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domenica 12 giugno 2011

Cenerentola a Bologna: Ramiro trionfa... sul nulla.

Cenerentola torna a Bologna per la terza volta in meno di vent’anni e per la terza volta con un allestimento scenico differente. Dato che la produzione di Roberto de Simone riposa giustamente in magazzino dopo essere stato ripresa in svariate occasioni (mai, salvo che per una tournée giapponese), ed essendo quella griffata Irina Brook un’importazione da altri teatri, si è pensato bene di ricorrere a un nuovo allestimento, affidato anche stavolta a un figlio d’arte (papà!), Daniele Abbado. Scelta obbligata quella della bacchetta, essendo Michele Mariotti non solo il direttore principale del teatro, ma soprattutto l’erede di quella tradizione esegetica che, archiviata per sempre l’ingombrante stagione degli anni Ottanta, attivamente provvede, con l’ausilio della terza e in parte anche della quarta generazione di esecutori rossiniani, a disegnare gli scenari presenti e futuri dell’interpretazione del genio pesarese.
Lo spettacolo presentato al Comunale è il fedele specchio e l’esatto compendio del portato filologico, esecutivo e di conseguenza interpretativo delle più recenti stagioni del Rof, e questo non solo per la presenza in palcoscenico (con una sola eccezione, almeno nelle prime parti) di cantanti tutti regolarmente coinvolti nelle produzioni del festival adriatico.

Innanzitutto la bacchetta. Al solito, ci ripetiamo e non potremmo fare altrimenti, atteso che le caratteristiche delle letture rossiniane del giovane Mariotti permangono le medesime di anno in anno e produzione dopo produzione. E quindi ancora una volta rileviamo come non abbia senso avviare un crescendo partendo dal mezzoforte, perché siffatta limitazione della gamma dinamica immiserisce la struttura della frase e di conseguenza il suo impatto. Osserviamo quindi che la riproposta tenace e costante, in sede di cadenza e di coda orchestrale, di soluzioni, quale un improvviso stentando seguiti da un repentino accelerando, finisca per conferire alla musica un carattere monotono e squadrato, peggio che se l’esecuzione fosse rigidamente metronomica. Ripetiamo anche qui sino allo sfinimento che la principale difficoltà di pagine quali il finale primo e il temporale non risiede nella necessità di tenere il tempo (altra esigenza non banale, che l’altra sera si è manifestata segnatamente nel tempo di mezzo del sestetto), ma in quella di trovare un colore orchestrale consono alla musica e alla circostanza drammatica. Annotiamo infine, e questa è la vera novità della serata, come l’imitazione del gesto di Abbado (papà!), presente fin dagli esordi, si stia fondendo a un’attiva partecipazione alle dinamiche dello spettacolo, il che porta il direttore non solo a indicare gli attacchi sospirando rumorosamente e bofonchiando, ma ad accompagnare i solisti canticchiando spesso in maniera percettibile. Insomma Abbado e Daniel Oren si danno idealmente la mano per il tramite del maestro Mariotti.
Le note più amare vengono però dal palcoscenico, e non parliamo solo delle sorellastre, signore Markova e Bridelli, che a lungo dovrebbero ancora studiare e meditare, onde evitare i suoni emessi ad esempio sul la4 nel concertato all’entrata di Dandini e nel finale primo. Fra l’altro siamo grati al direttore di avere risparmiato a questa Clorinda e di conseguenza al pubblico l’aria del sorbetto. In questa scelta ravvisiamo prudenza e autocoscienza, assenti in una recentissima edizione del festival pesarese.
Medesima prudenza e analoga autocoscienza sono però mancate nella riproposta della grandiosa aria di Alidoro. Come si sa il brano fu composto da Rossini per una ripresa del titolo, in luogo del più abbordabile assolo concepito per la prima romana dal collaboratore Luca Agolini, che sapeva di non poter disporre che di un mediocre cantante. Peraltro l’esecuzione di Lorenzo Regazzo avrebbe giustificato non solo la soppressione dell’aria (rossiniana o d’altra mano), ma severi tagli equamente distribuiti lungo tutta la partitura. Voce a stento udibile oltre le prime file di platea, come accade a chi non canti sul fiato e non possegga dote naturale in grado di compensare le carenze tecniche, riduce la coloratura a un borbottio indistinto e risulta marcatamente bianca e spoggiata in acuto. Come questo cantante possa affrontare regolarmente, e con il pieno consenso di critica e pubblico, il repertorio rossiniano e mozartiano, togliendosi pure lo sfizio di alternare Leporello e Don Giovanni, è cosa che desta meraviglia, per non dire altro.
Voci di maggiore impatto quelle degli altri due bassi, Paolo Bordogna e Simone Alberghini, che poi bassi in senso stretto non sono, da partitura, cantando per quasi tutta la sera (Dandini soprattutto) nella zona superiore della voce, con abbondanza di mi e fa acuti. Di maggiore impatto non significa ipso facto penetranti e sonore. Nel caso in questione abbiamo due voci che sarebbero di tenore centrale, se i possessori sapessero correttamente respirare (è sufficiente osservare i movimenti, o meglio l’immobilità, della regione toracica per verificarlo) e di conseguenza effettuare il passaggio di registro. Il risultato è che in zona acuta si manifestano suoni chiocci e spesso stonacchianti, l’esecuzione della coloratura risulta abborracciata come neanche nelle vituperate esecuzioni pre-Rossini Renaissance, la corretta scansione del sillabato si riduce (specie nel finale della terza aria di Bordogna) a una pia illusione. Detto questo va rilevato come i due cantanti recitino con convinzione e innegabile abilità, specie nel duettone, ma questo non può bastare a riscattare le sorti della serata.
Le cose vanno significativamente meglio per l’altra voce maschile del cast. Rispetto all’Otello di tre anni fa, Michael Spyres sembra avere irrobustito la voce, specie nel registro basso, seppur con occasionali opacità. Il passaggio superiore non è altrettanto sicuro, il che produce ancora, specie nel duetto con Cenerentola, suoni talora bianchi e un po’ aperti, e impedisce al cantante di salire con sistematica facilità agli acuti. L’impressione è che il passaggio sia risolto in maniera non sufficientemente meditata, e solamente quando l’operazione riesce, la voce abbia agio di espandersi in tutta la sua potenzialità (sibem3 “in me la speme accende” al finale primo, di certo il suono più penetrante udito nell'intera serata). Molto bella la sezione centrale dell'aria, in cui Spyres riesce a fraseggiare e a cantare piano senza risultare eunucoide o smanceroso come certi Ramiri del passato e del presente. Senza contare che la voce svetta decisamente sugli altri solisti in tutti gli ensemble (salvo che nel duettino con Dandini all’inizio del finale primo). Se la voce trovasse il corretto sfogo in acuto, il cantante potrebbe anche riconsiderare i propri impegni in ruoli di scrittura marcatamente centrale, che col tempo potrebbero risultare eccessivamente onerosi per la sua voce e comprometterne le qualità.
Quanto alla protagonista, Laura Polverelli, anche qui dobbiamo ripetere le impressioni negative registrate due anni fa al festival di Pesaro. La voce risulta microbica, ancor più di quella di Regazzo, specie in fascia medio-bassa. Più sonora in acuto, una volta superato il proverbiale “scalino” che qui si manifesta attorno al do3 (fin dall’Andantino “Una volta c’era un re”), e viene da chiedersi se non siamo in presenza di un soprano lirico che, non sapendo eseguire gli acuti, canta da mezzosoprano quando non da contralto. L’emissione veristeggiante è quanto mai inadatta al personaggio innocente e trasognato, mentre nella scena della festa si apprezza (si fa per dire) l’incapacità d’infondere al canto quel minimo di compostezza ed eleganza che la situazione esigerebbe, e altrettanto dicasi per le perorazioni rivolte rispettivamente al patrigno e allo sposo, con tanto di esecuzione aspirata della coloratura e acuti ghermiti (esempi: sol4 “portatemi a ballar” e la4 in cadenza “qualche amor per me portate”). Al rondò si somma la stanchezza e ne derivano i bofonchiamenti (con significativi sconti sulle quartine vocalizzate previste) e le urla sul si4 che la radio ha impietosamente trasmesso. Non si saranno forse colti i buh (due di numero) che hanno salutato questa esecuzione a dir poco surreale del finale dell’opera e che hanno persuaso i solisti a presentarsi alla ribalta tutti assieme, a prevenire possibili nuove contestazioni. Poi ha prevalso l’onestà e la corretta assunzione di responsabilità (a differenza di quanto avvenuto a Milano pochi giorni addietro) e si sono svolte le singole, peraltro non funestate da rinnovati “incidenti”. Successo pieno per tutti, con sporadici dissensi per il team registico. A volte più del salvagente conta… il parafulmine!




Gli ascolti

Rossini - La Cenerentola


Atto I

Miei rampolli femminini - Cristiano Dalamangas (1949), Italo Tajo (1953)

Come un'ape nei giorni d'aprile - Afro Poli (1948), Saturno Meletti (1949)

Sprezzo quei don che versa - Giulietta Simionato (1949)

Atto II

Sì, ritrovarla io giuro - Chris Merritt (1988)

Temporale - Bruno Bartoletti (1967)




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martedì 24 maggio 2011

Bologna: il lutto si addice ad Ernani.

E’ con immenso cordoglio e inconsolabile tristezza, ma anche profonda Fede nella divina volontà, che siamo costretti ad annunciare a voi tutti, giunta dopo lunga e atrocissima agonia, la recente dipartita dell’opera di Giuseppe Verdi “Ernani”.

Ernani, come saprete, era uno spagnuolo eroico e ardente, ma anche masnadiero suo malgrado, nonostante la nobile discendenza. Nacque dalla scandalosa e innovativa penna di Victor Hugo prima e dal vivace e giovanile pentagramma di Giuseppe Verdi coadiuvato dall’estro del librettista Francesco Maria Piave, in quel 1844 che lo consegnò alla storia dell’opera e ad un imperituro successo.
Visse bene, in salute e floridamente Ernani, ripetendo per più di un secolo e mezzo la sua cruenta ed eccentrica leggenda, ricca di tinte fosche e appassionate nei teatri di tutto il mondo e raccogliendo onori e gloria per mezzo delle inebrianti voci di illustrissimi et lodevolissimi interpreti.

Ahimé, tale messe di successi era purtroppo destinata a volgere al crepuscolo non bruscamente, ma in modo subdolo e lento come la peggiore delle torture medioevali: un cancro inesorabile e corrosivo si è fatto strada su quegli stessi palcoscenici che prodigamente avevano coperto di allori il nostro proscritto. Invano le amorevoli cure di Festival, artisti e direttori di chiara fama e presunta maestria, accorsi al capezzale del moribondo onde trovare una cura a base di canto e musica, unica soluzione al male che provocava la consunzione delle iberiche carni, ha lenito tali sofferenze. Tutto fu vano. Il corpo, già piagato dall’effetto deleterio delle recite americane (Licitra, Radvanovsky, Daniel, Hvorostovsky, etc . etc. ) avevano inferto un’ulteriore purulenta ferita che, alla luce degli avvenimenti felsinei, ha infettato e incancrenito i resti del martoriato corpo che si è spento sotto i poco pietosi colpi inferti del malcanto.
Il cadavere, composto sul palcoscenico del Teatro Comunale di Bologna adibito a camera ardente, è stato deposto in una semplice bara rivestita di tele dipinte, cartapesta, strass e paillettes, è stato portato in spalla da un quartetto di artisti, gli stessi che hanno purtroppo decretato la sua condanna a morte, a cui hanno fatto seguito un folto pubblico accorso per rendere omaggio con sincero e caloroso affetto alla salma e il direttore d’orchestra che ha eseguito l’ormai decomposta partitura, in ricordo dei tempi in cui fu grande… e tagliuzzata dei “da capo”.

Il lutto si addice a Dimitra, la quale con spietato cinismo, nel sollevare la bara sulla spalla, ha deciso che tutto sommato il personaggio di Elvira andasse riscritto e riadattato alla sua voce ed al suo “temperamento”; temperamento che si estingue allorquando la cantante, ormai per contratto, decide di scagliare un pezzo di scenografia su un altro cantante o sul palcoscenico: in questo caso un tonico al IV atto.
La Theodossiou ha così incautamente deciso di polverizzare ciò che restava del personaggio cardine di Elvira trasformata, per la funerea occasione, in una pupattola lamentosa e bamboleggiante, dotata di un timbro che definire ormai querulo sarebbe già un complimento ed uno “slegato” esemplare nel suo continuo spezzettare ogni frase in frammenti rimbalzanti; come definire poi ciò che ha escogitato per risolvere i gravi letteralmente immaginati, gli acuti nella reiterata e poco simpatica imitazione delle unghie sulla lavagna o nelle colorature, se così vogliamo chiamarle, così chiocce, calanti e talmente male in arnese quanto a fiato da richiedere d’urgenza la presenza di una salvifica bombola d’ossigeno? Rimane allora un registro centrale percettibile e la presenza di pianissimi presi in prestito dalla solita Caballé fine anni ’90 che galleggiano compiaciuti nel nulla di un sostegno inesistente. E l’accento? Basterebbe la squisita distaccata cordialità con la quale invita il Re a non insistere con le profferte poco regali di prenderle l’onore, per rimanere attoniti.
Il lutto si addice ancor di più a Marco di Felice, che affianca la Theodossiou nella prima fila del trasporto della bara. Baritono nominale, di fatto un tenore non sfogato, per tutta la recita ci si chiede ascoltandolo “perché?”; perché in condizioni del genere è stato l’unico a beneficiare del “da capo” della sua aria al II atto, il cui risultato era già scarso in partenza? Voce piccola così, circoscritta ad un gorgogliante registro centrale, poiché né in acuto, né nel grave ci è data la possibilità di udirlo. A peggiorare le cose una dizione in cui vengono pronunciate solo le vocali “E”, “O”, “U”, ed un fraseggio bolso. Almeno ha saputo sopportare il fardello della salma.
Dietro di loro il peso è stato equamente distribuito tra Ferruccio Furlanetto ed il rinato, dai malanni, Roberto Aronica, che in parte ringrazio per avermi risparmiato l’ascolto dei suoi “esotici” colleghi sostituti.
Furlanetto ha puntato sulla presenza scenica, sull’eleganza del portamento, sul carisma del pianto facile, sostenuti da un canto come filtrato da una purea abbastanza densa di patate, cifra stilistica ormai imprescindibile della sua voce, ma questo lo sapevamo da sempre, resa però traballante soprattutto in alto e ruvida in basso in virtù dell’età. L’eloquio, la potenza dello strumento e certi inserimenti “veristi”, meno grevi rispetto ai Filippo II di New York e Londra, hanno portato al visibilio il pubblico commosso.
Aronica, ancora in ripresa dai malanni, rispetto al Pollione zurighese è qui un po’ più a suo agio. Il suo Ernani è sempre tribunizio nell’accento e molto monocorde nel fraseggio, ma almeno il tenore dimostra di possedere le note della parte, almeno nel registro centrale e grave, comunque timbrati, sonori, e dotati di una certa robustezza, anche se molto ruvidi e non proprio finissimi. Resta un passaggio di registro purtroppo irrisolto e dall’intonazione precaria, con acuti nasali e tutt’altro che belli da ascoltare, ovviamente sempre un po’ al limite.
Chiude il corteo funebre, subito dopo comprimari di dubbio gusto e un coro sufficientemente preparato malgrado qualche tragico svarione al II e IV atto da parte delle voci maschili, la presenza invero catartica di una bacchetta di ottimo mestiere e preparazione, ovvero quel Bartoletti che avrebbe dovuto essere presente fin dalla prima recita (affidata, come le altre, al maestro Polastri, previsto per il secondo cast) e che finalmente si è riappropriato del podio proprio per quell’ultima recita che ha sancito, quasi fosse un requiem, la discesa nel sepolcro dell’opera in questione.
Una direzione quella di Bartoletti basata sulla pulizia e preziosità del suono, sul gesto netto, sulla precisione di un cantabile avvolgente votato al sostegno delle voci dei cantanti prima di tutto, aiutandole spesso soprattutto nei concertati e nei momenti d’insieme e fraseggiando sovente, anzi più che volentieri, al posto loro. Lungi da essere rivoluzionario o stilisticamente appropriato o filologico (i tagli di tutti i da capo, ma in questo contesto… e la presenza di puntature non richieste e spesso fuori dalla grazia del cielo!) Bartoletti si lascia apprezzare per il gusto antico, per il taglio narrativo, ma immediatamente comunicativo nei riguardi del pubblico, il quale comprende, ringrazia e lo omaggia di conseguenza.

Poiché trattasi di funerale, il “regista” Beppe de Tomasi, ha pensato bene, forse per timore, forse per reverenza, forse per troppo dolore, di stare a guardare la cerimonia in costume regolando gli ingressi, le uscite di scena, le mani sul cor, il flusso delle lagrime, le spade sguainate e le cadute da suicidio, coadiuvato in questo dalle luci fondamentalmente insipide di Daniele Naldi.
Così il povero, ma bravo Francesco Zito ha dovuto fare tutto da solo con le sue colorate e fantasiose scenografie dipinte che riempivano il sofferto vuoto causato dal caro estinto, adornate da costumi un tantinello carnevaleschi, ma efficaci nella macabra economia dell’evento.

Il pubblico pregante, al termine della cerimonia e della deposizione nella semplice e anonima tomba allestita per l’occasione, ha infine salutato i commossi e provati Bartoletti, Aronica e Furlanetto con i toni prolungati del trionfo; lancio di fiori, probabilmente garofani e crisantemi estirpati dai cuscinetti e corone funebri al posto di più adeguati frutti marci, all’indirizzo della Theodossiou; cordialità nei riguardi di di Felice.

Qui giace “Ernani”, nobile eppur eroico e fiero bandito, opera ruspante e appassionata del battagliero Giuseppe Verdi che la compose, con il pensiero rivoltò a rendere immortale con la musica e la poesia la sua sanguigna storia regalandola con generosa modestia alla posterità. Stroncato da male lento e incurabile, tra sovrumane fatiche, il pubblico, i musicisti, i direttori, i cantanti, gli artisti, gli amici, i colleghi ed i melomani tutti, prostrati da questa perdita in quel di Bologna, a onor di vita esemplare, commossi posero. Amen.
Una prece.
Marianne Brandt


Lasciato alla collega Brandt l’onore e l’onere della trattazione del primo cast, mi accingo a riferire della recita fuori abbonamento di mercoledì 18, che schierava, accanto al direttore e al tenore già uditi in occasione della diretta radiofonica (e in quella occasione già doviziosamente commentati in chat), un’allieva della Scuola dell’Opera Italiana (l’ormai celebre accademia del Comunale) e due cantanti da diversi anni in carriera, e in teatri di un certo livello.
Intervistato negli intervalli della prima, il neo sovrintendente, omonimo del titolo affrontato, non ha fornito risposte chiare e precise circa il destino della Scuola dell’Opera. Ci auguriamo che il cambio di dirigenza porti con sé una riflessione sul significato e più ancora sugli esiti di questa istituzione, tenacemente sostenuta dalla precedente gestione. Valentina Corradetti non è certo l’elemento peggiore esibitosi in questi ultimi anni sulle tavole del Comunale, tuttavia non possiede, al momento, un’organizzazione tecnica che possa consentirle di gettare le basi di una solida carriera, obiettivo che dovrebbe essere primario per un’accademia musicale. La voce, che s’intuisce di solida e corposa natura, come sembra indicare anche la salda complessione fisica della signorina, appare in difetto di appoggio, si riduce spesso e volentieri a un mormorio ovvero evoca suoni di natura più felina che umana. Lo strumento, da lirico leggero più che da lirico pieno, suggerirebbe poi tutt’altro repertorio, non certo il primo Verdi, impietoso per chi non possieda perfetto controllo della prima ottava e sicurezza, specie d’intonazione, nella zona dei primi acuti. Ne risulta un’Elvira che risolve scolasticamente, appunto, la cabaletta d’entrata, eseguita una volta sola e semplificando le scalette ascendenti, e per il resto dell’opera non solo non trova l’ampiezza e il legato richiesti dalla partitura (limite massimamente evidente nei duetti con baritono e tenore), ma risulta poco o nulla udibile in ensemble. Una prova che suscita dubbi e perplessità non solo sull’allieva, quindi, ma sui precettori. Del resto è plausibile che il modello vocale e interpretativo, proposto alla signorina Corradetti, sia riconducibile alla blasonata collega del primo cast. Questo spiegherebbe, in effetti, molte cose.
Minori giustificazioni, e quindi maggiore biasimo, per i signori uomini. Giovanni Battista Parodi, la cui età anagrafica non tocca la quarantina, esibisce ormai la radiografia di una voce, svuotata e legnosa, di scarso corpo e quindi limitato impatto, affetta da un fastidioso vibrato in tutta la gamma. Riesce se non altro ad evitare le accentuazioni plebee e le cadute di gusto del suo collega del primo cast, ma un Silva così malfermo imporrebbe, almeno, l’omissione della cabaletta, e questo non per ragioni filologiche, ma per banale risparmio energetico.
Quanto a Ivan Inverardi, confesso che mi mancano gli aggettivi e persino i sostantivi per descrivere la sua prova, specie nella grande scena del secondo atto, ovviamente proposta in versione integrale. Quando si vuole censurare la rozzezza di emissione, la mancanza di musicalità, il cattivo gusto e magari le urla e i berci di un cantante, si usa tacciarlo di essere verista. Peccato che i grandi baritoni veristi, capitanati da Mario Sammarco e Carlo Galeffi, possedessero non solo un’organizzazione musicale di prim’ordine, ma fossero sempre espressivi. Riascoltati oggi, alcuni, i migliori, appaiono anche dei modelli di misura e sobrietà. Che nel canto del signor Inverardi, come nel suo modo di stare in scena, ad esempio quando deve minacciare Silva, non vi sia traccia dell’elegante tracotanza di don Carlo, non è una cosa che possa sconvolgere o stupire. Lascia per contro impietriti il ricorso, nell’azzimata seduzione di Vieni meco sol di rose, a suoni spoggiati e afonoidi, a mezza via tra il falsetto e lo sbadiglio, ben poco sonori e tuttavia rochi per lo sforzo richiesto in fase di emissione. Non siamo al teatro di prosa, forse neppure alla cosiddetta declamazione, propugnata da certi auto-eletti maestri dell’avanguardia operistica, sempre pronti a sottolineare la miseria degli spettacoli, da cui non sperino congrui motivi di soddisfazione. Quel che è certo, è che con simili presupposti non si affronta Verdi né il verismo, né altro repertorio, almeno in un contesto professionale.
Considerazione finale: che in un teatro di modeste dimensioni, per un titolo come Ernani, proposto oltretutto con sconti cospicui, praticati in biglietteria come su Facebook, non si riesca a fare il tutto esaurito, è cosa che dovrebbe indurre chi di dovere a riflettere. Se non altro per non ritrovarsi a celebrare, dopo il funerale di Ernani, quello del teatro felsineo.
Antonio Tamburini


Gli ascolti


Verdi - Ernani


Atto I

Mercè diletti amici...Come rugiada al cespite - Pier Miranda Ferraro (1965)

Surta è la notte...Ernani, Ernani involami - Margherita Roberti (1960)

Fa' che a me venga...Da quel dì che t'ho veduta - Mario Zanasi & Rita Orlandi-Malaspina (1967)

Che mai vegg'io?...Infelice, e tu credevi - Giorgio Tozzi (1962)


Atto II

Vieni meco, sol di rose - Carlo Meliciani (1969)


Atto III

E' questo il loco...Oh, de' verd'anni miei - Piero Cappuccilli (1972)

Ad augusta!...Si ridesti il Leon di Castiglia - Thomas Schippers (1962)

O sommo Carlo - Giuseppe Taddei (con Gino Penno, Caterina Mancini, Giacomo Vaghi - 1950)


Atto IV

Solingo, errante, misero...Ferma, crudele, estinguere - Giorgio Casellato-Lamberti, Mauro Rinaudo & Angeles Gulin (1978)


Leoncavallo - Pagliacci


Atto I

Sei là? Credea che te ne fossi andato - Rosetta Pampanini & Carlo Galeffi (1930)






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lunedì 7 marzo 2011

Don Giovanni a Bologna

Pomeridiana di mistero nella sala del Bibiena. Andrea Concetti ha appena eseguito l’aria del catalogo, quando risuonano dalla galleria voci, che invitano a disattivare l’amplificazione artificiale del suono. Microfoni al Comunale, dunque?

L’impianto scenografico, concepito da Pier Luigi Pizzi, prevede una scena di profondità non indifferente e sostanzialmente vuota, delimitata da specchi e pareti di velluto, da casa di tolleranza che ha visto giorni migliori. Eppure nel primo atto i cantanti, che si trovino sul fondo del palco ovvero al proscenio, risultano sempre ugualmente udibili, invariabilmente sonorissimi, mentre si produce un effetto di riverbero che riguarda non solo i suoni emessi dei solisti, ma anche i loro movimenti in scena (dal rumore dei passi al “Pst, pst” di Leporello). La stessa orchestra, di turgore quasi wagneriano (e l’assetto della buca non era certo da opera tardoromantica), fa supporre una qualche forma di manipolazione acustica. Impressione che si accresce allorché, al finale primo, si deve constatare come le voci fuori scena risuonino quasi altrettanto penetranti di quelle presenti sul palco. Permane parimente inspiegabile come il tenore Juan Francisco Gatell, udito meno di un anno fa nel medesimo teatro e altrove in Italia, possa sfoggiare una voce di volume almeno doppio rispetto al recente passato, e questo sia all’inizio del recitativo che precede il duetto, cantato sul fondo della scena, sia nell’aria del primo atto, che il cantante intona supino su un letto collocato nella parte posteriore del décor, volgendo le spalle al pubblico, forse emulo della divina Olivero alle prese con la berceuse della Dama di picche. Peraltro nel secondo atto (aperto da rinnovate proteste di una porzione sicuramente minoritaria del pubblico) l’effetto è risultato man mano sempre meno pronunciato, fino a scomparire del tutto nelle ultime scene dello spettacolo. Insomma, non erano Duracell le pile dei cantanti.
L’impressione prodotta è quella di un poco riuscito scherzo carnascialesco, o forse di un esperimento, che in qualche modo potesse ovviare alla scarsa attenzione dimostrata dallo scenografo, costumista e regista Pizzi nei confronti delle ragioni del canto. Il problema di queste operazioni, al di là delle ovvie implicazioni morali (rese ancora più cogenti dalle dimensioni tutto sommato modeste della sala bolognese), è che richiedono una preparazione non meno che perfetta, onde evitare che il tutto scivoli nel grottesco, vale a dire in una realizzazione che, uniformando i volumi e i piani sonori, renda di fatto bidimensionale lo spazio scenico. Signori, il cinema con i suoi effetti, impiegati ormai anche nella più modesta delle produzioni, non ha insegnato proprio nulla?
In tutto questo non era certo banale il compito del direttore Tamás Pál, che si è trovato a lottare, con poca fortuna, per tenere assieme orchestra e palco. I problemi in questo senso sono emersi fin dal quartetto, per comparire al massimo grado alla chiusa del primo atto, poi ancora nel sestetto e nel finale dell’opera. Praticamente ad ogni ensemble degno di questo nome. Peraltro nei due finali le orchestre previste in scena suonavano in quinta, così come il coro, nei suoi parchi interventi, era confinato nel golfo mistico. Di mistico c’era ben poco. Peccati veniali o quasi di fronte a una lettura pomposa e manierata, spesso letargica nello stacco del tempi (per poi correre a più non posso in una pagina come “Mi tradì”, in partitura Allegretto), incapace di esprimere, se non con un’esplosione sonora, il clima di orrore sovrannaturale che dovrebbe accompagnare l’ingresso del Commendatore al finale secondo. Nessun colore, nessun brio, neppure una traccia del “bel suono” di certa tradizione magari un poco deteriore, ben pochi brividi e nessun trasalimento, per un’opera che è tutto fuorché monotona e tediosa.
Protagonista era il baritono panamense Nmon Ford, alla cui prestanza fisica, sicuramente mirabile, non corrisponde adeguata preparazione vocale e musicale. Voce in natura piuttosto generosa, ma emessa tutta di gola, mostra i propri limiti nella serenata, in cui tenta di cantare piano e quindi sistematicamente spoggia e sfalsetta. Ma forse è preferibile questo approccio all’exploit del finale secondo, in cui il canto si tramuta in grido purissimo, in un discutibile approccio espressionista a una musica riconducibile a tutt’altra temperie poetica.
Male anche Leporello, il già nominato Concetti, che segue la tradizione del buffo caricato e quindi spesso e volentieri parla e non canta. Peccato che Leporello sia parte da basso cantante, come ci ricordano i soliti Hesch, Kipnis e Lazzari.
Malino William Corrò (Masetto), in fondato sospetto di tenore non sfogato, ma se non altro, rispetto ai colleghi, un poco più controllato come gusto. Malissimo Christian Faravelli (Commendatore), tonitruante e trucibaldo, davvero degno della tradizione che vede nel padre di donn’Anna un tiranno e non piuttosto l’ambiguo messaggero del destino di morte, che incalza il protagonista.
Tutto sommato positiva la prova del già nominato Gatell, che ha cantato con garbo, evitando anche, specie nelle arie, le svenevolezze tipiche degli Ottavio “light”. Il legato è perfettibile, soprattutto ne “Il mio tesoro intanto”, ma rispetto ai compagni di palcoscenico, la prova del tenor tanguero ha quasi del prodigioso.
Vocina acida e querula Manuela Bisceglie, incapace di legare due suoni nella scrittura rigorosamente centrale di Zerlina. Carmela Remigio (passata ormai definitivamente ad Elvira, dopo lunga ma non fortunata militanza quale Anna) avrebbe anche una voce adatta alla bisogna (certamente più adatta a questo Mozart che non al Devereux). Se si sforzasse di adottare un’emissione meno ingolfata, il canto di agilità ne trarrebbe sicuro giovamento e anche gli acuti, parsimoniosamente distribuiti, non risulterebbero, come ora, di volta in volta falsettati o ghermiti.
Zuzana Marková approda alla parte di Anna avendo affrontato, nella nativa Repubblica Ceca, quella di Zerlina e, inoltre, Susanna e Papagena. Praticamente il repertorio della soubrette mozartiana di cabotaggio centrale. Il programma di sala la indica fra gli interpreti dell’Aureliano in Palmira in cartellone al prossimo festival di Martina Franca. Basandoci sulla prova bolognese, avremmo delle remore ad affidarle il ruolo della seconda donna. La voce è di soprano leggero, com’è ormai costume per le interpreti di questa parte, ma la tecnica è meno che da principiante, portando l’avvenente soprano a singhiozzare sul passaggio di registro (scena della scoperta del cadavere del padre), a falsettare la grande aria del primo atto e a pigolare il rondò, specie nella sezione conclusiva (un plauso alla professionalità con cui Gatell ascolta, a pochi centimetri di distanza e nella più totale immobilità, un simile esempio di malcanto). Ancora peggio il duettino al finale secondo (“Or che tutti o mio tesoro”), sistematicamente calante d’intonazione. Praticamente inesistente nelle scene d’assieme, la signora Marková è il vero punto interrogativo della produzione.
Un interrogativo che va esteso allo spettacolo firmato, o meglio, griffato Pier Luigi Pizzi. I nostri detrattori amano dipingerci quali entusiastici ammiratori della piatta illustrazione librettistica. Pizzi dovrebbe quindi costituire il non plus ultra del nostro modo d’intendere la regia d’opera. E così è stato per spettacoli come la celebre Semiramide di Aix. Ma in questo Don Giovanni non c’è nulla, neppure il conforto di una lussuosa confezione, quella che la premiata ditta Pizzi spesso offre anche nelle sue ciambelle senza buchi. L’imbarazzante minimalismo (un onnipresente letto sfatto, qualche sedia, un canapè, gli specchi, le tende nere e stop) si accompagna a un’altrettanto imbarazzante assenza di direzione di attori, sostituita da una presenza costante di comparse, giovani e piacenti, d’ambo i sessi, che si accarezzano promiscuamente, in una sorta di “Don Giovanni delle pari opportunità” che potrà suscitare scandalo e magari altro esclusivamente nei membri più attempati del pubblico. Significativa in questo senso la scena finale, in cui il protagonista è assalito da un branco di spiriti seminudi e cosparsi di gesso (o forse borotalco), che evocano un Inferno a metà strada fra l’horror alla Lucio Fulci e il softcore. Quanto all’esaltazione della fisicità di un cast di cantanti “giovani e belli”, come qualcuno certo li definirà, non possiamo fare a meno di osservare come certi dettagli anatomici consiglino non già la pubblica esibizione degli stessi, ma un rapido ritorno a una minore ostentazione e a un rapporto più frequente e fruttuoso con massaggiatori e personal trainer.
Nonostante i compri scandalizzati, morigerate contestazioni.




Gli ascolti

Mozart - Don Giovanni


Atto I

Madamina, il catalogo è questo - Virgilio Lazzari (1937)

Fin ch'han dal vino - Samuel Ramey (1987)

Atto II

Vedrai carino - Lucrezia Bori (1937)

In quali eccessi, o Numi...Mi tradì quell'alma ingrata - Ilva Ligabue (1970)

Non mi dir, bell'idol mio - Karin Ott (1981)

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venerdì 15 ottobre 2010

Traviata a Bologna

È grande, davvero grande e degno di lode il professionismo di Mariella Devia, che a sessantadue anni suonati si toglie lo sfizio di riproporre al pubblico italiano la sua Traviata. In un mondo di cantanti perennemente indisposti, a volte persino a loro insaputa (non si spiegano altrimenti taluni comunicati ufficiali, che giungono quando la serata è ormai conclusa, ovvero diramati nei giorni successivi alla recita da fonti ufficiose, ma amiche e latinamente familiari), il soprano ligure affronta uno dei titoli da vertigine del repertorio ottocentesco senza un attimo di esitazione, senza farsi distrarre dagli improvvidi compagni di avventura (e non deve essere stata impresa facile), senza sottrarsi alle richieste fisicamente onerose di una regia che prevede un brindisi da intonarsi in piedi su un tavolino (con tanto di lancio di scarpe stile Callas) e un terzo atto ambientato in una camera da letto priva di letto, canapè e ogni altro arredo.

Purtroppo, non sempre il professionismo basta a risolvere una serata. Specie se il professionismo in questione non trova in orchestra un adeguato sostegno.
All’entrata la Devia mette in luce il suo tallone d’Achille, un registro basso che risulta poco sonoro e ovattato persino nella sala, acusticamente assai propizia, del Comunale. Le scene di conversazione al primo atto scorrono prive di mordente, mentre il brindisi vede la signora fraseggiare con maggiore varietà, sebbene al centro la voce accusi ben più che un principio di senescenza e, nei momenti in cui la cantante canta sul mezzoforte, risulti decisamente forzata. Il duetto con il tenore, staccato dal direttore a tempo letargico (scelta che è una delle costanti di questa Traviata), scorre senza particolari sussulti, mentre il finale primo, eseguito senza tagli di sorta, si segnala soprattutto per la lunghezza dei fiati nel cantabile, lunghezza che consente alla Devia di inanellare le frasi musicali quasi senza soluzione di continuità. Un numero da autentica virtuosa, cui però non fa riscontro un’analoga disinvoltura nel legare centro e acuti (penso alla salita al la bemolle di “solinga ne’ tumulti”, che a ogni enunciazione, salvo la terza, è risolta con suoni non sempre saldissimi). Salvo un piccolo trasporto all’acuto nella seconda strofa del cantabile, l’intera scena, cadenze comprese, è eseguita “come scritto”: una scelta francamente incomprensibile per un soprano assoluto, quale è la signora Devia, che potrebbe solo trarre giovamento da puntature, riscritture e trasporti, in un ruolo come quello di Violetta, massime in una scena che ha sempre visto brillare i soprani di coloratura (i tanto sbertucciati – oggi – usignoli) per numero e varietà di interpolazioni. Naturalmente servirebbe un direttore in grado di consigliare la cantante e, nel caso, dissuaderla dal proporre entrambe le strofe di “Ah fors’è lui” (ma il discorso vale, mutatis mutandis, per l’”Addio del passato”), se la seconda strofa deve risultare identica alla prima, senza una variazione o un colore a differenziare le due enunciazioni delle medesime frasi musicali. La tradizionale puntatura al mi bemolle sovracuto in chiusa è mantenuta e risolta con un suono penetrante ma d’intonazione non immacolata.
Al duetto con Germont padre la Devia risulta fioca e poco incisiva nel “Non sapete quale affetto” (anche qui un tempo più mosso in orchestra le avrebbe sicuramente giovato), più sicura e sonora nel “Così alla misera”, malgrado il centro suoni ancora tendenzialmente chioccio, mentre la cantante monta in cattedra ed è formidabile nella perorazione “Dite alla giovine”, risolta tutta in pianissimo, con un legato di tenuta impressionante, anche in considerazione dell’età. Viene da chiedersi perché la Devia non applichi la medesima strategia nel corso dell’intera opera e non moderi, come fa invece in questo passaggio, il volume nel tentativo di occultare, per quanto possibile, la non più intatta freschezza timbrica. Paura di essere considerata gelida e inespressiva?
Puntualmente all’”Amami Alfredo”, staccato, manco a dirlo, a un tempo catatonico, si ripresentano suoni duri e spinti al centro. Per reggere una simile agogica e dinamica orchestrale, occorrerebbe una voce di diversa consistenza e altra malia timbrica, oltre che una maggiore dimestichezza con il fraseggio in un repertorio diverso da quello belcantista, autentico terreno di elezione della Devia. La passione e la disperazione di Violetta, sembra inutile ricordare, non solo quelle di Elvira o di Lucia.
La scena della festa di Flora vedono la cantante un poco meno in affanno, complice i tempi più rapidi adottati da Mariotti, sebbene per le grandi frasi “Ah perché venni incauta” valgano le considerazioni esposte per l’arioso del quadro precedente. Di nuovo grande tenuta dei fiati e maggiore sonorità, pur con qualche suono spinto, alla chiusa del secondo atto, in cui finalmente sentiamo una Violetta in grado di “tirare” il concertato e di non farsi sommergere dall’orchestra, qui opportunamente tenuta a freno (almeno sino ai fragorosi accordi conclusivi).
Nel terzo atto la Devia ha declamato con enfasi un poco grottesca la lettera, ha legato i suoni con minore facilità rispetto agli atti precedenti, brillando nel “Parigi o cara” soprattutto per la qualità della mezzavoce (e il confronto con l’Alfredo di turno le ha sicuramente giovato). Anche qui, e più che negli atti precedenti, si sono avvertiti, oltre alla naturale stanchezza, i limiti della belcantista alle prese con un ruolo agli antipodi rispetto al proprio repertorio abituale. E non è solo questione di tessitura, ma di colori e di fraseggio.
Intendiamoci bene: quella della Devia è una signora prestazione, non solo in rapporto al deprimente presente, ma in senso assoluto. È il frutto, l’ennesimo, di una cantante che non solo si prepara con scrupolo, ma padroneggia gli strumenti del canto professionale e conosce le proprie potenzialità. A differenza di certi sostenitori fanatici, magari dell’ultima ora o quasi, e malgrado annunci di futuri debutti, che speriamo rimangano sulla carta. E lo speriamo in primo luogo per la Devia, perché nulla è più imbarazzante, per un grande cantante, del barcamenarsi in un ruolo troppo gravoso o troppo distante dalla sua vocalità.
Sebbene l’etichetta della Scuola dell’Opera Italiana, diletta alla gestione Tutino, accompagni anche questa produzione bolognese, i due Germont sono cantanti in piena carriera e per giunta di grandi mezzi naturali (la voce del tenore è bella anche sotto il profilo timbrico). A differenza della protagonista, però, entrambi praticano un canto a dir poco brado e i risultati sono costernanti. Il tenore Fernando Portari ha cantato per l’intera serata fra naso e gola, singhiozzando a ogni tentativo di smorzatura e riducendo la mezzavoce a un sistematico falsettino. Un poco meglio Stefano Antonucci, che ha esibito voce legnosa e qualche slittamento d’intonazione sugli acuti, ma anche un gusto un poco più sorvegliato rispetto al rampollo scenico. Di totale e condivisibile saggezza la scelta di omettere, per questo claudicante Germont père, la cabaletta dell’aria.
Nel folto stuolo di comprimari (questi sì, accademici) ha brillato il Grenvil di Masashi Mori, voce ampia e sonora che riascolteremmo volentieri in ruoli più impegnativi.
Della direzione di Mariotti abbiamo in sostanza già detto, aggiungendo che i principi alla base di questa lettura (suono terso, tempi dilatati, contenimento del volume orchestrale) hanno conferito alla musica un tono a dir poco soporifero (particolarmente nel preludio al terzo atto), smentito solo dal quadro della festa di Flora, in cui la direzione è parsa ingranare un’altra marcia (con l’eccezione di un’entrata delle zingarelle, che evocava un gruppo di signore bene in visita alla presidentessa del circolo letterario di quartiere).
La regia di Antoniozzi (ovviamente, un nuovo allestimento) vede la solita trasposizione del dramma negli anni Sessanta, con un ricevimento in casa di Violetta che richiama quello in apertura del film “Signore & Signori”, una festa di Flora in cui la proiezione di filmati alla “Sangue e arena” vorrebbe mascherare in qualche modo l’immobilità del coro (a tratti sembra di assistere a un concerto in abiti di scena) e un terzo atto che, con la sua scena vuota e la trovata di una controfigura di Violetta, che rimane accasciata a terra, evoca quei teatrini off che offrivano una sorta di parodia involontaria degli spettacoli del Living Theater. Anche qui, rose e fiori rispetto ad altre Traviate (nonché al Don Pasquale accademico dello scorso anno), tuttavia ci domandiamo se non sarebbe stato meglio, per risparmiare qualche spicciolo, riprendere lo spettacolo di Irina Brook, proposto sempre a Bologna non più tardi di cinque anni fa.


Verdi - Traviata

Atto I

E' strano - Luisa Tetrazzini (1908)

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venerdì 23 luglio 2010

Saggio di fine anno al Comunale di Bologna

Il Comunale di Bologna affida come di consueto ai propri cadetti l'onore e l'onere dello spettacolo estivo. Le passate stagioni i titoli prescelti erano stati L'Olimpiade di Leonardo Leo e Madama Butterfly. Quest'anno, modestia e prudenza hanno consigliato alla dirigenza felsinea di orientare gli allievi della locale Scuola dell'Opera verso titoli un poco più abbordabili: la Serva padrona e un'operetta di Offenbach, Pomme d'Api. Titoli peraltro deliziosi e degni di grande considerazione, e che esigono organici e abilità vocali ed espressive, che con maggiore facilità possono trovarsi in un "vivaio" ovvero conservatorio di livello almeno accettabile.

Certo i brutti cattivi e prevenuti compilatori del Corriere sono all'occasione sfiorati dal dubbio che la modestia e prudenza della scelta siano dettate dall'oggettiva impossibilità, da parte del teatro bolognese, di servirsi delle forze di spicco della Scuola, attualmente impegnate in quel di Martina Franca a infondere nuova vita a titoli dimenticati (in primo luogo da sovrintendenti e direttori artistici) del Belcanto.
Il dubbio cresce, si rafforza e si sostenta col leggere sul programma di sala che il dittico Pergolesi-Offenbach costituisce una produzione con svariati istituti teatrali di primo piano (Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, dove peraltro l'opera del genius loci sarà presentata nella sua versione francese, Teatro Rossini di Lugo, Festival della Valle d'Itria, appunto, Fondazione Teatro Due di Parma, IUAV di Venezia) e che quindi accampa con qualche fondata ragione (specie economica) pretese di eccellenza, che esulano dall'ambito di normale competenza di una recita scolastica.
Come spesso accade il risultato in teatro confligge pesantemente con le ambizioni annunciate dal cartellone e induce ad alcune riflessioni.
La prima è che le voci gravi sono estinte o quasi, e non per insondabili misteri di natura, ma per schietti problemi tecnici. Nella Serva il prescelto Uberto, Davide Bartolucci (che approda al ruolo avendo già sostenuto nello stesso teatro parti ben più consistenti, non ultima quella del dottore Malatesta), ha voce non già di baritono Martin, ma di schietto tenore, di contenuto volume perché di insufficiente proiezione, bianca e 'tirata' in acuto (i fa dell'aria "Sempre in contrasti"), al limite dell'udibile in basso (aria "Sono imbrogliato io già"), sempre meno ferma e stabile con il passare dei minuti e l'aumentare della fatica. Inoltre, forse per scelta registica, spesso la linea vocale si piega ad effetti di semplice parlato, non solo nei recitativi ma anche nelle arie ("or questo basti, basti, BASTI!"). Peccati veniali, o quasi, di fronte alla performance di Mattia Campetti, che dopo essere stato un torvo e simpatico Vespone nella Serva passa al ruolo del celibatario incallito di Pomme d'Api, cantando l'elementare parte con voce ingolfata e cavernosa, traballante almeno quanto il francese esibito nei dialoghi parlati. La disinvoltura dell'attore non fa che sottolineare la scarsa tenuta del cantante.
La seconda riflessione riguarda la componente femminile dello spettacolo, che pur esibendo doti vocali più interessanti rispetto alla controparte maschile non è stata comunque all'altezza (non insormontabile) del compito. Lavinia Bini, in particolare, pur con uno strumento di tutto rispetto (nei duetti faceva scomparire il partner), ha emesso suoni poco o nulla appoggiati, in un'imitazione (non sappiamo dire se conscia o inconscia) di quello che oggi passa per modello vocale della categoria del soprano di coloratura, Diana Damrau. Il risultato è che nell'aria "Stizzoso mio stizzoso" basta un semplice la acuto (che per un soprano, che in natura sarebbe assoluto, è una nota centrale o quasi) per indurre la Bini a emettere suoni più vicini allo strilletto che al canto lirico. Quanto alla tenuta complessiva, dopo una prima parte affrontata con l'ausilio della vigorosa natura, il soprano ha cantato con voce molto meno sonora l'arietta patetica "A Serpina penserete", parodia della vocalità dell'opera pastorale, finendo per indebolire la scaltra seduzione attuata dalla servetta. Anna Maria Sarra, in Pomme d'Api, ha cinguettato graziosamente la parte di Catherine, di scrittura prevalentemente centrale e quindi poco o nulla udibile già dalla metà della non foltissima platea. Entrambe le signorine sono spigliate nella recitazione (pur con qualche incertezza da parte della Sarra nelle primissime scene dell'operetta), ma come per i signori, anche questa è lungi dall'essere una circostanza attenuante circa la tenuta del loro canto.
Un discorso a parte merita Francisco Brito, che canta la parte del tenore in Pomme d'Api con eleganza, ma anche con voce debolissima al centro, più sonora ma anche chévrotante e di dubbia intonazione nelle parche escursioni all'acuto (con un paio di puntature discutibili, per gusto ma soprattutto per risultato), legato poco o nulla consistente. Anche in questo approccio all'archetipo del tenore di grazia non si fatica a rintracciare un modello, quello di Juan Diego Florez. Del resto non è strano che un giovane cantante tenti di imitare il più quotato tenore belcantista del mondo. Sarebbe peraltro compito dei suoi tutori proporre al giovane cantante altri e diversi modelli di canto.
Alla testa dell'orchestra del Comunale in formazione da camera, Salvatore Percacciolo ha diretto con poca verve e qualche sbavatura (specie nell'intermezzo pergolesiano), senza rendere un grande servizio alla musica. Forse un direttore più navigato avrebbe saputo trarre maggiore partito dai virgulti della Scuola dell'Opera.
Allestimento anche questo "accademico" (scene di Giada Tiana Claudia Abiendi e Lucia Ceccoli, costumi di Massimo Carlotto, Manuel Pedretti, Vera Pierantoni Giua, luci di Daniele Naldi, regia di Stefania Panighini), decisamente cupo per la Serva, vista come un triangolo erotico fra il morbosetto e lo psicanalitico (Carsen?), ugualmente minimalista ma più scanzonato e ammiccante - e quindi ben più rispettoso del testo - per Pomme d'Api.
Pubblico poco folto (malgrado sconti e biglietti omaggi generosamente profusi su Facebook, erano pieni - ma lungi dall'essere esauriti - solo il primo ordine dei palchi e la platea) e successo di cortesia al termine della rappresentazione.



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lunedì 21 giugno 2010

Edgar al Comunale di Bologna

Venerdì nel teatro felsineo ha debuttato l'ultimo titolo prima della pausa estiva: Edgar, seconda opera di Puccini, scelta invero poco consona a un weekend di tarda primavera, sia pur umido e uggioso.

Il titolo è stato proposto non nella versione definitiva, in tre atti, ma in quella originale, in quattro, seguendo un malinteso spirito “ultrafilologico” che persino il festival, istituzionalmente preposto alla valorizzazione del catalogo pucciniano, non aveva ritenuto di onorare al momento di allestire l’opera in questione.
Il teatro era semideserto, con molti posti vuoti in platea, consistenti “forni” nei palchi (e questo malgrado la svendita dei biglietti relativi, operata tramite la pagina Facebook del teatro) e un loggione in cui gli sparuti spettatori non arrivavano neppure a colmare la prima fila di posti. Ulteriori defezioni si sono avute in occasione dei due intervalli.
La serata, per la cronaca, si è conclusa a mezzanotte passata, anche perché, prima dell’inizio dell’opera, è stato proiettato un video, realizzato dai lavoratori del Teatro, e volto a sensibilizzare il pubblico sul tema dei tagli allo spettacolo. Sensibilizzazione che è proseguita con l’annuncio di uno sciopero bianco in ragione del quale alcuni artisti di orchestra e coro avrebbero devoluto parte dei loro compensi in beneficenza.
L’iniziativa è senz’altro nobile e meritoria, ma come nel caso della Carmen, a questi annunci dovrebbe seguire uno spettacolo meno zoppicante rispetto a quanto proposto l’altra sera.

L’opera, diciamolo subito, non è un capolavoro: patisce un libretto a dir sconsolante, ma anche il trattamento musicale presenta più di una battuta d’arresto, con svariate lungaggini soprattutto nel secondo e quarto atto. E non per caso proprio su questi si incentrarono le modifiche apportate dall’autore nelle due revisioni successive. Puccini ha ben presente la lezione dell’opera francese e costruisce grandi quadri in cui i numeri chiusi, romanza, duetto o concertato che siano, si succedono senza soluzione di continuità. Con i lunghi passaggi di declamato sugli infelici versi di Ferdinando Fontana, l’autore sembra predisporre le prove generali del canto di conversazione che tanta parte avrà nelle opere successive, e anche la scrittura orchestrale (specie nei preludi al terzo e quarto atto) fornisce ampi saggi del valore del musicista come strumentatore. Il trattamento delle voci, invece, non è sempre felicissimo e sembra, in alcuni punti, al limite delle possibilità umane. Ma questo brillante risultato è in buona parte da ascrivere al plateau riunito per l’occasione.

La parte del protagonista, che ebbe fra i primi interpreti Francesco Tamagno (a Madrid) e Giovanni Zenatello (al Colón di Buenos Aires), trova in José Cura un interprete ridotto ai minimi termini. E non parliamo certo della tecnica, che mai è stata all’altezza del repertorio e dei titoli affrontati, ma proprio dello strumento, che suona opaco, larvale in basso, privo di spessore al centro, fibroso e gridacchiato in acuto. Ogni tentativo di cantare piano e di dare senso alle frasi, soprattutto se in zona centro-acuta, fa sì che la voce vada indietro, con abbondante messe di suoni spoggiati e bianchicci, non di rado stonacchiati (soprattutto nel monologo del secondo atto). In queste condizioni la decenza consiglierebbe il ritiro dalle scene e la prosecuzione della carriera musicale, se del caso, in altri ambiti, ad esempio quello della direzione d’orchestra, in cui l’argentino ha offerto, proprio in Bologna e nel repertorio pucciniano, una prova ben più brillante rispetto a quest’ultimo deludente cimento.

Nei panni di Fedelia Patrizia Orciani, subentrata in corsa alla dileguata Svetla Vassileva, ha esibito i resti di una gradevole voce di soprano leggero, eseguendo scolasticamente il primo atto (sia pure con uno strumento che non ha, specie in prima ottava, l’ampiezza e la capacità di penetrazione richiesta dallo spessore dell’orchestra pucciniana: nel finale primo, in cui il soprano deve “tirare” il concertato, era difficile accorgersi della sua presenza) e soccombendo nel terzo e nel quarto, per l’incapacità di legare al centro e per la tendenza a stonare nella zona del passaggio superiore. Gli acuti, poi, sebbene più ampi rispetto al resto della gamma, erano suoni tutt’altro che piacevoli a udirsi. Clamorosa l’improntitudine del “fan” che ha azzardato uno stentoreo “Brava!” dopo l’imbarazzante esecuzione dell’aria del terzo atto, aria che proponiamo, per ogni opportuno confronto e riflessione, affidata alla voce, e più ancora all’eloquenza, di Raina Kabaivanska.

Tigrana, parte creata alla prima scaligera da Romilda Pantaleoni (prima Desdemona) e poi di fatto condominio di mezzosoprani (Giuseppina Pasqua, a Madrid) e soprani drammatici (Giannina Russ, al Colón), era affidata a Giuseppina Piunti. La signorina Piunti si era esibita a Bologna un paio di stagioni fa, quale Adalgisa. Ci era parsa un soprano lirico di buona voce, ma con molte cose da sistemare in zona centro-acuta. Due anni dopo, i gravi permangono poco udibili (canzone al primo atto) e l’ascesa all’acuto assai impervia (brindisi al secondo, pagina ostica anche in ragione di un minimo di coloratura previsto in spartito). Persino il timbro è drasticamente impoverito rispetto a quanto ricordassimo. La voce è un po’ più sonora nella romanza del terzo atto, ma a prezzo di una notevole fatica nelle grandi frasi legate in zona centrale. Ottima la presenza scenica.

Frank era Marco Vratogna. La parte, meramente decorativa e vocalmente non certo proibitiva (il che non scoraggiò l'approccio di alcuni dei più forbiti baritoni fra Otto e Novecento, capitanati da Antonio Magini-Coletti e Mario Ancona), gli ha consentito di figurare un poco meglio rispetto ad altre occasioni. Il canto, nella romanza al primo atto, è quello di sempre, fibroso e di scarsa qualità nel legato.

Discreta la prova di orchestra e coro, mentre la direzione di Mario De Rose ha trovato i suoi momenti più felici nelle pagine di carattere idilliaco del primo e quarto atto, risultando invece greve e bandistica tanto nel furore orgiastico del secondo quanto nella solennità funerea del terzo. Qualche lieve sfasamento fra buca e palco negli attacchi del coro fuori scena, ma anche a questo siamo ormai avvezzi.

La regia di Lorenzo Mariani, che spostava l’azione dalle Fiandre trecentesche a una sorta di campagna padana risorgimentale (con tanto di corazzieri e bandiere di casa Savoia), era piatta e decorativa al punto da far rimpiangere una bella esecuzione in forma di concerto, che nulla avrebbe sottratto ai meriti della partitura e avrebbe comportato un discreto risparmio per le casse, già molto provate, del Teatro.


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domenica 28 marzo 2010

Elisir d'amore a Bologna

Vorremmo uniformarci al precetto pasquale di imminente applicazione e parlarvi con animo lieto e giocondo dell’Elisir d’amore andato in scena ieri sera al Comunale di Bologna. Purtroppo, come ci insegna la Storia, non sempre le aspirazioni individuali, neppure le più legittime, sono destinate a realizzarsi.
La settimana scorsa June Anderson ha dimostrato in terra felsinea che si può fare arte anche nel più minuscolo dei teatrini di provincia. Ieri sera la sovrintendenza bolognese ha ribadito, per l’ennesima volta, che il blasone di un teatro non lo mette automaticamente al riparo dal rischio di proporre spettacoli, a esser buoni, parrocchiali.

Non è questione, come sicuramente obietteranno i nostri più fidati lettori, di non sapere apprezzare l’apporto, magari claudicante ma così vitale, delle giovani forze destinate a portare nuova linfa al teatro. O magari di non voler bene al Teatro bolognese, quasi fosse un parente o un amico di vecchia data.
L’Elisir in questione, presentato alla stampa e dalla stampa come spettacolo dei cadetti della Scuola dell’opera, di scolastico ha in realtà ben poco. Di quattro prime parti ben tre sono state affidate a cantanti in piena carriera, per i quali le attenuanti legate alla scarsa esperienza sulle tavole del palcoscenico non possono e non debbono valere. Si conferma così la tendenza lanciata dal Don Pasquale dello scorso anno e ripresa in questa stagione dall’Idomeneo: si assembla un cast di professionisti, magari al debutto nelle rispettive parti, e lo si “tutela” affiancandovi, al massimo, una o due nuove leve. L’amore per i giovani, tanto sbandierato da questa sovrintendenza, ha molto della carità pelosa di dapontiana memoria.
Però poi nessuno si stupisca se il teatro, malgrado i prezzi stracciati, stenta a riempirsi. Ieri, all’abbassarsi delle luci, c’erano molti posti vuoti in platea e almeno quindici palchi completamente deserti. E questo certo non si può imputare alla rarità del titolo prescelto.
Venendo ai cantanti, la prova di Juan Francisco Gatell non riesce a dissipare le perplessità che questo giovane artista suscita a ogni nuova apparizione sui nostri palcoscenici. La voce è piccola, ma questo è un difetto che si avverte poco, in una sala dalle dimensioni contenute come quella del Bibiena. Assai più grave è che sia bianchiccia e tremolante, indice di un’emissione poco sicura e bloccata in gola. Quindi non solo poco squillo e nessuna espansione all’acuto (Nemorino sta in acuto assai poco, del resto), ma, e questo è decisamente più grave, una dinamica inesistente, bloccata su un costante “forte” (che poi, dato il ridotto spessore vocale, è di fatto un “mezzoforte”), nessun colore, nessuna smorzatura, nessuna idea di fraseggio degna di questo nome. Stenta e falsetta alla sortita, davvero spettrale, accenna al duetto con Adina, canta di dote naturale (che non è molta, ma è sufficiente in questo contesto) il duetto con Dulcamara e deve quindi tornare a suoni larvali per il finale d’atto, in cui si confonde letteralmente nel coro. Al secondo atto la musica non cambia: pallido e privo di poesia il duetto con Belcore, un poco meglio la scena con le ragazze in cui accenta se non altro con proprietà il passaggio “Io già m’immagino che cosa brami”. La “Furtiva lagrima” è cantata con voce un poco più piena e addirittura, nella seconda strofa, un accenno di forcella, risolta però malamente e con qualche scivolata d’intonazione. Il pubblico gli ha decretato un piccolo trionfo, anche per la buona resa scenica, ma di qui a parlare di grande prova… ci vuole un amore di cui, ahinoi, non disponiamo!
Gezim Myshketa, che un paio d’anni fa aveva dimostrato un certo garbo nello sciagurato adattamento dell’Orphée realizzato dai fratelli Alagna, ha inteso assecondare sul piano vocale la regia, che dipinge Belcore come una sorta di bulletto di periferia. La voce è grossa ma non ampia, per limiti tecnici più che per limitata natura, di colore chiaro, che il cantante si sforza di bitumare nel malinteso tentativo di renderla più seducente o magari più adatta a un “villain”, abbastanza squillante in acuto, tanto da suscitare il sospetto di trovarci di fronte all’ennesimo tenore, reso baritono dall’impossibilità di eseguire correttamente il passaggio di registro. La sortita dimostra l’assoluta incapacità del cantante di eseguire le agilità previste, risolte con un borbottio poco rassicurante. Nel canto del baritono albanese si cercherebbero invano la dinamica sfumata, le mezzevoci insinuanti, le mille inflessioni della seduzione baldanzosa, ma sempre elegantissima, dell’azzimato sergente. Quelle inflessioni che erano verosimilmente la cifra dei grandi Belcore ottocenteschi, da Tamburini a Battistini, sino a don Antonio Scotti, di cui proponiamo la sortita, per ogni opportuno confronto. Ora, senza arrivare a imitarli in tutto, Myshketa potrebbe trarre sicuro giovamento da una respirazione un poco più solida, sulla scorta di simili modelli. Ieri sera il suo voluminoso torace denotava, nella sua immobilità, una totale latitanza in tal senso.
Michele Pertusi, ormai, dopo l’esperienza del Don Pasquale, deputato “coach” della Scuola dell’Opera, ritorna a Bologna con una parte quanto mai acconcia alle sue attuali condizioni vocali. A poco serve ripulire il personaggio dalle caccole di tradizione, quando ciò che resta è un canto legnoso e opaco, privo della cavata del vero basso come della saldezza in alto del baritono, faticosissimo nei tanti sillabati previsti dal ruolo (segnatamente nei duetti). Anche lui, al pari di Gatell, in assieme fatica a spiccare ed è facilmente coperto dall’orchestra.
Veniamo ad Anna Corvino, unica vera allieva della serata fra le prime parti. L’anno scorso la giovane artista aveva cantato, sempre a Bologna, una recita di Rigoletto affidata (stavolta per davvero) ai cadetti della Scuola dell’Opera. Siccome, a dispetto della vulgata corrente, siamo davvero buoni e misericordiosi, ci eravamo astenuti dal recensire quella Gilda, diciamo, stentata. Nell’Elisir la Corvino trova una parte decisamente più consona ai suoni mezzi naturali, che sono quelli del soprano leggero. Di certi soprani leggeri del passato la cantante, sia detto en passant, possiede anche la giunonica complessione, che la regia non si perita di mettere in evidenza con minigonne e shorts. Purtroppo il parallelo termina qui, perché l’impostazione canora è meno che da principiante. La voce, in difetto di appoggio (un difetto che appare ricorrente fra le fila degli allievi bolognesi), suona chioccia al centro, prossima all’inesistente in basso, stridula in alto, fascia in cui l’intonazione non è sempre impeccabile, specie negli acuti generosamente interpolati in chiusura delle arie. L’assenza di una corretta emissione impedisce alla cantante di legare le frasi a dovere e all’interprete di delineare un personaggio che non sia smanceroso e manierato.
Si taccia della Giannetta di Anna Maria Sarra, poco o nulla udibile. Per fortuna.
Sotto la direzione di Daniele Rustioni l’orchestra e il coro hanno offerto una prova un poco più dignitosa di quella proposta nell’Idomeneo. Certo, malgrado la rotazione delle bacchette, la gestione dei concertati (stretta dell’introduzione, finale primo, scena delle fanciulle al secondo atto) rimane a dir poco problematica e induce a interrogarsi, prima ancora che sul livello di preparazione, sulla capacità di concentrazione della masse artistiche del Teatro. Poi, come per i cantanti, sarebbe vano attendersi una direzione capace di differenziare, nel duetto Adina-Nemorino, le frasi, musicalmente identiche, che accompagnano le frivole dichiarazioni della giovane e le malinconiche riflessioni del suo innamorato, o ancora, nel concertato “Adina credimi”, dinamiche e colori diversi per i differenti stati d’animo dei personaggi e del coro. Mancano poi completamente a questo Elisir la grazia della commedia fintamente popolaresca e l’elegia del personaggio di Nemorino, soprattutto al secondo atto. C’è un discreto ritmo, e nulla più. In una parola: routine. Di provincia, appunto.
La regia era affidata a Rosetta Cucchi, personalità poliedrica e poliforme, come ci svela il suo curriculum: regista, pianista accompagnatrice di numerosi cantanti, fra cui Mariella Devia, coordinatrice della preparazione musicale presso il ROF e il Festival di Wexford, di cui è anche segretario artistico e che coproduce con il Comunale questo nuovo allestimento di Elisir. La signora Cucchi è inoltre direttore artistico del Lugo Opera Festival e della Fondazione Toscanini di Parma. Ovvio che non le resti molto tempo per dedicarsi alla regia, e quindi non stupisce che questo Elisir ricicli la solita idea (già vista dozzine di volte, specie nei teatri tedeschi) dell’ambientazione moderna in un contesto scolastico, tra “Grease”, “Saranno famosi” e un film a caso di John Hugues. Il giochino funziona discretamente, se si eccettua il già citato fraintendimento della figura di Belcore, cui si sarebbe potuto rimediare facendo del reggimento una sorta di accademia militare, in modo da salvare i riferimenti al forzoso arruolamento di Nemorino e al “fatale contratto” riscattato da Adina. Resta però da chiarire come possano risultare credibili, in un contesto metropolitano e contemporaneo, i richiami ai “rustici” da parte di un Dulcamara vestito come un vecchio hippie e soprattutto la disarmante credulità di Nemorino, la cui limitata esperienza del mondo mal si addice a un teenager di oggi.
Chiudiamo, al solito, con qualche ascolto, precisando che le Furtive lagrime proposte appartengono a cantanti che si sono esibiti nel titolo a Bologna. Vorremmo dedicare questi ascolti non al sovrintendente e direttore artistico Marco Tutino, che sicuramente li conosce benissimo (è il suo lavoro) e che ieri sera sedeva nel suo palco, applaudendo con grande entusiasmo gli interpreti da lui stesso scelti, bensì a quegli spettatori, ieri sera in visibilio per le prodezze vocali e sceniche di questo Elisir, che forse ne ignorano anche l’esistenza. Speriamo vivamente che, ad ascolto avvenuto, qualcuno fra tali plaudenti possa, una volta censurata la cattiveria, malafede e presunzione che abbiamo dimostrato in queste poche righe, farci sapere se e come tale ascolto abbia modificato la percezione della serata di ieri.
Quasi dimenticavo: che bell’opera l’Elisir! Che bella musica!


Gli ascolti

Donizetti - L'elisir d'amore


Atto I

Come Paride vezzoso - Antonio Scotti (1905)

Udite, udite, o rustici - Gaetano Azzolini (1927)

Obbligato, ah sì, obbligato - Fernando De Lucia & Ernesto Badini (1907)

Adina credimi - Tito Schipa (1928)

Atto II

Venti scudi - Enrico Caruso & Giuseppe De Luca (1919)

Una furtiva lagrima - Alessandro Bonci (1918), Tito Schipa (1929), Cesare Valletti (1953)

Prendi, per me sei libero - Lina Pagliughi (1934)


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mercoledì 19 novembre 2008

Con le migliori intenzioni: Simon Boccanegra a Bologna


La stagione del Teatro Comunale di Bologna si apre con una nuova produzione di Simon Boccanegra. Nuova in tutto: nell’allestimento, nel cast (composto perlopiù da giovani interpreti, segnatamente nella seconda compagnia), nella bacchetta scelta a condurre in porto una delle più belle e complesse opere di Verdi. Insomma, si respira la stessa aria le cui fragranze ci sono divenute familiari nel corso dell’ultima edizione del Rossini Opera Festival, e analoghi appaiono i risultati. Certo, bisogna tener conto che per molti si trattava di un debutto nel titolo, e per alcuni addirittura di un debutto tout court nel repertorio di fine Ottocento: ma sarebbe fare un torto al professionismo degli interpreti, e soprattutto a una scena forse declinante, ma dalla storia gloriosa, come quella di Bologna, parlare di questo Simone quasi non foss’altro che un saggio di fine anno in Conservatorio.


Va detto che, memori della claudicante Italiana in Algeri della passata stagione e di un pomposo concertino nazional-popolare del mese scorso, a base di pagine del melodramma italiano che parevano riscritte per coro e banda, ci attendevamo ben poco dalla concertazione di Michele Mariotti. Il giovane direttore si è evidentemente preparato a lungo sulla partitura del Simone, optando per tempi stringati (slentati qui e là, verosimilmente onde non perdere le fila della polifonia) e concentrandosi più sulla compattezza degli assieme che sul cesello delle singole parti. Insomma, quella che ne è uscita è una lettura scolasticamente corretta (a parte le inevitabili, a chi non abbia lunga pratica del titolo, sfasature in taluni attacchi - penso in particolare al Palazzo degli Abati - e gli evitabilissimi spernacchiamenti di ottoni non sempre disciplinati) che non è ancora interpretazione, vuoi per la giovane età di un Maestro alla sua prima avventura nel melodramma verdiano, vuoi per la non certo esaltante qualità di un doppio cast che ha faticato non poco (con le debite eccezioni, si intende) per passare l’orchestra e, più ancora, presentare agli spettatori una lettura purchessia del dramma che Piave e in seguito Boito derivarono da Gutiérrez.

Ma com’è noto, non esiste interpretazione possibile senza una linea di canto atta a sostenerla. Per questo verrebbe voglia di liquidare senz’altro il Simone di Roberto Frontali (primo cast), sempre più tenorile nell’impostazione, ridotto a urlare per farsi sentire (scena del Palazzo degli Abati), incapace di legare i suoni e affezionato al falsetto quanto un Falstaff di periferia (da incubo il suo “Figlia” e tutta la scena finale). Al suo fianco Carmen Giannattasio, voce lirico leggera che si fa stridula all’acuto e presenta un registro centrale vuoto e gravi prossimi all’inesistente (la “scure del carnefice” è stata, con malinteso senso del concetto di parola scenica, detta più che cantata). Il tenore della prima compagnia è Giuseppe Gipali: un piccolo (anche in termini di volume vocale) Alagna, più vicino a Nemorino che al nobile Adorno. Basta poco, come è facile intuire, perché possa emergere il Fiesco di Giacomo Prestia, che malgrado l’accentuato e preoccupante (vista la giovane età) vibrato nella voce, vanta una solidità sconosciuta ai colleghi: peccato che a questa non si accompagnino altre doti, quali la capacità di sfumare i suoni e variare minimamente il fraseggio, che gli sarebbero certo state utili onde non fare del crudele e aristocratico guelfo un torvo frequentatore degli angiporti.

Discorso a parte merita Marco Vratogna, che, non pago di avere “declamato” la parte del favorito del Doge nella prima compagnia, ha assunto su di sé l’onere del ruolo del titolo in due delle repliche. Non si tratta certo di un unicum: lo stesso Leonard Warren fu al Metropolitan dapprima l’infido filatore d’oro e anni dopo (anni, non giorni) il Doge. Tuttavia qualche differenza fra i due ci deve essere, alla tetra luce di una scena finale che, dopo una serata passata a imitare l’emissione di Guelfi (Carlo, non Giangiacomo) e del Nucci più terragno, ha visto il cantante prodursi in un florilegio di volenterosi pianissimi che sono in effetti suoni sfocati e spoggiati. Sofia Mitropoulos (cognome impegnativo, soprattutto in un’opera come questa!), voce agra ma omogenea in tutta la gamma, corta in acuto e corposa nei gravi, sarebbe una decente Santuzza, ma alle prese con l’eterea e determinatissima creatura verdiana denuncia tutti i limiti di un fraseggio scarsamente fantasioso e di una tavolozza di colori molto limitata. In luogo di Jean-Pierre Guido, ufficialmente indisposto (ma nei corridoi si è parlato di protesta), abbiamo udito Evan Bowers, noto alle cronache per avere salvato la prima (e numerose repliche) del Ballo parigino di qualche mese fa. La voce, tutt’altro che bella, passa senza intoppi l’orchestra e lo squillo è buono, ma l’acuto presenta asprezze diffuse, l’intonazione è spesso al limite, i piani e pianissimi privi di consistenza e i segni d’espressione restano quasi tutti sulla carta. L’unico che provi, con tutti i limiti del caso, ad accentare, a variare la linea di canto, a dare insomma un senso al testo musicale, è il Fiesco di Carlo Cigni, che però non pare possedere l’ampiezza strumentale richiesta (nei concertati, e ovunque l’orchestra accenni un “forte”, letteralmente sparisce) e soprattutto non sembra un basso, neppure un basso chiaro (tanto che sarebbe interessante sentirlo come Simone, o meglio ancora come Paolo). Il villain era Sebastian Catana, tutto digrignar di denti e voce bella indietro.

Ci sarebbe poi da dire del pauperistico spettacolo di Giorgio Gallione (due muri biancoverdi, proiezioni marine, un albero, una scalinata, una sorta di gazebo e una panchina onnipresente quanto superflua all’azione scenica: Paolo è ridotto ad appoggiare il calice avvelenato… sulla scalinata e il Doge sui medesimi gradini cerca il conforto del sonno), ma francamente non ci sentiamo di buttargli addosso la colpa della noia che ha pervaso le due serate cui abbiamo assistito: con una compagnia così, non sarebbe bastato uno Strehler redivivo.

La première del 13 novembre (ovviamente primo cast), trasmessa in diretta dal circuito Euroradio, è facilmente reperibile on line: ecco la scena finale della replica del 17 novembre (secondo cast).

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domenica 1 giugno 2008

Sansone e Dalila a Bologna: Gloria ad Inbal!


Reduci dalla prima di Sansone e Dalila al Comunale di Bologna vogliamo gridarlo: "Gloria ad Inbal vincitore!". Vincitore perché la sua direzione ha fatto passare in secondo, se non in terzo piano un cast nel complesso assai mediocre (difficile non tanto da dimenticare, quanto da rimuovere) e ha posto in prima linea un'orchestra e un coro al massimo delle rispettive possibilità e al pieno servizio della partitura. Fin dalle battute introduttive i gemiti del popolo d'Israele, la sua improbabile e vittoriosa rivolta, la sensualità fragrante delle donzelle nel tempio di Dagone, la doppiezza lasciva di Dalila, il tormento di Sansone, la sua caduta e la grandguignolesca vendetta conclusiva hanno trovato nel direttore musicale della Fenice un interprete rigoroso, vario e sommamente teatrale. L'acme è stato raggiunto al Baccanale, in cui, affrontando la celeberrima pagina in modo tellurico, il Maestro ha compiuto il prodigio di rendere tollerabile la coreografia, assai ripetitiva, oltre che decisamente brutta da vedere (vedi oltre). L'unico vero difetto di Inbal è stato quello di non aver esercitato la protesta (che sarebbe stata sacrosanta) nei confronti dei cantanti che si è trovato sul palcoscenico.

Iniziamo da José Cura, che molti ritengono uno dei, se non il Sansone per antonomasia dei nostri tempi. Il tenore argentino ha dichiarato di cantare volentieri solo a Bologna, fra i teatri italiani: facile capirne le ragioni, visto che la perfetta acustica del Comunale mette in rilievo come poche altre una voce scura, grossa e tonitruante come nessun'altra (almeno oggi). Le premesse vocali per un Sansone robustamente "vecchio stampo" (alla Del Monaco, alla Vinay per intenderci) ci sarebbero, quindi, se non fosse che l'interprete non si sforza neppure di tradurre la cospicua dote naturale in una qualche specie di canto lirico, limitandosi invece a emettere una sorta di muggito intonato. Il che può anche funzionare (fino a un certo punto) nelle scene più animate e muscolari, come il dialogo con il popolo oppresso e il confronto con Abimelech, ma crolla miseramente non solo e non tanto nei dialoghi con Dalila, ma soprattutto alla Scena della macina. Cura cerca costantemente intenzioni e colori, ma i piani e pianissimi sono in effetti suoni larvali e sbiancati, belli indietro, o si riducono a semplici singhiozzi, con quale effetto sulla tenuta della linea di canto è facile immaginare. Si taccia della fascia medio-acuta, in cui si manifestano suoni sistematicamente tirati. Insomma, a quarantacinque anni il tenore non sembra essere nelle condizioni più acconce per affrontare ancora a lungo questa parte, né molte altre, e non pare fuori luogo l'annunciato passaggio alla regia d'opera, in cui certo troverà terreno fertile per coltivare i suoi indubbi talenti espressivi. Per lui un buon successo di pubblico, ma non travolgente.

Qualche dissenso finale accoglie invece Julia Gertseva, che, già vista e udita nella Carmen fiorentina, continua a non persuaderci per i gravi prossimi all'inesistente, gli acuti aquilini e l'intonazione sovente a rischio. La voce, di timbro assai metallico, non si abbandona alla sensualità della musica (assai gutturale l'incipit del secondo atto), né l'assistono fiati di congrua lunghezza e le modeste fioriture del duetto finale in gloria di Dagone la colgono assai impreparata sotto il profilo tecnico, tanto che i suoni si assottigliano percettibilmente, fin quasi a sparire nel vortice della musica (salvo ricomparire all'improvviso con tratti alquanto striduli).

Mark Rucker potrebbe funzionare come Pistola in un teatro di provincia di contenute dimensioni, ma nell'altera crudeltà del Gran Sacerdote naufraga impietosamente. Non male il Vecchio ebreo di Ivica Cikes, voce di basso di ridotto volume ma rotonda e morbida. Non pervenuti gli altri comprimari, penalizzati anche dalla scelta del regista Znaniecki di collocarli in scena in massima parte in posizione sopraelevata e arretrata rispetto alla ribalta.

La scena, difatti, rappresenta una sorta di città prefabbricata multilivello (con scalette da piscina a collegare i piani) che fungerebbe assai bene per un'Elektra di stampo postindustriale. Gli ebrei, popolo oppresso, occupano ovviamente la parte inferiore, sbertucciati dai filistei i cui costumi e parrucche ricordano da vicino quelli degli alieni nel classico fantasy Mars Attacks! finché Sansone, in felpa col cappuccio da writer, non li induce alla rivolta scagliando la prima pietra (leggasi Intifada). Dopo la fuga dei filistei, i vincitori si ristorano dedicandosi ad abluzioni più o meno sacre fino all'arrivo delle fanciulle dal tempio di Dagone. Dalila vive in un prefabbricato a più piani, dall'interno del quale non si scorge ovviamente il temporale che si prepara nel corso del secondo atto: meno male che ce lo racconta la musica. In compenso vediamo Dalila che, recisi i capelli di Sansone, chiude l'atto accecandolo con una sorta di chiave inglese. La macina è al centro del tempio di Dagone e, mentre Sansone modula il suo lamento, prigionieri ebrei vengono trascinati in scena e rinchiusi in gabbie, per essere poi liberati, derisi e infine sgozzati e/o stuprati durante il Baccanale. Il finale rispetta maggiormente il libretto, se si eccettua la miracolosa e piuttosto accessoria resurrezione degli ebrei uccisi poco prima. Il pubblico non sembra gradire eccessivamente la proposta registica: all'uscita dei responsabili della parte visiva, applausi mescolati a qualche fischio piuttosto deciso.

Nel complesso, a ogni modo, la serata rischia di essere una delle migliori all'interno della stagione lirica che si sta chiudendo. E questo, crediamo, la dice lunga!

SAMSON ET DALILA
Opera in tre atti e quattro quadri di Ferdinand Lemaire
Musica di Camille Saint-Saëns


Dalila - Julia Gertseva
Sansone - José Cura
Il Gran Sacerdote di Dagone - Mark Rucker
Abimelech - Mario Luperi
Un vecchio ebreo - Ivica Cikes
Un messaggero filisteo - Cristiano Olivieri
Due filistei - Paolo Cauteruccio, Mauro Corna

Orchestra e Coro del Comunale di Bologna
Direttore - Eliahu Inbal
Maestro del coro - Paolo Vero
Regia - Michael Znaniecki

Nuovo allestimento Opéra Royal de Wallonie in coproduzione con Fondazione Teatro Comunale di Bologna, Opera Wroclawska e Fondazione Teatro Lirico "Giuseppe Verdi" di Trieste

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lunedì 25 febbraio 2008

Lucia di Lammermoor a Bologna: Brava la claque!

Il Comunale di Bologna dimostra per l'ennesima volta di... non saper prendere le misure. Questa Lucia donizettiana nasceva come riallestimento di uno spettacolo del Maggio fiorentino (regia di Graham Vick), ma al penultimo momento il Teatro ha ripiegato su una nuova produzione, affidata a Walter Le Moli. Il tutto perché la scenografia fiorentina non entrava nello stretto recinto del Comunale di Ferrara, che ospiterà due recite bolognesi "in trasferta". Il caso (?) vuole che il cast vocale abbia presentato analoghi casi d'inadeguatezza strutturale.
Partiamo, in assoluto dispregio delle regole cavalleresche, dalle voci maschili, segnatamente da quelle gravi. Una certa spavalderia negli acuti (che risultano a tratti schiacciati) e la tendenza a cantare con il mento aderente al petto, a far forza sulla gola (col brillante risultato di caricare eccessivamente i passaggi dal mezzoforte in su e rendere sistematicamente fibrosi i piani e pianissimi): ecco le caratteristiche peculiari del giovane Giorgio Caoduro, cui forse gioverebbe trovare modelli diversi da quello di Ettore Bastianini (e non gli farebbe neppure male imparare il testo del libretto, dato che non è accettabile dimenticarsi il testo di Lucia, manco fosse un'opera di rara esecuzione).
La voce di Caoduro, Gergio per amici e detrattori (ugualmente da lui ricercati), è di colore chiaro e di qualità. Il colore chiaro e tenorile è tipico delle voci di baritono le quali spesso per non sembrare tenori bitumano le note del passaggio istigati da maestri e pubblico, che lanciano deliranti consigli tipo "fa' gli acuti da baritono", come se un fa o un sol acuto potesse avere colore sensibilmente diverso a seconda della corda. L'oscurare artificiosamente i centri e l'esecuzione del passaggio su note che sarebbero quelle del tenore e non del baritono porta anche per cantanti spontaneamente estesi a quelle difficoltà palesate dal signor Caoduro. Difficoltà cui si potrebbe facilmente rimediare. Per essere completo, i modelli per un baritono per quanto concerne emissione e legato sono a 78 giri e si chiamano soprattutto Carlo Galeffi e Giuseppe de Luca.
Ma il baritono è risultato sicuramente più a proprio agio del basso, che poi basso non è, trattandosi di Nicola Ulivieri, mozartiano di lungo corso da sempre a disagio nel Belcanto (ricordiamo un terrificante Alidoro a Pesaro, degno compare di un precedente don Profondo e in tempi più recenti di un discutibile Turco in Italia triestino). Oltre a mancare dell'ampiezza necessaria a conferire rilievo al personaggio del mellifluo Bidebent, la voce di Ulivieri suona quanto mai usurata e spesso e volentieri ballonzolante.
Francesco Meli spalanca comme d'habitude le fauci e dà fiato alle trombe, dimostrando sicuramente un'apprezzabile volontà di arrivare vivo e possibilmente in voce alla fine della serata. Ma non è Edgardo, non può esserlo, con quei suoni gonfiati allo spasimo (stile rana che imita il bue), gli acuti aperti, raggiunti a prezzo di singhiozzi e appoggiature che fanno impallidire quelli praticati dalla Gruberova ultimo modello, l'assoluta assenza di nuances e colori (stante che a ogni tentativo di smorzatura la voce sbianca e va indietro). Insomma, un cattivo compare Turiddu. Anche qui il problema, con buona pace degli esagitati estimatori di questo potenziale tanto notevole quanto brado, è tecnico. Guardando il signor Meli che canta, non si vede nessuno dei movimenti che rappresentano quello che in gergo si chiama "il sostegno", si vede solo lo sforzo che richiede la tessitura tipica del romanticismo e che ha il suo punto centrale nella delicata zona del passaggio. Tenori assolutamente corti come Tito Schipa o Carlo Bergonzi (sulla cui verdianità l'attuale Edgardo ha espresso le sue perplessità in interviste non recentissime) hanno mantenuto il ruolo a lungo nel proprio repertorio. Non per fare i papà Germont della situazione, ma un simile canto a gola strozzata può durare solo finché natura regge e sostiene. Insomma Un di quando le veneri....... Insomma il sostegno, l'appoggio, la proiezione sono caratteristiche peculiari del rappresentante, e non del rappresentato, come abbiamo potuto facilmente verificare ieri sera in teatro.
Last but not least, Désirée Rancatore, salutata come "usignolo" dalla temeraria claque arrivata dal paese, ha piuttosto del cardellino o cocorita che dir si voglia, afona in prima ottava, vuota al centro, mentre in acuto segue la regola "apri, spingi e fischia" (applicazione del cignesco principio "apri spingi e stringi", che in Verdi e Verismo dà risultati disatrosi per la durata della carriera) che la porta a emettere suoni fissi, sbiancati, non di rado anche stonati. Il tutto frutto della temeraria e precaria tecnica di respirazione e sostegno, che impedisce un legato corretto e sfumature almeno nella zona medio alta della voce. E per un soprano che posa a diva liberty, quelle due variazioni in croce sarebbero sufficiente motivo di vergogna, se ancora certi fenomeni potessero provare siffatti nobili sensi. L'usignolo del Monte Pellegrino infatti non ha le qualità tecniche indispensabili per collocarsi neppure lontanamente sulla scia della Pons e della Galvany.
A rimestare la minestra (rectius: la brodaglia) Antonello Allemandi, che bada solo a ottenere dall'orchestra (tutt'altro che impeccabile: vedasi a titolo d'esempio gli ottoni preludianti l'aria del tenore) un suono quanto più possibile cupo e fragoroso, lasciando il palco (i solisti e, massime, il coro) ad arrangiarsi nel marasma generale. Il cospicuo numero di tagli (in primis i da capo di quasi tutte le cabalette) è stato da molti salutato con sollievo. E anche fra il pubblico c'è stato chi ha apprezzato.
Analogo atteggiamento alla "laissez passer" ci è parso di ravvisare nello spettacolo di Le Moli, praticamente una forma di concerto con brutti abiti contemporanei che sanno d'improvvisato e raccogliticcio (la festa di fidanzamento era un compromesso fra un accampamento di sfollati, un funerale di terza classe e la riunione di un clan mafioso per lo sposalizio della figlia del padrino), due cubi fluorescenti e luci inderogabilmente funeree. Improprio parlare di direzione di attori (due perle su tutte: Lucia ed Edgardo che cantano in duetto a cinque metri di distanza l'una dell'altro e la suddetta Lucia che entra in scena, alla pazzia, trascinando scompostamente il cadavere di Arturo, molto simile a un animale da squartare). Ma certo, forse siamo stati noi a non capire che “Enrico e Lucia sono entrambi mossi da una follia opposta l’una all’altra. Per questo il loro destino è distruggersi a vicenda. Il conflitto familiare è una metafora che può essere amplificata fino a rimandarci al rapporto tra l’individuo e lo stato. Enrico è lo Stato, Lucia l’individuo. La situazione tra loro è un conflitto che non conosce possibilità di dialogo e perciò può terminare solo con la morte", mentre la scena della pazzia è "un invito alla società a riflettere sulle reazioni alle quali può spingersi un individuo se costretto. Se si esce perciò dalla prospettiva del conflitto familiare e si amplifica l’orizzonte alla società intera, questa situazione appare assai più grave, più drammatica e più vicina alle nostre paure e ai nostri incubi". Meno male che Le Moli ci ha spiegato tutto questo tramite l'ufficio stampa del Teatro! Noi seguitiamo a sognare una Lucia con la fontana, il parco, i tartan kilts e i dissestati possedimenti dei Ravenswood. Almeno non assisteremmo all'ingresso di una Lucia che meriterebbe come accompagnamento Lili Marleen o il più autarchico Camerata Richard, benvenuto.
Alla fine per i responsabili della parte visiva sono arrivati fischi, ma solo per loro: evidentemente il pubblico di Bologna vede meglio di quanto non ascolti.

Lucia di Lammermoor
Dramma tragico in due parti e tre atti
Libretto di Salvatore Cammarano
Musica di Gaetano Donizetti

Enrico Ashton - Giorgio Caoduro
Miss Lucia - Désirée Rancatore
Edgardo di Ravenswood - Francesco Meli
Raimondo Bidebent - Nicola Ulivieri
Arturo Buklaw - Ivan Magrì
Normanno - Francesco Denaro
Alisa - Elena Borin

Coro e Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
direttore - Antonello Allemandi
regia - Walter Le Moli

Teatro Comunale di Bologna
23 febbraio 2008

PS - Lo sventagliato mi bemolle in chiusura di duetto per certo è passato da Edgardo a Lucia, ma del signor Meli non udimmo nè il do (che sarebbe di Lucia) nè il mi bem, di competenza del protagonista maschile. Forse eravamo troppo distratti dalle sue spalancate fauci.

by DD e AT
scelta immagini: GG

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