lunedì 30 maggio 2011

Udite, udite, o critici

Frase volutamente ambigua il titolo di queste piccole riflessioni di chi conta niente, sconsolato dopo la lettura di alcune recensioni sulla recente Lucia veneziana.Spettacolo salutato da uno spontaneo e crescente consenso di pubblico ad onta di talune critiche.

“Udite udite o critici”, e versiamo nella sfera della polemica, cari signori critici, che titolati o meno riempite le pagine dei maggiori quotidiani italiani, esprime lo stupito dubbio circa la vostra preparazione, quanto meno a giudicare di tecnica e di voci, che dell’opera sono lo scheletro insostituibile.
Perché criteri di obbiettività vogliono che spesi i peana per queste esecuzioni







il vocabolario dei superlativi e degli accrescitivi sia irrimediabilmente povero per quest’altra.
A maggior ragione se la vostra idea è quella di privilegiare ed osannare le prime due esecuzioni è indispensabile una completa, totale revisione di secoli di didattica del canto e di esecuzione. Processo, per altro, in corso d'opera a ministero di cantanti improvvisati ed improvvidi e di critici di loro identico germe.
E’ solo un gioco di oggettive proporzioni.




E non mi pare sia il caso di tirar fuori l’usato armamentario dei vociomani per comprendere le ragioni di uno spontaneo successo, vieppiù accresciuto di serata in serata. Basta ascoltare, anzi saper ascoltare, e ricordare a se medesimi l’insegnamento dell’opulenta, in ogni senso, signora Anita Cerquetti.
Può anche darsi che il folto e plaudente pubblico accorso spontaneamente nella città lagunare sulla base del tam tam degli appassionati ( che già programmano gite adriatiche ed orobiche ) sbagli, ed allora la pagina critica deve proporre un equilibrio fra censure alla regia e censure agli esecutori diverso da quello che, da anni, proponete dalle colonne di quotidiani cartacei ed online. Perché comunque di melodramma si parla come, custode di una tradizione secolare, rammenta dal video, una oracolare Anita Cerquetti.



Obbietterete: tutto ciò puzza di antico, non è moderno, come non è più moderno ed attuale cantare in maschera. Spiacenti, l’opera è antica, l’opera è, per mezzo degli interpreti, un viaggio nella cultura del tempo che quel titolo melodrammatico abbia prodotto.
“Udite, udite o critici “ può anche assumere un ulteriore significato, ovvero provate ad ascoltare con il pensiero del pubblico, che talvolta altri condizionamenti non sente che la propria cultura, la propria sensibilità, la propria mozione degli affetti. E che sopratutto sembra non sentire più la vostra voce, il vostro monito scegliendo secondo altri e più sicuri criteri, che si inspirano da tempi lontani.
In Campo San Fantin sabato 28, come l’antecedente domenica 22, si respirava aria di altri tempi, ad onta di alcune sentenze critiche, già pubblicate, già censurate, talvolta sbeffeggiate, e comunque non tenute in conto alcuno. Era, per chi non ha la nostra età, il clima di quei tempi in cui si accorreva nei teatri importanti come in quelli di provincia ad ascoltare “una bella cosa”: il verismo della Magda, i Puritani o il Werther di Kraus, il Tancredi o l’Orlando della Horne, le regine della Leyla, le Tosche o le Butterfly della Raina, il Donizetti di Bruson, le Traviate e le Aide della Chiara, le pirotecnie di Blake o il Romeo della Dupuy. Allora, come adesso, la critica storceva il naso ed il pubblico della critina se ne ....
I più anziani e già trapassati, magari, fans dell’Olivero ricordano il paragone “cipolle e caviale” di cui fu fatto oggetto quel capolavoro vocale ed interpretativo della Francesca da Rimini scaligera; più recenti, ciascun rossiniano ha dovuto assistere ai peana pro soprano nazional popolare, che ha maltrattato una cospicua serie di eroine tragiche rossiniane; e che dire dell’aggettivo “provinciale”, fedele compagno delle esecuzioni di una Kabaivanska, di una Dimitrova e di una Chiara?
Eppure, ogni recita, le pomeridiane della domenica in particolare, erano rumorosi ed affettuosi tributi all’arte del canto, del fraseggio, dell’essere interpreti.
Adesso più di allora, però, il pubblico percepisce la lontananza di queste pagine critiche dalla realtà, percepisce che difficilmente possono nascere da seri ed onesti riflessione e studio, da competente educazione all’ascolto. Cresce il dubbio nel pubblico che la fine dell’opera possa anche risiedere in chi non voglia o non possa (in difetto, opera sempre la presunzione di buona fede ed innocenza) sentire e segua altri criteri che conil "sentire" non hanno comunanza. In fondo, poco importa: all’opera si può sempre andare senza leggere la critica e si può sempre sperare che qualche direttore artistico ragioni secondo tradizione e secondo indipendenza. Anche se questa critica, purtroppo,continua a scrivere.
Nessuno di questo blog fa e farà mai di mestiere il critico, ed il giorno che dovesse farlo DEVE abbandonare il blog.


Gli ascolti

Massenet - Manon


Atto III

Toi! Vous! - Alfredo Kraus & Maria Chiara (1973)






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sabato 28 maggio 2011

Auguri, donna Giulia.

Cara ed amata madama Giulia Grisi,
Sono i voti augurali per il Vostro compleanno, per i Vostri 200 anni. Anche se l'età di una dama è sempre avvolta dal mistero.
Tocca a me che fui il Vostro seduttore a Milano ed il Vostro geloso ed omicida sposo a Parigi ricordare il genetliaco di quello che fu il più grande soprano assoluto dei suoi tempi. L'ineguagliato modello di canto ed interpretazione per quasi un secolo, perché se la Pasta e la Malibran furono ricordate e venerate Giulia Grisi fu presa a paradigma di canto ed interpretazione.

L'arte di Giulia Grisi, accompagnata dalla bellezza e dalla sobrietà dell'agire in scena fanno parte della storia.
Il pubblico di Parigi e Londra correva per sentire e per vedere l’affascinante capinera di Lombardia, che incantò Theophile Gautier! Per vedere l'eleganza e la regalità di Semiramide, la gelida alterigia di donna Lucrezia Borgia, l'aura sacerdotale di Norma e per udire l'esecuzione del virtuosismo pari a quello di Liszt e la grandezza dell'interprete. E quel pubblico lo avete affascinato anche quando inesorato il tempo aveva segnato la bellezza e la voce, lasciando miracolosamente intatta l’arte canora.
Siete sempre l’adorabile donna, che inveiva contro il pubblico londinese, reo di preferire la fresca Adelina Patti (che primadonna Vostra pari Vi omaggiò quale la più grande, aggiungendo -incauta- con Rosina Penco) quale Giulietta alla Vostra matura persona e Semiramide.
Siete sempre la gelosa, che voleva eliminare anche fisicamente le numerose petacci, che insidiavano il bel Mario.
Siete, soprattutto e sopra tutti, l’ipostasi eterna della grandezza dell’arte del canto non solo come tecnica, ma come strumento irrinunciabile per esprimere, per dire per suscitare emozioni e reazioni nel pubblico. Il primo soprano ad essere tragico senza la voce tragica, senza che uscisse dalla Vostra bocca un suono che non fosse calibrato e librato per essere regina, innamorata, amante, folle o furente per amore.
L’insuperato modello, quello che molti avrebbero voluto sentire se possedessero la fortuna, che abbiamo avuto noi, di sentirVi e vederVi.
Uno dei più autentici filologi e musicologi, Richard Bonynge, si è chiesto come cantasse la Grisi.
E' una domanda legittima perchè nessuna cantante è passata dall'Elvira dei Puritani alla Valentina degli Ugonotti o più ancora alla Fidès di Profeta (pure ben accomodata e puntata, e che voglia di poter studiare quelle puntature e quegli accomodi!) conservando nella critica del tempo la fama della qualità vocale e della completezza tecnica, che accompagnò quasi tutta la Vostra lunga carriera. Perché da un vecchio collega, con il quale condividevate l'inserimento dell'adagio "D'un tenero amore" nell'Otello, potete anche lasciarVi rammentare che qualche Vostra ultima apparizione non fu degna del nome della Grisi. Io mi ritirai per gli effetti del peccato della crapula, Voi, mia cara, troppo cantaste per colpa degli ideali mazziniani del Vostro amatissimo consorte.
Oggi il Vostro spirito, il Vostro carattere è il modello ancora insuperato ed insuperabile dell’arte e della difesa dell’arte del canto da ogni contaminazione, da ogni falsificazione, da ogni manipolazione.
Fervidi voti augurali, straordinaria ed unica, amatissima donna Giulia, con l’esempio delle Vostre eredi e imitatrici. Le migliori.
Vs.
Domenico Donzelli


Gli ascolti

Bellini - I Puritani


Atto I

Ah vieni al tempio - Joan Sutherland (1963)

Donizetti - Don Pasquale

Atto I

Vado, corro al gran cimento - Marcella Sembrich & Antonio Scotti (1906)

Donizetti - Lucrezia Borgia

Prologo

Com'è bello, quale incanto...Si voli il primo a cogliere - Beverly Sills (1976)

Meyerbeer - Les Huguenots

Atto III

Dans la nuit où seule j'éveille - Johanna Gadski & Edouard de Reszke (Mapleson - 1903)

Mozart - Don Giovanni

Atto I

Don Ottavio, son morta!...Or sai chi l'onore - Joan Sutherland (1960)

Rossini - Otello

Atto III

Assisa a piè d'un salice - Lella Cuberli (1995)

Rossini - Semiramide

Atto I

Bel raggio lusinghier - Lella Cuberli (1990)

Verdi - I due Foscari

Atto I

Tu al cui sguardo onnipossente...Oh patrizi, tremate - Leyla Gencer (1957)

Verdi - I Lombardi alla prima Crociata

Atto II

Oh madre, dal Cielo - Giannina Arangi Lombardi (1933)

Verdi - Il Trovatore

Atto IV

D'amor sull'ali rosee - Margarethe Siems (1908)



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venerdì 27 maggio 2011

Verdi Edission - Un giorno di Regno

Dopo il buon successo dell’Oberto, la seconda opera di Verdi fu un fiasco completo. L’agiografia ufficiale del “cigno di Bussetto”, nonché la vulgata più comune e superficiale, hanno cercato di attribuire le ragioni di tale débâcle a circostanze contingenti, come il poco tempo a disposizione e la vetustà del libretto, ovvero agli avvenimenti luttuosi che afflissero Verdi in quel periodo della sua vita (la morte della prima moglie e dei due figli). In realtà i motivi dell’insuccesso stanno tutti nell’inesperienza del compositore e nelle carenze tecniche dovute ad una formazione quasi da autodidatta, oltre che dall’impaccio nel gestire le rigide convenzioni che ancora governavano il mondo dell’opera (quella buffa in particolare).

L’opera italiana, negli anni ’40, si trovava in una situazione critica: il grave ritardo culturale rispetto al resto d’Europa, aveva rinchiuso la fantasia dei compositori nella routine dell’innocua ripetizione di formule e convenzioni (che affondavano le radici nel secolo precedente), trasformandoli più in mestieranti, in abili artigiani, piuttosto che musicisti. Bellini e Donizetti avevano spostato da tempo il loro campo d’azione (l’uno nell’aldilà, l’altro a Parigi e Vienna) e mancavano personalità tali da raccoglierne l’eredità. Ancora venivano ripetuti i vecchi schemi rossiniani (senza ovviamente, riuscire a replicarne l'originalità e perfezione), soprattutto nell’opera comica che pareva del tutto impermeabile alle novità (strutturali, caratteriali, orchestrali) che stavano rivoluzionando la musica europea.

Certo non mancarono i capolavori, come Sonnambula (1831), Elisir d’Amore (1832), Don Pasquale (1843), caratterizzati tutti, però, da un uso spregiudicato di quelle vecchie convenzioni, giocando con l’ambiguità, le sfumature, i toni e la sapienza compositiva. Il resto – ossia la musica di largo consumo – non aveva pretese maggiori di un innocuo svago. Tuttavia quei compositori minori che riempivano le stagioni dei tanti teatri della penisola, possedevano qualcosa che al povero Verdi faceva difetto: mestiere e conoscenza del pubblico. Nel 1840, pur nell’utilizzo delle sclerotizzate formule del secolo precedente, non era pensabile accontentarsi di melodie brillanti ed effettacci bandistici (che pure non mancavano mai): il pubblico voleva anche leggerezza e grazia, non certo la stanca riproduzione (malriuscita) delle carambole rossiniane. Il libretto di Un Giorno di Regno – dalla solita vulgata additato come principale responsabile dell’insuccesso dell’opera – è in realtà del tutto analogo a quelli usati nel periodo (con risultati più lusinghieri): non è nuovo (risale al 1818), non è un capolavoro, ma è ben congeniato (certo, Romani lo scrisse quando trionfava l’opera buffa di Rossini e il distacco temporale è ben percepibile: soprattutto nella distribuzione interna di arie e concertati).
La trama è abbastanza lineare e semplice mentre la struttura rispetta le esigenze estetiche dell’epoca in cui venne predisposto: protagonista (e motore della vicenda, attraverso equivoci e stratagemmi) un baritono un po’ cialtrone che si finge sovrano di Polonia; due primedonne intraprendenti, emancipate e per nulla rassegnate (modellate sulla Rosina del Barbiere), l’una giovane vedova innamorata del baritono di cui teme le infedeltà, l’altra, figlia dell’immancabile basso buffo (che progetta di sposarla, suo malgrado, ad un vecchio, altro basso, per vantaggi meramente economici), innamorata, corrisposta, del classico tenore “piagnucoloso” con la testa tra le nuvole. Alla fine, dopo i consueti intrecci, “i nodi vengono al pettine”, il finto Stanislao sveste i panni del re e si riconcilia con l’amante, mentre i giovani, finalmente, possono sposarsi senza più ostacoli e i vecchi fanno buon viso a cattivo gioco. Un materiale innocuo, dunque, per nulla diverso dalla maggior parte dei titoli del periodo (lo stesso Don Pasquale, con il topos del vecchio rimbambito che si crede ancora giovane e aitante e si lascia buggerare da tutti, sino all’agrodolce finale, non è certo più originale: anzi, risale alla tradizione dell’opera buffa napoletana, anche se la materia è poi trattata con una sensibilità modernissima), e che non può essere l'unico colpevole dei difetti dell’opera. La strumentazione – giudicata vittima della fretta compositiva (ancora una volta si cercano scuse alle mancanze verdiane) – è certo rozza, bandistica, triviale, primitiva, stracolma di errori e ingenuità (avrebbe fatto ribrezzo a Donizetti), ma non è peggiore della stragrande maggioranza delle partiture coeve: dai fratelli Ricci (lo stesso Crispino e la Comare, del 1850, non è certo un trattato di orchestrazione: anche se, nonostante il vuoto spinto di contenuti musicali e l’uso pedissequo di formule abusate, resta un capolavoro di ironia) a Petrella, da Cagnoni a Mercadante.
Cosa manca quindi? Lo si capisce dal semplice ascolto, a cominciare dalla Sinfonia. La musica è brillante, orecchiabile, di gusto primitivo, ma accattivante. L’Introduzione, con il coro come da prassi, è ugualmente piacevole: la musica è movimentata e l’orchestra saltellante. Il problema è che questo sarà l’unico colore della partitura: una generica allegria, marcette, ritmi scanditi con la vanga, impasti timbrici da banda di paese…dopo dieci minuti ci si annoia. Arie, cabalette, cori, pezzi d’insieme sono tutti movimentati e ripetitivi, manca il lato patetico (anche nei punti in cui le convenzioni lo imporrebbero): l’intento di imitare Rossini e certi tormentoni donizettiani è evidente (sino all’eccesso). Per non parlare dell'imbarazzo nell'imbattersi, nel 1840, nei recitativi secchi al cembalo (Rossini li abbandonò a partire da Elisabetta, regina d'Inghilterra, ossia più di 20 anni prima): tanto per fare paragoni, Wagner, in quegli anni, stava ultimando Rienzi e iniziando Die Fliegende Hollander. A ciò si aggiungano gli “strafalcioni” musicali dell’autore inesperto. “Lavoro da apprendista” lo giudicherà il Budden, e pure la critica del tempo non avrà parole più lusinghiere. In qualche brano emerge – ovviamente – l’ombra di quel che diverrà lo stile verdiano, ma è più un miraggio che si percepisce a posteriori. Così pure talvolta traspare un trattamento più delicato e originale della materia musicale: il bel tema lirico del sestetto del primo atto; la melodia del cantabile del tenore all’inizio del secondo atto o l’andante della Marchesa Del Poggio e poco altro.
Eppure Un giorno di Regno è un passo avanti rispetto ad Oberto: e le ragioni del fiasco, dunque? Non certo i lutti (peraltro la leggenda ha forzato la realtà dei fatti: i due figli morirono nel ’38 e nel 39, addirittura prima dello stesso Oberto, che, evidentemente, non ne risentì), non la fretta e neppure il libretto di Romani, ma perché, come suggerisce il Budden, “non vi è nessuna crescente marea di emozioni drammatiche che lo trasporti al di là delle goffaggini armoniche, e naturalmente il pubblico cominciò a innervosirsi, non tanto al ricordo delle opere degli altri compositori, quanto alla loro superiore abilità”. Un giorno di Regno andò in scena alla Scala la sera del 5 settembre 1840: il pubblico ne decretò il fiasco completo. Senza appello, giacché l’opera non sopravvisse alla prima. Dopo 40 anni il rancoroso e presuntuoso Verdi ritornò a quella sua sfortunata creazione (dopo che già nel ’59 lamentò con Ricordi l’atteggiamento del pubblico milanese che “maltrattava l’opera di un povero malato”), e ancora una volta per autoassolversi, attribuendo parte dell’insuccesso alla musica e parte all’esecuzione (affermazione curiosa, poiché la stessa compagnia, poche settimane prima, eseguiva con esito trionfale Il Templario di Nicolai: opera di assoluta mediocrità). Evidentemente non riusciva ad ammettere i fallimenti (e da ciò l'addossare la colpa ad altri o le scuse predisposte a tavolino). L’opera, però, andò in scena di nuovo – ribattezzata Il finto Stanislao – a Venezia, 4 anni dopo, e piacque (come pure nel ’49 a Napoli), ma allora Verdi era già Verdi, c’era stato il trionfo di Nabucco, Lombardi ed Ernani, e il pubblico fu più indulgente e meglio disposto a trovare (pur con fatica) scampoli e preavvisi di un “nuovo stile” che, nel frattempo, aveva imparato ad amare.


Gli ascolti

Crispino e la comare


Melodramma fantastico-giocoso in quattro atti

Testo Francesco Maria Piave

Musica Federico Ricci & Luigi Ricci

Prima rappresentazione Venezia, Teatro San Benedetto, 28 febbraio 1850



Atto I

Fermo là! - Irma Mion & Salvatore Baccaloni (1930)


Atto II

Io non sono più l'Annetta - Lucia Aliberti (1979)

Di Pandolfetti medico - Antonio Magini-Coletti, Ferruccio Corradetti & Oreste Luppi (1905)


Atto III

Piero mio, go qua una fritola - Lucia Aliberti (1979)

Non ha gioia in tal momento - Lucia Alberti (1979)

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martedì 24 maggio 2011

Bologna: il lutto si addice ad Ernani.

E’ con immenso cordoglio e inconsolabile tristezza, ma anche profonda Fede nella divina volontà, che siamo costretti ad annunciare a voi tutti, giunta dopo lunga e atrocissima agonia, la recente dipartita dell’opera di Giuseppe Verdi “Ernani”.

Ernani, come saprete, era uno spagnuolo eroico e ardente, ma anche masnadiero suo malgrado, nonostante la nobile discendenza. Nacque dalla scandalosa e innovativa penna di Victor Hugo prima e dal vivace e giovanile pentagramma di Giuseppe Verdi coadiuvato dall’estro del librettista Francesco Maria Piave, in quel 1844 che lo consegnò alla storia dell’opera e ad un imperituro successo.
Visse bene, in salute e floridamente Ernani, ripetendo per più di un secolo e mezzo la sua cruenta ed eccentrica leggenda, ricca di tinte fosche e appassionate nei teatri di tutto il mondo e raccogliendo onori e gloria per mezzo delle inebrianti voci di illustrissimi et lodevolissimi interpreti.

Ahimé, tale messe di successi era purtroppo destinata a volgere al crepuscolo non bruscamente, ma in modo subdolo e lento come la peggiore delle torture medioevali: un cancro inesorabile e corrosivo si è fatto strada su quegli stessi palcoscenici che prodigamente avevano coperto di allori il nostro proscritto. Invano le amorevoli cure di Festival, artisti e direttori di chiara fama e presunta maestria, accorsi al capezzale del moribondo onde trovare una cura a base di canto e musica, unica soluzione al male che provocava la consunzione delle iberiche carni, ha lenito tali sofferenze. Tutto fu vano. Il corpo, già piagato dall’effetto deleterio delle recite americane (Licitra, Radvanovsky, Daniel, Hvorostovsky, etc . etc. ) avevano inferto un’ulteriore purulenta ferita che, alla luce degli avvenimenti felsinei, ha infettato e incancrenito i resti del martoriato corpo che si è spento sotto i poco pietosi colpi inferti del malcanto.
Il cadavere, composto sul palcoscenico del Teatro Comunale di Bologna adibito a camera ardente, è stato deposto in una semplice bara rivestita di tele dipinte, cartapesta, strass e paillettes, è stato portato in spalla da un quartetto di artisti, gli stessi che hanno purtroppo decretato la sua condanna a morte, a cui hanno fatto seguito un folto pubblico accorso per rendere omaggio con sincero e caloroso affetto alla salma e il direttore d’orchestra che ha eseguito l’ormai decomposta partitura, in ricordo dei tempi in cui fu grande… e tagliuzzata dei “da capo”.

Il lutto si addice a Dimitra, la quale con spietato cinismo, nel sollevare la bara sulla spalla, ha deciso che tutto sommato il personaggio di Elvira andasse riscritto e riadattato alla sua voce ed al suo “temperamento”; temperamento che si estingue allorquando la cantante, ormai per contratto, decide di scagliare un pezzo di scenografia su un altro cantante o sul palcoscenico: in questo caso un tonico al IV atto.
La Theodossiou ha così incautamente deciso di polverizzare ciò che restava del personaggio cardine di Elvira trasformata, per la funerea occasione, in una pupattola lamentosa e bamboleggiante, dotata di un timbro che definire ormai querulo sarebbe già un complimento ed uno “slegato” esemplare nel suo continuo spezzettare ogni frase in frammenti rimbalzanti; come definire poi ciò che ha escogitato per risolvere i gravi letteralmente immaginati, gli acuti nella reiterata e poco simpatica imitazione delle unghie sulla lavagna o nelle colorature, se così vogliamo chiamarle, così chiocce, calanti e talmente male in arnese quanto a fiato da richiedere d’urgenza la presenza di una salvifica bombola d’ossigeno? Rimane allora un registro centrale percettibile e la presenza di pianissimi presi in prestito dalla solita Caballé fine anni ’90 che galleggiano compiaciuti nel nulla di un sostegno inesistente. E l’accento? Basterebbe la squisita distaccata cordialità con la quale invita il Re a non insistere con le profferte poco regali di prenderle l’onore, per rimanere attoniti.
Il lutto si addice ancor di più a Marco di Felice, che affianca la Theodossiou nella prima fila del trasporto della bara. Baritono nominale, di fatto un tenore non sfogato, per tutta la recita ci si chiede ascoltandolo “perché?”; perché in condizioni del genere è stato l’unico a beneficiare del “da capo” della sua aria al II atto, il cui risultato era già scarso in partenza? Voce piccola così, circoscritta ad un gorgogliante registro centrale, poiché né in acuto, né nel grave ci è data la possibilità di udirlo. A peggiorare le cose una dizione in cui vengono pronunciate solo le vocali “E”, “O”, “U”, ed un fraseggio bolso. Almeno ha saputo sopportare il fardello della salma.
Dietro di loro il peso è stato equamente distribuito tra Ferruccio Furlanetto ed il rinato, dai malanni, Roberto Aronica, che in parte ringrazio per avermi risparmiato l’ascolto dei suoi “esotici” colleghi sostituti.
Furlanetto ha puntato sulla presenza scenica, sull’eleganza del portamento, sul carisma del pianto facile, sostenuti da un canto come filtrato da una purea abbastanza densa di patate, cifra stilistica ormai imprescindibile della sua voce, ma questo lo sapevamo da sempre, resa però traballante soprattutto in alto e ruvida in basso in virtù dell’età. L’eloquio, la potenza dello strumento e certi inserimenti “veristi”, meno grevi rispetto ai Filippo II di New York e Londra, hanno portato al visibilio il pubblico commosso.
Aronica, ancora in ripresa dai malanni, rispetto al Pollione zurighese è qui un po’ più a suo agio. Il suo Ernani è sempre tribunizio nell’accento e molto monocorde nel fraseggio, ma almeno il tenore dimostra di possedere le note della parte, almeno nel registro centrale e grave, comunque timbrati, sonori, e dotati di una certa robustezza, anche se molto ruvidi e non proprio finissimi. Resta un passaggio di registro purtroppo irrisolto e dall’intonazione precaria, con acuti nasali e tutt’altro che belli da ascoltare, ovviamente sempre un po’ al limite.
Chiude il corteo funebre, subito dopo comprimari di dubbio gusto e un coro sufficientemente preparato malgrado qualche tragico svarione al II e IV atto da parte delle voci maschili, la presenza invero catartica di una bacchetta di ottimo mestiere e preparazione, ovvero quel Bartoletti che avrebbe dovuto essere presente fin dalla prima recita (affidata, come le altre, al maestro Polastri, previsto per il secondo cast) e che finalmente si è riappropriato del podio proprio per quell’ultima recita che ha sancito, quasi fosse un requiem, la discesa nel sepolcro dell’opera in questione.
Una direzione quella di Bartoletti basata sulla pulizia e preziosità del suono, sul gesto netto, sulla precisione di un cantabile avvolgente votato al sostegno delle voci dei cantanti prima di tutto, aiutandole spesso soprattutto nei concertati e nei momenti d’insieme e fraseggiando sovente, anzi più che volentieri, al posto loro. Lungi da essere rivoluzionario o stilisticamente appropriato o filologico (i tagli di tutti i da capo, ma in questo contesto… e la presenza di puntature non richieste e spesso fuori dalla grazia del cielo!) Bartoletti si lascia apprezzare per il gusto antico, per il taglio narrativo, ma immediatamente comunicativo nei riguardi del pubblico, il quale comprende, ringrazia e lo omaggia di conseguenza.

Poiché trattasi di funerale, il “regista” Beppe de Tomasi, ha pensato bene, forse per timore, forse per reverenza, forse per troppo dolore, di stare a guardare la cerimonia in costume regolando gli ingressi, le uscite di scena, le mani sul cor, il flusso delle lagrime, le spade sguainate e le cadute da suicidio, coadiuvato in questo dalle luci fondamentalmente insipide di Daniele Naldi.
Così il povero, ma bravo Francesco Zito ha dovuto fare tutto da solo con le sue colorate e fantasiose scenografie dipinte che riempivano il sofferto vuoto causato dal caro estinto, adornate da costumi un tantinello carnevaleschi, ma efficaci nella macabra economia dell’evento.

Il pubblico pregante, al termine della cerimonia e della deposizione nella semplice e anonima tomba allestita per l’occasione, ha infine salutato i commossi e provati Bartoletti, Aronica e Furlanetto con i toni prolungati del trionfo; lancio di fiori, probabilmente garofani e crisantemi estirpati dai cuscinetti e corone funebri al posto di più adeguati frutti marci, all’indirizzo della Theodossiou; cordialità nei riguardi di di Felice.

Qui giace “Ernani”, nobile eppur eroico e fiero bandito, opera ruspante e appassionata del battagliero Giuseppe Verdi che la compose, con il pensiero rivoltò a rendere immortale con la musica e la poesia la sua sanguigna storia regalandola con generosa modestia alla posterità. Stroncato da male lento e incurabile, tra sovrumane fatiche, il pubblico, i musicisti, i direttori, i cantanti, gli artisti, gli amici, i colleghi ed i melomani tutti, prostrati da questa perdita in quel di Bologna, a onor di vita esemplare, commossi posero. Amen.
Una prece.
Marianne Brandt


Lasciato alla collega Brandt l’onore e l’onere della trattazione del primo cast, mi accingo a riferire della recita fuori abbonamento di mercoledì 18, che schierava, accanto al direttore e al tenore già uditi in occasione della diretta radiofonica (e in quella occasione già doviziosamente commentati in chat), un’allieva della Scuola dell’Opera Italiana (l’ormai celebre accademia del Comunale) e due cantanti da diversi anni in carriera, e in teatri di un certo livello.
Intervistato negli intervalli della prima, il neo sovrintendente, omonimo del titolo affrontato, non ha fornito risposte chiare e precise circa il destino della Scuola dell’Opera. Ci auguriamo che il cambio di dirigenza porti con sé una riflessione sul significato e più ancora sugli esiti di questa istituzione, tenacemente sostenuta dalla precedente gestione. Valentina Corradetti non è certo l’elemento peggiore esibitosi in questi ultimi anni sulle tavole del Comunale, tuttavia non possiede, al momento, un’organizzazione tecnica che possa consentirle di gettare le basi di una solida carriera, obiettivo che dovrebbe essere primario per un’accademia musicale. La voce, che s’intuisce di solida e corposa natura, come sembra indicare anche la salda complessione fisica della signorina, appare in difetto di appoggio, si riduce spesso e volentieri a un mormorio ovvero evoca suoni di natura più felina che umana. Lo strumento, da lirico leggero più che da lirico pieno, suggerirebbe poi tutt’altro repertorio, non certo il primo Verdi, impietoso per chi non possieda perfetto controllo della prima ottava e sicurezza, specie d’intonazione, nella zona dei primi acuti. Ne risulta un’Elvira che risolve scolasticamente, appunto, la cabaletta d’entrata, eseguita una volta sola e semplificando le scalette ascendenti, e per il resto dell’opera non solo non trova l’ampiezza e il legato richiesti dalla partitura (limite massimamente evidente nei duetti con baritono e tenore), ma risulta poco o nulla udibile in ensemble. Una prova che suscita dubbi e perplessità non solo sull’allieva, quindi, ma sui precettori. Del resto è plausibile che il modello vocale e interpretativo, proposto alla signorina Corradetti, sia riconducibile alla blasonata collega del primo cast. Questo spiegherebbe, in effetti, molte cose.
Minori giustificazioni, e quindi maggiore biasimo, per i signori uomini. Giovanni Battista Parodi, la cui età anagrafica non tocca la quarantina, esibisce ormai la radiografia di una voce, svuotata e legnosa, di scarso corpo e quindi limitato impatto, affetta da un fastidioso vibrato in tutta la gamma. Riesce se non altro ad evitare le accentuazioni plebee e le cadute di gusto del suo collega del primo cast, ma un Silva così malfermo imporrebbe, almeno, l’omissione della cabaletta, e questo non per ragioni filologiche, ma per banale risparmio energetico.
Quanto a Ivan Inverardi, confesso che mi mancano gli aggettivi e persino i sostantivi per descrivere la sua prova, specie nella grande scena del secondo atto, ovviamente proposta in versione integrale. Quando si vuole censurare la rozzezza di emissione, la mancanza di musicalità, il cattivo gusto e magari le urla e i berci di un cantante, si usa tacciarlo di essere verista. Peccato che i grandi baritoni veristi, capitanati da Mario Sammarco e Carlo Galeffi, possedessero non solo un’organizzazione musicale di prim’ordine, ma fossero sempre espressivi. Riascoltati oggi, alcuni, i migliori, appaiono anche dei modelli di misura e sobrietà. Che nel canto del signor Inverardi, come nel suo modo di stare in scena, ad esempio quando deve minacciare Silva, non vi sia traccia dell’elegante tracotanza di don Carlo, non è una cosa che possa sconvolgere o stupire. Lascia per contro impietriti il ricorso, nell’azzimata seduzione di Vieni meco sol di rose, a suoni spoggiati e afonoidi, a mezza via tra il falsetto e lo sbadiglio, ben poco sonori e tuttavia rochi per lo sforzo richiesto in fase di emissione. Non siamo al teatro di prosa, forse neppure alla cosiddetta declamazione, propugnata da certi auto-eletti maestri dell’avanguardia operistica, sempre pronti a sottolineare la miseria degli spettacoli, da cui non sperino congrui motivi di soddisfazione. Quel che è certo, è che con simili presupposti non si affronta Verdi né il verismo, né altro repertorio, almeno in un contesto professionale.
Considerazione finale: che in un teatro di modeste dimensioni, per un titolo come Ernani, proposto oltretutto con sconti cospicui, praticati in biglietteria come su Facebook, non si riesca a fare il tutto esaurito, è cosa che dovrebbe indurre chi di dovere a riflettere. Se non altro per non ritrovarsi a celebrare, dopo il funerale di Ernani, quello del teatro felsineo.
Antonio Tamburini


Gli ascolti


Verdi - Ernani


Atto I

Mercè diletti amici...Come rugiada al cespite - Pier Miranda Ferraro (1965)

Surta è la notte...Ernani, Ernani involami - Margherita Roberti (1960)

Fa' che a me venga...Da quel dì che t'ho veduta - Mario Zanasi & Rita Orlandi-Malaspina (1967)

Che mai vegg'io?...Infelice, e tu credevi - Giorgio Tozzi (1962)


Atto II

Vieni meco, sol di rose - Carlo Meliciani (1969)


Atto III

E' questo il loco...Oh, de' verd'anni miei - Piero Cappuccilli (1972)

Ad augusta!...Si ridesti il Leon di Castiglia - Thomas Schippers (1962)

O sommo Carlo - Giuseppe Taddei (con Gino Penno, Caterina Mancini, Giacomo Vaghi - 1950)


Atto IV

Solingo, errante, misero...Ferma, crudele, estinguere - Giorgio Casellato-Lamberti, Mauro Rinaudo & Angeles Gulin (1978)


Leoncavallo - Pagliacci


Atto I

Sei là? Credea che te ne fossi andato - Rosetta Pampanini & Carlo Galeffi (1930)






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domenica 22 maggio 2011

Lucia alla Fenice di Venezia

Accade, talvolta, che quelli del Corriere della Grisi partano sperando di assistere ad uno spettacolo interessante e contrariamente alle dicerie, che li circondano tornino veramente soddisfatti. Veramente non significa né completamente né interamente. Significa, però, che talvolta siano ancora possibili entusiasmo e soddisfazione, tali da giustificare, ante recita, la massiccia presenza dei grisini e, post recita, il consiglio di andare ad assistere allo spettacolo.

Veramente e non completamente perché Lucia non può reggersi sulla sola coppia protagonistica. Richiede anche un valido baritono per il fratello ed antagonista, la guida direttoriale e per l’edizione integrale o quasi, pure un buon basso per Raimondo. Tutto ciò mancava o latitava. Nel dettaglio: Claudio Sgura, a parte la presenza scenica, che si riassume nel detto “altezza mezza bellezza” è verista nel gusto e, prima ancora, nella tecnica. Esibisce una voce gonfia e artificialmente scura al centro, indietro e dura negli acuti, sicchè il sol acuto della puntatura “se ti colpisse un fulmine” è piccolo ed al tempo stesso berciato, mentre la voce nei duetti e negli assieme è coperta dal suono sonoro e proiettato dei due protagonisti Jessica Pratt e Shalva Mukeria. Episodio questo particolarmente evidente alla sfida. Il paragone, a suo tempo fonte di polemica altrove con Domenico Viglione Borghese è offensivo per il defunto baritono piemontese, indiscusso interprete del verismo ed al tempo stesso documentato esempio di canto sul fiato e, quindi, di grandeur e aulicità, che mancano al Lord ( e non compare!) Enrico veneziano.
Ancor più censurabile la direzione di Antonino Fogliani: gesto costantemente confuso, incapacità di creare atmosfere, proponendo ora sonorità pesanti e fragorose (sfida e concertato delle nozze, massime) o, peggio ancora, marcette paesane come all’attacco di “spargi d'amaro pianto” che ha provocato l’ilarità di un nutrito gruppo di giovani ascoltatori a me prossimi. Antonino Fogliani, poi, viene pervicacemente e ostinatamente applicato al repertorio belcantistico e protoromantico. Mi sfugge la ragione perché ai difetti sopra detti aggiungerei che manca e di cognizione filologica e di capacità di concertare lo spettacolo. Almeno, tanto per riprendere un’antica polemica l’ultima qualità non mancava ai direttori tipo Serafin, Votto, Santini, additati quali nemici del melodramma belcantistico e protoromantico.
Esemplifico limiti del filologo: nel momento in cui si esegue il da capo della cabaletta di Enrico non c’è motivo e di tagliarne le cosiddette code o di omettere varianti. Allora è più coerente l’esecuzione di una sola strofa. Non è migliore, preciso è coerente.
Ancora limiti del concertatore: davanti ad un esecutore di Raimondo, che infarcisce di varianti il da capo di “al ben dei tuoi” ricavandone solo suoni malfermi e in odore di stecca l’autentico concertatore deve intervenire con opportuni accomodi, altrimenti il taglio riaperto, affidato ad un cantante di limitata ampiezza e sonorità, si riduce ad un’aria del sorbetto da titolo comico di Rossini. Il concertatore sostiene e soccorre i cantanti, non li affossa!
Sono Shalva Mukeria e Jessica Pratt, che sostengono e suffragano il “veramente soddisfatti”. E date la riconosciute difficoltà delle parti non è poco. Anzi! Non solo talvolta vi sono cantanti che invitano a riflettere ben oltre l’esito della recita, come accade per Mukeria.
La voce del tenore georgiano è limitata quanto a dote naturale, con opacità nella zona grave e talora evidenzia l’artificio del passaggio di registro superiore, come accadeva, fra i cantanti sentiti dal vivo con Alfredo Kraus e come documentano i primi cinquant’anni di registrazioni fonografiche. Al pari di tutti questi cantanti Mukeria controlla alla perfezione la respirazione ed esegue correttamente il passaggio di registro, che della corretta respirazione è la logica e fisiologica conseguenza sicché una voce in natura modesta si espande e sale con irrisoria facilità particolarmente nella scomoda zona del passaggio dove l’eroe romantico è chiamato a fraseggiare. E allora abbiamo ascoltato un “verranno a te sull’aure” morbido e sicuro, una spavalda irruzione di Edgardo alla scena del matrimonio, l’autentica esplosione nella maledizione, una sfida proterva, dove la voce di Mukeria sovrastava quella in natura assai più dotata dell’antagonista. Infine una scena finale dove frasi come “io della morte”, che eleva il suono sino al si bem, il “rispetta almen le ceneri” il “ di chi moria per te” sino al “bell’alma innamorata” sono state risolte sempre con un suono librato sul fiato, controllato e calibrato. Assolutamente di altri tempi. Quei tempi che documentano universalmente diffuso un controllo ed un possesso tecnico, oggi dimenticati, e nei cantanti e nella cognizione del pubblico, disabituato a percepire il suono professionale e per questo pronto a facilonerie e partigianeria. Un solo appunto alla prestazione: una maggior varietà di colori al cantabile “fra poco a me ricovero” farebbero di questo Edgardo non solo un unicum nel deserto attuale del canto e del gusto, ma una realizzazione del personaggio di assoluto rilievo. Non credo che Mukeria abbia problemi ad essere sentito anche sonorità più ridotte, come ha documentato in recita un “ah Lucia” detto a mezza voce e sonorissimo in tutto il teatro.
Anche Jessica Pratt è cantante, che ragiona ed agisce come i cantanti delle generazioni che l’hanno preceduta, tanto che la sua Lucia per nulla bambola, ma solo debole intimamente ha saputo aumentare le invenzioni coloristiche e le risoluzioni vocali sicchè oggi le manca poco per ricoprire il ruolo che, nei teatri italiani, è stato di Mariella Devia. Il suono appare al centro ed in zona grave di limitato volume, ma tondo e ben emesso alla sortita, segue un “verranno a te sull’aure” alitato e sognante e nella chiusa di questo duetto la robusta Lucia, annessasi la linea vocale di Edgardo, interpola un mi bem 5 squillante e lucente. Una di quelle uscite, che, un tempo, avrebbero fatto scattare ex abrupto l’applauso del pubblico. Nel duetto con Enrico la Pratt è dolente e sfumata a conferma di una cresciuta attenzione interpretativa ed alla prima sezione “il pallor funesto” esegue anche le agilità cromatiche, che vanno perfezionate se oltre che Lucia di rilievo miss Pratt vuole essere una belcantista di assoluto riferimento. La stessa perfezionistica attenzione meritano la agilità in moto discendente della cabaletta della pazzia.
Più volte abbiamo detto che la cadenza di Paolantonio, scritta per la Toti e benedetta dalla Maria, è per soprani coccodè nel senso deteriore del termine. Jessica Pratt l’ha anche eseguita bene, ma per lei ci vuole altro. E quindi le dedichiamo l’ascolto. A lei l’ascolto. Ai nostri detrattori, già attivissimi nel denigrare i cantanti che stimiamo, con il solo stupido fine di denigrare noi, la cui persona conta niente l’augurio di onestà nell’ascolto e l’auspicio di una replica sensata e congrua.

Cedo la parola alla mia cara collega Giuditta, donna dai 4 alfabeti:

20 მაისს ვენეციის ლა ფენიჩეს თეატრში შედგა დონიცეტის “ლუჩია დი ლამერმურის“ პრემიერა. დღევანდელ დღეს ევროპულ თუ ამერიკულ, დიდ თუ პატარა საოპერო აფიშებზე ქართული სახელების ამოკითხვა აღარ არის არაჩვეულებრივი მოვლენა. ამდენად, გუშინდელი “ლუჩიას“ განსაკუთრებულობაც მდგომარეობდა არა იმ გარემოებაში, რომ ედგარდოს როლს ასრულებდა ქართველი ტენორი შალვა მუქერია, არამედ იმ ფაქტში, რომ, უცნობ, ცნობილ, ვარსკვლავ და მეგა-ვარსკვლავ თანამემამულე მომღერლებს შორის, ეს ქართველი ტენორი ისეთ ვოკალურ სიმაღლეზე დგას, როგორსაც ვერც რომელიმე სხვა ქართველი მომღერალი მიუახლოვდება და - ვერც რომელიმე სხვა თანამედროვე ლირიული ტენორი. შალვა მუქერია, შეიძლება ითქვას, დღეს ერთადერთი და უკანასკნელი წარმომადგენელია ჭეშმარიტად ბელკანტოსეული, რომანტიკული ტენორის კატეგორიის.
მას ნამდვილად არ აქვს დამადლებული განსაკუთრებული ტემბრალური სიმდიდრით, ფართო დიაპაზონითა და სიმძლავრით გამორჩეული ინსტრუმენტი. მაგრამ სწორედ ამიტომაა დასაფასებელი მისი ტექნიკური მზაობა და დიდი გამომსახველობითი უნარი. დღეს ბატონი მუქერია ერთადერთი ტენორია, რომელიც ფლობს იტალიური სკოლის იმ ძველთაძველ და უმთავრეს საიდუმლოს, რაც ხმის პროექციის ტექნიკაა. ამაში მისი ბადალი დღეს მხოლოდ სოპრანოს რეპერტუარში-ღა თუ მოიძებნება არც თუ ახალგაზრდა მარიელა დევიას და ედიტა გრუბეროვას სახით, რომლებიც, მიუხედავად ბუნებით პატარა ხმებისა, ახერხებენ ბევრად უკეთ ჟღერდნენ დიდი ზომის თეატრებშიც კი, ვიდრე ნებისმიერი სხვა მომღერალი, რომელიც უფრო მდიდარი ინსტრუმენტის პატრონია. შალვა მუქერიას სიმღერა ადასტურებს, რომ ამ აკუსტიკური მოვლენის, საბოლოო ჯამში, უმარტივესი, მაგრამ დღეს მეტწილად დავიწყებული მიზეზი სუნთქვის განვითარებული ტექნიკაა. ქართველი ტენორის ყოველი ბგერა დაფუძნებულია მყარ სუნთქვის სისტემაზე, რისი მეშვეობითაც ისედაც“წინ“ ნაფიქრი ბგერა სრულიად თავისუფლად მოძრაობს დარბაზის ყველაზე ღრმა კუნჭულშიც კი.
შალვა მუქერია იმიტომაცაა უმაღლესი დონის ხელოვანი, რომ, გარდა ზემოხსენებული წმინდა ტექნიკური ოსტატობისა, იგი დიდი მუსიკალურობით ავსებს და ნათელ საზრისს სძენს თითოეულ ფრაზას და ედგარდოსგან ქმნის ვოკალურად დასრულებულ, ძლიერი გამომსახველობის პერსონაჟს. ვოკალური ხელოვნების ამ ორი საფუძველმდებარე ელემენტის გაერთიანების გამოა, რომ წარმოდგენის ბოლოს პირადად მას იშვიათი სიუხვის ოვაცია ერგო. და ამაში ვგულისხმობთ არა იმ ინდიფერენტულ ენთუზიაზმს, რომლითაც დღეს თითქმის ყველანაირი დონის შესრულებას ეგებებიან საოპერო თეატრებში, არამედ იმ უჩვეულო ჟღერადობის ხმაურს, რომელშიც დიდია სწორედ კომპეტენტური, მელომანი მსმენელის ცხადი პოზიტიური განაჩენის და აღფრთოვანების წილი. შალვა მუქერიას ფენომენი კიდევ ერთხელ ადასტურებს იმ ჰიპოთეზის სისწორეს, რომ კარგი მომღერლობისთვის, განსაკუთრებით კი, კარგი ბელკანტისტობისთვის, არ კმარა მდიდარი ხმა ან, უფრო მეტიც, რომ მატერიალური ხმა შეიძლება სიღარიბის უდაბლეს ზღვარსაც უახლოვდებოდეს. შალვა მუქერიას სიმღერა არის ნაფიქრი სიმღერა და (ალფრედო კრაუსის ან იგივე ტიტო სკიპას მსგავსად) - მისი მუსიკალური მგრძნობიარობისა და გამჭრიახობის გამარჯვება ბუნებრივი მონაცემების სიმწირეზე.
ქალბატონი გრიზი და მისი კურიერის დამქაშნი მადლობას უხდიან ბატონ მუქერიას იმისთვის, რომ არტუროს, ელვინოს და ტონიოს ბრწყინვალე შესრულებების შემდეგ, მან დონიცეტისეული ედგარდოს სახით კიდევ ერთხელ დაამტკიცა მისი, როგორც მომღერლის, უნიკალური სტატუსი და ღირებულება დღევანდელ საოპერო სივრცეში.

Giuditta Pasta


Gli ascolti


Donizetti - Lucia di Lammermoor

Atto I

Sulla tomba che rinserra - Hermann Jadlowker & Frieda Hempel (1908)

Atto III

Del ciel clemente un riso - Marcella Sembrich (1906), Maria Ivogün (1917), Amelita Galli-Curci (1917)

Tombe degli avi miei...Fra poco a me ricovero - Francesco Marconi (1908)


Verdi - Rigoletto

Atto II

Cortigiani, vil razza dannata - Domenico Viglione Borghese (1924)




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venerdì 20 maggio 2011

Stagioni 2011-12, la Quaresima perpetua. Stazione decima: Monaco, Amburgo, Dresda

La settimana scorsa vi abbiamo proposta un’analisi delle stagioni dei due maggiori teatri berlinesi in cui avevamo distinto una certa tendenza di generale dissenso nel pubblico soprattutto della Deutsche Oper contro la cosiddetta “Regieoper”, prodotto autenticamente tedesco inaugurato nel Ring centenario a Bayreuth quale approccio critico, intertestuale e concettuale all’opera e da allora portato ad una totale esasperazione sempre nello spazio germanofono. Alla Bayerische Staatsoper di Monaco, contrariamente alla Deutsche Oper berlinese, la situazione sembra diversa, in quanto il teatro bavarese rimane, soprattutto per la volontà della direzione, la fortezza degli adepti della Regieoper, come Richard Jones che presenterà un nuovo allestimento dei Contes d’Hoffmann graziati da Diana Damrau e Rolando Villazon nel cast. Si chiede chi risulterà più inadeguato all'opera, il regista o gli star?

Un’altra prima sarà la Turandot a firma della Fura dels Baus, con la direzione di un Zubin Mehta ormai stanco e demotivato, ed il Calaf del onnipresente Marco Berti. Piuttosto interessante la possibilità di riascoltare Jennifer Wilson quale principessa di gelo che ancora qualche anno fa, secondo un video tirato da una rappresentazione dell’opera a Cincinnati, si affermava come l’unico soprano drammatico attuale che canti la parte invece di urlarla. Sotto la direzione di Kent Nagano sarà presentato un nuovo ciclo wagneriano con un corretto, ma poco imponente Johan Reuter quale Wotan nel Rheingold ed in Valchiria e Siegfried un Juha Uusitalo dalle capacità molto ridotte rispetto alle prestazioni del vicino passato. Tra dei cast visti e sentiti parecchie volte in tante altre occasioni, è da notare la distribuzione dei soprani per le tre Brunnhilde: quella della Valchiria sarà affidata alla discontinua Katharina Dalayman, la Brunnhilde breve, ma acutissima del Siegfried ci presenta una sorpresa con una Catherine Naglestad che sembra volesse avventurarsi oltre il repertorio lirico-spinto che praticava fino adesso con successo ed un solido livello musicale. Inquietante invece la presenza di Nina Stemme quale Brunnhilde del Crepuscolo, la parte più pesante, lunga e difficile di questo ruolo enorme. Già appena corretta Brunnhilde nella Valchiria scaligera, si chiede come reggerà sia la tessitura sia la stamina e l’accento che richiede la terza Brunnhilde.

Oltre le prime Monaco ripropone un Don Carlo con Rene Pape, Anja Harteros ed un Jonas Kaufmann il cui Carlo londinese aveva già manifestato una massima inadeguatezza al ruolo. Dopo il tournee della Staatsoper in Giappone previsto per l’autunno, dove saranno tra l’altro rappresentati Lohengrin sempre con Kaufmann e Waltraud Meier ed il Roberto Devereux della Gruberova, il capolavoro donizettiano verrà riproposto anche a Monaco, con Joseph Calleja accanto alla prima donna slovacca. Una Madama Butterfly prevede Roberto Alagna e Amanda Echalaz, mentre nell’Otello verdiano si cimenteranno il veterano Seiffert e la brava Krassimira Stoyanova. Sarà anche ammirevole l'engagement di Peter Seiffert nel cantare ruoli pesantissimi come Tristan, Otello o Tannhauser alla sua età (visto, poi, che degni sostituiti nella nuova generazione non si trovano), con una voce non da vero tenore drammatico, ma secondata da una tecnica che negli ultimi 10-15 anni nel canto wagneriano non ha avuto nessun altro tenore, eccetto Ben Heppner o l'altro solido wagneriano Johan Bohta. Ma forse è ora che Herr Seiffert pensasse ad un ritiro tempestivo. Vesselina Kassarova e Anna Netrebko si esibiranno nei Capuleti e i Montecchi. La Netrebko avrà la possibilità di riprovare le sue forze nel belcanto, affrontando un ruolo sicuramente più adatto alla sua vocalità (anche se restando sempre inadeguata stilisticamente) che la poco convincente Bolena viennese. La Cenerentola rossiniana sarà interpretata da Joyce DiDonato che della specialista rossiniana sembra avesse più il nome che una vera competenza, mentre sarà il garbato Lawrence Brownlee ad incarnare il principe. E’ ancora la parte tenorile che risulta più fortunata nella Boheme con Joseph Calleja e la Mimi di Angela Gheorghiu. Inoltre, i Münchner Opernfestspiele dell’estate 2012 ci propongono diversi concerti di canto con il “creme de la creme” dello star system – Christian Gerhaher, Joyce DiDonato, Simon Keenlyside, Jonas Kaufmann e Elina Garanca.

Il traffico è abbastanza colmo e “stellato” anche ad Amburgo. Il repertorio tedesco è quasi interamente messo sotto la direzione della Maestra australiana Simone Young, direttrice dell’opera amburghese. Nel completo ciclo wagneriano “godiamo” della presenza di un assolutamente scandaloso Christian Frantz quale Siegfried e dell’attuale Siegmund di riferimento Simon O’Neill (ma riferimento a che cosa?...). Poco promettente anche il Wotan del senescente Falk Struckmann. E’ ancora Christian Frantz ad incarnare Tristan accanto alla pesante e stonata Linda Watson. Nell’Ariadne auf Naxos i panni della primadonna/Ariadne vesta la presunta specialista straussiana Anne Schwanewilms, quale tenore/Bacchus invece abbiamo il solido Johan Bohta. Sarà ancora il tenore sudafricano a cantare il ruolo di Radames al fianco dell’Amneris di Manuela Schuster, già discutibile wagneriana, l’Aida di Angela Brown e l’Amonasro di un Wolfgang Koch la cui presenza ci sembra ancora più inquietante quale protagonista nel Don Giovanni. Nell’Olandese volante (unica opera wagneriana-straussiana non diretta dalla signora Young) l’unico punto positivo sembra essere la Senta della sufficiente Adrianne Pieczonka, mentre Lucio Gallo quale Olandese e Marco Jentzsch quale Erik suscitano parecchi dubbi. Sarà un altro baritono italiano poco convincente, Franco Vassallo, ad incarnare Rigoletto accanto alla Gilda di un mega-prodotto dello star system, Nino Machaidze, ormai ridotta ed inacidita a causa della propria assoluta complicità con le esigenze rigide e poco conseguente del sistema che l’ha fatto emergere. E’ ancora lei ad affrontare la Lucia sotto la direzione di un altro direttore femminile, Julia Jones. In un altro highlight donizettiano, La fille du régiment, sarà la poco consistente nuova star del repertorio di coloratura, Daniella Fally ad interpretare Marie, mentre sarà addirittura Antonio Siragusa, tenore poco acuto, ad interpretare il ruolo acutissimo di Tonio. Un altro soprano dello star system, Elena Mosuc, nuovissima Lucia insufficiente a Berlino e Norma inadeguata per eccellenza, approda la Marguerite di Gounod, con il Faust di Marcello Giordani, già contestato alla Scala l’anno scorso. Da notare inoltre la Dama di Picche con una Angela Denoke che promette poco canto nobile nel ruolo della sfortunata Lisa e la Contessa di un’anziana Mariana Lipovsek, discutibile vocalista anche nei suoi “migliori” anni. Il Manon Lescaut pucciniano prevede invece Norma Fantini quale protagonista ed un mediocre Carlo Ventre nella parte tenorile.

Nel complesso, anche ad Amburgo si manifesta un’egemonia quasi totale delle agenzie che propongono gli stessi cantanti negli stessi ruoli ovunque e dappertutto. Per quanto riguarda la condizione dei cantanti per se, la situazione sembra abbastanza critica non così tanto per qualche regola di emissione del belcanto che questo o quel cantante negligesse, ma soprattutto per l’incapacità materiale di sostituire, da Berlino a Monaco, le grandi personalità e professionisti della generazione ormai non più giovane e tutt’altro che fresca e di tecnica ortodossa, come Peter Seiffert, Edita Gruberova o Waltraud Meier e Matti Salminen con giovani professionisti di altrettanto grande qualità di prestazioni artistiche e di solidità da renderne una sicura garanzia sia per la cassa sia per il livello degli spettacoli. Si pone la domanda che cosa accadrà quando tra due, tre o cinque anni la vecchia generazione si sarà già ritirata (eccetto la Gruberova, ben inteso) ed il teatro lirico rimarrà abbandonato alle nuove stelle che o sono sistematicamente costrette a cancellare quattro recite su cinque o risultano niente di più che appena sufficienti sul palco, la pubblicità del marketing non potendo mai coincidere con i superlativi spesi in confronto a questi star. Un problema di base e molto materiale che attualmente non sembra ancora così grave e sintomatico grazie alla rassicurante presenza di cantanti (“vecchi ed ancora così bravi”) come i sopracitati o anche il Leo Nucci, scritturato, come già riportato, per i Foscari berlinesi. Un problema che nei teatri tedeschi, piuttosto bene sovvenzionati dallo stato contrariamente ad un paese come l'Italia, viene neutralizzato da un “traffico” quantitativamente molto intenso di tutti i tipi di cantanti che attraversano oggigiorno i palcoscenici, ma non si vi affermano quasi mai, essendo esposti ad una triste indifferenza, anonimità ed intercambiabilità sia per la propria fragilità professionale sia per l’attitudine poco impegnata del pubblico generale.

P.S. Nel fratempo sono stati pubblicati i cast della nuova stagione della Semperoper di Dresda che negli ultimi anni era molto “stellata”, al pari degli altri grandi teatri tedeschi. Stavolta dobbiamo segnalare una certa anonimità dei cast che, da un lato, ci dà poca possibilità per fare pronostichi musicali e che, dall’altro, ci divida fra due pensieri: 1. Si tratta di una mera crisi finanziaria che rende incapace il teatro di chiamare nomi altisonanti o 2. c’è qualcuno nella direzione del teatro che sente al di là dei nomi e scrittura cantanti che, pur essendo senza nome, sono talentuosi? La seconda possibilità sembra meno plausibile, visto chi sono effettivamente stati scritturati tra i nomi piuttosto conosciuti. Non è certamente la presenza di Oksana Dyka quale Tosca che ci può dare speranza sulla competenza ed attenzione musicale dei dirigenti della Semperoper.
E’ da sottolineare la scarsa presenza di un’artista la cui fama è associata soprattutto col teatro dresdinese, ossia Evelyn Herlitzius che, dopo le Brunnhilde a dir poco disastrose dell’anno scorso, incarnerà solo la Leonore del Fidelio e la Salome nella “scandalosa” produzione di Mussbach. Molto peccato per un’artista che, in questo deserto di totale inespressività che è oggi il canto operistico, aveva sempre qualcosa da dire ed era sempre completamente impegnata nei suoi personaggi. Eppure, una completa assenza di qualsiasi tecnica ha terribilmente ridotto in poco tempo il suo strumento che all’inizio possedeva una notevole ampiezza ed un timbro molto particolare.
Altrimenti, nient’altro da aggiungere sulla nuova stagione di Dresda.








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mercoledì 18 maggio 2011

Alda Noni (1916-2011)

Salutiamo oggi Alda Noni, morta ieri più prossima ai cento anni che ai novanta. Longeva in vita e longeva nella memoria degli ascoltatori . Anche lei dapprima dimenticata e, poi, come accade in periodi come il presente riconsiderata e rivalutata. E con valida ragione.

Alda Noni era triestina, ovvero nasceva anche come formazione musicale in quella città che è al tempo medesimo città di provincia e città internazionale. Sentirla per radio negli anni settanta ed ottanta, quando fu spesso ospite di trasmissioni radiofoniche era un piacere per la vivacità dei racconti e per la ricchezza delle esperienze professionali che richiamavano questa ricchezza di formazione. Triestina sino in fondo la sua cultura ed anche la sua carriera, che, rispecchiavano il fatto che ben dopo la caduta dell’impero asburgico il referente culturale , e non solo per la musica fossero appunto le città di quello che era stato l’impero. Quindi debutto nel 1937 a Lubiana e prima fase della carriera a Vienna dove nel 1944 fu Zerbinetta in occasione della ripresa dell’Arianna a Nasso, celebrativa dell’ottantesimo compleanno di Strauss. Nel dopo guerra sbocciò la carriera italiana e la specializzazione della Noni nel repertorio del Settecento. Non praticò solo quello perché alla Scala fu anche Musetta e Nannetta, ma la fama del soprano triestino andò di pari passo con le numerose edizioni dei lavori, a torto definiti minori, di Cimarosa, Paisiello e Fioravanti. Spesso partner di Sesto Bruscantini. Ma una cosa deve essere chiara e –credo- che possa costituire il vero spunto di riflessione e commemorazione per la Noni. Classificata quale soubrette, aiutata in questo anche dal fisico e dalla voce che era un poco acidula e di limitato volume, estesa solo nella prima parte della carriera, la cantante triestina fu sempre fedele a questa scelta, derivata dalla qualità vocale medesima. Insomma cantò ed interpretò quello che era giusto per la sua voce e la sua personalità. Magari secondo canoni, che, oggi sulla carta non si condividono, perché vorremmo, ma, poi, non abbiamo Norina ed Adina e fors’anche Carolina dal timbro più ricco e sontuoso di quello di una Noni e dal virtuosismo da opera seria. Però questi ed altri personaggi come pensati e realizzati magari in spettacoli televisivi –diciamo primordiali- ci ricordano che spesso l’opera di mezzo carattere settecentesca è apprezzabile a condizione di padroneggiare e dar senso al recitativo, di cogliere il trapasso in genere dal comico al larmoyant del personaggio ed in questo riveduta e corretta oggi, purtroppo, non disponiamo di una Alda Noni. Perché le Alda Noni credono opere loro Lucia, Traviata, e preferiscono Donna Anna a Zerlina.
Ripeto possiamo criticare quello che è figlio del tempo, ma omaggio vero e sentito alla professionalità, all’onestà, alla costante preparazione al rispetto per la musica ed il pubblico.



Gli ascolti


Alda Noni


Mozart - Don Giovanni

Atto I - Batti, batti o bel Masetto (1951)


Cimarosa - Il Matrimonio segreto

Atto I - Cara, non dubitar...Io ti lascio perché uniti (con Tito Schipa - 1949)


Rossini - Il Turco in Italia

Atto II - Credete alle femmine (con Sesto Bruscantini - 1951)


Rossini - Il Barbiere di Siviglia

Atto I - Una voce poco fa (1951)


Auber - Fra Diavolo

Atto II - Non temete, Milord...Or son sola (1952)


Donizetti - L'Elisir d'amore

Atto II - Quanto amore! (con Sesto Bruscantini - 1951)


Offenbach - Les Contes d'Hoffmann

Atto II - Les oiseaux dans la charmille (1951)

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martedì 17 maggio 2011

Don Carlo alla Staatsoper unter den Linden di Berlino

La diva impegnata e nomade che sono, i miei ingaggi mi hanno ancora una volta portata a Berlino dove il 1 maggio, quando tutta la città dimostrava fuori contro le ingiustizie inflitte dai potenti di questo mondo, ho preferito di deliziarmi ancora una volta della forma d’arte più borghese, conservatrice, decadente ed inutile assistendo al Don Carlo verdiano rappresentato alla Staatsoper di Berlino che per il momento funziona nel Schillertheater. E poche delizie mi sono procurata…

L’allestimento a firma di un certo Philipp Himmelmann è tipicamente eurotrash. Il concetto sarebbe di presentare la tragedia reale come un dramma di una famiglia disfunzionale, mentre l’unica cosa che risulta veramente disfunzionale è la regia stessa. Ultimamente abbiamo visti tanti dei Don Carli assolutamente privi di qualsiasi spettacolarità e di senso per la complessità dell’azione e psicologia schilleriana-verdiana, banali e monotoni, con le scene alternate senza alternanza di scenografia e di colori. Così anche in questo Don Carlo abbiamo uno spettacolo tutto in bianco-nero, qualche seggiola ed una sola tavola su cui si mangia, si beve, si balla, si fa lo spogliarello, si scopa e si muore. Sarà che in un periodo di crisi economica ci sono poche possibilità per allestire un Don Carlo lussuoso, ma non si può nemmeno ridurre un’opera di tante faccette psicologiche, scene festive e notturne, massive ed intime, profane e religiose ad una tavola e due-tre pallidi cambiamenti d’illuminazione. Ed a redimere questo pallore non servono sicuramente i frammentari “coup de genie” come un’Elisabetta che inizia a stirare nella parte finale del duetto del primo atto con Carlo o un Filippo che all’inizio della scena del gabinetto ritroviamo proprio nel momento di orgasmo dopo il coito (sulla mitica tavola, ben inteso!) con Eboli.

Per questo trovo particolarmente peccato che il maestro Massimo Zanetti non abbia resa particolarmente eloquente la sua orchestra soprattutto nei momenti monumentali che richiedevano più volume e colori, come nell’intera scena dell’autodafé dove invece il coro di Eberhard Friedrich ha dimostrato ancora una volta la sua ottima preparazione. Il signor Zanetti si è mostrato più a suo agio nelle scene di carattere intime e personali, dipingendo con grande varietà di accento ed un raffinato odorato per la coerenza drammatica sia l’intero complesso quadro del gabinetto che la scena notturna nel giardino o la morte di Posa. Ha fatto anche il massimo nel accompagnare i cantanti con moderato volume orchestrale nei momenti più impegnanti ed usando sempre il giusto ritmo, anche lì dove i cantanti stessi, ostaggi tanto della regia insensata e faticosa quanto delle proprie perplessità vocali, facevano niente o poco per rendere plausibile il dramma e la musica al pari del direttore.

Iniziamo col personaggio gerarchicamente più alto, ossia il Filippo II della star di casa, René Pape. Avendo letto una recensione della prima che dichiarava che con questa produzione si trattasse di un Don Carlo “di” René Pape, incontrando dappertutto la grande pubblicità che lo circonda e considerando che, rispetto a quello che oggi siamo di solito costretti a sentire, un basso-baritono come René Pape è comunque un’artista generalmente apprezzabile, mi aspettavo ad una prestazione se non di altissima levatura, allora almeno di una qualità vocale convincente. Invece il Filippo di Herr Pape è risulto del tutto privo di qualsiasi autentica regalità e dimensione tragica-malinconica, poco sonoro (a parte qualche bella nota centro-acuta) anche in una minuscola sala come quella del Schillertheater e – ancora più che nella recentissima Valchiria berlinese – sempre in lotta ed al limite con il peso del ruolo. La voce è quella che è: piccola, piuttosto omogenea nell’emissione in tutti i registri, anche se non completamente immascherata (e quindi, anche poco “corrente”). Le intenzioni musicali ci saranno, anzi, ma le loro risoluzioni vocali lasciano piuttosto perplessi: nella grande aria le frasi come “Ella giammai m’amò” o “Se dorme il prence” sono tutte falsettate o letteralmente sussurrate nel peggior modo naturalistico per esprimere banalmente l’ansia o la tristezza. La parte più sonora della voce rimane, come già indicato, il registro centro-acuto, e questo non perché nel centro ed in basso non avrebbe “niente”, ma piuttosto per il motivo che Herr Pape non appoggia comme il faut il suono quando canta nella zona inferiore. Insomma, un Filippo senza mordente e sempre al limite dei propri mezzi nei momenti che richiedono il massimo accento. Dopo l’aria ed alle uscite finali per lui un entusiasmo generico e spento prestissimo.

Rispetto al padre, l’infante, incarnato (forse anche con… troppa carne…) da Fabio Sartori sembrava un prodigio vocale, anche perche nella piccola sala la sua voce ben dotata risultava molto sonora. A parte le difficoltà d’intonazione nel duetto con Posa, ha cantato solidamente, ma senza molta varietà di fraseggio, l’intera parte ed è stato il migliore nel cast, ma il sistema di canto del signor Sartori suscita comunque qualche dubbio. L’emissione è piuttosto bassa in tutti i registri, nella zona acuta la voce va indietro e lo squillo che assordava le orecchie nella piccola sala è ottenuto più per uno sforzamento del suono aperto che per un libero andamento della voce correttamente coperta. Così anche l’abbondante sonorità della voce risulta più stancante che impressionante e convertibile in un’autentica esperienza estetica-acustica. Alla fine – i più grandi applausi e meritatamente, perché almeno una voce ce l’ha dimostrata.

Il baritono Alfredo Daza quale Rodrigo tende regolarmente ad abbaiare in acuto ed a spingere in genere, perché la voce rimane parzialmente bloccata dalla propria emissione ingorgata. Per questo anche timbricamente la voce riceve una qualità piuttosto sgradevole e, malgrado le parecchie intenzioni (come anche la prova di trillare – solo tremolando, in verità – nella prima aria), il personaggio risulta più aggressivo che nobile. Un generale successo anche per lui.

E adesso le signore… L’Elisabetta di Amanda Echalaz o urla o miagola appena sale in zona acuta, perché non appoggia un sol suono, è vuota in basso su cui si estende abbondantemente la tessitura del ruolo, ed è o gutturale o nasale nel centro. Riprende fiato dopo ogni tre note, lasciando andare in pezzi ogni frase, non provando e non potendo mai legare. Ha miagolato tanto nel “Tu che le vanità” a ricevere un “buu” subito dopo l’aria – un “buu” rotondo, ma di colore soffocato perché di tecnica teutonica e non iniziata nei segreti dell’onorabile scuola italiana ed il buu immascherato e sostenuto sul fiato. E’ stata una contestazione spontanea tipicamente berlinese contro l’inspiegabile entusiasmo che aveva suscitato questa penosa esecuzione – il più grande entusiasmo della serata, più grande anche degli applausi – in verità, pochi – dopo l’aria della star ufficiale René Pape.

Per quanto riguarda la nostra Eboli, che cosa potrei dirvi sulla signora Nadia Krasteva? Ho finito la mia carriera nella prima metà dell’ottocento e da allora vagabondo quale spettro in tutti i teatri del mondo, ma fino adesso non mi ero pure accorta che avevano canonizzato nel regolamento di vocalità suoni da lavatrice meccanica nello stato bloccato e gorgogliante. Perché più di una “tigre ferita”, l’Eboli di Nadia Krasteva assomigliava ad una gallina in procinto di essere strangolata o un acquedotto stoppato (siamo sempre alle metafore acquatiche…), una voce intubata ed artificiosamente scurita fino all’insopportabile nel centro ed in basso, e per questo talmente penosa e transennata in alto a non potere emettere altro che un gemito soffocato al posto di un do bemolle ed un si bemolle nell’aria finale. Complice anche una regia banale e di cattivo gusto, il suo personaggio era reso eccessivamente volgare, nel “concetto” registico tenendo la funzione della “bad girl” di casa. Un generale indifferente entusiasmo anche per lei, con un singolo buu ancora una volta dalla parte da dove aveva sparato l’assalitore della regina.

Imponente, ma stomacale l’Inquisitore di Rafael Siwek, in ogni caso molto più carismatico e maestoso del re. Poco significante il Frate di Andreas Bauer, cantando pure con garbo ed un bel legato la prima scena. Accettabili i vari comprimari al di fuori della Voce dal Cielo della brasiliana Adriane Queiroz i cui impegni importanti alla Staatsoper in diverse opere (soprattutto per la prossima stagione) lasciano stupiti visto che si tratta di una voce certamente non di brutto timbro da soprano leggero, ma tutta priva di qualsiasi consistenza ed omogeneità nella gestione sia del timbro sia dei registri della voce. Che si canti “dal cielo” non vorrebbe comunque dire che si canti “in aria” e senza ogni sostegno di respirazione.

Insomma, una serata poco brillante, malgrado la presenza di qualche star attualmente risplendente in cui sono state soprattutto le signore ad avere toccato un livello talmente basso da sembrare difficilmente raggiungibile. Non hanno lasciato tante chance né a se stessi né al pubblico nemmeno i signori, soprattutto il re ed il suo confidente. Una compagnia che in un pezzo come il quartetto del gabinetto sembrava il quartetto dei musicanti di Brema. Lascio a voi la distribuzione della corrispondenza fra personaggi regali ed animali.

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domenica 15 maggio 2011

Consigli per gli acquisti: Mozart

Compito difficilissimo consigliare un libro, un disco, un piatto...perché si entra in una dimensione che prescinde necessariamente da categorie oggettive, per spostarsi verso i più inafferrabili lidi del gusto personale! I gusti cambiano, si spostano, risentono di circostanze esterne, sono sottoposti alla legge degli anni e al mutare del tempo, dipendono – anche – da suggestioni a volte inspiegabili: soprattutto non sono assoluti. Con questo spirito – premessa necessaria – mi accingo (con umiltà) a suggerire alcune incisioni ed edizioni nel mare magnum della discografia mozartiana: semplici consigli, senza pretesa di “infallibilità”, ma che vogliono essere una piccola guida maturata da numerose esperienze d’ascolto (più o meno piacevoli). Per prima cosa i criteri di scelta: perché un metodo va dichiarato. Per onestà e chiarezza.


Innanzitutto mi sono dedicato esclusivamente alle incisioni ufficiali, lasciando perdere le tante edizioni più o meno casalinghe o “pirata” che testimoniano particolari eventi e spettacoli: questo non per mancanza di interesse di tali prodotti (tutt'altro), ma per l’esigenza di fornire un campo ristretto di scelta, facilmente reperibile e con determinate caratteristiche in merito alla completezza del titolo e alla qualità tecnica dell’incisione. Nella scelta, poi, mi sono lasciato guidare da due direttrici: il gusto personale, ovviamente (quello di oggi, che è diverso da qualche anno fa e, sicuramente è destinato a cambiare tra qualche tempo) e la convinzione che non sia sufficiente la performance del singolo cantante o l’esecuzione del singolo brano a rendere “grande” un’incisione. Un’opera non è la somma di brani solistici, né l’occasione per esibire “effetti senza causa”: è qualcosa di più complesso che ha a che fare, principalmente, con l’arte (nello specifico la musica e il teatro). Per questo – nei miei consigli – ho privilegiato la resa complessiva (consapevole di pregi e difetti) piuttosto che il singolo episodio (per quello ci sono innumerevoli dischi e recital ove soddisfarsi). Infine il criterio numerico: per ogni titolo – causa esigenze di brevità – ho indicato una o due edizioni. Questo ha comportato scelte dolorose e discutibili, tali, cioè, da scontentare i molti che non troveranno il loro cantante favorito o l’edizione che ritengono di riferimento: l’ho messo in conto, e non mi dispiace, poiché sarà occasione (magari nei commenti) di scambiare costruttive opinioni.


Detto questo, si può cominciare. Ho scelto Mozart, come esordio, per due ragioni: è il mio autore preferito in assoluto e presenta un catalogo operistico abbastanza ridotto e del tutto testimoniato discograficamente. Circostanze che, purtroppo, non ricorrono spesso con altri compositori (si pensi a Donizetti, Handel, Rossini e Verdi). Wolfgang Amadeus Mozart scrisse – nella sua breve, ma assai produttiva carriera musicale – 24 lavori riconducibili al genere drammatico: di questi, tolti gli oratori di carattere religioso (Die Schuldigkeit des ersten Gebotes, più che altro un singspiel sacro, La Betulia liberata e il Davidde Penitente, nient’altro che la rielaborazione dell’incompiuta Messa in Do Minore KV 427), i primi lavori di scuola (Apollo et Hyacinthus, Bastien un Bastienne), i progetti incompiuti (Zaide, L’oca del Cairo e Lo sposo deluso), gli atti unici e le musiche di scena (Ascanio in Alba, Il sogno di Scipione, Der Schauspieldirektor e Thamos, König in Ägypten), possono essere considerati appartenenti al genere operistico i restanti 12 titoli. Per comodità si suddividono in tre raggruppamenti: le prime opere “all’italiana” (serie e buffe), riconducibili al classico modello metastasiano (La finta semplice, Mitridate re di Ponto, Lucio Silla, La finta giardiniera, Il re pastore); le opere di rottura della tradizione musicale del tempo e di certe convenzioni (Idomeneo, re di Creta e Die Entführung aus dem Serail); i grandi capolavori della maturità artistica (Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte, Die Zauberflöte, La clemenza di Tito). I “consigli per gli acquisti” riguardano proprio questi 12 titoli.

1) Del primo gruppo non sono disponibili molte incisioni, e, necessariamente, le scelte sono quasi obbligate, anche se oggi la discografia è un po’ più ricca rispetto a qualche anno fa. La finta semplice: pur dovendo scontare la direzione metronomica, rigida e grigiastra di Leopold Hager (prototipo di un Mozart “prussiano” oggi fortunatamente accantonato), resta ancora valida l’incisione ORFEO risalente al 1983, che vanta un interessante parterre canoro: Thomas Moser, Helen Donath, Teresa Berganza e Anthony Rolfe-Johnson. Non mi pare ci siano alternative valide. Mitridate, re di Ponto: impossibile non indicare l’edizione DECCA del 1998. Edizione integrale e curata sotto ogni aspetto, evita ogni effetto “sfilata di arie e recitativi” e cerca – attraverso un’orchestra spumeggiante e vitale – di infondere vera vita teatrale in un lavoro ancora acerbo, ma già ricchissimo di qualità musicale. Il cast – diretto da Christophe Rousset – schiera Giuseppe Sabbatini (in una sua rarissima testimonianza mozartiana), una spettacolare Natalie Dessay, Cecilia Bartoli, Brian Ozawa e in ruoli minori Sandrine Piau e Juan Diego Florez. Un’edizione tuttora insuperata. Lucio Silla: nonostante Hager, Crambeling e Harnoncourt vantino interpreti più blasonati (Auger, Varady, Cuberli, Murray, Gruberova, Bartoli), l’edizione migliore dell’opera è indubbiamente quella pubblicata dalla danese DACAPO nel 2002. Diretta da Adam Fischer alla guida di un’orchestra dalla trasparenza e precisione cameristica, vanta una compagnia di canto molto affiatata e convincente che, se pure non presenti stelle di prima grandezza, fa guadagnare all’opera quella vitalità e freschezza del tutto assenti in altre incisioni (gli interpreti: Odinius, Nold, Hammarstrom, Bonde-Hansen). La finta giardiniera: opera della svolta, per certi versi ancorata alla tradizione buffa italiana, per altri già lanciata verso il nuovo mondo di Da Ponte. Diverse sono le edizioni disponibili (tra cui l’incisione della rielaborazione tedesca in forma di singspiel col titolo Die Gärtnerin aus Liebe che si segnala esclusivamente per la presenza di Jessye Norman), ma la scelta va, pur con le riserve per certi atteggiamenti del direttore (dal rendimento assi variabile), a quella diretta nel 1991 da Harnoncourt (TELDEC), con Thomas Moser, Edita Gruberova, Charlotte Margiono, Uwe Heilmann e Monica Bacelli. L’unica che riesca a far percepire, almeno in parte, le novità di una partitura che davvero segna il passaggio dell’autore ad una dimensione più matura e autonoma. Il re pastore: anche qui, poche le alternative disponibili. Tra tutte segnalo l'edizione TELDEC del 1995 diretta da Harnoncourt, con Eva Mei e Ann Murray.

2) Il secondo gruppo si apre con quello che è forse il capolavoro musicale di Mozart. Idomeneo, re di Creta: la scelta tra le numerose edizioni disponibili, comporta, prima, la disamina delle diverse versioni dell’opera (Monaco e Vienna), delle arbitrarie “revisioni” novecentesche (Strauss, Paumgartner, Britten, Gal), nonché dei tanti tagli a cui la partitura è stata sottoposta. Tuttavia, per gustare appieno la complessità del lavoro di Mozart, l’integralità è assolutamente necessaria (così come è necessario distaccarsi dalla vulgata della critica germanica, che ha sempre visto con diffidenza l’opera, e il teatro mozartiano in generale, imbevuta – com’era e com’è tuttora in alcune frange e propaggini, anche nostrane – di wagnerismo di risulta, concentrata solo a trovare prodromi di “dramma musicale” in tutta la musica che l’ha preceduto: Gluck in primis). Tra le varie edizioni disponibili, credo che la migliore sia quella del 2005 pubblicata dalla danese DACAPO, per vari motivi: innanzitutto orchestra e direzione (Adam Fischer), assolutamente trasparente, chiara, quasi cameristica, con un salutare ripensamento della distribuzione dell’organico (ridotto e senza il consueto eccesso di archi che annacquano le linee musicali) e dei piani sonori, e con l’uso accorto del vibrato (senza gli eccessi romantici del Mozart storico); la compagnia di canto non vanta celebrità, ma risulta più equilibrata e affiatata (in particolare l’Idomeneo finalmente scuro e corposo di Christian Elsner, dopo anni di tenorini leggeri): evita il canto bianchiccio e slavato del Mozart in salsa anglosassone (che ci ammorba fin dai tempi del sopravvalutatissimo Beecham), le fissità sgradevoli di certi estremismi barocchisti (come il recente Jacobs), la rigidità morchiosa del Mozart prussiano di certo Harnoncourt, Böhm e Schmidt-Isserstedt (con il quale suona male persino la Staatskapelle di Dresda). L’opera è integrale, comprensiva anche del ballo finale: sarebbe stata gradita un’appendice con i brani alternativi, ma trattandosi di esecuzione dal vivo, ciò non era, ovviamente, possibile. Gli interpreti: il citato Elsner, Strehl, Hammastrom, Bonde-Hansen, Milanesi. Die Entführung aus dem Serail: con quest’opera si entra nella “zona calda” della discografia mozartiana. Da qui in poi, difatti, la scelta dell’edizione diventa più complicata, essendo maggiore il numero di versioni disponibili. All’aumento della possibilità di scelta si accompagna, necessariamente, un maggior arbitrio (e un maggior rimpianto per esclusioni dolorose). Dell’opera voglio indicare due edizioni: diversissime tra loro sia per pregi che per difetti. La prima è l’incisione DGG del 1965 diretta da Eugen Jochum: direzione ricca, vitale, senza mai eccedere nel gigantismo sonoro di stampo romantico. Modernissima. Il cast: Wunderlich, Köth e Böheme. La seconda è l’incisione di Gardiner del 1991 (DGG-ARCHIV): la direzione esalta tutti i dettagli della raffinata scrittura mozartiana (grazie ad un’orchestra semplicemente perfetta), ripensata secondo gli equilibri corretti (soprattutto nel rapporto archi/fiati). La compagnia di canto vanta l’ipervirtuosistica Konstanze di Luba Orgonasova (l’unica, credo, ad affrontare “Marten aller Arten” nella sua stesura integrale) e l’impeccabile Belmonte di Stanford Olsen (dal canto morbidissimo e vellutato); purtroppo sconta un Osmin in serie difficoltà.

3) Se appariva già difficile nel secondo gruppo dei lavori teatrali mozartiani, con il terzo la scelta è ancora più ardua, stante il numero delle edizioni disponibili e il valore di molte. Le nozze di Figaro: due incisioni per “l’opera perfetta”. Per motivi anche affettivi (è la prima opera completa che ho ascoltato) l’edizione DECCA del 1955 diretta da Erich Kleiber (la prima incisione integrale) con un cast strepitoso: Siepi, Corena, Della Casa, Danco, Güden. Unica “nota stonata” il Conte di Poell. La seconda – risalente al medesimo anno (1955) – è l’incisione diretta da Gui (EMI) con i complessi di Glyndebourne e un cast perfetto: Calabrese, Jurinac, Sciutti, Bruscantini, Stevens, Sinclair, Wallace, Cuénod. Tuttora un modello di interpretazione mozartiana, priva di ogni eccesso romantico e ricca di vitalità teatrale. Unica pecca è il taglio dell’aria “Il capro e la capretta”. Don Giovanni: anche qui due edizioni, ma se è scontato indicare l’incisione VIRGIN (1999) diretta da Harding per la lettura orchestrale innovativa (e il dissoluto di Mattei), più complicato scegliere tra quelle più classiche. Tra tutte direi Giulini nel ’59 (EMI). Così fan tutte: opera inafferrabile, di cui fatico a trovare l’edizione ideale. Senza completa convinzione (più per esclusione), scelgo Karajan (EMI 1954), per la lettura orchestrale soprattutto (e il Don Alfonso di Bruscantini). Die Zauberflöte: pochi dubbi sulla scelta dell’edizione diretta da Fricsay (DGG 1954). Lettura modernissima, asciutta, vivace, teatrale, movimentata. Lontana sia dalla leziosa superficialità di Beecham, sia dall’intollerabile pesantezza/letargia dei vari Furtwangler, Böhm, Klemperer (ed epigoni vari) che trasformano l’opera in una sorta di oratorio mistico/massonico, sia dalla romanticizzazione spinta di Solti. Molto interessante la lettura di Christie (ERATO 1995), decisamente la sua migliore prova mozartiana (e con un cast ove spicca l'Astrifiammante della Dessay). La clemenza di Tito: ancora insuperata l’incisione di Kertész (DECCA 1967) con le spettacolari esibizioni della Berganza, della Casula e di Krenn. Oggi l'opera, superati i pregiudizi di una critica antiquata, non è più intesa come sorella zoppa degli altri capolavori mozartiani, ed è stata di molto rivalutata. Di conseguenze l'approccio alla partitura è cambiato: vi sono molte incisioni innovative, tra cui l'esito migliore dell'esperienza mozartiana di Jacobs (la cui incisione targata HARMONIA MUNDI del 2005 è la seconda che consiglio). Termina qui la prima puntata di questa guida agli acquisti. Ovviamente mancano tante edizioni (anche storiche), tante testimonianze di artisti eccezionali. Mancano, per motivi di metodo, molti live. Mancano le edizioni incomplete e frammentarie (dal suono precario, ma dalle interpretazioni di grandissimo valore documentaristico). Mancano le edizioni in video (che ormai si fanno numerose e su cui sarebbe molto utile riflettere, giacché l'opera è pur sempre teatro). Mancano i brani isolati. Nella certezza, dunque, di aver scontentato la maggior parte dei lettori per le troppe omissioni, auguro a tutti un buon ascolto!

Gli ascolti:

Sinfonia in Re maggiore KV 385 "Haffner": Ferenc Fricsay (1952)

http://www.youtube.com/watch?v=ZKGsnvLAkG0

Le nozze di Figaro: Sesto Bruscantini, Vittorio Gui (1955)

http://www.youtube.com/watch?v=e3_doQpRjj4&feature=fvst

Die Zauberflöte: Josef Greindl, Ferenc Fricsay (1954)

http://www.youtube.com/watch?v=vQererv5oNQ&feature=related

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