Tra l’Ottobre 2009 e questa prima parte del 2010, nelle stagioni di ben quattro teatri italiani, Roma, Torino, Milano e Trieste, è presente un importante titolo wagneriano: Tannhäuser.
Opera bellissima, di complessa realizzazione, micidiale da interpretare, probabilmente discontinua o irrisolta nella struttura, ma dal fascino innegabile, magica e attrattiva, cui è difficile resistere.
Mettere in scena un titolo del genere pone sempre un problema di difficile soluzione:
oggi, nel 2010, quale tenore può interpretare il cavaliere-cantore evocato dalle note di Wagner?
Domanda preoccupante, poiché se i tenori che oggi interpretano il ruolo sono effettivamente molti, non tutti possiedono quelle caratteristiche necessarie a domare una scrittura vocale totalmente folle come quella concepita da Richard Wagner per il protagonista!
Una scrittura spinosissima in cui un legato da manuale, la presenza di forcelle per assottigliare l’emissione delle note, deve lasciare spazio ad un declamato denso e spigoloso; una tessitura che costringe il tenore a cantare per almeno due atti nel registro centro-acuto insistendo sadicamente sui Sol ed i La; in più al secondo atto il cantante deve sovrastare coro, orchestra e solisti in un groviglio musicale e canoro quasi inestricabile per una voce sola nel concertato posto alla fine; nel terzo atto, se l’episodio del “racconto” insiste in sonorità baritonali, tutto il delirio che il protagonista affronta anelando al Venusberg torna ad essere acuto e parecchio scomodo.
Proprio per questa scrittura “mista” il ruolo è stato affrontato sia da tenori drammatici ed eroici come Max Lorenz, Lauritz Melchior, Hans Hopf, Spas Wenkoff sia da tenori all’apparenza più chiari come Wolfgang Windgassen, Jess Thomas, Renè Kollo, Placido Domingo, Richard Versalle.
I primi a cimentarsi nel temibile ruolo furono Joseph Tichatschek a Dresda nel 1845 e Albert Niemann a Parigi nel 1861.
Tichatschek studiò canto con il famoso Giuseppe Ciccimarra, tenore specializzato in ruoli di carattere rossiniani ed esperto maestro, e scorrendo il suo eclettico repertorio possiamo notare la presenza di opere appartenenti ad Auber, Meyerbeer, Mozart, Halevy, Spontini, Weber, Marschner, Gluck, Beethoven segno di una preparazione e di un uso della voce tecnicamente corretto, confermati dagli oltre quanta anni di carriera.
I suoi contemporanei e ammiratori, come Berlioz, descrissero una voce toccante, morbida, pura, dal volume potente, capace di scoppi intensi e drammatici, ma sempre in ossequio allo stile ed al buon gusto, la cui intonazione fu paragonata per perfezione a quella del tenore Mario, mentre la sua coloratura risultò sempre imperfetta e poco fluida.
Nelle rappresentazioni del “Tannhäuser” del 1845 non tutto filò liscio: una raucedine lo costrinse a cantare la parte alleggerita da parecchi tagli e venne accusato di non essere in grado di comprendere le finezze psicologiche del ruolo a causa di uno studio poco approfondito, che verrà successivamente colmato, con profitto, nella ripresa del 1858.
Albert Niemann, invece, si era formato grazie ai precetti di Fritz Schneider, di Albert Nusch e di Gilbert-Louis Duprez, conosceva il ruolo di Tannhäuser fin dal 1854 e fu scelto da Wagner, assieme a Tichatschek e Ludwig Schnorr-von Carolsfeld, come modello vocale per i drammi futuri: “Lohengrin”, “Tristan und Isolde” e “Siegfried”.
A Parigi il desiderio di successo di Niemann, la marcata idiosincrasia verso i consigli di Wagner che lo portarono a non rispettare le scelte espressive del Maestro, associati alle scenate, ai capricci, condussero Niemann ad un canto eccessivamente sottotono che minò la credibilità vocale e scenica, (come affermano Baudelaire e Saint-Saëns che gli rimproverò l’uso improprio del legato e delle poche sfumature) e logorò di fatto la collaborazione con Wagner, ripresa solo molti anni dopo, culminando nell’assegnazione del ruolo di Siegmund alla prima della “Walküre” a Bayreuth.
Repertorio non dissimile da quello di Tichatschek quello di Niemann, a cui si aggiunge però Verdi, Gounod ed una maggiore frequentazione delle opere estreme di Wagner.
Lilli Lehmann ed i suoi contemporanei parlano della sua voce in maniera entusiastica, soffermandosi sulla potenza dello strumento, sulle calde inflessioni baritonali, sulla naturale capacità comunicativa del fraseggio, sullo scavo della parola, sul legato e sull’uso delle messe di voce.
Di tenori che affrontano Wagner con una preparazione del genere, parallelamente ad un repertorio così variegato oggi, come vedremo, non ve ne sono.
Partiamo da Bayreuth, che dovrebbe rappresentare la vetrina più autorevole sia per tastare lo stato di salute del canto wagneriano, sia perché dovrebbe raccogliere il meglio dei cantanti oggi disponibili in questo repertorio.
Nel 2002 fu inaugurato un nuovo allestimento, decorativo si disse, firmato da Philippe Arlaud e diretto, in maniera poco ispirata da Christian Thielemann.
I tenori che si alternarono in quelle recite, concluse nel 2007 (con una pausa nel 2006) furono ben quattro: “BENE” direbbe l’ascoltatore ottimista, “Insomma” risponderei io.
I primi due ad affrontare il ruolo furono il veterano Wolfgang Millgramm e Glenn Winslade:
voce robusta, ma usurata e secca con la tendenza a vociferare il primo, pallido, senza nerbo e qualunque sia timbricamente, sia vocalmente il secondo.
Si provò allora con Stephen Gould chiamato nel 2004, confermato l’anno successivo, e fu un successo.
La voce robusta e dalle screziature baritonali, l’accento sofferto, ma sfumato, sembravano l’ideale per onorare le ardue esigenze del poeta medioevale; peccato che Gould abbia la tendenza a intubare i suoni con la conseguente perdita dell’intonazione nel passaggio e sia sprovvisto di vero squillo eroico nell’emissione dei Sol e La acuti, così se arrivare sano alla fine del III atto non gli pone alcun problema, è la tenuta della linea ad essere perennemente in pericolo di rottura.
Il successo gli aprì le porte di molti teatri che gli fecero affrontare il ruolo in maniera ancora più approfondita come nelle recite ginevrine, ma mantenendo gli stessi difetti tecnici che non gli permisero di essere un Siegfried completo e credibile.
A lui successe Frank van Akem, verso cui è meglio usare un lugubre silenzio.
Al Teatro alla Scala l’ultima volta, ed era il 2005, agivano Robert Gambill ed Endrik Wottrich, il primo nato come interprete rossiniano e mozartiano, con esiti discutibili fu ancora più discutibile in Wagner.
Voce chiara, scurita gonfiando le gote, rauca, querula frammentata e corta, per giunta ridotta quindi al solo traballante registro centrale.
Il secondo, se poteva contare su un timbro scuro, con un sospetto di artificio visti i suoi trascorsi da tenore lirico, aveva la grave zeppa dell’inerzia del fraseggio e di una emissione lasciata allo stato brado.
Se in Europa imperversa di teatro in teatro John Treleaven dalla voce arida e sgraziata che a mala pena gli permetteva di affrontare un altro ruolo micidiale come Siegfried, da Copenhagen e Stoccolma provengono Stig Andersen e Lars Cleveman.
Stig Andersen, artista studioso e intelligente, dotato di voce chiara, ma squillante, solida e dal fraseggio sempre nobile, ha affrontato con profitto, anche da noi in Italia, personaggi come Tristan, Siegmund, Siegfried, Parsifal che ha saputo dominare con gusto e buona padronanza tecnica.
Negli ultimi anni l’eccesso wagneriano, al centro del suo repertorio, ha reso la voce meno duttile ed elastica, facendole acquisire un vibrato invasivo che ha indurito gli acuti ed reso il cantabile meno sfumato, per questo Tannhäuser non ha avuto la stessa valenza degli altri suoi ruoli.
Lars Cleveman si è affacciato da poco ai ruoli wagneriani interpretando Siegfried in un applaudito allestimento del Ring a Stoccolma, ma se il timbro può risultare carezzevole, l’emissione diventa falsettante e sbiancata non appena la linea si solleva, gli acuti spesso perdono intonazione e l’accento va ancora elaborato verso un approccio più profondo.
Se calamitoso si è rivelato l’approccio al personaggio di John Keyes, tenore dalla voce completamente ingolfata e morchiosa, si attende di ascoltare Gary Lehmann, che si sta facendo le ossa sostituendo Domingo ed altri tenori wagneriani in vari forfait al Met.
E in Italia?
Oltre al già citato Stig Andersen, Torino ospiterà Johan Botha reduce dal lusinghiero successo ottenuto con Lohengrin, Walther, Siegmund e Parsifal; una voce chiara, lirica, sfumata la sua, emessa con sufficiente cura nonostante sembri perennemente in bilico con l’intonazione o a rischio rottura. Lascia dunque perplessi che una voce così aggraziata affronti un ruolo così pesante e creato per voci più solide.
Stesso discorso per Robert Dean Smith, il tenore scritturato a Milano; timbro lirico, voce ben emessa, dolce e delicatissima, appropriata per i medesimi ruoli che condivide con Botha.
Ha voluto cimentarsi anche in Tristan, tessitura al limite delle sue possibilità vocali che nonostante la cautela, lo vede completamente svuotato ed in debito d’ossigeno al III atto, come dimostrato a Bayreuth. Si spera che alla Scala riesca a superare lo scoglio dei concertati del II atto e del terribile “racconto” del III, poichè nel precedente Lohengrin scaligero arrivò al monologo finale quasi senza voce.
Scott MacAllister il Tannhäuser scelto dal teatro triestino, ha interpretato questa parte ovunque.
Robusta la voce, ma durezze e problemi di intonazione inquinano il suo canto nonostante la sensibilità dell’interprete e la ricerca a flettere il timbro verso chiaroscuri non sempre efficaci.
Ma il maggior Tannhäuser dei nostri giorni è a parer mio Peter Seiffert.
Artista wagneriano di spicco,probabilmente il miglior Erik degli ultimi anni, Lohengrin pieno di grazia, Walther sognante e appassionato, Tristan sofferto, Siegmund nobile ed eroico, Parsifal analitico, ha dimostrato di essere un ottimo Tannhäuser.
Anche quella di Seiffert è una voce più chiara, ma è sostenuta da una buona tecnica e da un temperamento vibrante e fantasioso.
Certo, gli acuti possiedono un vibrato largo che mette a rischio l’intonazione, la quale solo con una buona padronanza tecnica non sfugge al controllo, e risultano sempre ben timbrati; l’emissione con gli anni si è un po’ aperta, ma è padroneggiata con gusto. il timbro è rimasto intatto e luminoso.
Sia con Barenboim nell’incisione Decca, sia con Weigle in un video di prossima pubblicazione interpreta due Tannhäuser diversissimi, ma coerenti: torturato e pietoso nel primo caso, più fragile ed egoista nel secondo.
Il ruolo di Elisabeth fu affrontato alla sua creazione dal soprano Johanna Jachmann-Wagner, nipote prediletta del compositore e cantante tra il 1841 ed il 1860, attrice successivamente fino al 1870 e di nuovo cantante, ma questa volta nelle vesti di contralto, tra le più rappresentative della sua epoca, allieva di Bordogni, Viardot e Grisi.
Fu descritta come una voce purissima, compatta, di grande splendore e notevole estensione, la quale poteva permettersi i colori del contralto quando la tessitura si inabissava sotto al rigo e sonorità più liriche nell’ottava acuta.
Repertorio vastissimo il suo, in cui alle opere dei giovani compositori (Winter, Hiller, Dorn, Taubert), affiancava ruoli come Rezia e Lucrezia Borgia, Fidès e Norma, Donna Anna e Romeo, Orfeo e Ortrud, Tancredi e Valentine, le due Ifigenie di Gluck, Rosina e Fidelio.
A Parigi fu scelta Marie Sass, star di prima grandezza, soprano corposo, prima Elisabetta di Valois, ma anche Gilda, Leonora nel Trovatore, Elena nei “Vespri”, addirittura Amneris, Contessa per Mozart, interprete dei grandi ruoli drammatici di Meyerbeer e Halevy.
Il problema dell’interprete non dovrebbe sussistere nel caso di Elisabeth la quale si può beare sia della voce di un soprano lirico-spinto, sia di una voce più corposa e drammatica, sempre a patto di possedere un buon legato, una proiezione sufficiente a superare i ripidissimi muri dei concertati ed una estensione facile su tutta la gamma.
Sempre da Bayreuth proviene Ricarda Merbeth, l’Elisabeth torinese che sostituisce la prevista Emily Magee.
Ed è un peccato, poiché la voce della Merbeth sarebbe sufficiente per Freia e Gutrune o al massimo Eva, ma non per Elisabeth di cui le manca totalmente la drammaticità, il senso di sacrificio, la patina volitiva, tutta protesa al contrario, verso un fraseggio che vorrebbe evocare quello di un giovinetta e invece si trasforma in una statuina di porcellana fragile e zuccherosa, con l’aggravante di un timbro troppo linfatico, troppo vuoto in basso, privo di appoggio in alto e senza corposità.
Stesso discorso per Manuela Uhl e Solveig Kringelborn, ma se almeno l’una è una valida professionista, l’altra annega il ruolo in una ondata di smancerie insensate sorrette da voce di carta velina.
Meglio allora Emily Magee, che a Santa Cecilia illuminò il ruolo con una voce calda e lirica, dalle venature sensuali e al contempo angeliche.
Pessimo invece il dittico formato da Jane Eaglen e Nadja Michael: la prima bluff wagneriano tra i più colossali, dalla voce spessa, greve, ingolata, durissima nel fraseggio; la seconda pretende di assumere anche il ruolo di Venus contemporaneamente ad Elisabeth possedendo una voce di ormai dubbia classificazione, lanciata allo sbaraglio e completamente fratturata in moncherini incapaci di stare fermi o di esprimere qualcosa.
Se ci siamo messi l’animo in pace sul “fenomeno” rappresentato da Martina Serafin nella cui voce, a parte il volume ed una gradevolezza timbrica, risiede poco altro, e attendendo che due soprani come Nina Stemme, ottima Elisabeth a Ginevra, e Eva Maria Westbroek, approfondiscano un ruolo ideale per le loro voci chiare e screziate, l’incostante Camilla Nylund in un video di recente pubblicazione, non sembra abbia voluto offrire una grande prova canora.
Il Teatro alla Scala ha scelto, per questa nuova edizione, il soprano Anja Harteros, che il pubblico milanese ricorderà per la non proprio esaltante prova nell’ “Alcina” della passata stagione:
la Harteros, che continua a pregrinare senza posa in vari repertori da Mozart a Puccini, da Haendel a Wagner, conosce Elisabeth da parecchi anni per averlo affrontato a Monaco sempre con Mehta. Spero soltanto non lo canti come la sua recente Elsa, così fredda e distaccata e con la voce artificiosamente inscurita, quando il suo timbro reale sarebbe anche lirico e luminoso, dunque ideale.
L’ultima volta in Scala aveva cantato Adrianne Pieczonka soprano dal timbro lirico e prezioso, ma invariabilmente fredda e poco interessata all’espressione, con alcuni problemi d’intonazione nel passaggio superiore, tuttavia molto corretta.
Resta Petra Maria Schnitzer, soprano lirico dal timbro lucido e argenteo a suo agio sia in ruoli più drammatici come la sua splendida Sieglinde a Firenze o a Parigi, sia in quelli più soavi come Elsa, Eva e, appunto, Elisabeth.
Certo, non si può tacere del registro grave spinto e di qualche acuto fisso, ma la compattezza del timbro, la giustezza dell’accento, la proiezione del suono la rendono, oggi, Elisabeth di grande suggestione.
Maggiori possibilità baritonali ci vengono offerte per il ruolo di Wolfram, amico fedele di Tannhäuser e nel contempo suo rivale platonico e silenzioso, creato da un artista di notevole intelligenza, sensibilità e talento come Anton Mitterwurzer, primo Kurwenal tra l’altro, e raffinato interprete di Marschner il quale doveva possedere un legato solido ed un cantabile di eccezionale soavità visto il tipo di scrittura che Wagner gli affida.
Roman Trekel, ultimo titolare del ruolo a Bayreuth e chiamato quest’anno in Scala, lo interpreta volutamente in maniera ruvida e scostante, esattamente come il suo timbro, ma senza cadute di tono e con una buona proiezione.
Più estroverso, anche troppo, Bo Skovhus, cantante professionale e diligente che preferisce sacrificare l’intonazione sull’altare dell’espressività, facendo perdere al suo canto quella patina romantica e malinconica necessaria al personaggio scambiato, in questo caso, per un energumeno.
Più pacati e concentrati Peter Mattei, ultimo Wolfram scaligero, e Boaz Daniel, entrambi dai timbri caldi, mediterranei e immediatamente comunicativi oltre che sfumati ed eleganti.
Stesso dicasi per Dietrich Henschel e Thomas Hampson, baritoni chiari e interpreti raffinati di Lieder, i quali risolvono la scrittura attraverso una miniera di accenti e sfumature; Troppo manierati e cerebrali invece Michael Volle e Matthias Goerne; bel timbro, ma emissione intubata e sbadigliante nel primo caso, scuro e fumoso l’altro, così i loro interventi rischiano di diventare noiosi comizi nel loro scavare all’interno di ogni sfumatura, di ogni accento per accentuare ogni possibile contorcimento dell’animo. Interessante, certo, prima che il sonno prenda il sopravvento, però!
Se il veterano Olaf Bär ormai si limita a emettere aria e gonfiare il centro alla ricerca vana del timbro, il canto del giovane baritono Christian Gerhaher emerge per fragilità tecnica e fissità dell’emissione poggiata più sulla dote naturale che sul diaframma e sul fiato.
Buone notizie arrivano dal promettente Markus Eiche: voce baritonale compatta, nonostante una apertura del suono su alcune vocali francamente inutile visto il buon materiale, si disimpegna con ottima musicalità nel risolvere la canzone del II atto e tutto il grandioso intervento del terzo, grazie alla freschezza del timbro e ad un accento ovunque naturale e partecipe.
Tempi duri e difficili anche per la Dea tentatrice!
Prima di tutto a chi affidarla?
Un soprano dal centro corposo e dai registri estremi estesi, e dal cantabile fluido se si sceglie la versione di Dresda? Oppure un mezzosoprano vellutato, ma dall’acuto facile se invece preferiamo Parigi?
O ancora, nella commistione di versioni che si usa, meglio un soprano o un mezzo?
Wilhelmine Schroeder-Devrient, amica e protettrice di Wagner, fu la prima interprete di Venus a Dresda, soprano leggendario sia per le qualità canore sia per le intemperanze amorose e passionali.
Voce drammatica e dal temperamento diabolico, dotata di una tecnica così agile da permetterle di affronare Mozart (Pamina, Donna Anna), Bellini (Amina, Norma, Romeo, Imogene), Weber (Agathe, Rezia, Euryanthe), la Leonore del Fidelio, ruolo cardine della sua carriera, Wagner (Adriano, Senta, Venus), Gluck (Armide, Ifigenia in Aulide), Rossini (Desdemona), Meyerbeer (Valentine), senza colpo ferire.
A Parigi agì Fortunata Tedesco, voce anche questa mista tra screziature mezzosopranili (Fidès, Favorita, Venus) alternate a slanci sopranili di un certo peso (Attila, Ernani, Roberto Devereux, Guglielmo Tell, Nabucco, Mosè).
Se Bayreuth con la scialba e scolastica Barbara Schneider-Hoffstetter (soprano) e l’isterica e stonata Judit Nemeth (mezzosoprano), non si era approdato ad un nulla di fatto, un po’ meglio erano andate le cose alla Scala e a Santa Cecilia con Petra Lang, mezzosoprano, allora, dal timbro ricchissimo, seducente, pieno di chiaroscuri quindi l’ideale per una simile seduttrice.
Altri mezzosoprani che si sono impadronite del ruolo sono, oltre all’inossidabile e affidabile veterana Waltraud Meier, Lioba Braun, cantante corretta, ma non del tutto idonea a causa di un timbro querulo e di una voce piccola, nonostante un eloquio sempre interessante anche se poco sensuale; Michaela Schuster, protagonista a Torino, verso cui nutrivo molte speranze, deluse purtroppo dalla sua recente incarnazione di Ortrud, in cui al pallore del fraseggio faceva riscontro una voce accorciata e con parecchi problemi tecnici; Julia Gertseva, scelta da Mehta per lo spettacolo scaligero, le cui incarnazioni di Carmen, Dalila, Polina, tra timbro gutturale e pallore espressivo, urlano ancora vendetta; Beatrice Uria-Monzon, protagonista carismatica, voce ampia, poco omogenea nella saldatura dei registri e fumosa, ma controllata con intelligenza e credibile sia nelle vesti di ammaliatrice, sia in quelle di dea offesa e furiosa.
Poco da fare sul fronte sopranile, con una Evelyn Herlitzius temperamentosa, potente, certo, ma acida, aspra, fin troppo esagitata, con vari problemi di intonazione e di tenuta della linea, oppure con Jeanne Michèle Charbonnet più solida e sensuale della sua collega nonostante un registro acuto vetroso.
A conclusione inviterei cantanti, direttori, registi e maestranze alla lettura illuminante del testo “Per una perfetta rappresentazione del Tannhäuser” scritto da Wagner stesso, in cui il compositore, si fa musicologo, regista, consigliere, artista pur di infondere verità teatrale alla sua opera.
Buon “Tannhäuser” a tutti.
Gli ascolti
Wagner - Tannhäuser
Atto II
Dich, teure Halle - Barbara Kemp (1919)
Atto III
Allmächt'ge Jungfrau - Félia Litvinne (1909)
O du, mein holder Abendstern - Mattia Battistini (1902)
Inbrunst im Herzen - Isidoro de Fagoaga (1929), Franz Völker (1933)
Opera bellissima, di complessa realizzazione, micidiale da interpretare, probabilmente discontinua o irrisolta nella struttura, ma dal fascino innegabile, magica e attrattiva, cui è difficile resistere.
Mettere in scena un titolo del genere pone sempre un problema di difficile soluzione:
oggi, nel 2010, quale tenore può interpretare il cavaliere-cantore evocato dalle note di Wagner?
Domanda preoccupante, poiché se i tenori che oggi interpretano il ruolo sono effettivamente molti, non tutti possiedono quelle caratteristiche necessarie a domare una scrittura vocale totalmente folle come quella concepita da Richard Wagner per il protagonista!
Una scrittura spinosissima in cui un legato da manuale, la presenza di forcelle per assottigliare l’emissione delle note, deve lasciare spazio ad un declamato denso e spigoloso; una tessitura che costringe il tenore a cantare per almeno due atti nel registro centro-acuto insistendo sadicamente sui Sol ed i La; in più al secondo atto il cantante deve sovrastare coro, orchestra e solisti in un groviglio musicale e canoro quasi inestricabile per una voce sola nel concertato posto alla fine; nel terzo atto, se l’episodio del “racconto” insiste in sonorità baritonali, tutto il delirio che il protagonista affronta anelando al Venusberg torna ad essere acuto e parecchio scomodo.
Proprio per questa scrittura “mista” il ruolo è stato affrontato sia da tenori drammatici ed eroici come Max Lorenz, Lauritz Melchior, Hans Hopf, Spas Wenkoff sia da tenori all’apparenza più chiari come Wolfgang Windgassen, Jess Thomas, Renè Kollo, Placido Domingo, Richard Versalle.
I primi a cimentarsi nel temibile ruolo furono Joseph Tichatschek a Dresda nel 1845 e Albert Niemann a Parigi nel 1861.
Tichatschek studiò canto con il famoso Giuseppe Ciccimarra, tenore specializzato in ruoli di carattere rossiniani ed esperto maestro, e scorrendo il suo eclettico repertorio possiamo notare la presenza di opere appartenenti ad Auber, Meyerbeer, Mozart, Halevy, Spontini, Weber, Marschner, Gluck, Beethoven segno di una preparazione e di un uso della voce tecnicamente corretto, confermati dagli oltre quanta anni di carriera.
I suoi contemporanei e ammiratori, come Berlioz, descrissero una voce toccante, morbida, pura, dal volume potente, capace di scoppi intensi e drammatici, ma sempre in ossequio allo stile ed al buon gusto, la cui intonazione fu paragonata per perfezione a quella del tenore Mario, mentre la sua coloratura risultò sempre imperfetta e poco fluida.
Nelle rappresentazioni del “Tannhäuser” del 1845 non tutto filò liscio: una raucedine lo costrinse a cantare la parte alleggerita da parecchi tagli e venne accusato di non essere in grado di comprendere le finezze psicologiche del ruolo a causa di uno studio poco approfondito, che verrà successivamente colmato, con profitto, nella ripresa del 1858.
Albert Niemann, invece, si era formato grazie ai precetti di Fritz Schneider, di Albert Nusch e di Gilbert-Louis Duprez, conosceva il ruolo di Tannhäuser fin dal 1854 e fu scelto da Wagner, assieme a Tichatschek e Ludwig Schnorr-von Carolsfeld, come modello vocale per i drammi futuri: “Lohengrin”, “Tristan und Isolde” e “Siegfried”.
A Parigi il desiderio di successo di Niemann, la marcata idiosincrasia verso i consigli di Wagner che lo portarono a non rispettare le scelte espressive del Maestro, associati alle scenate, ai capricci, condussero Niemann ad un canto eccessivamente sottotono che minò la credibilità vocale e scenica, (come affermano Baudelaire e Saint-Saëns che gli rimproverò l’uso improprio del legato e delle poche sfumature) e logorò di fatto la collaborazione con Wagner, ripresa solo molti anni dopo, culminando nell’assegnazione del ruolo di Siegmund alla prima della “Walküre” a Bayreuth.
Repertorio non dissimile da quello di Tichatschek quello di Niemann, a cui si aggiunge però Verdi, Gounod ed una maggiore frequentazione delle opere estreme di Wagner.
Lilli Lehmann ed i suoi contemporanei parlano della sua voce in maniera entusiastica, soffermandosi sulla potenza dello strumento, sulle calde inflessioni baritonali, sulla naturale capacità comunicativa del fraseggio, sullo scavo della parola, sul legato e sull’uso delle messe di voce.
Di tenori che affrontano Wagner con una preparazione del genere, parallelamente ad un repertorio così variegato oggi, come vedremo, non ve ne sono.
Partiamo da Bayreuth, che dovrebbe rappresentare la vetrina più autorevole sia per tastare lo stato di salute del canto wagneriano, sia perché dovrebbe raccogliere il meglio dei cantanti oggi disponibili in questo repertorio.
Nel 2002 fu inaugurato un nuovo allestimento, decorativo si disse, firmato da Philippe Arlaud e diretto, in maniera poco ispirata da Christian Thielemann.
I tenori che si alternarono in quelle recite, concluse nel 2007 (con una pausa nel 2006) furono ben quattro: “BENE” direbbe l’ascoltatore ottimista, “Insomma” risponderei io.
I primi due ad affrontare il ruolo furono il veterano Wolfgang Millgramm e Glenn Winslade:
voce robusta, ma usurata e secca con la tendenza a vociferare il primo, pallido, senza nerbo e qualunque sia timbricamente, sia vocalmente il secondo.
Si provò allora con Stephen Gould chiamato nel 2004, confermato l’anno successivo, e fu un successo.
La voce robusta e dalle screziature baritonali, l’accento sofferto, ma sfumato, sembravano l’ideale per onorare le ardue esigenze del poeta medioevale; peccato che Gould abbia la tendenza a intubare i suoni con la conseguente perdita dell’intonazione nel passaggio e sia sprovvisto di vero squillo eroico nell’emissione dei Sol e La acuti, così se arrivare sano alla fine del III atto non gli pone alcun problema, è la tenuta della linea ad essere perennemente in pericolo di rottura.
Il successo gli aprì le porte di molti teatri che gli fecero affrontare il ruolo in maniera ancora più approfondita come nelle recite ginevrine, ma mantenendo gli stessi difetti tecnici che non gli permisero di essere un Siegfried completo e credibile.
A lui successe Frank van Akem, verso cui è meglio usare un lugubre silenzio.
Al Teatro alla Scala l’ultima volta, ed era il 2005, agivano Robert Gambill ed Endrik Wottrich, il primo nato come interprete rossiniano e mozartiano, con esiti discutibili fu ancora più discutibile in Wagner.
Voce chiara, scurita gonfiando le gote, rauca, querula frammentata e corta, per giunta ridotta quindi al solo traballante registro centrale.
Il secondo, se poteva contare su un timbro scuro, con un sospetto di artificio visti i suoi trascorsi da tenore lirico, aveva la grave zeppa dell’inerzia del fraseggio e di una emissione lasciata allo stato brado.
Se in Europa imperversa di teatro in teatro John Treleaven dalla voce arida e sgraziata che a mala pena gli permetteva di affrontare un altro ruolo micidiale come Siegfried, da Copenhagen e Stoccolma provengono Stig Andersen e Lars Cleveman.
Stig Andersen, artista studioso e intelligente, dotato di voce chiara, ma squillante, solida e dal fraseggio sempre nobile, ha affrontato con profitto, anche da noi in Italia, personaggi come Tristan, Siegmund, Siegfried, Parsifal che ha saputo dominare con gusto e buona padronanza tecnica.
Negli ultimi anni l’eccesso wagneriano, al centro del suo repertorio, ha reso la voce meno duttile ed elastica, facendole acquisire un vibrato invasivo che ha indurito gli acuti ed reso il cantabile meno sfumato, per questo Tannhäuser non ha avuto la stessa valenza degli altri suoi ruoli.
Lars Cleveman si è affacciato da poco ai ruoli wagneriani interpretando Siegfried in un applaudito allestimento del Ring a Stoccolma, ma se il timbro può risultare carezzevole, l’emissione diventa falsettante e sbiancata non appena la linea si solleva, gli acuti spesso perdono intonazione e l’accento va ancora elaborato verso un approccio più profondo.
Se calamitoso si è rivelato l’approccio al personaggio di John Keyes, tenore dalla voce completamente ingolfata e morchiosa, si attende di ascoltare Gary Lehmann, che si sta facendo le ossa sostituendo Domingo ed altri tenori wagneriani in vari forfait al Met.
E in Italia?
Oltre al già citato Stig Andersen, Torino ospiterà Johan Botha reduce dal lusinghiero successo ottenuto con Lohengrin, Walther, Siegmund e Parsifal; una voce chiara, lirica, sfumata la sua, emessa con sufficiente cura nonostante sembri perennemente in bilico con l’intonazione o a rischio rottura. Lascia dunque perplessi che una voce così aggraziata affronti un ruolo così pesante e creato per voci più solide.
Stesso discorso per Robert Dean Smith, il tenore scritturato a Milano; timbro lirico, voce ben emessa, dolce e delicatissima, appropriata per i medesimi ruoli che condivide con Botha.
Ha voluto cimentarsi anche in Tristan, tessitura al limite delle sue possibilità vocali che nonostante la cautela, lo vede completamente svuotato ed in debito d’ossigeno al III atto, come dimostrato a Bayreuth. Si spera che alla Scala riesca a superare lo scoglio dei concertati del II atto e del terribile “racconto” del III, poichè nel precedente Lohengrin scaligero arrivò al monologo finale quasi senza voce.
Scott MacAllister il Tannhäuser scelto dal teatro triestino, ha interpretato questa parte ovunque.
Robusta la voce, ma durezze e problemi di intonazione inquinano il suo canto nonostante la sensibilità dell’interprete e la ricerca a flettere il timbro verso chiaroscuri non sempre efficaci.
Ma il maggior Tannhäuser dei nostri giorni è a parer mio Peter Seiffert.
Artista wagneriano di spicco,probabilmente il miglior Erik degli ultimi anni, Lohengrin pieno di grazia, Walther sognante e appassionato, Tristan sofferto, Siegmund nobile ed eroico, Parsifal analitico, ha dimostrato di essere un ottimo Tannhäuser.
Anche quella di Seiffert è una voce più chiara, ma è sostenuta da una buona tecnica e da un temperamento vibrante e fantasioso.
Certo, gli acuti possiedono un vibrato largo che mette a rischio l’intonazione, la quale solo con una buona padronanza tecnica non sfugge al controllo, e risultano sempre ben timbrati; l’emissione con gli anni si è un po’ aperta, ma è padroneggiata con gusto. il timbro è rimasto intatto e luminoso.
Sia con Barenboim nell’incisione Decca, sia con Weigle in un video di prossima pubblicazione interpreta due Tannhäuser diversissimi, ma coerenti: torturato e pietoso nel primo caso, più fragile ed egoista nel secondo.
Il ruolo di Elisabeth fu affrontato alla sua creazione dal soprano Johanna Jachmann-Wagner, nipote prediletta del compositore e cantante tra il 1841 ed il 1860, attrice successivamente fino al 1870 e di nuovo cantante, ma questa volta nelle vesti di contralto, tra le più rappresentative della sua epoca, allieva di Bordogni, Viardot e Grisi.
Fu descritta come una voce purissima, compatta, di grande splendore e notevole estensione, la quale poteva permettersi i colori del contralto quando la tessitura si inabissava sotto al rigo e sonorità più liriche nell’ottava acuta.
Repertorio vastissimo il suo, in cui alle opere dei giovani compositori (Winter, Hiller, Dorn, Taubert), affiancava ruoli come Rezia e Lucrezia Borgia, Fidès e Norma, Donna Anna e Romeo, Orfeo e Ortrud, Tancredi e Valentine, le due Ifigenie di Gluck, Rosina e Fidelio.
A Parigi fu scelta Marie Sass, star di prima grandezza, soprano corposo, prima Elisabetta di Valois, ma anche Gilda, Leonora nel Trovatore, Elena nei “Vespri”, addirittura Amneris, Contessa per Mozart, interprete dei grandi ruoli drammatici di Meyerbeer e Halevy.
Il problema dell’interprete non dovrebbe sussistere nel caso di Elisabeth la quale si può beare sia della voce di un soprano lirico-spinto, sia di una voce più corposa e drammatica, sempre a patto di possedere un buon legato, una proiezione sufficiente a superare i ripidissimi muri dei concertati ed una estensione facile su tutta la gamma.
Sempre da Bayreuth proviene Ricarda Merbeth, l’Elisabeth torinese che sostituisce la prevista Emily Magee.
Ed è un peccato, poiché la voce della Merbeth sarebbe sufficiente per Freia e Gutrune o al massimo Eva, ma non per Elisabeth di cui le manca totalmente la drammaticità, il senso di sacrificio, la patina volitiva, tutta protesa al contrario, verso un fraseggio che vorrebbe evocare quello di un giovinetta e invece si trasforma in una statuina di porcellana fragile e zuccherosa, con l’aggravante di un timbro troppo linfatico, troppo vuoto in basso, privo di appoggio in alto e senza corposità.
Stesso discorso per Manuela Uhl e Solveig Kringelborn, ma se almeno l’una è una valida professionista, l’altra annega il ruolo in una ondata di smancerie insensate sorrette da voce di carta velina.
Meglio allora Emily Magee, che a Santa Cecilia illuminò il ruolo con una voce calda e lirica, dalle venature sensuali e al contempo angeliche.
Pessimo invece il dittico formato da Jane Eaglen e Nadja Michael: la prima bluff wagneriano tra i più colossali, dalla voce spessa, greve, ingolata, durissima nel fraseggio; la seconda pretende di assumere anche il ruolo di Venus contemporaneamente ad Elisabeth possedendo una voce di ormai dubbia classificazione, lanciata allo sbaraglio e completamente fratturata in moncherini incapaci di stare fermi o di esprimere qualcosa.
Se ci siamo messi l’animo in pace sul “fenomeno” rappresentato da Martina Serafin nella cui voce, a parte il volume ed una gradevolezza timbrica, risiede poco altro, e attendendo che due soprani come Nina Stemme, ottima Elisabeth a Ginevra, e Eva Maria Westbroek, approfondiscano un ruolo ideale per le loro voci chiare e screziate, l’incostante Camilla Nylund in un video di recente pubblicazione, non sembra abbia voluto offrire una grande prova canora.
Il Teatro alla Scala ha scelto, per questa nuova edizione, il soprano Anja Harteros, che il pubblico milanese ricorderà per la non proprio esaltante prova nell’ “Alcina” della passata stagione:
la Harteros, che continua a pregrinare senza posa in vari repertori da Mozart a Puccini, da Haendel a Wagner, conosce Elisabeth da parecchi anni per averlo affrontato a Monaco sempre con Mehta. Spero soltanto non lo canti come la sua recente Elsa, così fredda e distaccata e con la voce artificiosamente inscurita, quando il suo timbro reale sarebbe anche lirico e luminoso, dunque ideale.
L’ultima volta in Scala aveva cantato Adrianne Pieczonka soprano dal timbro lirico e prezioso, ma invariabilmente fredda e poco interessata all’espressione, con alcuni problemi d’intonazione nel passaggio superiore, tuttavia molto corretta.
Resta Petra Maria Schnitzer, soprano lirico dal timbro lucido e argenteo a suo agio sia in ruoli più drammatici come la sua splendida Sieglinde a Firenze o a Parigi, sia in quelli più soavi come Elsa, Eva e, appunto, Elisabeth.
Certo, non si può tacere del registro grave spinto e di qualche acuto fisso, ma la compattezza del timbro, la giustezza dell’accento, la proiezione del suono la rendono, oggi, Elisabeth di grande suggestione.
Maggiori possibilità baritonali ci vengono offerte per il ruolo di Wolfram, amico fedele di Tannhäuser e nel contempo suo rivale platonico e silenzioso, creato da un artista di notevole intelligenza, sensibilità e talento come Anton Mitterwurzer, primo Kurwenal tra l’altro, e raffinato interprete di Marschner il quale doveva possedere un legato solido ed un cantabile di eccezionale soavità visto il tipo di scrittura che Wagner gli affida.
Roman Trekel, ultimo titolare del ruolo a Bayreuth e chiamato quest’anno in Scala, lo interpreta volutamente in maniera ruvida e scostante, esattamente come il suo timbro, ma senza cadute di tono e con una buona proiezione.
Più estroverso, anche troppo, Bo Skovhus, cantante professionale e diligente che preferisce sacrificare l’intonazione sull’altare dell’espressività, facendo perdere al suo canto quella patina romantica e malinconica necessaria al personaggio scambiato, in questo caso, per un energumeno.
Più pacati e concentrati Peter Mattei, ultimo Wolfram scaligero, e Boaz Daniel, entrambi dai timbri caldi, mediterranei e immediatamente comunicativi oltre che sfumati ed eleganti.
Stesso dicasi per Dietrich Henschel e Thomas Hampson, baritoni chiari e interpreti raffinati di Lieder, i quali risolvono la scrittura attraverso una miniera di accenti e sfumature; Troppo manierati e cerebrali invece Michael Volle e Matthias Goerne; bel timbro, ma emissione intubata e sbadigliante nel primo caso, scuro e fumoso l’altro, così i loro interventi rischiano di diventare noiosi comizi nel loro scavare all’interno di ogni sfumatura, di ogni accento per accentuare ogni possibile contorcimento dell’animo. Interessante, certo, prima che il sonno prenda il sopravvento, però!
Se il veterano Olaf Bär ormai si limita a emettere aria e gonfiare il centro alla ricerca vana del timbro, il canto del giovane baritono Christian Gerhaher emerge per fragilità tecnica e fissità dell’emissione poggiata più sulla dote naturale che sul diaframma e sul fiato.
Buone notizie arrivano dal promettente Markus Eiche: voce baritonale compatta, nonostante una apertura del suono su alcune vocali francamente inutile visto il buon materiale, si disimpegna con ottima musicalità nel risolvere la canzone del II atto e tutto il grandioso intervento del terzo, grazie alla freschezza del timbro e ad un accento ovunque naturale e partecipe.
Tempi duri e difficili anche per la Dea tentatrice!
Prima di tutto a chi affidarla?
Un soprano dal centro corposo e dai registri estremi estesi, e dal cantabile fluido se si sceglie la versione di Dresda? Oppure un mezzosoprano vellutato, ma dall’acuto facile se invece preferiamo Parigi?
O ancora, nella commistione di versioni che si usa, meglio un soprano o un mezzo?
Wilhelmine Schroeder-Devrient, amica e protettrice di Wagner, fu la prima interprete di Venus a Dresda, soprano leggendario sia per le qualità canore sia per le intemperanze amorose e passionali.
Voce drammatica e dal temperamento diabolico, dotata di una tecnica così agile da permetterle di affronare Mozart (Pamina, Donna Anna), Bellini (Amina, Norma, Romeo, Imogene), Weber (Agathe, Rezia, Euryanthe), la Leonore del Fidelio, ruolo cardine della sua carriera, Wagner (Adriano, Senta, Venus), Gluck (Armide, Ifigenia in Aulide), Rossini (Desdemona), Meyerbeer (Valentine), senza colpo ferire.
A Parigi agì Fortunata Tedesco, voce anche questa mista tra screziature mezzosopranili (Fidès, Favorita, Venus) alternate a slanci sopranili di un certo peso (Attila, Ernani, Roberto Devereux, Guglielmo Tell, Nabucco, Mosè).
Se Bayreuth con la scialba e scolastica Barbara Schneider-Hoffstetter (soprano) e l’isterica e stonata Judit Nemeth (mezzosoprano), non si era approdato ad un nulla di fatto, un po’ meglio erano andate le cose alla Scala e a Santa Cecilia con Petra Lang, mezzosoprano, allora, dal timbro ricchissimo, seducente, pieno di chiaroscuri quindi l’ideale per una simile seduttrice.
Altri mezzosoprani che si sono impadronite del ruolo sono, oltre all’inossidabile e affidabile veterana Waltraud Meier, Lioba Braun, cantante corretta, ma non del tutto idonea a causa di un timbro querulo e di una voce piccola, nonostante un eloquio sempre interessante anche se poco sensuale; Michaela Schuster, protagonista a Torino, verso cui nutrivo molte speranze, deluse purtroppo dalla sua recente incarnazione di Ortrud, in cui al pallore del fraseggio faceva riscontro una voce accorciata e con parecchi problemi tecnici; Julia Gertseva, scelta da Mehta per lo spettacolo scaligero, le cui incarnazioni di Carmen, Dalila, Polina, tra timbro gutturale e pallore espressivo, urlano ancora vendetta; Beatrice Uria-Monzon, protagonista carismatica, voce ampia, poco omogenea nella saldatura dei registri e fumosa, ma controllata con intelligenza e credibile sia nelle vesti di ammaliatrice, sia in quelle di dea offesa e furiosa.
Poco da fare sul fronte sopranile, con una Evelyn Herlitzius temperamentosa, potente, certo, ma acida, aspra, fin troppo esagitata, con vari problemi di intonazione e di tenuta della linea, oppure con Jeanne Michèle Charbonnet più solida e sensuale della sua collega nonostante un registro acuto vetroso.
A conclusione inviterei cantanti, direttori, registi e maestranze alla lettura illuminante del testo “Per una perfetta rappresentazione del Tannhäuser” scritto da Wagner stesso, in cui il compositore, si fa musicologo, regista, consigliere, artista pur di infondere verità teatrale alla sua opera.
Buon “Tannhäuser” a tutti.
Gli ascolti
Wagner - Tannhäuser
Atto II
Dich, teure Halle - Barbara Kemp (1919)
Atto III
Allmächt'ge Jungfrau - Félia Litvinne (1909)
O du, mein holder Abendstern - Mattia Battistini (1902)
Inbrunst im Herzen - Isidoro de Fagoaga (1929), Franz Völker (1933)
2 commenti:
Grazie!
Molto interessante.
Ora vediamo cosa ne combina La Scalà.
Je m'excuse de vous écrire en français, mais comme mon italien parlé et écrit n'est pas assez bon pour que je puisse m'exprimer sur des sujets pareils, je voudrais juste vous dire que vous êtes magnifique! Depuis que j'ai découvert votre blog je lis chaque article avec un immense plaisir. Heureusement il y a encore des gens comme vous pour cultiver "l'antica arte del canto" et pour écrire des critiques qui malheureusement n'ont plus de place dans les journaux aujourd'hui! La conjonction de l'oreille, du coeur, du cerveau et de la langue chez vous est simplement admirable!
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