero essere, se non le stesse, per lo meno comparabili. Non è comprensibile che si censuri aspramente la performance, imbarazzante, della Rancatore e si porti poi alle stelle la prova, altrettanto imbarazzante seppur condotta con voce un poco più fresca e sonora, della Carosi. Un successo di cortesia sarebbe stato meno stridente e avrebbe suscitato minori sospetti di favoritismi e “doppi binari”. È vero che il loggione di Parma ha la tendenza a sopportare a lungo e in silenzio, prima di esplodere in contestazioni clamorose come quelle riservate alla Vassileva nella Giovanna d’Arco o alla Rancatore in Lucia, ma abbiamo la sensazione che taluni inspiegabili successi minino la credibilità di un pubblico più di certi clamorosi tonfi, che altri, dimentichi o forse ignari di storia e tradizioni teatrali, additano a sommo malcostume dei nostri giorni.


Gli ascolti


Puccini - Tosca


Atto I

Tre sbirri, una carrozza - Renato Bruson (1976)

Atto II

Vissi d'arte - Rosetta Pampanini (1939), Virginia Gordoni (1967)


Pérez Freire - Ay ay ay - Miguel Fleta (1930)

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