A conclusione della Stagione il Teatro Comunale di Firenze ha deciso di riproporre un titolo non più apparso sul palcoscenico da ben 29 anni: “Adriana Lecouvreur” di Francesco Cilea.
L’ultima volta, nei primi anni ’80, agiva un cast che ancora oggi i fiorentini ricordano come leggendario, in cui troneggiavano il carisma di Raina Kabaivanska, la potenza vocale di Fiorenza Cossotto, la voce schietta di Gianfranco Cecchele e l’inossidabile Rolando Panerai; dirigeva il tutto un Maestro della caratura di Gianandrea Gavazzeni.
Prima di quelle forunate recite, soltanto due volte “Adriana” era approdata a Firenze ed in entrambi i casi, a oltre 20 anni di distanza, un'unica protagonista: Magda Olivero, ça va sans dire!
Questa edizione avrebbe visto alla direzione il gradito ritorno del Maestro Bruno Bartoletti, lontano dal Teatro Comunale dal 2004, in cui aveva trionfato con le premiate recite del dittico di Dallapiccola, “Prigioniero” e “Volo di notte”.
Purtroppo, a causa di problemi di salute (Le auguriamo una pronta guarigione Maestro), al suo posto le maestranze hanno chiamato il direttore Patrick Fournillier, che i fiorentini hanno già avuto modo di conoscere lo scorso anno quando ebbe l’occasione di dirigere “Pagliacci”.
Defezioni che si sono estese anche a due componenti del cast proposto:
per Maurizio di Sassonia era previsto il tenore Marco Berti, poi sostituito da Fabio Sartori e Warren Mok, mentre il veterano Juan Pons avrebbe vestito i panni di Michonnet, successivamente indossati da Stefano Antonucci.
Per fare le cose in grande il Teatro Comunale ha proposto ben due cast, ma andiamo con ordine.
Founillier in una intervista a Radio Tre ha evidenziato come lo stile di Cilea sia stato influenzato da tutta quella ventata culturale, musicale e creativa che invase letteralmente l’Europa dopo la morte di Wagner.
Coerentemente il direttore sottolinea, esalta ogni preziosismo sinfonico, ogni componente sonora, ogni tema, che avvicini Cilea ad altri compositori a lui coevi.
Abbiamo, dunque, un I atto molto vicino all’esotismo brillante della “Butterfly” pucciniana, un II che sembra voler ricordare certe ambientazioni decadenti di Massenet, un III che intende ricordare la Venezia di Ponchielli ed un IV sospeso tra l’essenzialità di Debussy e certe soffuse albe wagneriane.
Sarebbe stata una lettura interessantissima, filtrare Cilea attraverso l’ottica dei suoi contemporanei europei, e probabilmente il direttore avrebbe potuto osare di più sviluppando meglio la questione sempre aperta dei “Temi” collegati ai personaggi, oppure avrebbe potuto infondere una energia più moderna.
Purtroppo Fournillier, troppo preso dal sottolineare questo o quel particolare, finisce per alternare sonorità massicce, che finiscono per coprire le voci (duetto Adriana-Maurizio), ad assottigliamenti che fanno sparire totalmente l’orchestra (duetto Adriana-Maurizio al II atto), o ancora, velocità eccessive, (l’accompagnamento dei comprimari) alternate a lentezze macignose (“L’anima ho stanca”, il balletto).
Fournillier ha anche pregevoli intuizioni, come tutta la musica che accompagna Michonnet, il quale ne viene avvolto fino, quasi, ad isolarlo; l’Intermezzo del II atto, il cui il languore stavolta solo orchestrale de “La dolcissime effigie” è espresso con maggiore abbandono; il preludio al IV che possiede una agogica morbidissima molto aderente al clima sensuale che si respira; il sottofondo tutto strappi appassionati e nervosi di “Acerba voluttà” o la vibrante ambiguità del duetto che segue.
Una direzione abbastanza frammentaria, dunque poco coerente, che avrei preferito più omogenea.
Adina Nitescu, la protagonista, emerge per una certa vaghezza timbrica e per il volume dello strumento.
Ed è tutto!
Il soprano possiede delle belle intenzioni, soprattutto nello smorzare i suoni o nei pianissimi, ma a causa di una dizione poco rifinita ed un accento avarissimo di colori e di qualsiasi sfumatura, dimostra di sentire poco il personaggio.
Sicuramente, essendo un debutto, ha tutte le attenuanti in merito, ma non si può tacere di una resa vocale poco rifinita e fallosa.
“Io son l’umile ancella” la vede fin troppo cauta nell’emissione e nella gestione dei propri mezzi, poiché la voce, appena la tessitura si solleva oltre il Fa, si irrigidisce, va indietro, inizia a traballare pericolosamente perdendo così quella preziosità timbrica esibita nei centri, mentre i gravi sono totalmente assenti o “parlati”.
Riesce ad azzeccare il piano su “Un soffio è la mia voce”, ma non riesce a mascherare una linea di canto disordinata ed una pronuncia superficiale, così i brani recitati risultano sgraziati e troppo marcatamente ridondanti per essere esempio di semplicità e naturalezza.
Se qualche tentativo di fraseggiare lo si può intuire nel duetto con Maurizio, totalmente assente sarà l’interprete nel prosieguo, in cui la Nitescu, ad una emissione sempre più incapace di stare ferma, unirà una mancanza di coinvolgimento sia nei duetti con la Principessa, sia con Michonnet, accompagnati tra l’altro da suoni fissi e falsettanti, per concludersi in un IV atto in cui la voce risulta completamente ridotta, svuotata ed esangue, mentre la cantante in debito d’ossigeno, compromette la buona riuscita di “Poveri fiori” e di tutto il delirio finale.
Dignitosa invece la prova di Annalisa Raspagliosi.
Ricordavo una voce diversa però, dalle prove discografiche e dal doppiaggio delle parti cantate della brutta fiction “Callas e Onassis”, e un timbro più scuro, come impastato.
Oggi la voce è più chiara, lirica, meno potente rispetto alla sua collega, ma ben emessa e senza problemi a passare l’orchestra di fronte ai molti muri sonori che talvolta la bacchetta di Fournillier le para dinnanzi.
Problematico, tuttavia, il registro grave, che il soprano è costretto ad “inventarsi” ingolando la voce, mentre penetrante risulta il registro acuto nonostante il vibrato largo le porti qualche problema di intonazione soprattutto nei fortissimi.
Parte in sordina la Raspagliosi nell’aria di ingresso, sempre molto cauta, ignorando i piani ed i pianissimi, ma già dal dialogo con Michonnet, il soprano sfodera una bella grinta, riuscendo a dosare con buona partecipazione l’ironia e la semplicità, ma anche la malinconica sensualità dell’incontro con Maurizio in cui non ha problemi a coprire il suo partner.
La dizione, che scava a fondo nella parola, la trova vincente nell’incontro con la Principessa in cui ogni frase è scandita con il giusto accento di sfida e più contenuta e coinvolta risulta nelle parti recitate nonostante certa polverosa aulicità, che ben si adatta al clima registico.
Nel IV atto la voce ha ancora frecce al proprio arco, riuscendo a cesellare un “Poveri fiori” rispettando tutte le prescrizioni di smorzature del suono e di legato, e coronato da intenzioni “veriste” che le provocano qualche sbandamento d’intonazione nella zona Fa-La, ma che arricchiscono l’espressività del brano, esattamente come nel delirio tutto virato al pianissimo.
In definitiva, una prova sicuramente da approfondire, una Adriana giovane e fragile, insicura del proprio fascino, ma volitiva nei sentimenti, e che potrebbe portare la Raspagliosi ad abbandonare i ruoli verdiani per una netta virata, a parer mio più proficua, verso il repertorio “Verista” (Lodoletta o Nedda ad esempio).
Al fianco della prima canta Fabio Sartori, il quale ce la mette tutta per non essere un Maurizio credibile.
“La dolcissima effigie” richiede squillo, morbidezza di emissione, oltre ad un fraseggio ovunque languido e soffuso: Sartori non ha squillo, poiché il timbro risulta vagamente morchioso e non appena la scrittura supera il passaggio Mi-Sol, oppure le note gravi, ecco che la voce o va indietro o finisce in gola perdendo completamente smalto.
Inerte e senza palpito nel fraseggio, Sartori cerca di smorzare il suono, come nel caso de “L’anima ho stanca”, diventando solo lagnoso, e la cui centralità dovrebbe favorirlo nella ricerca di colori, invece di adagiarsi su una generica piattezza che si riproporrà identica sia nel racconto del III atto che in uno smunto IV.
Ma siamo in presenza di un Enrico Caruso risorto se paragoniamo Sartori a ciò che ci fa udire Warren Mok!
La dizione ignora completamente l’uso delle consonanti, quando abbozza un tentativo di pronunciarle, le fa accartocciare su se stesse con un effetto singhiozzante che lascia perplessi. Voce legnosa, sguaiata, bloccata in un perenne fortissimo, dall’emissione dubbia visto l’invadente vibrato, e in più non riesce né a superare l’orchestra, né a fondersi con la voce del soprano, da cui è completamente sovrastato.
In simili condizioni parlare di fraseggio o di accento è assolutamente fantascienza!
Note più liete da parte della Principessa di Marianne Cornetti, ma con qualche distinguo;
la Cornetti è un mezzosoprano acuto dalla voce potente, timbrata, robusta, dal centro pieno e morbido, affetta, però, da vibrato largo, che irrigidisce il registro acuto, molto sollecitato nel II atto e tende ad ostentare ed aprire troppo il suono quando scende al grave, cosa di cui non avrebbe bisogno vista la pienezza dei gravi già esibiti in Santuzza e Azucena ad esempio.
Problemi questi causati forse dalla voglia di cimentarsi in parti sopranili (Abigaille e Lady Macbeth), moda funestissima, che ha già fatto illustri vittime come dimostrato da Violeta Urmana e Nadja Michael.
La Cornetti sarebbe dunque perfetta per la Bouillon, ma è un’interprete che marca troppo la forza del personaggio e non la sua sensualità esacerbata e fatale, e, a parte la protervia, il fraseggio non mette in evidenza null’altro, risultando dunque personaggio a senso unico e poco coinvolgente.
Nel secondo cast invece della Principessa abbiamo la sua sguattera; già, perché Elena Bocharova non ha nulla di principesco e nulla per essere interprete di riferimento del ruolo.
Non una, ma ben tre voci separate: registro grave sbracato e gorgogliante, registro centrale esile e genericamente scuro, registro acuto fragile e leggero perennemente su un filo teso e traballante.
Ma se la Cornetti almeno qualche sfaccettatura del personaggio la lasciava, qua e la, trasparire, con la Bocharova non abbiamo nulla che possa attirare la nostra attenzione o quella di Maurizio, tranne quello di Mok, di cui è degna compagna vocalmente parlando.
Michonnet trova nel fraseggio e nelle doti attoriali di Stefano Antonucci il giusto protagonismo scenico e la giusta rilevanza soprattutto nei colori ovunque malinconici e decadenti con cui scandisce i due monologhi al I atto, o nell’amara ironia in cui la sua caratterizzazione è avvolta.
Dispiace dunque ascoltare tale varietà di accenti associati ad una voce ruvida, che si opacizza già nel passaggio e diventa sovente fissa e rigida come nei molti duetti con Adriana.
Il resto del cast è professionale scenicamente, ma non si distingue per grossi meriti vocali in quanto Francesco Palmieri, Il principe di Bouillon, risulta sonoro, ma gutturale; Mario Bolognesi, Abate di Chazeuil, è petulante e opaco; il quartetto formato da Alessandro Battiato, Quinault, Anicio Zorzi Giustiniani, Poisson, Oriana Kurteshi, Madamigella Jouvenot, Luisa Francesconi, Madamigella Dangeville, è spigliato e divertente, ma a parte il "quartetto" del IV atto, tutto il resto è cantato con timbri leggermente queruli e leziosi.
Per una volta il coro, preparato come sempre dal bravissimo Piero Monti, è sembrato più impegnato a fare solo il proprio mestiere, che a partecipare con maggior convinzione all’azione.
L’allestimento di Ivan Stefanutti, varato nel 2002 per l’As.Li.Co, ma visto anche in Giappone e Las Palmas, che ha curato la regia ed ha disegnato scene e costumi, vuole evocare con il suo impianto fisso, costituito da essenziali citazioni da architetture e decori di Hector Guimard, Victor Horta e Henry van de Velde, quell’atmosfera sospesa tra Verismo e Decadentismo dannunziano di certo cinema muto dei primi del ‘900, gli stessi anni che videro la nascita dell’opera, in cui a dominare erano personaggi tormentati, dalle caratteristiche “divine” e dai grandi gesti.
Adriana ed i suoi colleghi si muovono, appunto, come la grande Lyda Borelli, omaggiata apertamente dal regista nel finale, o come certi caratteristi dei primi cortometraggi comici, mentre molta superficialità è data a Maurizio ed alla Principessa, che limitano la propria gestualità al passeggiare; il solo Michonnet ha giustamente un’ efficace recitazione più moderna e “vera”, in netto contrasto con la finzione del palcoscenico che quasi confonde la vita degli altri.
Interessanti le luci “bianche e nere”, che volutamente evocano i primi film muti, di Eduardo Bravo Fernández e Gianni Paolo Mirenda, noiosa invece la coreografia di Luca Veggetti, ripresa da Angela Rosselli, che vorrebbe, molto lontanamente, omaggiare il balletto “L'Après-midi d'un faune” di Debussy- Nijinsky.
Sala semi vuota alla recita del 20 Febbraio, e pubblico caloroso solo nei confronti della Raspagliosi, mentre più nutrito e partecipe quello accorso il 23, almeno da quanto era udibile in radio.
Non credo che i fiorentini ricorderanno queste recite, attribuendo loro la parola “Leggendarie”…
Cronaca della recita del 20 Febbraio e della diretta radiofonica del 23
L’ultima volta, nei primi anni ’80, agiva un cast che ancora oggi i fiorentini ricordano come leggendario, in cui troneggiavano il carisma di Raina Kabaivanska, la potenza vocale di Fiorenza Cossotto, la voce schietta di Gianfranco Cecchele e l’inossidabile Rolando Panerai; dirigeva il tutto un Maestro della caratura di Gianandrea Gavazzeni.
Prima di quelle forunate recite, soltanto due volte “Adriana” era approdata a Firenze ed in entrambi i casi, a oltre 20 anni di distanza, un'unica protagonista: Magda Olivero, ça va sans dire!
Questa edizione avrebbe visto alla direzione il gradito ritorno del Maestro Bruno Bartoletti, lontano dal Teatro Comunale dal 2004, in cui aveva trionfato con le premiate recite del dittico di Dallapiccola, “Prigioniero” e “Volo di notte”.
Purtroppo, a causa di problemi di salute (Le auguriamo una pronta guarigione Maestro), al suo posto le maestranze hanno chiamato il direttore Patrick Fournillier, che i fiorentini hanno già avuto modo di conoscere lo scorso anno quando ebbe l’occasione di dirigere “Pagliacci”.
Defezioni che si sono estese anche a due componenti del cast proposto:
per Maurizio di Sassonia era previsto il tenore Marco Berti, poi sostituito da Fabio Sartori e Warren Mok, mentre il veterano Juan Pons avrebbe vestito i panni di Michonnet, successivamente indossati da Stefano Antonucci.
Per fare le cose in grande il Teatro Comunale ha proposto ben due cast, ma andiamo con ordine.
Founillier in una intervista a Radio Tre ha evidenziato come lo stile di Cilea sia stato influenzato da tutta quella ventata culturale, musicale e creativa che invase letteralmente l’Europa dopo la morte di Wagner.
Coerentemente il direttore sottolinea, esalta ogni preziosismo sinfonico, ogni componente sonora, ogni tema, che avvicini Cilea ad altri compositori a lui coevi.
Abbiamo, dunque, un I atto molto vicino all’esotismo brillante della “Butterfly” pucciniana, un II che sembra voler ricordare certe ambientazioni decadenti di Massenet, un III che intende ricordare la Venezia di Ponchielli ed un IV sospeso tra l’essenzialità di Debussy e certe soffuse albe wagneriane.
Sarebbe stata una lettura interessantissima, filtrare Cilea attraverso l’ottica dei suoi contemporanei europei, e probabilmente il direttore avrebbe potuto osare di più sviluppando meglio la questione sempre aperta dei “Temi” collegati ai personaggi, oppure avrebbe potuto infondere una energia più moderna.
Purtroppo Fournillier, troppo preso dal sottolineare questo o quel particolare, finisce per alternare sonorità massicce, che finiscono per coprire le voci (duetto Adriana-Maurizio), ad assottigliamenti che fanno sparire totalmente l’orchestra (duetto Adriana-Maurizio al II atto), o ancora, velocità eccessive, (l’accompagnamento dei comprimari) alternate a lentezze macignose (“L’anima ho stanca”, il balletto).
Fournillier ha anche pregevoli intuizioni, come tutta la musica che accompagna Michonnet, il quale ne viene avvolto fino, quasi, ad isolarlo; l’Intermezzo del II atto, il cui il languore stavolta solo orchestrale de “La dolcissime effigie” è espresso con maggiore abbandono; il preludio al IV che possiede una agogica morbidissima molto aderente al clima sensuale che si respira; il sottofondo tutto strappi appassionati e nervosi di “Acerba voluttà” o la vibrante ambiguità del duetto che segue.
Una direzione abbastanza frammentaria, dunque poco coerente, che avrei preferito più omogenea.
Adina Nitescu, la protagonista, emerge per una certa vaghezza timbrica e per il volume dello strumento.
Ed è tutto!
Il soprano possiede delle belle intenzioni, soprattutto nello smorzare i suoni o nei pianissimi, ma a causa di una dizione poco rifinita ed un accento avarissimo di colori e di qualsiasi sfumatura, dimostra di sentire poco il personaggio.
Sicuramente, essendo un debutto, ha tutte le attenuanti in merito, ma non si può tacere di una resa vocale poco rifinita e fallosa.
“Io son l’umile ancella” la vede fin troppo cauta nell’emissione e nella gestione dei propri mezzi, poiché la voce, appena la tessitura si solleva oltre il Fa, si irrigidisce, va indietro, inizia a traballare pericolosamente perdendo così quella preziosità timbrica esibita nei centri, mentre i gravi sono totalmente assenti o “parlati”.
Riesce ad azzeccare il piano su “Un soffio è la mia voce”, ma non riesce a mascherare una linea di canto disordinata ed una pronuncia superficiale, così i brani recitati risultano sgraziati e troppo marcatamente ridondanti per essere esempio di semplicità e naturalezza.
Se qualche tentativo di fraseggiare lo si può intuire nel duetto con Maurizio, totalmente assente sarà l’interprete nel prosieguo, in cui la Nitescu, ad una emissione sempre più incapace di stare ferma, unirà una mancanza di coinvolgimento sia nei duetti con la Principessa, sia con Michonnet, accompagnati tra l’altro da suoni fissi e falsettanti, per concludersi in un IV atto in cui la voce risulta completamente ridotta, svuotata ed esangue, mentre la cantante in debito d’ossigeno, compromette la buona riuscita di “Poveri fiori” e di tutto il delirio finale.
Dignitosa invece la prova di Annalisa Raspagliosi.
Ricordavo una voce diversa però, dalle prove discografiche e dal doppiaggio delle parti cantate della brutta fiction “Callas e Onassis”, e un timbro più scuro, come impastato.
Oggi la voce è più chiara, lirica, meno potente rispetto alla sua collega, ma ben emessa e senza problemi a passare l’orchestra di fronte ai molti muri sonori che talvolta la bacchetta di Fournillier le para dinnanzi.
Problematico, tuttavia, il registro grave, che il soprano è costretto ad “inventarsi” ingolando la voce, mentre penetrante risulta il registro acuto nonostante il vibrato largo le porti qualche problema di intonazione soprattutto nei fortissimi.
Parte in sordina la Raspagliosi nell’aria di ingresso, sempre molto cauta, ignorando i piani ed i pianissimi, ma già dal dialogo con Michonnet, il soprano sfodera una bella grinta, riuscendo a dosare con buona partecipazione l’ironia e la semplicità, ma anche la malinconica sensualità dell’incontro con Maurizio in cui non ha problemi a coprire il suo partner.
La dizione, che scava a fondo nella parola, la trova vincente nell’incontro con la Principessa in cui ogni frase è scandita con il giusto accento di sfida e più contenuta e coinvolta risulta nelle parti recitate nonostante certa polverosa aulicità, che ben si adatta al clima registico.
Nel IV atto la voce ha ancora frecce al proprio arco, riuscendo a cesellare un “Poveri fiori” rispettando tutte le prescrizioni di smorzature del suono e di legato, e coronato da intenzioni “veriste” che le provocano qualche sbandamento d’intonazione nella zona Fa-La, ma che arricchiscono l’espressività del brano, esattamente come nel delirio tutto virato al pianissimo.
In definitiva, una prova sicuramente da approfondire, una Adriana giovane e fragile, insicura del proprio fascino, ma volitiva nei sentimenti, e che potrebbe portare la Raspagliosi ad abbandonare i ruoli verdiani per una netta virata, a parer mio più proficua, verso il repertorio “Verista” (Lodoletta o Nedda ad esempio).
Al fianco della prima canta Fabio Sartori, il quale ce la mette tutta per non essere un Maurizio credibile.
“La dolcissima effigie” richiede squillo, morbidezza di emissione, oltre ad un fraseggio ovunque languido e soffuso: Sartori non ha squillo, poiché il timbro risulta vagamente morchioso e non appena la scrittura supera il passaggio Mi-Sol, oppure le note gravi, ecco che la voce o va indietro o finisce in gola perdendo completamente smalto.
Inerte e senza palpito nel fraseggio, Sartori cerca di smorzare il suono, come nel caso de “L’anima ho stanca”, diventando solo lagnoso, e la cui centralità dovrebbe favorirlo nella ricerca di colori, invece di adagiarsi su una generica piattezza che si riproporrà identica sia nel racconto del III atto che in uno smunto IV.
Ma siamo in presenza di un Enrico Caruso risorto se paragoniamo Sartori a ciò che ci fa udire Warren Mok!
La dizione ignora completamente l’uso delle consonanti, quando abbozza un tentativo di pronunciarle, le fa accartocciare su se stesse con un effetto singhiozzante che lascia perplessi. Voce legnosa, sguaiata, bloccata in un perenne fortissimo, dall’emissione dubbia visto l’invadente vibrato, e in più non riesce né a superare l’orchestra, né a fondersi con la voce del soprano, da cui è completamente sovrastato.
In simili condizioni parlare di fraseggio o di accento è assolutamente fantascienza!
Note più liete da parte della Principessa di Marianne Cornetti, ma con qualche distinguo;
la Cornetti è un mezzosoprano acuto dalla voce potente, timbrata, robusta, dal centro pieno e morbido, affetta, però, da vibrato largo, che irrigidisce il registro acuto, molto sollecitato nel II atto e tende ad ostentare ed aprire troppo il suono quando scende al grave, cosa di cui non avrebbe bisogno vista la pienezza dei gravi già esibiti in Santuzza e Azucena ad esempio.
Problemi questi causati forse dalla voglia di cimentarsi in parti sopranili (Abigaille e Lady Macbeth), moda funestissima, che ha già fatto illustri vittime come dimostrato da Violeta Urmana e Nadja Michael.
La Cornetti sarebbe dunque perfetta per la Bouillon, ma è un’interprete che marca troppo la forza del personaggio e non la sua sensualità esacerbata e fatale, e, a parte la protervia, il fraseggio non mette in evidenza null’altro, risultando dunque personaggio a senso unico e poco coinvolgente.
Nel secondo cast invece della Principessa abbiamo la sua sguattera; già, perché Elena Bocharova non ha nulla di principesco e nulla per essere interprete di riferimento del ruolo.
Non una, ma ben tre voci separate: registro grave sbracato e gorgogliante, registro centrale esile e genericamente scuro, registro acuto fragile e leggero perennemente su un filo teso e traballante.
Ma se la Cornetti almeno qualche sfaccettatura del personaggio la lasciava, qua e la, trasparire, con la Bocharova non abbiamo nulla che possa attirare la nostra attenzione o quella di Maurizio, tranne quello di Mok, di cui è degna compagna vocalmente parlando.
Michonnet trova nel fraseggio e nelle doti attoriali di Stefano Antonucci il giusto protagonismo scenico e la giusta rilevanza soprattutto nei colori ovunque malinconici e decadenti con cui scandisce i due monologhi al I atto, o nell’amara ironia in cui la sua caratterizzazione è avvolta.
Dispiace dunque ascoltare tale varietà di accenti associati ad una voce ruvida, che si opacizza già nel passaggio e diventa sovente fissa e rigida come nei molti duetti con Adriana.
Il resto del cast è professionale scenicamente, ma non si distingue per grossi meriti vocali in quanto Francesco Palmieri, Il principe di Bouillon, risulta sonoro, ma gutturale; Mario Bolognesi, Abate di Chazeuil, è petulante e opaco; il quartetto formato da Alessandro Battiato, Quinault, Anicio Zorzi Giustiniani, Poisson, Oriana Kurteshi, Madamigella Jouvenot, Luisa Francesconi, Madamigella Dangeville, è spigliato e divertente, ma a parte il "quartetto" del IV atto, tutto il resto è cantato con timbri leggermente queruli e leziosi.
Per una volta il coro, preparato come sempre dal bravissimo Piero Monti, è sembrato più impegnato a fare solo il proprio mestiere, che a partecipare con maggior convinzione all’azione.
L’allestimento di Ivan Stefanutti, varato nel 2002 per l’As.Li.Co, ma visto anche in Giappone e Las Palmas, che ha curato la regia ed ha disegnato scene e costumi, vuole evocare con il suo impianto fisso, costituito da essenziali citazioni da architetture e decori di Hector Guimard, Victor Horta e Henry van de Velde, quell’atmosfera sospesa tra Verismo e Decadentismo dannunziano di certo cinema muto dei primi del ‘900, gli stessi anni che videro la nascita dell’opera, in cui a dominare erano personaggi tormentati, dalle caratteristiche “divine” e dai grandi gesti.
Adriana ed i suoi colleghi si muovono, appunto, come la grande Lyda Borelli, omaggiata apertamente dal regista nel finale, o come certi caratteristi dei primi cortometraggi comici, mentre molta superficialità è data a Maurizio ed alla Principessa, che limitano la propria gestualità al passeggiare; il solo Michonnet ha giustamente un’ efficace recitazione più moderna e “vera”, in netto contrasto con la finzione del palcoscenico che quasi confonde la vita degli altri.
Interessanti le luci “bianche e nere”, che volutamente evocano i primi film muti, di Eduardo Bravo Fernández e Gianni Paolo Mirenda, noiosa invece la coreografia di Luca Veggetti, ripresa da Angela Rosselli, che vorrebbe, molto lontanamente, omaggiare il balletto “L'Après-midi d'un faune” di Debussy- Nijinsky.
Sala semi vuota alla recita del 20 Febbraio, e pubblico caloroso solo nei confronti della Raspagliosi, mentre più nutrito e partecipe quello accorso il 23, almeno da quanto era udibile in radio.
Non credo che i fiorentini ricorderanno queste recite, attribuendo loro la parola “Leggendarie”…
Cronaca della recita del 20 Febbraio e della diretta radiofonica del 23
7 commenti:
Stimatisima ben comprendo che l'avvenenza del timbro non rientra e forse giustamente nel caso di Adriana tra le sue predilezioni però se mette come unici ascolti le voci invero pooc fascinose di Olivero e kabaiwanska (manca solo la Gencer...) peraltro somme artiste, finisce che l'inclita potrebbe ritenere che Adriana sia destinata solo a voci brutte, il che non credo sia esatto...con deferenza Suo Stecca
Stecca carissimo, questa tua ultima (ma non ultima, ne siamo certi) uscita dimostra, come sempre, che non leggi neppure una riga degli articoli che pubblichiamo. Altrimenti avresti capito le ragioni della scelta in questione.
PS: Adriana è destinata a grandi cantanti attrici. Peccato, eh?
Esimio,
passi per la Olivero e la Kabaiwanska, ma, di grazia, in cosa sarebbe brutta la voce della Gencer?
Stecca caro, come scritto nell'articolo le ultime due Adriane "alla fiorentina" sono state Magda e Raina ed i due ascolti volevano essere un ulteriore omaggio a due artiste che, per dirla in "steccanellese", hanno lasciato la firma nel ruolo (tra un pò è anche il compleanno della Olivero, ergo il rigordo era doverosissimo)!
Ti rivelerò anche una cosa:
ho trovato i video della Freni, della Dessì e ... della Caballè ^_^ e mi è anche piaciuta, non come piacerebbe a te, intendiamoci, ma ho apprezzato, pur non trovandola "la dimostrazione dell'esistenza del creatore o capace di farmi buttare a terra scuoiandomi le ginocchia".
Oltre alla grande Gencer sarebbero da ricordare anche la Gavazzi, la Favero, la Scotto, la Pobbe e la Tebaldona (che non era una grande attrice, ma riuscì a smuovere anche la Callas)!
Con altrettanta stima
Marianne Brandt
LucaR cerca di capire:
per Stecca tutte le voci che non siano la Caballè sono BRUTTE... compresa, purtroppo, la Gencer.
Ci sono certamente le voci non baciate dalla natura, ma per Stecca, si sa, è diverso!
E' un suo pensiero e non è detto che sia condivisibile ^_^
Marianne Brandt
quando voglio sentire una bella voce e una grande inteprete che illumina ogni frase e parola copro a sentire sena jurinac
X Marianne
No infatti non è PER NULLA condivisibile. :)
Insomma, proprio la Cabala in Adriana. Bravina sì, ma ina ina...
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