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domenica 27 marzo 2011

Verdi Edission: Il Trovatore a 78 giri in italiano

Quello che vi proponiamo di fare oggi con la puntata dedicata al Trovatore a 78 giri in lingua italiana è un viaggio nella quarta dimensione del canto. Dimensione che nemmeno noi pensavamo potesse esistere, ma gli ascolti effettuati di circa 150 tra brani acustici ed elettrici di uno dei titoli più popolari e maggiormente eseguito dai cantanti antichi, ci hanno posto davanti un altro mondo, un’altra lirica.

L’intento era quello di documentare il Trovatore come si può ricostruire dai microsolchi dalle origini sino al periodo tra le due guerre, dando per assodati e trattati cantanti celeberrimi, veri monumenti della storia, come la Stignani, collocati a cavallo tra quel passato remoto e l’era moderna. Documentare significava, in questo caso, scegliere in modo mirato nel mare magnum dei documenti pervenuti sino a noi di voci storiche di prima seconda e terza “classe”, in modo da mettere a disposizione materiali rappresentativi della storia della vocalità, ossia tipi di voci e prassi esecutive. Impresa rivelatasi da un lato impossibile per via della difficoltà di scegliere tra tante esecuzioni eccezionali, dall’altro a causa della rarità di alcune incisioni e il disinteresse per certe parti dell’opera rispetto ad altre, fatto anche questo assai significativo perché documento chiaro della concezione che i cantanti antichi avevano di questa opera, e di cosa fosse per loro la grandezza dell’esecuzione del ruolo in cui si cimentavano. Impossibilità di scegliere? Certamente! E’ impossibile scegliere un numero limitato di esecuzioni significative perché il numero dei grandi esecutori e dei passi tramandatici è altissimo, e non per la popolarità dell’opera quanto per il livello altissimo, per noi oggi assolutamente inconcepibile, del canto espresso. Esemplifico: non esiste un solo tenore, di serie A, B o C che non squilli negli acuti, esecuzione della Pira in particolare. Fatto eclatante per noi, che viviamo in un presente in cui nessun tenore nel ruolo di Manrico sappia, non dico, squillare, ma eseguire correttamente gli acuti. Fatto ancor più eclatante perché l’ascolto seriale di questi materiali dimostra che anche tenori come Bergonzi o Corelli avrebbero stentato a reggere il confronto, per estensione, completezza di fraseggio e timbro con i Manrico dei 78 giri. Solo Richard Tucker sembra avere avuto tali e tante armi da poter competere con loro. Ma nel complesso, il dopoguerra pare essere stata un’età di svolta per la corda di tenore ed in parte per quella di soprano, svolta verso l’assoluta rarità di esponenti completi per il ruolo protagonistico maschile, eccezionalità di grandi protagoniste femminili, oggi come oggi estinte pure loro. La constatazione che vi sottopongo non è espressa a cuor leggero o senza riflessione, ma discende dagli ascolti che pure voi invito a fare. Ascolti che saranno ulteriormente rafforzati dalla prossima puntata, quella delle esecuzioni a 78 giri in lingua straniera, che completano il quadro delle grandi scuole di canto europee, che oggi come oggi possiamo solo dichiarare estinte. Dall’altro emerge gigantesca la constatazione che a fronte di innumerevoli artisti di statura storica non sono documentati che alcuni, pochissimi, nomi di direttori d’orchestra. Questi artisti sono sé stessi da soli, e non per le bacchette anche celeberrime, con cui lavorarono, da Toscanini a Mugnone etc..Ed il pensiero istintivo di chi, melomane come me, vive il presente, và alle moderne diciture: il Trovatore di Muti, il Trovatore di Temirkanov, di Pappano…Il Trovatore dei direttori, insomma. Possiamo avere tutti i geni della bacchetta che vogliamo, ma senza grandi cantanti non si può fare un grande Trovatore, nemmeno avvicinarsi ad una buona esecuzione. E questa concezione velleitaria è una delle più grandi storture del nostro presente sulla quale dovremmo riflettere al cospetto di questi ascolti straordinari, incommensurabili ed innavicinabili da parte nostra oggi.

Gli ascolti dei brani hanno tutti o quasi un denominatore comune, che li unisce e li differenzia dalle esecuzioni del dopoguerra, ossia il tempo, nella maggioranza dei casi più lento di quelli cui noi siamo avvezzi. Le arie in particolare sono eseguite con maggior larghezza, voci piene e varietà di fraseggio, conferendo agli andanti una espressione più marcata, insomma …un sapore più netto rispetto ad oggi. Quello del protagonista è certamente il ruolo “perduto”, ossia il ruolo che l’età moderna ha maggiormente alterato nel suo carattere come nella vocalità. Tutti gli interpreti con cui siamo venuti in contatto, a cominciare da Francesco Tamagno, già ritirato all’epoca dell’incisione della sua Pira, ai De Muro e Caruso sino ai più recenti Pertile e Lauri Volpi, inclusi tenori di secondo piano come Scampini o altri di fama ancora minore che qui abbiamo omesso come Biel, Garcia o Valls, tanto per fare dei nomi, erano dotati di squillo. Non solo di perfetto dominio del registro acuto, ma di squillo vero e proprio. E tanto per intenderci sul significato che sino al dopoguerra si è attribuito alla parola squillo, abbiamo incluso una Pira dalla voce di un tenore ritenuto poco squillante e dotato in zona acuta, ossia Beniamino Gigli, per noi oggi squillantissimo. Pira per la quale non si ammetteva l’esecuzione senza puntature, con buona pace della filologia moderna, a cominciare proprio da Tamagno. L’esecuzione abbassata era prassi accettata e diffusa per i tenori, che non potessero eseguire il do come ad esempio Pertile, mentre anche altre interpolazioni venivano eseguite come quelle oggi del tutto desuete nella scena del Miserere, come udiamo ad esempio nella bellissima incisione della scena di Celestina Bonisegna e Augusto Scampini, quelle della canzone di ingresso oppure quella, bruttissima a mio avviso, in chiusa all’ ”Ah si ben mio”, ancora frequente nei 78 giri, o addirittura nella scena del convento da parte di De Muro. Acuti, ma anche un canto legato, a sostegno di un fraseggio più o meno articolato, funzionale alla creazione di un personaggio indiscutibilmente eroico, nobile, in alcuni casi malinconico, sempre virile. Colpisce in tal senso il modo di gestire la canzone di ingresso, Deserto sulla terra, eseguita con tempo lento, in alcuni casi lentissimo, come tradizione che va da Tamagno a Pertile. La malinconia pare essere un tratto prevalentemente moderno, di pochi, mentre i più preferivano conferire al brano il tratto di una nenia cantata da un eroe di guerra, come del resto ci dice il personaggio stesso. Il colore della voce di Manrico non era affatto prestabilita, variando da quella scurissima e baritonaleggiante di Caruso a quella chiara ed ampia di De Muro sino a quella adolescenziale e squillantissima di Lauri Volpi. Tutti sanno legare il suono con la voce, e, fatto per noi oggi assolutamente straordinario, legano anche i tenori di forza, legano e modulano il suono con assoluta facilità, mantenendo sempre un’emissione perfettamente composta e, soprattutto stilizzata. Stupisce la completa assenza di “fibra” o di sforzo in queste voci, che suonano sempre completamente libere ed astratte. Francesco Merli un prodigio vocale e di forza fisica, che ebbe questo ruolo in repertorio per trent’anni assieme a tutti i ruoli più pesanti del repertorio, canta con voce enorme, facile, legatissima e morbida, senza portamento alcuno al contrario di molti suoi epigoni, a cominciare da Franco Corelli, che finisce per essere un tenore di gusto deteriore al confronto. La lezione di Merli e di Pertile rappresenta la lettura toscaniniana del canto di Manrico, di un canto composto, sempre diretto sulle note, mai o comunque assai meno abusato e connotato da libertà esecutive quali quelle che si riscontrano in un Paoli, ad esempio, molto ottocentesco e “marconiano” nell’emissione dei suoni centrali come ben si percepisce nell’esecuzione dell’”Ah si ben mio”, seguito, peraltro, da una delle Pire di forza più impressionati dell’intero mondo dei 78 giri. Il loro è il canto cui noi siamo maggiormente abituati, mentre Paoli suona per noi arcaico e lontanissimo per gusto nell’esecuzione degli andanti, al contrario della cabaletta. Non è Caruso, dunque, a fare da spartiacque , come già altre volte, tra il tenore antico e quello moderno nell’evoluzione del gusto, forse anche perché cantò l’opera raramente. La sua incisione dell’aria, nel 1908, pare poco “carusiana” per il gusto, particolarmente varia per i suoi standard di fraseggio, e per nulla compiaciuta di certi vezzi tipici, il portamento soprattutto, che tanto fecero scuola tra i suoi epigoni. Il timbro scurissimo, piuttosto, in parte naturale in parte voluto, vera anomalia rispetto a tutti gli altri colleghi sino al secondo dopoguerra, sembra oggi la sola componente che lo accomuna a certi (malsani) esecutori di età moderna, che bitumano artificiosamente le loro voci. La sua Pira, va detto, pare essere il primo caso di manipolazione fraudolenta, in modo da far credere che Caruso eseguisse il brano in tono. Quanto poi alla seconda linea tenorile, quella più lirica e leggera che abbiamo visto in campo subito all’epoca della composizione dell’opera, trova ancora documentazione in voci come Piccaver o Dalmorès, famoso per l’esecuzione del trillo in chiusa all’ ”Ah si ben mio”, che suonano comunque assai più liriche e piene di quanto non abbiamo sentito, ad esempio, da un Pavarotti. Trovare morbidezza e lirismo in un esecutore abituale di Donizetti come Piccaver non stupisce, mentre và oltre ogni nostra aspettativa sentire una qualità di canto che noi oggi non conosciamo nemmeno nel belcanto in un tenore solito a praticare il Verismo più spinto come Bernardo De Muro, che ricorda per molti aspetti il canto spinto all’estremo delle proprie risorse di Lauri Volpi, che, ad onta della sua planetaria fama come più grande Manrico di tutti i tempi, non ci ha lasciato una esecuzione di “Ah, si ben mio” e Pira cantante con quel timbro adolescenziale che tutti conosciamo attraverso i live della sua tarda età. L’incisione Brunswick del 1923, infatti, è quella del Lauri Volpi antecedente l’incontro con Maria Ros, quando il tenore ancora imitava apertamente i modi di Caruso di scurire il suono. L’esecuzione, comunque, resta straordinaria per accento e squillo. Per quanto concerne il personaggio di Leonora, fortemente caratterizzato da una componente belcantistica e da una tragica contrapposte, i 78 giri documentano assai limitatamente la prima. O meglio, la riscontriamo nel canto di primedonne tecnicamente straordinarie, dall’emissione perfettamente astratta almeno in zona centro acuta, in grado di amministrare con scioltezza i passi di agilità, complice la precoce affermazione della prassi del taglio della cabaletta successiva al Miserere, reintrodotta in età moderna. Si tratta, comunque, di soprani eccezionali anche per il gusto sobrio, modernissimo, come la Raisa, prima, la Russ o l’Arangi Lombardi o la stessa Muzio, che portarono in teatro un titolo come la Norma senza cadere nelle contaminazioni del gusto verista. Soprani che praticavano abitualmente il repertorio spinto o drammatico, e con loro anche la Rethberg, di cui ci resta solo il finale live con Martinelli dal Met, già pubblicato nella puntata precedente, capaci di accentare in modo composto ma vario, insomma di esprimere sempre solo con il canto. E’ in questa loro arcaica perfezione di tecnica unita a strumenti privilegiati per timbro ed estensione, le prime due in particolare, che risiede la peculiarità di un canto estraneo ad ogni inflessione di tipo naturalista destinato ad estinguersi di lì a poco. Soffrono entrambe nel registro grave, l’Arangi forse un po’ meno della Raisa (che però sale con straordinaria facilità al re bemolle), mentre di loro la più perfetta anche nei gravi fu certamente la Rethberg, ma fraseggiano con un pathos ed una poesia ( la Muzio poi, laddove non arriva con il suo strumento arriva con la spontanea ricercatezza ed fantasia del suo emozionante fraseggio ) che dopo di loro solo la Callas, la Cerquetti e la Gencer hanno saputo avvicinare. E’ la sola Amelita Galli Curci a rappresentare, nel mondo dei 78 giri, il filone del belcantismo puro, dato che all’incisione delle arie la Tetrazzini ( che esegue male, fra l’altro, la scena del quarto atto ) non diede alcun seguito con l’esecuzione dell’opera in teatro. La Galli Curci con la sua ampia voce cristallina da leggero purissimo, lascia la sensazione di trovarsi al cospetto di una grandissima artista diva piuttosto che di Leonora, una diva che voleva, in virtù della natura sonorissima del mezzo, cimentarsi al di là della propria natura vocale, antesignana dichiarata delle performances newyorkesi della Sutherland, ma non so in che misura aderente all’arcaico modello della più grande belcantista ottocentesca, cioè la Patti e la Grisi. Al loro fianco le voci stupende della Ponselle, più comuni, ma elegantemente amministrate di soprani spinti di secondo piano come la Spani, che esegue benissimo la cavatina, o di dive veriste al cento per cento come la Destinn, che nel Miserere offre una prova perfetta del modo sopra le righe e retorico di approcciare il passo più drammatico e di scrittura grave dell’opera. Arrivano i suoni aperti e sbiancati, le note di petto ed un fraseggio abbastanza esteriore. Meglio certe italiane, come la Bonisegna, estesissima nei gravi tanto da arrivare a cimentarsi anche con le incisioni delle scene di Azucena, oppure la Minghini Cattaneo, davvero poderosa in questa scena. Della Caniglia e della Cigna vi abbiamo già dato documentazione nella puntata precedente. La scena che, nel post Callas che ha fortemente liricizzato ed alleggerito il peso specifico del ruolo, non ha poi più trovato esecutrici in grado di amministrare la scena con la forza, a volte certamente esagerata per il nostro gusto, tipica dei soprani drammatici. Per quanto attiene il ruolo della zingara, i 78 giri in italiano documentano ancora mezzosoprani di caratura belcantistica come Eugenia Mantelli, Azucena numerose volte al Met alla fine dell’Ottocento e con Francesco Tamagno, o Ernestine Schumann-Heink, qui nella celeberrima incisione dell’ultima scena con Enrico Caruso, cui si affiancavano altre interpreti straniere che vedremo nel volume dedicato alle esecuzioni in lingua. Queste interpreti restituiscono la dimensione ottocentesca a metà tra retaggio belcantistico e nuova vocalità del mezzosoprano verdiano di cui parlammo nella prima puntata e che si perse nei primi decenni del novecento, a favore di un personaggio meno raffinato e rifinito sul piano vocale. Ne è un esempio Elvira Casazza, l’Azucena più famosa precedente “l’impero” di Ebe Stignani, che con il suo arrivò ripristinò stile, emissione perfetta ed eleganza esecutiva del personaggio. Nessuna di queste cantanti del pre Stignani si abbandona mai al canto sgangherato e volgare di Fedora Barbieri. Possono avere magari la voce con due registri non omogeneizzati, come la Casazza appunto, o cantare con ampio uso del registro di petto oltre il nostro gusto moderno come la Minghini Cattaneo, voce peraltro bellissima oltre che ampia, che canta disordinatamente il "Deh rallentate o barbari" o la Zinetti, che, al contrario, è volgare nel "Giorni poveri vivea" ma regge meglio la stretta della scena, mai si abbandonano ad una dimensione becera e volgare della zingara e che le moderne Azucene, vuoi per limiti tecnici vuoi per gusto deteriorato, sovente ci restituiscono. Quanto ai baritoni c’è assi poco da dire. Voci ampissime come pure voci di normale tonnellaggio si sono cimentati nell’incisione dell’aria del Conte di Luna, che non è esattamente un must che interessasse ai grandi cantanti incidere per documentare le proprie virtù canore. Mattia Battistini rappresenta il modo ottocentesco di eseguire il duetto con Leonora ( l’incisione dell’aria risulta perduta..), sempre composto, elegante, estraneo ad ogni truculenza moderna che da Tagliabue e MacNeil in poi ci viene regolarmente propinata ad ogni produzione di Trovatore, buona e non ultima quella parmigiana. Eppure come il re dei baritoni cantavano no solo le star, di mezzo limitato come De Luca o importante come Galeffi, ma anche, e soprattutto per noi oggi, le voci di secondo piano. Abbiamo già proposto nel leggendario video Giacomo Rimini, marito di Rosa Raisa, o una coppia più ruspante, la Poli Randaccio con Inghilleri. In questa puntata ho scelto un’esecuzione più tarda, anni ’30, di Enrico Molinari, che incise l’opera con Francesco Merli e Bianca Scacciati. Esecuzione strepitosa per il legato, la morbidezza di emissione, la facilità del canto, un canto fin troppo regale per la rozzezza del personaggio. Molinari canta porgendo ogni frase quasi si trattasse del Re di Favorita, eppure no toglie nulla al profilo drammaturgico del personaggio, che di fatto è caratterizzato da una psicologia, posticcia, falsa, come in una fiaba. Quanto al ruolo di Ferrando, si tratta di rare incisioni, quasi delle curiosità da parte di celebrità come Ezio Pinza, o Nazareno De Angelis, rari ma eccezionali interpreti della scena iniziale, la cui presenza in teatro poteva essere un lusso per produzioni particolari, ma più frequentemente una presenza legata ad altre in ruoli più rilevanti nelle tournée dei grandi teatri.

Gli ascolti Giuseppe Verdi Il trovatore
Atto I


Abietta zingara - Ezio Pinza (1923)

Tacea la notte placida...Di tale amor che dirsi -
Hina Spani (1919), Rosa Ponselle (1922), Maria Nemeth (1927), Claudia Muzio (1935)

Deserto sulla terra - Francesco Tamagno (1903), Bernardo De Muro (con Ernesto Badini - 1917), Augusto Scampini (1912)
Di geloso amor sprezzato - Giuseppe Pacini, Giannina Russ & Luigi Longobardi (1905)

Atto II

Stride la vampa
Armida Parsi-Pettinella (1904), Eugenia Mantelli (1905) Condotta ell'era in ceppi - Armida Parsi-Pettinella (1909)

Mal reggendo all'aspro assalto...Perigliarti ancor languente - Enrico Caruso & Louise Homer (1910), Bernardo De Muro & Elvira Casazza (1917), Aureliano Pertile & Irene Minghini-Cattaneo (1927)

Il balen del suo sorriso - Giuseppe De Luca (1907), Riccardo Stracciari (1917), Enrico Molinari (1930) E deggio e posso crederlo? - Bernardo De Muro & Janni, Badini & Bettoni (1914)

Atto III

Giorni poveri vivea - Armida Parsi-Pettinella (con Pasquale Amato & Ferruccio Corradetti - 1909), Irene Minghini-Cattaneo (con Apollo Granforte & Bruno Carmassi - 1930), Giuseppina Zinetti (con Enrico Molinari & Corrado Zambelli - 1930)

Ah sì, ben mio - Enrico Caruso (1908), Antonio Paoli (1911), Bernardo De Muro (1917), Alfredo Piccaver (1923), Giacomo Lauri-Volpi (1923), Aureliano Pertile (1925), Francesco Merli (1930)

Di quella pira - Francesco Tamagno (1903), Antonio Paoli (1911), Giacomo Lauri-Volpi (1923), Francesco Merli (1930), Beniamino Gigli (1940),

Atto IV

Timor di me?...D'amor sull'ali rosee - Rosa Raisa (1918), Amelita Galli-Curci (1918), Giannina Arangi-Lombardi (1927)

Miserere - Celesina Boninsegna & Augusto Scampini (1907), Emmy Destinn & Giovanni Martinelli (1912), Irene Minghini-Cattaneo & Aureliano Pertile (1927)

Mira d'acerbe lagrime...Vivrà, contende il giubilo - Elvira Barbieri & Mattia Battistini (1913), Giannina Arangi-Lombardi & Carlo Galeffi (1928), Tina Poli-Randaccio & Giovanni Inghilleri (1929)

Ai nostri monti - Enrico Caruso & Ernestine Schumann-Heink (1910), Beniamino Gigli & Cloe Elmo (1940)

No, non m'inganna quel fioco lume - Giovanni Zenatello, Ester Mazzoleni & Elisa Bruno (1908)

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martedì 9 novembre 2010

Le favole di Giulia Grisi: Parma 1913, stagione del centenario verdiano

Si è concluso da pochi giorni il Festival Verdi, che tante riflessioni ha suggerito a questo blog e aliunde in Rete.
Altre riflessioni, di segno opposto, suggerisce la lettura del programma della stagione lirica invernale, allestita al Teatro Regio di Parma, l’anno 1913.

Nell’occasione del primo centenario dalla nascita di Verdi, il Comitato appositamente costituito e diretto dall’avvocato Mario Ferrarini propose un cartellone composto da sei titoli, scelti fra i più rappresentativi del catalogo del Maestro. In chiusura, venne eseguita, nel giorno successivo a quello del genetliaco, la Messa da Requiem.
Tutti gli spettacoli furono diretti da Cleofonte Campanini e allestiti, nel caso delle opere, da Carlo Ragni. Altro e forse ancor più impressionante monopolio fu quello assegnato per l’occasione a Giannina Russ, ossia uno dei maggiori soprani drammatici del primo Novecento. Con l’esclusione dell’Oberto e del Falstaff, la Russ fu la protagonista di tutti gli spettacoli allestiti da questa sorta di Festival Verdi ante litteram che fu, appare ragionevole credere, assai più fedele allo spirito e al dettato del Maestro, di molte rappresentazioni successive, benedette e patrocinate da tutti i crismi della “territorialità” parmigiana. Per averne, se non la prova, un indizio ragionevolmente sicuro, basta ascoltare la grande aria del chiostro di San Giusto, che proponiamo in appendice, e chiedersi, anche non retoricamente, quale altra Valois abbia sfoggiato pari fascino timbrico, analoga ampiezza vocale e paragonabile qualità di legato. Sull’Aida, già ampiamente trattata in sede di riflessione sulle principesse etiopiche alla Scala, non pare il caso di aggiungere altro. Quanto al terzetto del Ballo, impressiona la facilità con cui la cantante affronta il passaggio “per pietà, va’, t’invola di qui”, passaggio che ha l’abitudine di condurre il soprano a richiamare, nel canto, immagini avicole non esattamente lusinghiere. È poi tutta da scoprire l’Abigaille gelida e sprezzante della Russ, sorvegliatissima in basso (laddove quasi tutte le interpreti, anche le più celebrate, tendono a “lasciarsi andare”, con esiti magari d’impatto ma stilisticamente assai dubbi) e assolutamente impressionante per l’ampiezza e la penetrazione degli acuti, davvero folgoranti.
La Russ fu certo la star della manifestazione, ma non sfugge come, nell’Oberto e in una replica del Ballo, abbia avuto occasione di presentarsi al pubblico di Parma una fanciulla promettente, Raitza Burchstein, in arte (e quale arte) Rosa Raisa. Ci asterremo dal proporre la Raisa nel Trovatore, perché il confronto con le esecutrici dell’edizione festivaliera appena trascorsa sarebbe non solo impietoso, ma ingiusto, essendo una simile unione di malia timbrica, dolcezza e semplicità di espressione e – ovviamente – sovrano controllo tecnico una pietra di paragone degna di ben più fauste occasioni.
Quanto alle voci maschili, la stagione 1913 offrì ai parmigiani e agli spettatori, che a Parma per l’occasione si recarono, la possibilità di udire due tenori per molti versi antitetici, rappresentanti rispettivamente della grande tradizione ottocentesca e della nascente scuola novecentesca: Alessandro Bonci (che si avvicinava alla fase conclusiva della carriera) e Giovanni Martinelli (che della carriera era agli inizi e nel giro di pochi mesi avrebbe debuttato al Metropolitan). Del primo, impegnato nel Ballo, possediamo un’ampia selezione del titolo, incisa una decina d’anni dopo il ritiro dalle scene, e che impressione anche e soprattutto per la qualità della voce in zona centrale, quella zona in cui gli esecutori, che attualmente affrontano il ruolo di Riccardo, stentano e penano. Salvo poi stentare e penare ancora di più appena cerchino di salire agli acuti. I primi acuti, per inciso.
Vero lusso, come si vede. E non minori lussi furono Nazzareno de Angelis (“il” basso italiano dell’epoca) quale Zaccaria, l’intero cast del Falstaff capitanato da Marie Delna nel cameo della Quickly, la giovanissima Maggie Teyte nella parte di Oscar. Quanto poi al Don Carlo, l’indisposto divo e beniamino del Regio, Titta Ruffo (che vi proponiamo nella scena finale di Rodrigo), fu sostituito da un giovane di belle speranze: Giuseppe Danise. Non esisteva il Festival Verdi, ma c’era se non altro un rispetto nei confronti del pubblico, che non consentiva di proporre, in una prima parte, uno studente di canto, in luogo di un serio, ancorché giovane, professionista.
Auguriamo ogni fortuna ai responsabili presenti e futuri del Festival Verdi, sperando che sappiano elaborare, per l’imminente stagione del bicentenario, una proposta anche solo in minima parte paragonabile a quella del 1913.



STAGIONE LIRICA INVERNALE 1913
CENTENARIO VERDIANO


6 e 8 Settembre 1913
OBERTO CONTE DI SAN BONIFACIO

Ninì Frascani - Cuniza
Italo Cristalli - Riccardo
Angelo Masini Pieralli - Oberto
Rosa Raisa - Leonora
Ilde Simoni - Imelda

Direttore: Cleofonte Campanini
Regista: Carlo Ragni

Chiudono lo spettacolo la Sinfonia ed il Ballabile delle quattro stagioni da "I Vespri Siciliani"


10 e 13 Settembre 1913
NABUCCO

Giuseppe Bellantoni - Nabucco
Robert Lassalle - Ismaele
Nazzareno De Angelis - Zaccaria
Giannina Russ - Abigaille
Ninì Frascani - Fenena
Ernesto Benasso Liani - Abdallo
Ilde Simoni - Anna

Direttore: Cleofonte Campanini
Regista: Carlo Ragni


14, 20 e 26 Settembre 1913
UN BALLO IN MASCHERA

Alessandro Bonci - Riccardo
Emilio Bione, Vincenzo Guicciardi (26.9) - Renato
Giannina Russ, Rosa Raisa (26.9) - Amelia
Ida Bergamasco, Tina Alassia (26.9) - Ulrica
Maggie Teyte, Elisa Marchini (26.9) - Oscar
Niccolò Fossetta - Silvano
Andrés Perelló de Segurola - Samuel
Ernesto Benasso Liani - Tom
Palmiro Domenichetti - Un Giudice

Direttore: Cleofonte Campanini
Regista: Carlo Ragni


17, 21 e 24 Settembre 1913
AIDA

Ernesto Benasso Liani - Il Re
Ninì Frascani - Amneris
Giannina Russ (17.9), Carolina With - Aida
Giovanni Martinelli - Radames
Mansueto Gaudio - Ramfis
Giuseppe Bellantoni - Amonastro
Palmiro Domenichetti - Un Messaggero

Direttore: Cleofonte Campanini
Regista: Carlo Ragni


1° e 4 Ottobre 1913
FALSTAFF

Mario Sammarco - Falstaff
Ernesto Badini - Ford
Italo Cristalli, Giuseppe Di Bernardi (4.10) - Fenton
Gaetano Pini Corsi - Dottor Cajus
Cesare Spadoni - Bardolfo
Andrés Perelló de Segurola - Pistola
Ersilde Cervi Caroli - Alice
Maria Crosa - Nannetta
Marie Delna - Quickly
Flora Perini - Meg Page

Direttore: Cleofonte Campanini
Regista: Carlo Ragni


5 Ottobre 1913
DON CARLO

Angelo Masini Pieralli - Filippo II
Amedeo Bassi - Don Carlo
Giuseppe Danise - Rodrigo
Ernesto Benasso Liani - Il Grande Inquisitore
Amleto Galli - Un Frate
Giannina Russ - Elisabetta di Valois
Elena De Cisneros - La Principessa Eboli
Rosina Gronchi - Tebaldo
N.N. - La Contessa d'Aremberg
Giuseppe Ansaldi - Il Conte di Lerma
Palmiro Domenichetti - Un Araldo

Direttore: Cleofonte Campanini
Regista: Carlo Ragni



11 Ottobre 1913
MESSA DA REQUIEM

Giannina Russ - soprano
Ninì Frascani - mezzosoprano
Alessandro Bonci - tenore
Vittorio Arimondi - basso

Direttore: Cleofonte Campanini


Gli ascolti


Verdi



Nabucco

Parte II

Vieni o Levita - Nazzareno de Angelis (1928)

Parte III

Donna, chi sei?...Oh di qual onta aggravasi - Enrico Nani & Giannina Russ (1913)


Un ballo in maschera

Atto I

Amici miei...La rivedrà nell'estasi - Alessandro Bonci (1926)

Di' tu se fedele - Alessandro Bonci (1926)

E' scherzo od è follia - Alessandro Bonci, Erminia Rubadi, Giuseppe Menni, Salvatore Baccaloni & Aurore Rettore (1926)

Atto II

Teco io sto - Alessandro Bonci & Maria Pia Pagliarini (1926)

Tu qui?...Odi tu come fremono cupi - Luigi Longobardi, Giuseppe Pacini & Giannina Russ (1904)


Aida

Atto I

Celeste Aida - Giovanni Martinelli (1914)

Ritorna vincitor - Giannina Russ (1905)

Atto III

O cieli azzurri - Giannina Russ (1905)

A te grave cagion - Antonio Magini-Coletti & Giannina Russ (1905)


Don Carlo

Atto III

Per me giunto è il dì supremo - Titta Ruffo (1904)

Atto IV

Tu che le vanità - Giannina Russ (1910)


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giovedì 30 settembre 2010

Mese verdiano XXIII - Son giunta! Ultima puntata: i bonus

In realtà l'ultimo post dedicato alla Forza del destino, che chiude il mese verdiano del 2009 protrattosi per un anno, non è dedicato esclusivamente a "Son giunta", ma ad alcune pagine riservate all'infelice e sofferente protagonista di Forza del destino.

Nessuna pretesa di ascolto riparatorio come quello pensato per Poliuto, che più che la riparazione ha scatenato insurrezione per alcune imprecisioni e risurrezione di siti e fori diversamente piuttosto languenti e cultori della polemica oziosa, semplicemente offrire stralci dell'esecuzione ora in capo a cantanti, che mai hanno affrontato il ruolo in teatro, o delle quali non esiste, purtroppo, l'intera esecuzione della scena del convento, che aveva costituito il nostro topos verdiano per il 2009.
Neppure alcuna presunzione di completezza perchè in questo caso alcune assenze sarebbero davvero imperdonabili come quella di Rosa Ponselle, che proprio con questo titolo debuttò ed al Met ed in carriera, smentendone la fama jettatoria, Zinka Milanov o, a livello più basso, Adriana Guerrini.
Certo è che la donna Leonora a noi del blog piace nobile ed ispirata con una linea di canto curata, raffinata ed attenta ai segni di espressione, che canti ogni nota dandole senso ed eviti, perchè non previste in spartito forzature d'accento e parlato in luogo di cantato.
Tutte quelle che abbiamo rispondono a questo modello.
Tutte e per differenti motivi meravigliano.
Ad esempio Sena Jurinac ed Eleanor Steber, che in carriera non erano ritenute soprano da Verdi pesante.
Entrambe offrono per contro un'esecuzione di quello che dovrebbe essere il tardo Verdi lirico contrapposto erroneamente a quello detto in salsa verista della Cigna ad esempio. Poi a conti, anzi ad ascolti fatti, Gina Cigna esegue un meraviglioso "Me pellegrina ed orfana", mentre molti soprani negli ultimi decenni nel tardo Verdi liricizzato hanno rovinato la propria voce, la propria fama e, forse, anche Verdi.
Sentire per capire in che possa credibilmente consistere il cosiddetto Verdi lirico ossia la saldezza con cui la Steber affronta la messa di voce sull'incipit dell'aria manovrando con estrema facilità note, che agevoli proprio non sono, battendo la zona del passaggio superiore della voce femminile, o come i quattro "pace mio dio" della ripetizione siano per intensità e colore vocale assolutamente differenti o come non ci sia difficoltà nella zona bassa "né togliermi dal cor l'immagine sua". Arrivata all'"Alvaro io t'amo" il piano usato dal soprano americano è prima di tutto misurata e nobile espressione dell'animo di donna Leonora, penitente, ma non pentita. Altra caratteristica del personaggio. Atletismo vocale ed espressione, come Verdi impone, si coniugano, poi, nell'esecuzione della Steber in due luoghi topici ossia il si bem di "invan la pace" (tenuto a perdifiato) e quello conclusivo eseguito come previsto in spartito.
Replica Sena Jurinac. Malinconica e sobria e con un timbro morbidissimo ed una dizione e gusto per il dire rari in una cantante non italiana (anche se signora Bruscantini!). Malinconica perchè questa Leonora ricorda come in sorta di delirante riminiscenza, resa perfettamente solo perché non compare un suono forzato o aspro, ovvero fuori di posto, sobria perché sono banditi, sempre per virtù tecnica, effetti plateali. Basti sentire il "ne togliermi dal core" in zona grave dove la Jurinac è vocalmente esemplare. Per amor di confronto il "io t'amo" non ha il mordente e lo slancio della Steber, ma ha la stessa proiezione di suono solo usata interpretativamente per delineare ben differente sentimento.
Quando proponiamo, poi, le due Giannine siamo credo in un mondo vocale ed interpretativo molto lontano dall'attuale. La Russ, tradizionalmente citata come l'ultimo soprano drammatico d'agilità rende nella preghiera (accompagnata da piano e sparuto coro, come si addiceva a quegli anni di registrazioni primordiali) l'esempio della donna trasfigurata e redenta, solo che si percepisce una colonna di suono, una ricchezza di armonici congiunte ad una leggerezza e saldezza di emissione che nel dopo guerra abbiamo solo conosciuto grazie alle più accreditate belcantiste dedite al massimo ai titoli donizettiani, censurate e con ragione in Verdi, specie se tardo.
Solo l'ascoltatore più attento troverà che incidentalmente in zona grave l'altra Giannina, ossia la signora Arangi Lombardi emette qualche suono non perfettamente calibrato, ma al tempo stesso onestà vuole che si riconosca alla stessa cantante di essere non solo una vocalista esimia e dotata di un mezzo straordinario in natura, ma anche di essere interprete e, per giunta, moderna. Ove per moderna non si intenda quella che ripropone o precede gli stilemi di oggi, ma quella che non sembra risentire nell'aderenza di esecuzione a nessun altro dettato che non sia quello di rendero lo strazio e la paura astratte e quintessenziate, che conducono al luogo di una dura espiazione una dama di rango.
Sentite cosa accade quando l'Arangi Lombardi quando attacca l'aria, la voce della tragedia. Quando arrivano le prime invocazioni la voce acquista una solennità ed una ampiezza impareggiabili non si avverte nessuna difficoltà nella scrittura e nelle frasi "che come incenso ascendono" l'artista si prende pure il lusso di rallentare senza intaccare legato e saldezza di emissione. Il capolavoro di edonismo vocale, che è anche la sigla interpretativa della Arangi Lombardi, la smorzatura del fa diesis dopo il pio frate.
Infine l'ospite ossia chi pesso cantò in concerto la Vergine degli angeli, lo incise pure insieme a Casta diva, come a significare che se avesse voluto avrebbe potuto essere anche soprano, ossia Ebe Stignani. Trentaquattro anni di carriera per la voce strumento, il modello di emissione in tutta la gamma, di arrotondamento del suono, di gusto castigato. Insomma la voce verdiana per dote e per tecnica. Ma questo è affaire per il mese di ottobre, ossia il mese verdiano.


Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Madre, pietosa Vergine - Giannina Arangi Lombardi (1930)

La Vergine degli Angeli - Giannina Russ (1904), Giannina Arangi Lombardi (1928), Ebe Stignani (1938)

Atto IV

Pace, pace, mio Dio! - Eleanor Steber (1945), Sena Jurinac (1955)

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mercoledì 21 luglio 2010

Norma A.D. 1910

Norma un secolo prima di Cecilia Bartoli. Confessiamo: era un pensiero che a prescindere dall’improvvido approdo della diva ci incuriosiva e proprio con quella data 1910, perché il 1910 sancisce la transizione fra canto ottocentesco e canto verista. Da quella data in poi il filone del canto ottocentesco sarà, anche se costante, sotterraneo, predominate quello verista.

Canto verista, che influenzerà Norma, senza, però, a differenza di altri titoli espellerla mai dal repertorio. I contrasti della sacerdotessa fedifraga, amante tradita e madre sono troppo per non attirare le prime donne di ogni epoca; con qualche patteggiamento la parte può anche stare a cantanti che con il belcanto hanno rapporti diciamo conflittuali, purchè interpreti nel senso completo del termine.
1910 perché l’anno prima aveva dato l’addio all’opera in teatro quella che può ritenersi, dalle testimonianze discografiche la Norma dell’800 per antonomasia, Lilli Lehmann. Tanto era stata la sua grandezza nel ruolo cantato sia in italiano che in tedesco che il teatro Metropolitan (dove la Lehmann fu protagonista del titolo nel 1895) attese ben trent’anni e Rosa Ponselle per riproporlo.
Le registrazioni della cantante di Wurzburg fanno i conti con due aspetti: i 58 annidi età e la tecnica di registrazione. Eppure sono straordinarie. Qui non vogliamo considerare l’esecuzione ma la tecnica di canto e la aderenza al momento musicale, che giustificano la frase “Maria Callas non ha inventato nulla, c’era stata Lilli Lehmann“ e che danno a chi ritiene la codificazione di Garcia la codificazione della tecnica di canto la prova irrefutabile che le Norme di rango e di levatura storica hanno sempre cantato come le censurate Callas e Sutherland.
Basta sentire la facilità e la saldezza con cui una cantante affronta il primo passaggio di registro nell’incipit della cavatina, piuttosto che la facilità con cui sale ai la ribattuti della seconda sezione dell’aria ed in generale il senso di liquidità del suono e di galleggiamento sul fiato che sono le caratteristiche del canto di scuola. All’epoca della Lehmann come a quella di Callas e più ancora di Sutherland. E l’effetto vocale ed interpretativo si ripete alla cadenza dove la voce tocca senza sforzo il si nat acuto e scende con una scala assolutamente perfetta perché il suono nella discesa non subisce incertezze o manomissioni di sorta.
Questa è la rappresentazione del cantante che canta con la tecnica ottocentesca e questa è, mi sia consentita la franchezza, la dimostrazione che tutto il resto sono chiacchiere e fanfaronate compre ed interessate e che in quanto tali fanno danno, e che danno, al mondo del canto.
Una Margarethe Siems, Adalgisa proprio con la Lehmann e poi, Norma aveva davanti un modello che le consentì di navigare per vent’anni fra Crisotemide e Lucia, Norma e Philine.
Oggi il modello della giovane cantante, che ascolta l’ultima diva nei panni di Norma, le consentirebbe se dotata in natura un paio di stagioni.
La Lehmann resta la più completa esemplificazione di quello che per un secolo si era indicato come soprano drammatico di agilità, categoria cui dovevano appartenere le titolari di Norma.
A questa categorie appartengono almeno due delle Norme che proprio nell’anno di grazia 1910 erano accreditate e considerate esecutrici della sacerdotessa di Irminsul ossia Giannina Russ e Celestina Boninsegna. Cantanti soprattutto di carriera italiana e quanto alla Russ discograficamente piuttosto limitata. Molto più numerose le registrazioni della Boninsegna perché la cantante reggiana era, a differenza di quasi tutti i soprani spinti, straordinariamente fonogenica.
Anche in questi due casi colpisce il controllo del suono e la posizione costantemente “alta” dello stesso. Le esecuzioni della Russ e della Boninsegna della cavatina hanno una purezza di suono ed una proiezione, che rendono chiaro un altro dei criteri che erano esemplificativi del giudicare le voci di qualità e di scuola ossia che a mano a mano che la voce sale, quando impostata, assume una ampiezza ed una espansione interdetta a chi canti male, indietro ed in bocca. Sentire la facilità particolarmente della Russ, che nell’esecuzione della fiorettature è precisissima, o la Boninsegna che si prende, pure il lusso di inserire alla ripetizione (omettendo, però, parte delle fiorettature) un paio di puntature al si bemolle che la tradizione vuole (le eseguirà anche Rosa Raisa, cantante di assoluta discendenza belcantistica, credo la vera allieva di Barbara Marchisio) derivare direttamente dalla Grisi.
Le stesse osservazioni valgono per l’esecuzione della cabaletta che è fluida e scorrevole. La Boninsegna ricorre ad un paio di varianti, che dovevano essere di larga diffusione in quanto le propone anche Marcella Sembrich, che mai cantò l’intero ruolo. Nei duetti con Virginia Guerrini si sente perfettamente la differenza fra una cantante la Russ di scuola ancora ottocentesca ed una invece che inclina già a gusto e tecnica di impianto verista.
L’impianto verista ossia la transizione verso un canto e soprattutto una idea interpretativa che sente i tempi nuovi è di una certa evidenza in Ester Mazzoleni, Tina Poli Randaccio e soprattutto Eugenia Burzio.
Secondo una certa idea è l’inizio del verismo ove con verismo si intenda una esecuzione sciatta e incline al facile effetto.
Siamo in un’epoca di revisione e di ripensamento soprattutto alla luce di quanto ci viene regolarmente servito nei nostri teatri e il giudizio su queste cantanti è per forza di cose modificato o rivisto.
Nessuna di loro può competere con una Russ o una Siems nell’esecuzione del canto di agilità. La cabaletta di Eugenia Burzio per comune giudizio la patronessa del Verismo non è quella della Sutherland, ma ci sono accorgimenti come il suono addolcito, alleggerito e l’accento castigato, che contraddicono o almeno pongono seri dubbi sul malcanto tout court di questa cantante. Evidentemente persino ad una Burzio, fra l’altro eloquente e misurata nel “Dormono entrambi” non sfuggiva che a Norma, pur al centro di una tragedia, non si addicevano gli accenti di Santuzza o di Gioconda E le stesse argomentazioni possono valere per Ester Mazzoleni nella sezione conclusiva del duetto con Zenatello ricorre anche a qualche compromesso, ma rende il senso del dramma della sacerdotessa alle prese con l'ultimo disperato ricatto dove “mette sul piatto” figli ed amante. Peccato veniale rispetto a quanto sentiamo oggi. Al nostro gusto creano più problemi certi suoni di petto e certi scarti fra suoni bassi e suoni centrali, che suonano piuttosto vuoti e che abbiamo codificato come paradigma e vizio capitale dei soprani veristi.
Inutile negarli ci sono anche se in Norma sia pur meno accentuati che nei titoli del tardo Verdi o Veristi. Non erano, se ascoltiamo la Lehmann, un’invenzione della signorina Burzio o della signora Poli Randaccio (che sia detto se non avesse saputo cantare difficilmente avrebbe avuto quasi trent’anni di carriera), erano anche messi in una posizione ben più alta della maschera di quanto non facciamo oggi certe cantanti che, tecnicamente insipienti, si sono messe a riproporli al pubblico senza l’accento irresistibile di una Burzio. Erano il gusto del tempo, ma la domanda che mi faccio e che faccio è meglio certi fastidiosi “scarti” e cattive saldature fra i registri di Eugenia Burzio o la Barbarina vestita da Norma?


Vincenzo Bellini

Norma

Atto I


Ite sul colle, o Druidi - Feodor Chaliapin (1905), José Mardones (1924)

Meco all'altar di Venere - Erik Schmedes (1905), Carlo Albani (1910)

Casta Diva...Ah! Bello a me ritorna - Celestina Boninsegna (1904), Giannina Russ (1906/1914), Lilli Lehmann (1907), Marcella Sembrich (1907), Eugenia Burzio (1912)

Sgombra è la sacra selva - Armida Parsi-Pettinella (1907)

Sola, furtiva al tempio - Giannina Russ & Virginia Guerrini (1914)

Ah! Sì, fa core, abbracciami - Lilli Lehmann (1907)

Atto II

Dormono entrambi - Ester Mazzoleni (1911)

Deh! Con te li prendi...Mira, o Norma...Sì fino all'ore estreme - Lilli Lehmann & Hedwig Helbig (1907), Elise Elizza & Grete Forst (1908), Margarethe Siems & Gertrud Forstel (1908), Giannina Russ & Virginia Guerrini (1914)

In mia man alfin tu sei - Ester Mazzoleni & Giovanni Zenatello (1911)

Qual cor tradisti - Eugenia Burzio (1912)

Deh! Non volerli vittime - Lilli Lehmann (1907), Eugenia Burzio (1912), Tina Poli-Randaccio (con R. Bosacacci & Ezio Pinza - 1923)


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sabato 6 giugno 2009

Aida in Scala - prima puntata

Il venti giugno prossimo alla Scala ritorna Aida. Fu il titolo inaugurale della stagione 2006-'07. Fu una serie di recite, che presentarono, come si conviene quando la proposta è un titolo non facile da allestire (domanda: "ma quale è oggi il titolo facile?") quando le scelte sono in origine censurabili una serie di problemi.
Alle recite pregresse il furore del pubblico e della stampa si scatenò sul protagonista prescelto il cui abbandono improvviso, dopo una lievissima riprovazione alla sortita, fu fonte di fondate illazioni.
Con siffatta bagarre e capro espiatorio gli altri "portarono la pelle a casa". Eppure la protagonista prescelta era periclitante sempre sul famoso do dei "Cieli azzurri" e decisamente insufficiente per la parte, carente di ampiezza, volume, varietà di fraseggio. Insomma indecente.
Eppure, sia pure per le riprese, ci verrà riproposta. Misteri!!!! Misteri quanto meno dolenti se si pensa che la signora fu anche propinata al pubblico scaligero nel ruolo di Lady, la cui formidale esibibizione le costò, si mormora quello di protagonista del capolavoro belliniano.

La prima produzione del Novecento alla Scala debutta il 18 dicembre 1904, inaugurazione della stagione di Carnevale e Quaresima. Seguiranno diciotto repliche fino al mese di Marzo del 1905 con la direzione di Cleofonte Campanini. Accanto ai Radames di Emilio de Marchi e Angelo Gamba, le Amneris di Virginia Guerrini e Rosa Olitzka, Mansueto Gaudio e Riccardo Stracciari come Ramfis e Amonasro il ruolo della protagonista fu affidato a due singolari ed importanti cantanti del tempo, Celestina Boninsegna e Giannina Russ.
La prima aveva già al suo attivo una certa fama e alcuni anni di carriera. La seconda aveva debuttato, non giovanissima, però, solo nel 1903. Entrambe debuttavano alla Scala, dove la Russ nella stessa stagione canterà Tannhäuser accanto a Leo Slezak, il Mosé di Rossini e Le Nozze di Figaro come Contessa d'Almaviva. Di entrambe abbiamo testimonianza di estratti dell'opera e l'ascolto permette di confrontare due cantanti contemporanee, grandi interpreti, ma in diversi modi. La carriera discografica di Celestina Boninsegna fu molto fortunata perchè, a differenza di quas tutti i soprani drammatici, la voce risultava particolarmente fonogenica, il che le permise di incidere numerosissimi dischi, e i due brani di Aida ne sono una testimonianza. La voce è sicura al centro e sugli acuti (i si e la bemolli presenti in Ritorna vincitor e il do dei "Cieli azzurri" sono un'ottima testimonianza) e pur ricorrendo al registro di petto nelle note basse (probabilmente più una scelta stilistica che una necessità tecnica) bisogna rilevare come il suono di queste sia sempre perfettamente timbrato, immascherato ed "alto". L'interprete risulta meno fantasiosa rispetto alle colleghe contemporanee e successive. Forse in questo possiamo rilevare l'unico vero limite dell'Aida della Boninsegna, insieme ad una gestione della dinamica meno varia anche rispetto alla stessa Russ, che nell'eseguire gli assoli di Aida e il duetto con Amonasro si mostra come una delle più grandi cantanti del XX secolo, vera erede del modello di quello che trattati di canto e recensioni indicano come il canto ottocentesco. All'ascolto la voce della Russ risulta di migliore qualità rispetto alla Boninsegna e la tecnica potremmo definirla senz'altro più moderna (o antica?) nell'evitare le "sgrammaticature" derivate dai dettami del gusto verista. Il centro è sicurissimo e la voce non conosce disomogeneità nello scendere alla zona grave della voce, in cui il suono è sempre morbido, pulito, senza alcuna inflessione di petto. L'interprete in Ritorna vincitor è molto castigata, ma efficace, come per esempio nel rispettare la prescrizione di "triste e dolce" de I sacri nomi, reso già dall'emissione e dall'inflessione della voce. Quanto ai "Cieli azzurri" quella della Russ è sicuramente una delle migliori esecuzioni proposte per l'esecuzione legatissima in tutto il brano, la voce sempre dolce, dolente, rispettosa della dinamica e delle acciaccature e capace di salire al do con sicurezza, rispettando la legatura prevista sulle note precedenti (dal mi bemolle al la bemolle) e il crescendo (prendendo fiato, come tutte le sue colleghe, prima del si bemolle). E' poi bellissima la grande messa di voce che effettua sul la dell'Oh patria mia finale e sull'ultimo la naturale, eseguito con un perfetto pianissimo. Il duetto inciso con Antonio Magini-Coletti, Amonasro alla Scala già nel 1886 è utile innanzitutto per sentire un padre di Aida che, anziché sbraitare, si esprime con il canto, un canto d'alta scuola, un'emissione morbidissima di cui si è persa ormai ogni traccia e che rende il personaggio nobile senza togliere nulla in autorità, regale e paterna. Questo Amonasro, insomma, è parente stretto del Nelusko di Africana come la grande tradizione voleva. Anche in questo duetto Giannina Russ mostra le sue doti di cantante d'altissima scuola per emissione, omogeneità, lucentezza della voce, sempre chiara, ma ampia, capace di un legato sicurissimo coronato da suoni di estrema dolcezza, che rendono il carattere ora trasognante ora dolente del personaggio in colloquio col padre. Valga ad esempio il differente tono con cui la Russ interpreta il prescritto "con trasporto" di Un giorno solo di sì dolce incanto e il seguente cantabile, spiegato, di "Deh fate o Numi".

Nel 1907 Aida torna alla Scala sotto l'egida di Toscanini nella sua prima esecuzione del titolo alla Scala insieme ad una delle primedonne più amate dal pubblico milanese dell'epoca, Eugenia Burzio. La Burzio è stata senz'altro una delle Dive veriste per antonomasia,trasferendone i canoni interpretativi anche in opere di periodi precedenti, etranei al Verismo. Nella Burzio infatti troviamo una serie di elementi che sicuramente oggi riteniamo lontani dall'odierno gusto (che poi è capace di sopportare ben diverse e peggiori volgarità, oltre che veri e propri strazi sonori) come la dizione artefatta, l'inserimento di singhiozzi, l'indulgere nelle note di petto a mo' di effetto drammatico. Rilevati questi unici limiti di gusto bisogna dire che, pur in un'esecuzione molto diversa da quella della contemporanea Russ, la Burzio esegue uno splendido "O patria mia". E' bellissimo l'attacco con messa di voce e tutta la prima frase, permeata da grande malinconia e cantata con un effetto di morendo del suono veramente efficace.
La stessa voce è corposa, bella per timbro e ampia, sontuosa e la cantante ha una ragguardevole sicurezza: non manca infatti mai nell'uso dei pianissimi e di mezzevoci mentre, arrivata al do, lo esegue bene ma forte, con la tradizionale presa di fiato prima del si bemolle e senza rispettare il "senza affrettare" della frase seguente. L'ultima frase viene cantata benissimo dalla Burzio, che attacca piano per poi rinforzare il la di "Oh patria mia", esegue l'allargando sulle note gravi di "mai più ti rivedrò" e risolve esattamente come la Russ la legatura all'ultimo la naturale, pianissimo.

Nel 1913 tre Aide si alternarono per le rappresentazioni del centenario della nascita di Verdi, Cecilia Gagliardi, importante soprano dell'epoca, Borghild Langaard e Elena Ruszkowska direttore di quelle rappresentazioni insieme a Riccardo Dell'Era. Di queste cantanti purtroppo non abbiamo reperito testimonianza sonora. Quanto alla "romanissima" Cecilia Gagliardi, però, per farsi una idea di voce (terrenziale) ed interpretazione (fremente e drammaticissima, secondo il canone dell'epoca) basta leggere Giacomo Lauri-Volpi nelle sue "Voci parallele", con una attentissima disamina della onerosità del terzo atto proprio di Aida.

La ripresa del 1916 vede sul podio Gino Marinuzzi e come Aida due interpreti, di cui una è fondamentale per la storia del personaggio : Rosa Raisa, alternata a Laura Cirino. Rosa Raisa insieme a Giannina Russ è chiaro esempio del modello di canto ottocentesco, fu infatti allieva di Barbara Marchisio. E il gusto e la scuola della primadonna rossiniana sono ben più evidenti nella Raisa che nella Toti, l'allieva pù celebre della Marchisio.
La voce della Raisa, ampia, sonora, è sempre mantenuta di colore chiaro e posizione altissima, sempre perfettamente a fuoco. Rispetto al fraseggio della Burzio la Raisa è senz'altro meno espressiva o per lo meno lo è diversamente. E' espressiva per virtù canora, in modo belcantistico, l'esecuzione dei brani incisi è, infatti, pressochè perfetta, la voce non incontra difficoltà in nessun punto della tessitura, non soffre negli slanci drammatici del Ritorna vincitor (purtroppo inciso accorciato) ed esegue con grande facilità sia "O cieli azzurri" - dove non solo il do è eseguito senza fatica alcuna, ma tutto il brano è una vera lezione di canto per la morbidezza e la lucentezza della voce, che si percepisce appunto sonora e ampia, e per l'uso delle mezzevoci, timbrate e sonore, sempre e costantemente sul fiato - sia nel duetto finale con Giulio Crimi (suo partner anche alla Scala e a Buenos Aires) dove la Raisa, autentico soprano drammatico nonostante il colore marcatamente chiaro, esce indenne dall'esecuzione degli staccati di "Vedi di morte l'angelo", punto di grande difficoltà per quasi tutte le Aide, che il soprano polacco esegue con sicurezza, mantenendo la voce sempre sicura, salda, perfettamente appoggiata. L'accento, sempre castigato e nobile, è molto efficace nel duetto con Radames, soprattutto per il tono malinconico e dolente delle prime frasi. Molto bravo anche Giulio Crimi come Radames, capace di smorzare i si bemolle e di cantare in maniera efficace e sicura, pur non rispettando, come invece fa la Raisa, il previsto dolcissimo per l'ultimo si bemolle che chiude il duetto.

Nella stagione del 1918 invece Aida alla Scala viene affidata alla possente voce di Tina Poli-Randaccio, soprano drammatico di grande fama e lunga ed onorata carriera e a Gemma Lebrun, rinomata interprete di Aida in quegli anni.
Voce importante, con inflessioni scure nel timbro, interprete per antonomasia di Fanciulla del West, ma anche di Trovatore, Norma e Ugonotti, Tina Poli-Randaccio consegna al disco un bellissimo Ritorna vincitor, in cui possiamo sentire una voce veramente sontuosa che non manca mai dello slancio che alcune frasi richiedono (i sol di Struggete per esempio, facili e squillanti), capace di smorzare i suoni, di attaccare piano il la bemolle di "Come sogno beato" e di eseguire una perfetta messa di voce su "Ah non fu in terra mai". Il duetto con Amneris inciso accanto a Maartje Offers vede la Poli-Randaccio interprete dall'accento controllato, raccolto, dalla linea di canto sempre morbida e sicura, in ispecie per il legato della sezione lenta, magistrale nel dosare i suoni nelle frasi centrali e basse. Grande sicurezza anche nella sezione finale dove con facilità tiene testa ad Amneris, fino all'esecuzione perfetta del do tenuto e dell'ultimo si bemolle, impressionanti per sonorità e slancio. Rispetto alla Raisa e alla Russ la cantante non ha certo di che temere in quanto a sicurezza tecnica e l'interprete può senz'altro dirsi varia ed appropriata alle esigenze del ruolo e dello spartito, caratteristiche che rendono la Poli-Randaccio una delle più grandi Aide che l'ascoltatore possa incontrare.

Dopo la Poli-Randaccio Aida torna alla Scala dopo breve tempo, nel 1923 sotto la direzione di Arturo Toscanini e con le Aide di Isora Rinolfi, Irma Viganò e
Maria Carena in un cast che comprendeva Aureliano Pertile e Giuseppe Redaelli, le Amneris di Gabriella Besanzoni, Maria Capuana ed Elvira Casazza, Benvenuto
Franci ed Ezio Pinza. Irma Viganò e Maria Carena saranno interpreti di Aida alla Scala ancora nel 1926, mentre nel 1925 debutta alla Scala un'Aida di lungo corso nel teatro milanese cui dedicheremo una puntata speciale: Giannina Arangi-Lombardi.


Gli ascolti

Verdi - Aida


Atto I

Ritorna vincitor - Giannina Russ (1905), Celestina Boninsegna (1909), Tina Poli-Randaccio (1919), Rosa Raisa (1923)

Atto II

Fu la sorte dell'armi - Maartje Offers & Tina Poli-Randaccio (1923)

Atto III

O patria mia - Giannina Russ (1905), Celestina Boninsegna (1909), Eugenia Burzio (1910), Rosa Raisa (1923)

A te grave cagion...Rivedrai le foreste imbalsamate - Antonio Magini-Coletti & Giannina Russ (1905)

Atto IV

La fatal pietra...O terra addio - Giulio Crimi & Rosa Raisa (1923)

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lunedì 20 ottobre 2008

Il soprano drammatico in Verdi

Il soprano drammatico di Verdi inizia, credo, quando finiscono le cabalette.
Quindi con il Ballo in maschera e, di fatto, limitato alle protagoniste di Ballo, Forza del destino, Aida ed alla Elisabetta di don Carlos. Esclusa Desdemona, ricompresa l’Amelia della versione 1881 del Boccanegra.
Nasce da una commistione fra il soprano della precedente produzione verdiana, definito generalmente drammatico di agilità e il cosiddetto soprano Falcon del grand-opera francese. A questa categoria vocale apparteneva, fra l’altro la prima Valois, Maria Sass e molti soprani verdiani frequentarono anche il grand-opera sino agli anni cinquanta del XX secolo.
Per capire le difficoltà vocali e prima di tutto la resistenza fisica richiesta al soprano verdiano basta leggere in “voci parallele” l’opinione di Lauri-Volpi. Riferita all’Amelia del Ballo, è, però, comune a tutte le protagoniste degli ultimi lavori di Verdi.

Banale quindi assumere che sono richieste una tecnica di canto saldissima, le cui prime conseguenze sono la possibilità di reggere la lunghezza degli spartiti, la massa orchestrale, duetti ed ensamble con tenore, baritoni e coro, ed al tempo stesso sfoggiare una dinamica dal pianissimo al fortissimo. Spesso il famoso do dei cieli azzurri, che prevede l’esecuzione della forcella , rimane una mera indicazione di spartito.
Mai come nel tardo Verdi la saldezza tecnica è il presupposto per una esaustiva esecuzione dello spartito ed, al tempo stesso, mai come nel tardo Verdi in primis per lo spessore orchestrale abbiamo sentito dilettantesche, propiziate sia nel canto maschile che nel femminile dalla ricerca di volume e foga, scambiate per aderenza al personaggio ed al dramma.
E’ vero che farsi prendere la mano soprattutto per voci dotate in Verdi è facilissimo. Il risultato sono precoce declino, derivato dalla tendenza ad emettere note di petto in zona centrale a ghermire gli acuti a trascurare per insipienza tecnica la dinamica, che – richiamo sempre Lauri Volpi sul canto verdiano- sono riposo per la voce.
Non solo, ma spesso un malinteso stretto rapporto fra il tardo Verdi ed il verismo ha aggravato la situazione. La storia del canto verdiano è costellata o di precoci declini o di ritirate strategiche o di conclamate inadeguatezze. Rosina Penco, prima Leonora del Trovatore e quindi non siamo neppure nel tardo Verdi, ritornò appena possibile al repertorio antico ossia Rossini e Bellini, assicurandosi una carriera trentennale e quando alle esecuzioni dei belcantisti applicati a Verdi (le sorelle Marchisio per tutti) è un continuo lamentare limiti ed inadeguatezze. Una situazione confermata in tempi recenti, sembra.
Non disponiamo delle prime registrazioni dei soprani del Tardo Verdi. Sappiamo, però che a 40 anni Teresa Stoltz era ritirata per gli abusi di suoni di petto e ciò, nonostante, nel periodo migliore si trattasse non solo di una cantante eccezionalmente dotata, ma anche con cospicue disposizioni tecniche, stando almeno alle indicazioni dinamiche che le arie per lei appositamente inserite in Aida e Forza prevedono.
Non solo, ma le idee circa le doti dei primi soprani verdiani sono piuttosto vaghe dalle registrazioni almeno sino agli anni 20, incapaci di captare l’ampiezza e le vibrazioni delle poderose voci dei soprani verdiani
Né fanno, per certo, le spese, voci d’eccezionale qualità come Giannina Russ, Ester Mazzoleni, Emmy Destinn o Melanie Kurt.
A conti fatti la Destinn e la Kurt suonano piuttosto fisse in alto, della Russ possiamo ammirare la compostezza, ma la voce suona molto chiara e non si percepisce quella ampiezza che i contemporanei le riconoscevano; quanto alla Mazzoleni si può essere certi che la voce, fra l’altro piuttosto vibrante, corresse nei teatri, ma delle doti di fraseggiatrice nessuna o pochissima traccia, atteso che le registrazioni non captavano la dinamica.
Un pessimo servizio le registrazioni lo rendono anche ad Eugenia Burzio, che fu ritenuta un vero mito e che, per contro dimostra soltanto il legame ed il vezzo – discutibile- fra il tardo Verdi ed il Verismo.
Davanti ad Eugenia Burzio il dubbio che la grande fama fosse dettata proprio dal favore che il pubblico aveva per una esecuzione verista di Verdi avesse maturato, sorge abbastanza spontaneo. Ossia si può ritenere che la fama assoluta di una Burzio sia dipesa soprattutto dalla aderenza al gusto imperante del tempo.


L’avvento delle registrazioni elettriche da un lato testimonia finalmente le qualità delle voci verdiane, dall’altro, per ovvi motivi il crescente vezzo dell’esecuzione in “salsa verista”.
Alle esecuzioni rispettose della tecnica di canto e, quindi, illuminate da una facilità di esecuzione in ogni gamma della voce, castigate nell’accento, attente ai segni di espressione di Giannina Arangi-Lombardi (nessuna Aida sia detto per inciso può vantare eguale rispetto dei segni di espressione) si contrappongono quelle di Bianca Scacciati, Maria Carena e, in quanto famosissime di Maria Caniglia e Gina Cigna.
Le autentiche stroncature di cui soprattutto la Cigna e la Caniglia sono state oggetto devono essere ponderate.
Il tardo Verdi non è il primo Verdi (che peraltro le nostre praticavano alla bisogna), dove l’esecuzione impacciata del canto di agilità rappresenta un ulteriore handicap e poi gli autentici torrenti vocali della Cigna e della Caniglia (che molte registrazioni live fra il 1935 ed il 1946 dimostrano), sono ben consoni a Verdi ad onte di esuberanze temperamentali e limitazioni tecniche.
Una voce poco immascherata al centro e, quindi, non astratta e con inflessioni più vicine al parlato che al canto configura il maggior limite delle esecuzioni verdiane dei soprani verdiani di scuola italiana fra il 1920 ed il 1950. Le eroine verdiano sono pur sempre dame di rango, regine e non figure di estrazione popolare come le veriste. In questo anche il tardo verdi è legato a modelli e stilemi romantici.
Eppure nonostante i limiti derivati da una tecnica limitata i soprani del periodo 1920-1950 spesso dimostrano una aderenza alle esigenze vocali superiori a quelle delle cantanti delle generazioni successive. Il colore, l’ampiezza e la tenuta sulla massa orchestrale della Valois di una declinante Maria Caniglia sono ignote a tutte le altre Valois discografiche.
A parte, fra le cantanti italiane fra le due guerre, deve essere considerata, benché non documentata da registrazioni live, Claudia Muzio.
La Muzio cantò spesso Traviata e Trovatore, ma anche Aida, Forza del destino e Ballo in maschera, opere dove suppliva con la dinamica sfumata, una attenzione al dettaglio, che sarà la caratteristica delle primedonne del dopo guerra la carenza di una presenza vocale tipo Scacciati, Cigna ed anche Arangi-Lombardi.
Un po’ differentemente negli Stati Uniti e nei paesi di lingua tedesca sino alla seconda guerra mondiale venne eseguito un tardo Verdi di qualità sia tecnica che interpretativa.
Il primo nome è quello di Rosa Ponselle, debuttante al Met nel 1918 proprio con Forza del destino.
Non si discutono, anzi sono i punti cardinali dell’ascoltatore di 78 giri la bellezza vocale, il fraseggio castigato ed alieno da vezzi veristi, però ad un ascoltatore attento non sfuggirà che il passaggio fra le note basse e le prime centrali è sempre fortunoso con la conseguenza, tipica delle voci femminili, che non eseguano correttamente il primo passaggio di una gamma acuta limitata e della difficoltà a reggere le tessiture acute. Il tutto evidenziato sia dall’attacco del “ D’amor sull’ali rosee” che dalla difficoltà ad eseguire gli staccati di “vedi per non s’affretta” del duetto finale di Aida ed ancora dal fatto che la Ponselle mai affrontò in teatro l’Amelia del Ballo e limitò le recite di Aida, poche in confronto a Forza ed anche a Don Carlos. Ma Elisabetta di Valois, creata per l’Operà di Parigi è, in fondo, un soprano Falcon.


In quegli anni al Met il monopolio di Aida appartenne ad Elisabeth Rethberg. Chi ascolta, oggi, le registrazioni delle arie del Ballo e di Aida , nonché tutto il terzo atto di Aida della Rethberg rimane stupito davanti a modalità esecutive e interpretative che, a torto, pensiamo “inventate” dalla Caballé, mentre erano praticate in pieno Verismo.
Ma per comprendere la differenza fra una Rethberg ed una Caballè ci sono le registrazioni in house della seconda metà degli anni 30. Qualche acuto dopo il 1935 suona un poco duro (venti anni di Verdi e Wagner!), ma la registrazione restituisce una ampiezza e sonorità della voce, che galleggia e supera coro, orchestra e perfino Giacomo Lauri Volpi o Giovanni Martinelli. Mi riferisco soprattutto al finale secondo di Aida (Covent Garden 1936) ed alla scena del palazzo degli Abati nel Boccanegra del Met 1935.
Attenzione non si tratta del suono spinto, fibroso e forzato del soprano di grande dote naturale, ma di un suono ampio che, ad onta dei sistemi di registrazione e trasmissione primordiali, si espande e sovrasta.
Per altro una simile esecuzione verdiana in area di lingua tedesca non rappresentava l’eccezione, ma una norma assai praticata. Lo testimonia per prima Frieda Leider, passata alla storia del canto come esecutrice wagneriana, ma usa al repertorio verdiano, dove sfoggiava una esemplare esecuzione del primo passaggio, dinamica sfumata a tutte le altezze, prodigiose tenute di fiato e, sia pure con i limiti delle registrazioni, un materiale vocale di assoluta eccezionalità.. Il tutto dimostrato al massimo grado nell’aria di Leonora di Trovatore del quarto atto.
La carriera ed il repertorio della Leider, soprano drammatico da Wagner e da Verdi fanno riflettere su cosa accadrebbe oggi ad una Aida o ad una Leonora di Calatrava affidate alle più quotate e registrate cantanti wagneriane.
Vicine per tecnica e gusto alla Rethberg sono le esecuzioni sia di Maria Muller che di Margarethe Teschemacher. Praticavano un tardo Verdi attento alla dinamica ed alla tecnica. L’esecuzione, ad esempio, del duetto finale di Aida della Teschemacher con Wittrisch è ben distante da quella praticata negli stessi anni in Italia.
La situazione sarà capovolta nel secondo dopoguerra, allorché la scuola tedesca non produrrà più cantanti di tecnica e di gusto al contrario di quanto accadrà in Italia e negli Stati Uniti.
Intendiamoci beni non moltissimi se escludiamo dal 1939 al Met Zinka Milanov, il cui gusto, però, inclinava al Verismo o autentiche meteore come Caterina Mancini.
Limitatamente ad Aida e Forza il tardo Verdi connotò la prima parte della carriera di Renata Tebaldi, le cui qualità vocali eccezionali, il gusto sponteamente sorvegliato e l’accento nobile sono ben noti e celebrati, ma i cui acuti sempre un poco duri e spinti dal si bemolle hanno limitato la frequentazione verdiana alla prima fase della carriera. La verità, difficile a comprendersi, è che nonostante alcuni passi unici in Aida e una Forza di levatura storica come la fiorentina del 1953 con Mitropoulos, la Tebaldi mancava del vero accento verdiano. Non era volgare, non era verista, era spontaneamente nobile, ma quel qualche cosa di paludato ed aulico del canto verdiano, che connota una regina ed una dama di rango le era estraneo.
E’ paradossale dirlo, ma era più verdiano l’accento applicato ad una voce che per dote naturale era anti verdiana come quella di Maria Callas.
E rispondeva anche all’aulicità della dama di rango quello di Anita Cerquetti dotata, ad onta di acuti bianchi e fissi di un timbro di eccezionale nobiltà e grandeur.
In sostanza gli anni del dopoguerra furono anni di soprani che in taluni personaggi di Verdi o in alcuni passi dei lavori verdiani raggiungevano livelli eccezionali, ma mancavano di quell’assoluto di quella paradigmaticità delle generazioni precedenti.

Il caso più significativo è Leontine Price, Leonora, Amelia ed Aida per eccellenza dal 1960. Però , a parte la musicalità censurabile, l’integrità vocale fu di breve durata e l’interpretazione ispirata più alle doti naturali , che non a studio e ricerca
Anche le esecuzioni verdiane della Callas, della Gencer e della Caballé, maestre di tecnica nella fase migliore della carriera e quindi di dinamica sfumata ed accento analitico sono rimasti splendidi episodi isolati. Erano cantanti la cui qualità vocale e la cui idea interpretativa pertineva più al primo che non al tardo Verdi.
Nel 1969, parlando del soprano drammatico del tardo Verdi, Rodolfo Celletti identificò in Monteserrat Caballé, allora alle prime esecuzioni di brani del Verdi più tipico il modello di tale soprano. Questo repertorio eseguito ripetutamente fra il 1973 ed il 1977 rappresentò la rovina vocale della Caballé, prova che una voce di questo tipo non bastava a sostenere gli orditi orchestrali le masse corali del tardo Verdi, nonostante, appunto, singoli estratti limitati per lo più alle arie solistiche, tipo “Cieli azzurri”, “Pace mio Dio”, “Morrò, ma prima in grazia”
La precoce rovina vocale della Caballé non ha insegnato nulla a nessuno, cantanti e direttori sia d’orchestra che artistici o responsabili di agenzia e case discografiche. Esclusa Mirella Freni, che cantò il tardo Verdi per semplice dovere d’ufficio e con una esemplare parsimonia.
Sul presupposto, valido solo se si dispone di Elisabeth Rethberg o Maria Muller o Giannina Arangi Lombardi, che Verdi non richieda urla e grida, abbiamo visto e sentito Mimì, Adina, Manon promosse a soprani di forza. In un paio di casi, Mirella Freni e Maria Chiara, il risultato è stato decoroso, ma la Freni ha brillato come cantante verdiana soprattutto per parsimonia di prestazioni e severo autocontrollo mentre Maria Chiara, dotata di strumento di eccezionale bellezza, ha accorciato per le Aide areniane la propria carriera. Ma, ripeto, si trattava di cantanti di meditata e sicura tecnica. Negli altri casi il risultato è stato disastroso (Katia Ricciarelli e Cheryl Studer), costellato di strilli ed urli (Maria Guleghina), ridicolo (Ileana Cotrubas) ridicolo e disastroso (Fiamma Izzo d’Amico).

Gli ascolti

Un ballo in maschera

Atto II

Ecco l'orrido campo - Eugenia Burzio; Gertrud Grob-Prandl; Leontyne Price
Teco io sto - Ester Mazzoleni & Nicola Fusati; Birgit Nilsson & Richard Tucker

Atto III

Morrò ma prima in grazia - Elizabeth Rethberg; Montserrat Caballè, Katia Ricciarelli
Scena della congiura - Zinka Milanov, direttore Bruno Walter (Met 1944)

La forza del destino

Atto I

Me pellegrina ed orfana - Gina Cigna

Atto II

Son giunta! - Antonietta Stella
Infelice, delusa, reietta - Maria Caniglia & Tancredi Pasero
La vergine degli angeli - Rosa Ponselle; Maria Caniglia

Atto IV

Pace mio Dio - Claudia Muzio; Renata Tebaldi

Don Carlos

Atto II

Io vengo a domandar - Maria Caniglia & Mirto Picchi; Eleanor Steber & Richard Tucker
Non pianger mia compagna - Leyla Gencer; Montserrat Caballè; Renata Scotto

Atto V

Tu che le vanità - Anita Cerquetti; Renata Scotto
E' dessa - Leyla Gencer & Richard Tucker; Ghena Dimitrova & Nicola Martinucci

Aida

Atto I

Ritorna vincitor - Frieda Leider; Maria Callas

Atto II

Fu la sorte dell'armi - Maria Caniglia & Ebe Stignani; Leontyne Price & Grace Bumbry
Scena del trionfo - Elizabeth Rethberg, Giacomo Lauri-Volpi - Londra 1936

Atto III

O patria mia - Giannina Arangi-Lombardi; Montserrat Caballé
Ciel! mio padre! - Giannina Russ & Antonio Magini-Coletti; Zinka Milanov & Richard Bonelli
Pur ti riveggo - Margarethe Teschemacher & Helge Rosvaenge

Atto IV

La fatal pietra - Rosa Ponselle & Giovanni Martinelli; Maria Callas & Kurt Baum

Simon Boccanegra

Atto I

Come in quest'ora bruna - Renata Tebaldi; Margaret Price
Cielo di stelle orbato - Renata Tebaldi & Richard Tucker
Favella il Doge - Elizabeth Rethberg & Lawrence Tibbett; Raina Kabaivanska & Piero Cappuccilli
Plebe! Patrizi! Popolo! - Elizabeth Rethberg, Lawrence Tibbett

Requiem

Libera me Domine - Margarethe Teschemacher

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