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venerdì 8 ottobre 2010

"Arrigo, ah, parli a un core"

Julian Budden definisce l’aria di Elena “Arrigo, ah parli un core” il “centro immobile” del duetto tra soprano e tenore all’atto quarto dei Vespri Siciliani. Centro immobile perché lo svolgersi dell’incontro tra i due, dapprima uno scontro poi il riavvicinarsi dei due amanti che comunque non avranno unione in terra, si arresta. In un momento di sospensione del dramma, la Duchessa perdona Arrigo, dichiara di amarlo comunque, ma oramai le loro origini diverse ne separano i destini, inevitabilmente. L’amore, il rimpianto, la tristezza nobilmente composta e distaccata della primadonna caratterizzano il brano, celeberrimo, passo chiave della protagonista del secondo grand-opéra di Verdi.


Brano che trova raramente esecuzione integrale della scrittura causa la monumentale cadenza finale, che comprende una scala cromatica discendente dal mi nat al fa sotto il rigo, perfettamente eseguita di fatto solo da Maria Callas ( che pure parte dal do: le altre ne fanno esecuzioni parziali della discesa in basso o alternative ).
La scena è stata cantata in tanti modi, unendo timbro e fraseggio in casi eccezionali ed indimenticabili, di solo timbro oppure di solo fraseggio ma molto bene, né di timbro né di fraseggio, ossia male…modernamente, come ben immaginerete.
Tre sono le esecutrici eccezionali di questa parata che vi proponiamo, la Callas ( negli anni in cui era davvero la grande Callas ), la Cerquetti e la Caballè. Fedelissima esecutrice di ogni segno di espressione scritto da Verdi la prima, non perde mezza forcella, un f, niente; una linea di canto bellissima, aristocratica, dolente ma comunque vigorosa, ad onta di qualche nasalità in certi momenti. Al suo fianco, e la preferenza mi pare questioni di gusto, Anita Cerquetti, dal timbro sontuoso, anche lei nobilissima, dalla dizione scandita e perfetta, italianissima nel porgere le frasi una dopo l’altra. Possiede un timbro superiore alla Callas, ma l’esecuzione musicale di questa mi pare resti superiore. Incarnano entrambe il gusto del Verdi d’annata, lontano da ogni effetto studiato poi da chi, in virtù della ricercatezza del fraseggio o di qualche fascinoso artificio, affrontò Verdi senza possedere vera voce verdiana. In questo non alludo, nel caso dei Vespri, a Montserrat Caballè, che di “manipolazioni” verdiane ne operò tante in seguito, quanto piuttosto alla Gencer ed alla Scotto. La Caballè, infatti, produsse nei Vespri uno dei suoi più importanti capi d’opera, che cantò libera da certi vizi riscontrabili in altre prove. Voce non certo da soprano drammatico d’agilità, quale è quella necessaria alla vocalità di Elena, la Caballè canta con assoluta pienezza del suo mezzo straordinario, emettendo suoni di bellezza soggiogante, ma mai abusati o compiaciuti. A meno delle note gravi sotto il rigo, eseguite di petto non troppo bene, canta anche lei con rara ( per lei! ) aderenza alla scrittura verdiana, timbro nobile e linea di canto compostissima e sfumata. Gli acuti, quelli attaccati scoperti delle scale discendenti della chiusa ( il si nat !!! ), sono suoni celestiali, inumani direi, che la collocano nettamente al di sopra di tutte le Elene a lei successive dell’era recente.

Più vicino al modello Callas Cerquetti l’esecuzione di Antonietta Stella, figlia della medesima epoca. No sarà stata pari alle precedenti, ma la sua esecuzione è notevolissima per via del timbro, notoriamente bellissimo, la sua dizione chiara e scandita, la nobiltà innata dell’accento. In particolare, lei come le predette signore, è in grado di cantare sul passaggio superiore con assoluta facilità e solidità, emettendo sempre suoni pieni, nitidi e a fuoco, che da un certo punto in poi di questi audio, da Olivia Stapp in poi, di fatto non connotano più le voci, a riprova che in fatto di tecnica e di tradizione nel suo insegnamento abbiamo perduto alcuni fondamentali per la strada. La Stella non è certo cantante struggente, manca qua e là di magia ( penso alle scale discendenti ), ma canta ad un livello per noi oggi inimmaginabile.

Primedonne di razza, fino in fondo, Leyla Gencer e Renata Scotto, praticano l’arte del canto e quello del baro con la stessa dimestichezza, la prima assistita per me ( che la amo anche quando canta con la voce a pezzi ) da una intelligenza e da un senso delle cose rarissimi; la seconda mossa da una volontà irrefrenabile di essere sempre al di sopra della propria natura vocale e da una fantasia interpretativa senza limiti. Alla Gencer il gioco riesce benissimo laddove, mancando il timbro ed immagino anche lo spessore della voce in teatro, screzia il canto nobile con delle vene di passionalità: l’amante dice “ Io t’amo”, “Io muoio” con una intensità che fa rabbrividire; tocca l’ascoltatore con l’effetto del rallentamento compiaciuto della seconda strofa, e mette in chiusa al pezzo un fiatone da brivido dopo le scale discendenti amministrate con i suoi celebri acuti flautati presi scoperti. Insomma, un cervello ed un senso del teatro stupefacenti, senza…la voce adatta alla parte.
La Scotto canta benissimo, si affida al virtuosismo del tempo lento, lentissimo, come da arcaica tradizione documentata da Ester Mazzoleni. E sceglie anche la via dei portamenti, compiaciuti ed insistiti. Già su “Un ‘aura di contento” arriva il brivido che la grande primadonna vuole e sa provocare, ma con l’andare dell’aria la vicenda assume un po’ il tono della grande, ciclopica impresa. Il tempo si fa troppo largo per sostenere tutto il brano con senso di facilità, che è poi quello che lo spettatore deve avere, dunque il tutto alla fine oscilla tra la grande emozione e la grande fatica. Esecuzione mirabile ma esagerata nella ricercatezza.
Nell’era moderna solo Martina Arroyo sta al pari della Caballè per qualità timbrica: più della spagnola ha le note centro gravi, indubbiamente più rotonde e piene. Voce bellissima, acuti di una facilità eccezionale, ma interprete inerte, dal fraseggio lato, all’americana tanto per intenderci, non certo sulla parola o cesellato all’italiana, come il Verdi alla nostra maniera pretende. Tuttavia un canto di qualità altissima ed indimenticabile da chi ha potuto sentire questa grande cantante in teatro.
Più italiana nel fraseggio la Kabaivanska, non potendo certo avvalersi di un timbro di qualità eccelsa. La zona acuta della voce è, notoriamente, la parte migliore; nei gravi soffre pur eseguendo la cadenza pressoché integralmente, e si affida all’arte del piano, della sfumatura, e più in generale del fraseggio, che è stato suo terreno di carriera. Al di là di molti suoni non belli, la trovo assai emozionante e pregnante, anche se l’handicap timbrico non si riesce sempre a dimenticare nello scorrere del brano.

Da qui in poi le parole da spendere sono poche, per cantanti o dalla voce evidentemente inadatta ma pur capaci, come la Deutekom o la stessa Stapp, che canta assai peggio della prima ( legato scarso, i re e i mi bem centrali sulla e stretta e scoperta, duri i piani, brutto il si nat della scala discendente ); oppure voci di grande qualità timbrica ma male in arnese, come Carol Vaness ( che ogni tanto balla, apre sul passaggio, non è sfumata né fascinosa, grida il si nat alla seconda scala discendente su “Ah”, si riaggiusta la cadenza…etc ) o Daniela Dessì ( che balla sul passaggio ma riesce comunque ad eseguire i piani, molto belli, apre i suoni in basso e strilla il si nat della scala discendente, riarrangiandosi la cadenza che comunque non le riesce come dovrebbe…); oppure voci adatte alla parte ma malmesse, come una compromessa Guleghina, in grado di cantare bene solo piano, sebbene priva di legato, e con una chiusa dell’aria incommentabile; o la Radvanovsky, la cui esecuzione lentissima non costituisce affatto un prodigio quanto una scelta errata, che ci obbliga ad apprezzare appieno l’handicap timbrico e l’inespressività della cantante, fortemente limitata sul piano tecnico ( i mi sul passaggio come pure il sol acuto di “Io t’amo” sono note tremende..per non parlare del si nat come della cadenza, in cui gratta anche e si inceppa…).
Insomma , in era recente la sola Susan Dunn ha saputo dirci qualcosa di significativo nei panni di Elena, ma anche lei in virtù del timbro e non certo dell’”arte del dire”, come prova la sua esecuzione facilissima ( ad onta delle note sul passaggio superiore un po’ ballanti ) ma poco fraseggiata della scena.


Gli ascolti

Giuseppe Verdi

I Vespri siciliani


Atto IV

Arrigo, ah, parli a un core

1909 - Ester Mazzoleni
1951 - Maria Callas
1955 - Anita Cerquetti
1957 - Antonietta Stella
1964 - Leyla Gencer
1970 - Renata Scotto
1970 - Martina Arroyo
1973 - Raina Kabaivanska
1974 - Montserrat Caballè
1975 - Christine Deutekom
1985 - Olivia Stapp
1986 - Susan Dunn
1997 - Daniela Dessì
1998 - Carol Vaness
2003 - Nelly Miricioiu
2005 - Maria Guleghina
2007 - Sondra Radvanovsky



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mercoledì 21 luglio 2010

Norma A.D. 1910

Norma un secolo prima di Cecilia Bartoli. Confessiamo: era un pensiero che a prescindere dall’improvvido approdo della diva ci incuriosiva e proprio con quella data 1910, perché il 1910 sancisce la transizione fra canto ottocentesco e canto verista. Da quella data in poi il filone del canto ottocentesco sarà, anche se costante, sotterraneo, predominate quello verista.

Canto verista, che influenzerà Norma, senza, però, a differenza di altri titoli espellerla mai dal repertorio. I contrasti della sacerdotessa fedifraga, amante tradita e madre sono troppo per non attirare le prime donne di ogni epoca; con qualche patteggiamento la parte può anche stare a cantanti che con il belcanto hanno rapporti diciamo conflittuali, purchè interpreti nel senso completo del termine.
1910 perché l’anno prima aveva dato l’addio all’opera in teatro quella che può ritenersi, dalle testimonianze discografiche la Norma dell’800 per antonomasia, Lilli Lehmann. Tanto era stata la sua grandezza nel ruolo cantato sia in italiano che in tedesco che il teatro Metropolitan (dove la Lehmann fu protagonista del titolo nel 1895) attese ben trent’anni e Rosa Ponselle per riproporlo.
Le registrazioni della cantante di Wurzburg fanno i conti con due aspetti: i 58 annidi età e la tecnica di registrazione. Eppure sono straordinarie. Qui non vogliamo considerare l’esecuzione ma la tecnica di canto e la aderenza al momento musicale, che giustificano la frase “Maria Callas non ha inventato nulla, c’era stata Lilli Lehmann“ e che danno a chi ritiene la codificazione di Garcia la codificazione della tecnica di canto la prova irrefutabile che le Norme di rango e di levatura storica hanno sempre cantato come le censurate Callas e Sutherland.
Basta sentire la facilità e la saldezza con cui una cantante affronta il primo passaggio di registro nell’incipit della cavatina, piuttosto che la facilità con cui sale ai la ribattuti della seconda sezione dell’aria ed in generale il senso di liquidità del suono e di galleggiamento sul fiato che sono le caratteristiche del canto di scuola. All’epoca della Lehmann come a quella di Callas e più ancora di Sutherland. E l’effetto vocale ed interpretativo si ripete alla cadenza dove la voce tocca senza sforzo il si nat acuto e scende con una scala assolutamente perfetta perché il suono nella discesa non subisce incertezze o manomissioni di sorta.
Questa è la rappresentazione del cantante che canta con la tecnica ottocentesca e questa è, mi sia consentita la franchezza, la dimostrazione che tutto il resto sono chiacchiere e fanfaronate compre ed interessate e che in quanto tali fanno danno, e che danno, al mondo del canto.
Una Margarethe Siems, Adalgisa proprio con la Lehmann e poi, Norma aveva davanti un modello che le consentì di navigare per vent’anni fra Crisotemide e Lucia, Norma e Philine.
Oggi il modello della giovane cantante, che ascolta l’ultima diva nei panni di Norma, le consentirebbe se dotata in natura un paio di stagioni.
La Lehmann resta la più completa esemplificazione di quello che per un secolo si era indicato come soprano drammatico di agilità, categoria cui dovevano appartenere le titolari di Norma.
A questa categorie appartengono almeno due delle Norme che proprio nell’anno di grazia 1910 erano accreditate e considerate esecutrici della sacerdotessa di Irminsul ossia Giannina Russ e Celestina Boninsegna. Cantanti soprattutto di carriera italiana e quanto alla Russ discograficamente piuttosto limitata. Molto più numerose le registrazioni della Boninsegna perché la cantante reggiana era, a differenza di quasi tutti i soprani spinti, straordinariamente fonogenica.
Anche in questi due casi colpisce il controllo del suono e la posizione costantemente “alta” dello stesso. Le esecuzioni della Russ e della Boninsegna della cavatina hanno una purezza di suono ed una proiezione, che rendono chiaro un altro dei criteri che erano esemplificativi del giudicare le voci di qualità e di scuola ossia che a mano a mano che la voce sale, quando impostata, assume una ampiezza ed una espansione interdetta a chi canti male, indietro ed in bocca. Sentire la facilità particolarmente della Russ, che nell’esecuzione della fiorettature è precisissima, o la Boninsegna che si prende, pure il lusso di inserire alla ripetizione (omettendo, però, parte delle fiorettature) un paio di puntature al si bemolle che la tradizione vuole (le eseguirà anche Rosa Raisa, cantante di assoluta discendenza belcantistica, credo la vera allieva di Barbara Marchisio) derivare direttamente dalla Grisi.
Le stesse osservazioni valgono per l’esecuzione della cabaletta che è fluida e scorrevole. La Boninsegna ricorre ad un paio di varianti, che dovevano essere di larga diffusione in quanto le propone anche Marcella Sembrich, che mai cantò l’intero ruolo. Nei duetti con Virginia Guerrini si sente perfettamente la differenza fra una cantante la Russ di scuola ancora ottocentesca ed una invece che inclina già a gusto e tecnica di impianto verista.
L’impianto verista ossia la transizione verso un canto e soprattutto una idea interpretativa che sente i tempi nuovi è di una certa evidenza in Ester Mazzoleni, Tina Poli Randaccio e soprattutto Eugenia Burzio.
Secondo una certa idea è l’inizio del verismo ove con verismo si intenda una esecuzione sciatta e incline al facile effetto.
Siamo in un’epoca di revisione e di ripensamento soprattutto alla luce di quanto ci viene regolarmente servito nei nostri teatri e il giudizio su queste cantanti è per forza di cose modificato o rivisto.
Nessuna di loro può competere con una Russ o una Siems nell’esecuzione del canto di agilità. La cabaletta di Eugenia Burzio per comune giudizio la patronessa del Verismo non è quella della Sutherland, ma ci sono accorgimenti come il suono addolcito, alleggerito e l’accento castigato, che contraddicono o almeno pongono seri dubbi sul malcanto tout court di questa cantante. Evidentemente persino ad una Burzio, fra l’altro eloquente e misurata nel “Dormono entrambi” non sfuggiva che a Norma, pur al centro di una tragedia, non si addicevano gli accenti di Santuzza o di Gioconda E le stesse argomentazioni possono valere per Ester Mazzoleni nella sezione conclusiva del duetto con Zenatello ricorre anche a qualche compromesso, ma rende il senso del dramma della sacerdotessa alle prese con l'ultimo disperato ricatto dove “mette sul piatto” figli ed amante. Peccato veniale rispetto a quanto sentiamo oggi. Al nostro gusto creano più problemi certi suoni di petto e certi scarti fra suoni bassi e suoni centrali, che suonano piuttosto vuoti e che abbiamo codificato come paradigma e vizio capitale dei soprani veristi.
Inutile negarli ci sono anche se in Norma sia pur meno accentuati che nei titoli del tardo Verdi o Veristi. Non erano, se ascoltiamo la Lehmann, un’invenzione della signorina Burzio o della signora Poli Randaccio (che sia detto se non avesse saputo cantare difficilmente avrebbe avuto quasi trent’anni di carriera), erano anche messi in una posizione ben più alta della maschera di quanto non facciamo oggi certe cantanti che, tecnicamente insipienti, si sono messe a riproporli al pubblico senza l’accento irresistibile di una Burzio. Erano il gusto del tempo, ma la domanda che mi faccio e che faccio è meglio certi fastidiosi “scarti” e cattive saldature fra i registri di Eugenia Burzio o la Barbarina vestita da Norma?


Vincenzo Bellini

Norma

Atto I


Ite sul colle, o Druidi - Feodor Chaliapin (1905), José Mardones (1924)

Meco all'altar di Venere - Erik Schmedes (1905), Carlo Albani (1910)

Casta Diva...Ah! Bello a me ritorna - Celestina Boninsegna (1904), Giannina Russ (1906/1914), Lilli Lehmann (1907), Marcella Sembrich (1907), Eugenia Burzio (1912)

Sgombra è la sacra selva - Armida Parsi-Pettinella (1907)

Sola, furtiva al tempio - Giannina Russ & Virginia Guerrini (1914)

Ah! Sì, fa core, abbracciami - Lilli Lehmann (1907)

Atto II

Dormono entrambi - Ester Mazzoleni (1911)

Deh! Con te li prendi...Mira, o Norma...Sì fino all'ore estreme - Lilli Lehmann & Hedwig Helbig (1907), Elise Elizza & Grete Forst (1908), Margarethe Siems & Gertrud Forstel (1908), Giannina Russ & Virginia Guerrini (1914)

In mia man alfin tu sei - Ester Mazzoleni & Giovanni Zenatello (1911)

Qual cor tradisti - Eugenia Burzio (1912)

Deh! Non volerli vittime - Lilli Lehmann (1907), Eugenia Burzio (1912), Tina Poli-Randaccio (con R. Bosacacci & Ezio Pinza - 1923)


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lunedì 14 dicembre 2009

Il mito della primadonna: Santuzza

La recente audizione radiofonica della Cavalleria veneziana ci ha indotto a riprendere in mano lo spartito dell'opera, con particolare attenzione alla parte della protagonista.

Nella novella di Verga il personaggio di Santa, figlia di massaro Cola, aveva un ruolo tutto sommato marginale, certo secondario rispetto a quello di Turiddu. Con l’adattamento teatrale, protagonista Eleonora Duse, le cose erano cambiate in favore della primadonna e Mascagni e i suoi librettisti non poterono che tenerne conto.
A vestire i panni della compromessa e abbandonata fu, alla prima al Costanzi di Roma, Gemma Bellincioni. La Bellincioni aveva all’epoca venticinque anni ed era in carriera da dieci. Nel libro dedicato ai genitori, Bianca Stagno ricorda come la madre avvertisse come una limitazione per il proprio temperamento il repertorio di coloratura praticato nella prima gioventù (Margherita di Navarra e Ines dell’Africana) e aspirasse quindi prima a Gilda e Violetta, e poi a maggior ragione alle grandi eroine del nascente Verismo (la Bellincioni fu anche la prima Fedora).
Ascoltando le registrazioni effettuate nei primi anni del Novecento, quando l’artista aveva poco meno di quarant’anni, possiamo arguire come il desiderio di indirizzare la carriera verso differenti lidi non fosse dettato esclusivamente dalle ragioni soprammenzionate. Quella che ascoltiamo è una voce ancora sufficientemente salda in prima ottava, pur con suoni a volte aperti, ma decisamente compromessa fin dal do centrale, nota a partire dalla quale si riscontra, oltre a una sporadica difficoltà a legare i suoni, una marcata accentuazione del vibrato vocale. Gli acuti (nella romanza di Santuzza la nota estrema è un la nat) sono d’intonazione precaria e la discesa da quelle altezze, non certo estreme, alla zona centrale della voce costringe la cantante ad aprire ancora di più i suoni in basso. Anche tenendo conto del sistema di registrazione, invero primitivo, bisogna concludere che la conversione della signora alle nascenti eroine veriste sia stata anche, seppur non esclusivamente, strumentale. Il che per inciso ci riporta a svariati esempi a noi più vicini nel tempo, che non è il caso di trattare in questa sede.

Fin dai primi anni di vita, l’opera divenne territorio di caccia delle grandi cantanti attrici, da Emma Calvé, che per prima cantò Santuzza a Napoli e allo Châtelet di Parigi, a Emma Carelli, da Eugenia Burzio a Maria Jeritza, da Emma Eames (prima interprete al Met) a Emmy Destinn. La scrittura centralissima (un si nat opzionale in chiusa dell’inno pasquale, un si bem al duetto con Turiddu, altri due nella scena con Alfio e un altro al finale, oltre al do conclusivo, che però facilmente si perde o si dimentica nel tumulto di coro e orchestra) attrasse, oltre a schiere di fini dicitrici, soprani drammatici del calibro di Johanna Gadski, Olive Fremstad, Margarete Matzenauer e Melanie Kurt, fedeli custodi del Verbo wagneriano (al di fuori del perimetro della Collina), e delle “nostre” Bianca Scacciati, Rosa Ponselle e Tina Poli Randaccio, ma anche soprani lirici e lirico spinti (Elisabeth Rethberg, Claudia Muzio, Giannina Arangi Lombardi, Rosa Raisa e Rosetta Pampanini, fra i molti) e mezzosoprani (citiamo almeno Gabriella Besanzoni, Gianna Pederzini ed Ebe Stignani). Anzi l'iniziale condominio fra soprani e mezzi nel ruolo di Santuzza con il tempo si è trasformato in un quas monopolio del ruolo per i mezzi. Nessun soprano (se si escludono Ghena Dimitrova e Giovanna Casolla) è stato all'altezza di contrastare le realizzazioni del personaggio proposte da grandi mezzi quali la Bumbry e la Cossotto.

La presentazione del personaggio è affidata a un breve recitativo in cui Santuzza parla con Mamma Lucia. En passant notiamo come la parte, con l’eccezione dell’inno pasquale, sia costituita da una serie di dialoghi con gli altri personaggi. La stessa romanza continua e completa il dialogo con la madre di Turiddu. Non solo: l’intera azione drammatica della Cavalleria, concentrata negli ultimi quindici minuti dell’opera, è il risultato di quello che Santuzza rivela ai suoi interlocutori. Centrale è quindi che l’interprete, soprano o mezzo che sia, dica e accenti ogni frase con la più grande pertinenza e precisione, perché se il canto della protagonista vacilla, tutta la composizione ne risente. In questo primo dialogo, in particolare, è centrale la frase “sono scomunicata” (con tanto di salita al la nat), con cui comare Santa svela per la prima volta alla mancata suocera e al pubblico di avere commesso quella che a Napoli sarebbe stata definita “'a schifezza”. E per inciso non sarà questa l’unica occasione in cui la sventurata rivelerà agli altri origine, modalità e fini ultimi della propria caduta. Senza per questo smarrire il decoro, ammantato d'ipocrisia, che una figura di matrice cattolica non può non mantenere anche e soprattutto quando è in gioco una simile materia. Decoro che dovrebbe fungere da ammonimento e guida per i signori registi, specie per quelli che si piccano di illustrare e magari spiegare, nei loro spettacoli, l'anima mediterranea.

L’inno pasquale (Moderato assai) prevede Santuzza nelle vesti della corifea. Le ampie frasi, che richiedono un saldo appoggio e fiati di consistente lunghezza, la necessità di spiccare su orchestra e coro in una tessitura che, dapprima grave, si fa progressivamente più alta fino al la nat di “oggi asceso alla gloria del Ciel”, l’accento, che deve essere composto e solenne, ma tale da tradire, al tempo stesso, l’ansia del personaggio, che ha appena ricevuto da compare Alfio la conferma dei propri laceranti sospetti, rendono il brano assai insidioso. Ma non è da sottovalutare un altro aspetto, vale a dire che l’inno è la prima opportunità, offerta alla primadonna, di ricevere, ove del caso, una vera e propria ovazione.

La romanza “Voi lo sapete, o mamma” (Largo assai sostenuto) attacca e insiste in zona centrale, procedendo per brevi incisi regolari, passando in zona do diesis-fa diesis centrali alla ripetizione di “aveva a Lola eterna fè giurato”, che l’autore sottolinea con due forcelle. Il terzo e quarto verso ripropongono, variandola appena, la disposizione dei primi due, con simmetria che potremmo definire belliniana, e presentando un infittirsi delle indicazioni dinamiche (“crescendo” e “calando”) e agogiche (“poco ritenuto”) su “volle spegner la fiamma che gli bruciava il core”. La confessione di Santuzza tocca il suo culmine alle parole “m’amò, l’amai”, enunciate sul do-si centrale (“ravvivando”) e ripetute poi all’acuto, con tanto di crescendo, fino al la nat, da eseguirsi “con grande espressione”. L’evocazione della diabolica rivale vede la primadonna ricorrere al “pp”, quasi un sussurro di odio puro, prima dell’esplosione (preparata e risolta da due forcelle, però) del “me l’ha rapito”, con salto di decima (sol-mi grave). La lamentazione della disonorata zittella è affidata alla cantilena “Priva dell’onor mio” (acciaccatura, espressione cristallizzata del singhiozzo, sul re diesis centrale), ripresa e rinforzata da un nuovo “crescendo e animando” che porta la voce al la nat acuto, cui segue una corona sul sol nat, una discesa al si sotto il rigo e una nuova corona sul la centrale. La pagina descrive, dopo una partenza ingannevolmente placida, l’animo sconvolto della protagonista e costituisce la premessa per il successivo confronto con l’ormai ex amante.

Nel dialogo con Turiddu è essenziale l’accento risentito e insinuante, specie nella frasetta “a noi l’ha raccontato compar Alfio, il marito, poco fa”, musicalmente elementare ma essenziale nella definizione del personaggio e della sua psicologia. Altrettanto illuminante nella sua semplicità l’altra frase “quella cattiva femmina ti tolse a me”, con i suoi la e sol centrali ribattuti. All’attacco del cantabile “Bada Santuzza”, alla primadonna è richiesto di affrontare “con angoscia” la grandiosa arcata musicale “è troppo forte l’angoscia mia”, ripetuta due volte fino a toccare, in volata, il la nat acuto.
Quando poi in scena giunge la rivale, ecco che comare Santa ci svela un altro lato del suo carattere non certo idilliaco, quello del sarcasmo. Ancora una volta si tratta di frasi che insistono sul centro della voce: “Gli dicevo che oggi è Pasqua e il Signor vede ogni cosa”, con i suoi do bem e si bem martellanti, sottolineati da una forcella, “Io no, ci deve andar chi sa di non aver peccato”, che scende al do diesis sotto il rigo (“ritenendo” e “rallentando assai”), e “Oh! fate bene, Lola!”, per la quale Mascagni prescrive di partire dal “f” e diminuire, ancora una volta “ritenendo” e stavolta “con amarezza”. Frasi ancora una volta quasi banali, che la cantante dovrebbe sottolineare aggiungendo, a quelle previste dall’autore, numerose altre invenzioni dinamiche e di fraseggio.
Alla ripresa del duetto il canto di conversazione cede di nuovo il passo alla melodia spianata, e qui Santuzza deve affrontare la grandiosa melodia in la bem maggiore “No, no, Turiddu, rimani, rimani ancora”, una delle più trascinanti dell’opera. La tessitura, dopo le prime battute, si fa insolitamente alta, insistendo nell’ottava compresa fra il la bem centrale e quello acuto, toccato più volte (la prima alle parole “rimani ancora”, all’unisono con il tenore). E anche qui non basta urlare a pieni polmoni, come vorrebbe certa vulgata relativa all’opera verista, e non basta neppure la bella voce: occorre cantare, prescrive il compositore, “dolcissimo” e “con dolore”, rispettando le indicazioni dinamiche ed espressive quali “grandioso con sempre crescente passione”, “espressivo”, “con anima”, il tutto fino al vertice del si bem acuto, da toccarsi ancora una volta all’unisono con compare Turiddu. Quando poi si arriva alla celeberrima Mala Pasqua, è vero che l’autore contrassegna l’invettiva con le indicazioni “a piacere” e “quasi parlato”, ma il la bem acuto finale dovrebbe essere cantato, al pari del resto della pagina.

I due volti di Santuzza, fraseggiatrice intrisa di veleno e sconsolata dolente della propria caduta, si fondono nel successivo duetto con Alfio. Per il primo aspetto basti la forcella su “Lola v’adorna il tetto in malo modo”, che alcune interpreti hanno ritenuto di integrare, in scena, con un’eloquente allusione agli ornamenti medesimi. Il secondo consiste ovviamente del Largo “Turiddu mi tolse l’onore”, che parte dal fa centrale (“p”), cresce progressivamente e di tessitura e d’intensità e trova l’apice nella ripetizione “appassionata” che dal sol sale al si bem acuto (questa è la soluzione prevista in “oppure”, di grande effetto: la frase di partenza è una terza sotto). La successiva modulazione in tonalità maggiore (“Per la vergogna mia, pel mio dolore”) è accompagnata da un tripudio di indicazioni quali “poco rit.”, “un poco affrett.”, “a tempo”, “un poco animando e crescendo”, il tutto nel giro di un paio di battute, fino al nuovo culmine del la nat acuto. La parte finale del duetto (che finora sembrava piuttosto una romanza con pertichino) vede dominare la voce del baritono, ma nelle concitate frasi finali Santuzza deve toccare ancora una volta il la bem acuto (“infame io son”) e il si bem, sottolineato da una corona, mentre il baritono sale al sol bem acuto. Non paga di quanto previsto dall’autore, Ester Mazzoleni, soprano drammatico di grande facilità in acuto, duettando con l’Alfio di Pasquale Amato (ipostasi dell’onore meridionale oltraggiato), dopo avere eseguito con voce morbida e squillante l’intera pagina, si concede il lusso di chiuderla interpolando un do sovracuto. Un numero di altissima scuola, che dovrebbe essere di monito a chi ancora pensa che Santuzza, e con lei altre eroine non meno ardite e temperamentose, possano e debbano accontentarsi di un piatto vociare. O magari di una confacente pettinatura.



Gli ascolti

Mascagni - Cavalleria rusticana


Atto unico

Regina Coeli, laetare... Inneggiamo, il Signor non è morto - Fiorenza Cossotto (1971), Irina Arkhipova (1980), Waltraud Meier (1996)

Voi lo sapete, o mamma - Gemma Bellincioni (1903), Claudia Muzio (1934)

Tu qui Santuzza? Qui t'aspettavo - Grace Bumbry & Carlo Bergonzi (1968), Irina Makarova & Oleg Kulko (2009)

Fior di giaggiolo - Magda Olivero, Daniele Barioni & Bianca Berini (1964)

Ah! lo vedi...No, no, Turiddu, rimani ancora - Maria Jeritza & Helge Rosvaenge (1933), Bianca Berini & Alain Vanzo (1976)

Oh! Il Signore vi manda, compar Alfio...Turiddu mi tolse l'onore - Ester Mazzoleni & Pasquale Amato (1909), Elisabeth Rethberg & Carlo Morelli (1937), Magda Olivero & Piero Guelfi (1964)



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lunedì 20 ottobre 2008

Il soprano drammatico in Verdi

Il soprano drammatico di Verdi inizia, credo, quando finiscono le cabalette.
Quindi con il Ballo in maschera e, di fatto, limitato alle protagoniste di Ballo, Forza del destino, Aida ed alla Elisabetta di don Carlos. Esclusa Desdemona, ricompresa l’Amelia della versione 1881 del Boccanegra.
Nasce da una commistione fra il soprano della precedente produzione verdiana, definito generalmente drammatico di agilità e il cosiddetto soprano Falcon del grand-opera francese. A questa categoria vocale apparteneva, fra l’altro la prima Valois, Maria Sass e molti soprani verdiani frequentarono anche il grand-opera sino agli anni cinquanta del XX secolo.
Per capire le difficoltà vocali e prima di tutto la resistenza fisica richiesta al soprano verdiano basta leggere in “voci parallele” l’opinione di Lauri-Volpi. Riferita all’Amelia del Ballo, è, però, comune a tutte le protagoniste degli ultimi lavori di Verdi.

Banale quindi assumere che sono richieste una tecnica di canto saldissima, le cui prime conseguenze sono la possibilità di reggere la lunghezza degli spartiti, la massa orchestrale, duetti ed ensamble con tenore, baritoni e coro, ed al tempo stesso sfoggiare una dinamica dal pianissimo al fortissimo. Spesso il famoso do dei cieli azzurri, che prevede l’esecuzione della forcella , rimane una mera indicazione di spartito.
Mai come nel tardo Verdi la saldezza tecnica è il presupposto per una esaustiva esecuzione dello spartito ed, al tempo stesso, mai come nel tardo Verdi in primis per lo spessore orchestrale abbiamo sentito dilettantesche, propiziate sia nel canto maschile che nel femminile dalla ricerca di volume e foga, scambiate per aderenza al personaggio ed al dramma.
E’ vero che farsi prendere la mano soprattutto per voci dotate in Verdi è facilissimo. Il risultato sono precoce declino, derivato dalla tendenza ad emettere note di petto in zona centrale a ghermire gli acuti a trascurare per insipienza tecnica la dinamica, che – richiamo sempre Lauri Volpi sul canto verdiano- sono riposo per la voce.
Non solo, ma spesso un malinteso stretto rapporto fra il tardo Verdi ed il verismo ha aggravato la situazione. La storia del canto verdiano è costellata o di precoci declini o di ritirate strategiche o di conclamate inadeguatezze. Rosina Penco, prima Leonora del Trovatore e quindi non siamo neppure nel tardo Verdi, ritornò appena possibile al repertorio antico ossia Rossini e Bellini, assicurandosi una carriera trentennale e quando alle esecuzioni dei belcantisti applicati a Verdi (le sorelle Marchisio per tutti) è un continuo lamentare limiti ed inadeguatezze. Una situazione confermata in tempi recenti, sembra.
Non disponiamo delle prime registrazioni dei soprani del Tardo Verdi. Sappiamo, però che a 40 anni Teresa Stoltz era ritirata per gli abusi di suoni di petto e ciò, nonostante, nel periodo migliore si trattasse non solo di una cantante eccezionalmente dotata, ma anche con cospicue disposizioni tecniche, stando almeno alle indicazioni dinamiche che le arie per lei appositamente inserite in Aida e Forza prevedono.
Non solo, ma le idee circa le doti dei primi soprani verdiani sono piuttosto vaghe dalle registrazioni almeno sino agli anni 20, incapaci di captare l’ampiezza e le vibrazioni delle poderose voci dei soprani verdiani
Né fanno, per certo, le spese, voci d’eccezionale qualità come Giannina Russ, Ester Mazzoleni, Emmy Destinn o Melanie Kurt.
A conti fatti la Destinn e la Kurt suonano piuttosto fisse in alto, della Russ possiamo ammirare la compostezza, ma la voce suona molto chiara e non si percepisce quella ampiezza che i contemporanei le riconoscevano; quanto alla Mazzoleni si può essere certi che la voce, fra l’altro piuttosto vibrante, corresse nei teatri, ma delle doti di fraseggiatrice nessuna o pochissima traccia, atteso che le registrazioni non captavano la dinamica.
Un pessimo servizio le registrazioni lo rendono anche ad Eugenia Burzio, che fu ritenuta un vero mito e che, per contro dimostra soltanto il legame ed il vezzo – discutibile- fra il tardo Verdi ed il Verismo.
Davanti ad Eugenia Burzio il dubbio che la grande fama fosse dettata proprio dal favore che il pubblico aveva per una esecuzione verista di Verdi avesse maturato, sorge abbastanza spontaneo. Ossia si può ritenere che la fama assoluta di una Burzio sia dipesa soprattutto dalla aderenza al gusto imperante del tempo.


L’avvento delle registrazioni elettriche da un lato testimonia finalmente le qualità delle voci verdiane, dall’altro, per ovvi motivi il crescente vezzo dell’esecuzione in “salsa verista”.
Alle esecuzioni rispettose della tecnica di canto e, quindi, illuminate da una facilità di esecuzione in ogni gamma della voce, castigate nell’accento, attente ai segni di espressione di Giannina Arangi-Lombardi (nessuna Aida sia detto per inciso può vantare eguale rispetto dei segni di espressione) si contrappongono quelle di Bianca Scacciati, Maria Carena e, in quanto famosissime di Maria Caniglia e Gina Cigna.
Le autentiche stroncature di cui soprattutto la Cigna e la Caniglia sono state oggetto devono essere ponderate.
Il tardo Verdi non è il primo Verdi (che peraltro le nostre praticavano alla bisogna), dove l’esecuzione impacciata del canto di agilità rappresenta un ulteriore handicap e poi gli autentici torrenti vocali della Cigna e della Caniglia (che molte registrazioni live fra il 1935 ed il 1946 dimostrano), sono ben consoni a Verdi ad onte di esuberanze temperamentali e limitazioni tecniche.
Una voce poco immascherata al centro e, quindi, non astratta e con inflessioni più vicine al parlato che al canto configura il maggior limite delle esecuzioni verdiane dei soprani verdiani di scuola italiana fra il 1920 ed il 1950. Le eroine verdiano sono pur sempre dame di rango, regine e non figure di estrazione popolare come le veriste. In questo anche il tardo verdi è legato a modelli e stilemi romantici.
Eppure nonostante i limiti derivati da una tecnica limitata i soprani del periodo 1920-1950 spesso dimostrano una aderenza alle esigenze vocali superiori a quelle delle cantanti delle generazioni successive. Il colore, l’ampiezza e la tenuta sulla massa orchestrale della Valois di una declinante Maria Caniglia sono ignote a tutte le altre Valois discografiche.
A parte, fra le cantanti italiane fra le due guerre, deve essere considerata, benché non documentata da registrazioni live, Claudia Muzio.
La Muzio cantò spesso Traviata e Trovatore, ma anche Aida, Forza del destino e Ballo in maschera, opere dove suppliva con la dinamica sfumata, una attenzione al dettaglio, che sarà la caratteristica delle primedonne del dopo guerra la carenza di una presenza vocale tipo Scacciati, Cigna ed anche Arangi-Lombardi.
Un po’ differentemente negli Stati Uniti e nei paesi di lingua tedesca sino alla seconda guerra mondiale venne eseguito un tardo Verdi di qualità sia tecnica che interpretativa.
Il primo nome è quello di Rosa Ponselle, debuttante al Met nel 1918 proprio con Forza del destino.
Non si discutono, anzi sono i punti cardinali dell’ascoltatore di 78 giri la bellezza vocale, il fraseggio castigato ed alieno da vezzi veristi, però ad un ascoltatore attento non sfuggirà che il passaggio fra le note basse e le prime centrali è sempre fortunoso con la conseguenza, tipica delle voci femminili, che non eseguano correttamente il primo passaggio di una gamma acuta limitata e della difficoltà a reggere le tessiture acute. Il tutto evidenziato sia dall’attacco del “ D’amor sull’ali rosee” che dalla difficoltà ad eseguire gli staccati di “vedi per non s’affretta” del duetto finale di Aida ed ancora dal fatto che la Ponselle mai affrontò in teatro l’Amelia del Ballo e limitò le recite di Aida, poche in confronto a Forza ed anche a Don Carlos. Ma Elisabetta di Valois, creata per l’Operà di Parigi è, in fondo, un soprano Falcon.


In quegli anni al Met il monopolio di Aida appartenne ad Elisabeth Rethberg. Chi ascolta, oggi, le registrazioni delle arie del Ballo e di Aida , nonché tutto il terzo atto di Aida della Rethberg rimane stupito davanti a modalità esecutive e interpretative che, a torto, pensiamo “inventate” dalla Caballé, mentre erano praticate in pieno Verismo.
Ma per comprendere la differenza fra una Rethberg ed una Caballè ci sono le registrazioni in house della seconda metà degli anni 30. Qualche acuto dopo il 1935 suona un poco duro (venti anni di Verdi e Wagner!), ma la registrazione restituisce una ampiezza e sonorità della voce, che galleggia e supera coro, orchestra e perfino Giacomo Lauri Volpi o Giovanni Martinelli. Mi riferisco soprattutto al finale secondo di Aida (Covent Garden 1936) ed alla scena del palazzo degli Abati nel Boccanegra del Met 1935.
Attenzione non si tratta del suono spinto, fibroso e forzato del soprano di grande dote naturale, ma di un suono ampio che, ad onta dei sistemi di registrazione e trasmissione primordiali, si espande e sovrasta.
Per altro una simile esecuzione verdiana in area di lingua tedesca non rappresentava l’eccezione, ma una norma assai praticata. Lo testimonia per prima Frieda Leider, passata alla storia del canto come esecutrice wagneriana, ma usa al repertorio verdiano, dove sfoggiava una esemplare esecuzione del primo passaggio, dinamica sfumata a tutte le altezze, prodigiose tenute di fiato e, sia pure con i limiti delle registrazioni, un materiale vocale di assoluta eccezionalità.. Il tutto dimostrato al massimo grado nell’aria di Leonora di Trovatore del quarto atto.
La carriera ed il repertorio della Leider, soprano drammatico da Wagner e da Verdi fanno riflettere su cosa accadrebbe oggi ad una Aida o ad una Leonora di Calatrava affidate alle più quotate e registrate cantanti wagneriane.
Vicine per tecnica e gusto alla Rethberg sono le esecuzioni sia di Maria Muller che di Margarethe Teschemacher. Praticavano un tardo Verdi attento alla dinamica ed alla tecnica. L’esecuzione, ad esempio, del duetto finale di Aida della Teschemacher con Wittrisch è ben distante da quella praticata negli stessi anni in Italia.
La situazione sarà capovolta nel secondo dopoguerra, allorché la scuola tedesca non produrrà più cantanti di tecnica e di gusto al contrario di quanto accadrà in Italia e negli Stati Uniti.
Intendiamoci beni non moltissimi se escludiamo dal 1939 al Met Zinka Milanov, il cui gusto, però, inclinava al Verismo o autentiche meteore come Caterina Mancini.
Limitatamente ad Aida e Forza il tardo Verdi connotò la prima parte della carriera di Renata Tebaldi, le cui qualità vocali eccezionali, il gusto sponteamente sorvegliato e l’accento nobile sono ben noti e celebrati, ma i cui acuti sempre un poco duri e spinti dal si bemolle hanno limitato la frequentazione verdiana alla prima fase della carriera. La verità, difficile a comprendersi, è che nonostante alcuni passi unici in Aida e una Forza di levatura storica come la fiorentina del 1953 con Mitropoulos, la Tebaldi mancava del vero accento verdiano. Non era volgare, non era verista, era spontaneamente nobile, ma quel qualche cosa di paludato ed aulico del canto verdiano, che connota una regina ed una dama di rango le era estraneo.
E’ paradossale dirlo, ma era più verdiano l’accento applicato ad una voce che per dote naturale era anti verdiana come quella di Maria Callas.
E rispondeva anche all’aulicità della dama di rango quello di Anita Cerquetti dotata, ad onta di acuti bianchi e fissi di un timbro di eccezionale nobiltà e grandeur.
In sostanza gli anni del dopoguerra furono anni di soprani che in taluni personaggi di Verdi o in alcuni passi dei lavori verdiani raggiungevano livelli eccezionali, ma mancavano di quell’assoluto di quella paradigmaticità delle generazioni precedenti.

Il caso più significativo è Leontine Price, Leonora, Amelia ed Aida per eccellenza dal 1960. Però , a parte la musicalità censurabile, l’integrità vocale fu di breve durata e l’interpretazione ispirata più alle doti naturali , che non a studio e ricerca
Anche le esecuzioni verdiane della Callas, della Gencer e della Caballé, maestre di tecnica nella fase migliore della carriera e quindi di dinamica sfumata ed accento analitico sono rimasti splendidi episodi isolati. Erano cantanti la cui qualità vocale e la cui idea interpretativa pertineva più al primo che non al tardo Verdi.
Nel 1969, parlando del soprano drammatico del tardo Verdi, Rodolfo Celletti identificò in Monteserrat Caballé, allora alle prime esecuzioni di brani del Verdi più tipico il modello di tale soprano. Questo repertorio eseguito ripetutamente fra il 1973 ed il 1977 rappresentò la rovina vocale della Caballé, prova che una voce di questo tipo non bastava a sostenere gli orditi orchestrali le masse corali del tardo Verdi, nonostante, appunto, singoli estratti limitati per lo più alle arie solistiche, tipo “Cieli azzurri”, “Pace mio Dio”, “Morrò, ma prima in grazia”
La precoce rovina vocale della Caballé non ha insegnato nulla a nessuno, cantanti e direttori sia d’orchestra che artistici o responsabili di agenzia e case discografiche. Esclusa Mirella Freni, che cantò il tardo Verdi per semplice dovere d’ufficio e con una esemplare parsimonia.
Sul presupposto, valido solo se si dispone di Elisabeth Rethberg o Maria Muller o Giannina Arangi Lombardi, che Verdi non richieda urla e grida, abbiamo visto e sentito Mimì, Adina, Manon promosse a soprani di forza. In un paio di casi, Mirella Freni e Maria Chiara, il risultato è stato decoroso, ma la Freni ha brillato come cantante verdiana soprattutto per parsimonia di prestazioni e severo autocontrollo mentre Maria Chiara, dotata di strumento di eccezionale bellezza, ha accorciato per le Aide areniane la propria carriera. Ma, ripeto, si trattava di cantanti di meditata e sicura tecnica. Negli altri casi il risultato è stato disastroso (Katia Ricciarelli e Cheryl Studer), costellato di strilli ed urli (Maria Guleghina), ridicolo (Ileana Cotrubas) ridicolo e disastroso (Fiamma Izzo d’Amico).

Gli ascolti

Un ballo in maschera

Atto II

Ecco l'orrido campo - Eugenia Burzio; Gertrud Grob-Prandl; Leontyne Price
Teco io sto - Ester Mazzoleni & Nicola Fusati; Birgit Nilsson & Richard Tucker

Atto III

Morrò ma prima in grazia - Elizabeth Rethberg; Montserrat Caballè, Katia Ricciarelli
Scena della congiura - Zinka Milanov, direttore Bruno Walter (Met 1944)

La forza del destino

Atto I

Me pellegrina ed orfana - Gina Cigna

Atto II

Son giunta! - Antonietta Stella
Infelice, delusa, reietta - Maria Caniglia & Tancredi Pasero
La vergine degli angeli - Rosa Ponselle; Maria Caniglia

Atto IV

Pace mio Dio - Claudia Muzio; Renata Tebaldi

Don Carlos

Atto II

Io vengo a domandar - Maria Caniglia & Mirto Picchi; Eleanor Steber & Richard Tucker
Non pianger mia compagna - Leyla Gencer; Montserrat Caballè; Renata Scotto

Atto V

Tu che le vanità - Anita Cerquetti; Renata Scotto
E' dessa - Leyla Gencer & Richard Tucker; Ghena Dimitrova & Nicola Martinucci

Aida

Atto I

Ritorna vincitor - Frieda Leider; Maria Callas

Atto II

Fu la sorte dell'armi - Maria Caniglia & Ebe Stignani; Leontyne Price & Grace Bumbry
Scena del trionfo - Elizabeth Rethberg, Giacomo Lauri-Volpi - Londra 1936

Atto III

O patria mia - Giannina Arangi-Lombardi; Montserrat Caballé
Ciel! mio padre! - Giannina Russ & Antonio Magini-Coletti; Zinka Milanov & Richard Bonelli
Pur ti riveggo - Margarethe Teschemacher & Helge Rosvaenge

Atto IV

La fatal pietra - Rosa Ponselle & Giovanni Martinelli; Maria Callas & Kurt Baum

Simon Boccanegra

Atto I

Come in quest'ora bruna - Renata Tebaldi; Margaret Price
Cielo di stelle orbato - Renata Tebaldi & Richard Tucker
Favella il Doge - Elizabeth Rethberg & Lawrence Tibbett; Raina Kabaivanska & Piero Cappuccilli
Plebe! Patrizi! Popolo! - Elizabeth Rethberg, Lawrence Tibbett

Requiem

Libera me Domine - Margarethe Teschemacher

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domenica 3 febbraio 2008

Hit Parade!

Cari amici,

siamo stati presi dalla curiosità di verificare l'effettivo gradimento dei lettori di questo sito per le nostre selezioni di ascolti. Il buon Nourrit, disc jockey ufficiale del Corriere, ha dato un'occhiata ai contatori del sito che ospita i nostri ascolti.

Che melomani siete? Che gusti avete? Chi sono i vostri preferiti? Cosa manca alle vostre collezioni?
Guardate un po' qui la vostra Hit Parade!

01. Verdi - Un ballo in maschera - Duetto d´amore - Mazzoleni & Fusati - 124

02. Rossini - La donna del lago - Oh quante lagrime - Z. Dolukhanova - 97

03. Rossini - Il barbiere di Siviglia - Ecco ridente in cielo - H. Jadlowker - 95

04. Rossini - Semiramide - Ah quel giorno - Z. Dolukhanova - 76

05. Verdi - Il trovatore - Ah si ben mio - J. Urlus - 76

06. Bellini - I puritani - Vieni fra queste braccia - Marconi & Galvany - 62

07. Rossini - La Cenerentola - Nacqui all´affanno - M. Dupuy - 62

08. Donizetti - Maria Stuarda - Confronto - Gruberova & Ganassi - 61

09. Donizetti - Maria Stuarda - Confronto - Gencer & Verrett - 60

10. Donizetti - Lucia di Lammermoor - Quando rapito in estasi - J. Pratt - 60


11. Meyerbeer - Les Huguenots - Plus blanche - H. Jadlowker - 53

12. Rossini - La Cenerentola - Sì ritrovarla io giuro - J. Osborn - 52

13. Donizetti - Lucia di Lammermoor - Il dolce suono - J. Pratt - 50

14. Wagner - Lohengrin - In fernem Land - H. Jadlowker - 46

15. Handel - Rinaldo - Or la tromba - M. Horne - 46

16. Verdi - Rigoletto - Parmi veder le lagrime - A. Bonci - 44

17. Meyerbeer - Robert le Diable - Au tournoi - L. Escalais - 43

18. Mozart - Exultate, Jubilate - Alleluja - Sigrid Onegin - 42

19. Donizetti - Lucrezia Borgia - Era desso il figlio mio - L. Gencer - 41

20. Donizetti - Maria Stuarda - Ah se un giorno - M. Caballè - 41

21. Rossini - La Cenerentola - Nacqui all´affanno - M. Horne - 41

22. Bellini - I Puritani - Qui la voce - J. Pratt - 41

23. Giordano - Fedora - Amor ti vieta - F. De Lucia - 40

24. Rossini - La Cenerentola - Sprezzo quei don - Z. Dolukhanova - 39

25. Verdi - Il trovatore - Ah si ben mio - L. Escalais - 39

26. Mozart - Don Giovanni - Deh vieni alla finestra - M. Battistini - 38

27. Puccini - Tosca - Recondita armonia - A. Bonci - 37

28. Gounod - Roméo et Juliette - Ah, lève-toi soleil - L. David - 36

29. Rossini - L´Italiana in Algeri - Amici in ogni evento - Z. Dolukhanova - 35

30. Rossini - L´Italiana in Algeri - Per lui che adoro - Z. Dolukhanova - 35

31. Wagner - Lohengrin - Cessaro i canti - De Lucia & Huguet - 33

32. Rossini - La Cenerentola - Pegno adorato - C. Valletti - 32

33. Rossini - La Cenerentola - Sì ritrovarla - R. Blake - 31

34. Rossini - Il barbiere di Siviglia - Cessa di più resistere - M. Angelini - 31

35. Verdi - Jérusalem - Je veux encore entendre - L. Escalais - 30

36. Mascagni - Cavalleria rusticana - O Lola - F. De Lucia - 30

Quindi, ecco per voi la più gettonata di tutti: ESTER MAZZOLENI!


Bellini - Norma - In mia man alfin tu sei (con Giovanni Zenatello) - 1911
Catalani - La Wally - Ebben, ne andrò lontana - 1909
Gomes - Il Guarany - Sento una forza indomita (con Giovanni Zenatello) - 1911
Mascagni - Iris - Un dì ero piccina - 1909
Ponchielli - La Gioconda - E un anatema! (con Elisa Bruno) - 1909
Ponchielli - La Gioconda - Laura! Laura! Ove sei? (con Giovanni Zenatello) - 1910
Ponchielli - La Gioconda - Enzo, sei tu? (con Giovanni Zenatello) - 1910
Ponchielli - La Gioconda - Così mantieni il patto? (con Pasquale Amato) - 1909
Puccini - Tosca - O dolci mani (con Giovanni Zenatello) - 1911
Spontini - La Vestale - Tu che invoco - 1910
Verdi - Il trovatore - Ciel! Non m'inganna (con Giovanni Zenatello & Elisa Bruno) - 1911
Verdi - Aida - Pur ti riveggo mia dolce Aida (con Francisco Vinas) - 1909
Verdi - Aida - O terra addio (con Giovanni Zenatello) - 1911

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