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lunedì 12 ottobre 2009

Mese verdiano VI - L'accento verdiano parte prima: " Ma se m'è forza perderti"

Secondo gli storici della musica nemmeno Giuseppe Verdi avrebbe lasciato una esatta e completa definizione di “accento verdiano”, espressione comune e diffusa nella storia come nella critica musicale, dato che l’espressione indica sinteticamente i modi del fraseggio pertinenti alla sua opera in generale. In breve, una sorta di motto destinato ad indicarne la poetica vocale, la sua travagliata ricerca per la creazione di un nuovo teatro musicale in lingua italiana. Insomma, il modo nuovo di esprimersi attraverso il canto.

Sul finire degli anni ’40 compaiono, negli scritti di Verdi, i primi accenni all’idea di “parola scenica”, ossia alla parola che necessita di un canto maggiormente e diversamente pregnante dal punto di vista drammaturgico, un canto di “accento” funzionale ad una migliore resa dei sentimenti.
Percorso difficile, non lineare, che portò di fatto alla messa a punto di un nuovo modo di fraseggiare, che si realizza nel conferimento di espressioni esattamente aderenti al significato drammaturgico, utilizzando eventualmente anche il colore della voce o qualche effetto extravocale, ma mai il declamato o il parlato puri come oggi li possiamo intendere. Semmai simulazioni di effetti parlati o declamati. La parla scenica è la grande invenzione verdiana, il nuovo modo della moderna opera italiana, che si attua attraverso una lieve e controllata “enfatizzazione” della parola ed anche delle frasi, che il Maestro sottopone alla propria egida grazie all’abbondanza dei segni di espressione.

La scelta dell’aria di Riccardo del Ballo viene dall’essere un momento topico dell’arte verdiana matura, che perfezione qui il suo archetipo tenorile, ormai svincolato dal retaggio della tradizione precedente, donizettiana in particolare.
Riccardo incarna il nuovo modello, perchè ricchissimo di sfaccettature psicologiche, rese con l’alternanza di momenti lirici e slanci, depurato da ogni relitto di canto fiorito, cabalette ( resta solo quella del duettone d’amore, che Verdi, in accezioni particolari come questa non rinnegherà mai, nemmeno nei suoi tardi remake ….). Psicologicamente il personaggio è un amoroso di rango aristocratico, capace di passare dal canto ironico e baldanzoso a quello di slancio, appassionato e travolgente, ma mai privo del suo “applomb” di nobile, conte e governatore. Il contrasto interiore tra l’amore per Amelia e la lealtà all’amico ed ai principi dell’onore sono accuratamente ed ampiamente rappresentati da Verdi, che impone a Riccardo il cambiamento continuo di accento perché continuo è il succedersi delle situazioni emotive e drammaturgiche. Il suo canto non può mai essere monocorde o piatto, perché così è l’”accento verdiano”: il compositore non lascia all’esecutore un solo attimo di riposo ma lo accompagna lungo il pentagramma con la sua peculiare ricchezza di segni di espressione, forcelle singole e doppie, corone, indicazioni di P, PP, PPP, e F, FF, FFF, e note come “ espressivo”, “stentando”, “morendo”, “cupo”, “con entusiasmo”, come nell’aria del III atto appunto.
Obbedendo in tutto alla prescrizione verdiana è impossibile non dar vita ad un accento vero, pienamente compiuto, drammaturgicamente efficace, vario. Si può solo aggiungere, se è ancora possibile inventare qualcosa che Verdi non abbia già pensato e se le capacità vocali dell’esecutore, anche in questo caso costretto di continuo al canto sul passaggio, lo consentono ( lo abbiamo visto con la straordinaria registrazione dell’Aida dell’Arangi Lombardi …). Ma nulla si potrebbe togliere, perché in questo Verdi, per quanto sintetico e per nulla teorico nell’illustrazione del suo volere, è stato chiaro. All’esecutore spetta l’obbedienza al suo volere, concezione che fa da spartiacque tra Verdi ed il mondo del belcanto ove l’esecutore aveva ampi margini di doverosa libertà ed intervento soggettivo .
Nella grande scena di Riccardo non è difficile, leggendo le parole del libretto, inventariare il succedersi dei pensieri che attraversano l’animo del protagonista, che si appresta alla separazione dalla donna che ama, compiendo il proprio dovere di amico, pur nel presagio della morte imminente. Il dolore per il distacco, la nostalgia, anche futura, per l’amore perduto e lontano, il presagio di morte si alternano nell’andante ove il canto resta sempre nobile, elegante, composto e misurato sebbene leggermente enfatico ( le impennate all’acuto ). Non c’è un solo momento che sia a squarciagola, piatto, di getto, anche se lo spettatore percepisce emozioni immediate e dirette. Il crinale su cui corre il cantante è questo, la resa di una apparente immediatezza ottenuta con la più totale razionalità e misura, anche nei momenti più concitati e di slancio, come la stretta dell’aria che introduce la festa.

Primo interprete del ruolo fu un tenore dalla voce bellissima e capace di canto di slancio, Gaetano Fraschini, nato sulle opere di Donizetti e descritto, per il timbro, come una sorta di Pavarotti, di voce chiara, argentina e squillante, capace, come interprete, di mezze voci e di emissione dolcissima.
Riccardo venne ritenuto da subito ruolo completo, connotato anche da certe ascendenze francesi, comunque molto impegnativo. L’aria del III atto, soprattutto, era giudicata pesante, sia per le sparate in alto che per le discese in zona grave nel recitativo e nell’andante, perciò elisa spessissimo in teatro, prassi questa da far rientrare nelle innumerevoli e varie manomissioni cui le opere di Verdi venivano sottoposte anche vivente il Maestro. Il ripristino effettivo ebbe luogo, di fatto, nel dopo guerra e perlomeno sino agli ’50-‘60 la presenza della grande scena rimase opzionale. Al pari dell’aria di Don Carlos, come vedemmo a suo tempo, vi sono pochi documenti di inizio secolo, mentre numerose sono le incisioni della prima scena come del duettone.

Vi è una incisione rara del mondo dei 78 gg, forse la prima, assolutamente straordinaria, ossia quella del 1923 di Antonio Cortis: è la più impressionate e perfetta interpretazione dell’aria di Riccardo. Il suo ascolto costituisce il paradigma esecutivo per tutti coloro che lo seguono, perché nessuno offre una resa così completa ad ogni risvolto espressivo della scena, parola per parola.
Il recitativo iniziale di Cortis è ampio, scandito, accentato con un tempo abbastanza lento e vario. Il personaggio è da subito chiaro. L’espressione dolente, di passaggi come “l’intimo del cor”, non si sdilinquisce mai nella sola smorzatura e/o nel rallentando, ma convive con lo slancio all’acuto, sempre squillante, che connota il carattere virile del tenore verdiano maturo. Cortis può accentare in ogni modo ogni frase ad ogni altezza: può smorzare in acuto come in centro per avere accento dolente o squillare in alto per dare una connotazione eroica. Il tutto all’interno di una perfetta sobrietà, priva di ogni manierismo o eccesso.
Con Cortis ritroviamo la lezione del tenore verdiano documentata nei dischi di Bonci o di Aureliano Pertile ( che mai incisero l’aria ), capaci di cantare tutte, ma davvero tutte, le infinite nuances della scrittura verdiana. Questi esecutori servono l’autore, nel rispetto della sua essenza, e non lo contaminano mai con personalismi. Personalismi che possono anche essere eccellenti, di grande canto e grande espressività, ma non completamente fedeli. Ne è esempio un tenore grandissimo, che personalmente amo molto, Julius Patzak, per sua natura portato al lirismo ed all’accento malinconico. Descrive benissimo la perdita dolorosa ed inevitabile di Riccardo, ma il suo canto dimentica lo slancio che connota il personaggio.La sua memoria è “chiusa nell’intimo del cor”, che soffre per il distacco definitivo: il suo canto è ricco di smorzature, anche in acuto, ma il presagio di morte non lo assale più di tanto rispetto a Cortis, e “l’ultima ora” dell’addio manca di quella misurata disperazione che Verdi mette nella frase. L’interpretazione della scena, a valle delle riflessioni precedenti, è piuttosto unilaterale, perché elide il lato eroico e baldanzoso del personaggio, anche se il fraseggio è bellissimo ed accurato. Credo che con Patzak ci si allontani già dalla perfetta verdianità del fraseggio di Cortis o Pertile, forse per indole, o per compiacenza di uno strumento straordinariamente bello ( sembra quasi una Freni dei tenori…).

Di diverso tipo i personalismi di un Caruso, che canta con buona fedeltà alle indicazioni di espressione dello spartito ma, complice una voce peciosa ed un‘emissione non più bellissima, non ha la varietà espressiva di Cortis, anzi suona già piuttosto verista. Inserisce una puntatura ed una sorta di cadenza davvero brutta in chiusa che oggi risultano molto datate, non so se di tradizione pregressa o di tradizione da lui stesso inaugurata, tanto che si possono risentire nell’esecuzione di Beniamino Gigli, che incise l’aria nell’edizione completa dell’opera diretta da Serafin nel 1943. Il timbro di Gigli è bellissimo e caldo e la pienezza del suono compensa la stringatezza del tempo adottato. Il canto non è puntuale ed analitico come i casi precedenti o in quello dei due più grandi Riccardo che lo seguirono, ossia Tucker e Bergonzi, ma il canto di slancio e la qualità vocale sono impressionanti.

Nel dopoguerra poi l’accento puramente verdiano di Riccardo lo esprimono, come detto, Richard Tucker e Carlo Bergonzi, capaci di restituire ogni lato del personaggio. Al primo non manca nulla: è completo, non gli sfugge un accento o un colore. Il secondo è aristocratico, elegante, sfumato e con vera ampiezza ma gli manca un po’di punta in acuto, ove canta copertissimo e con voce grigia. Il lato baldanzoso ed eroico sono con lui in secondo piano. Con questi due tenori siamo agli ultimi testimoni dell’ortodossia del fraseggio verdiano, perché sono i soli che possano stare a fianco alla generazione di Cortis e Pertile. Da lì in poi la corruzione del canto verdiano si coglie nella genericità dei fraseggi, nella limitata dinamica di cantanti, Pavarotti compreso, che non possono smorzare oltre il passaggio e che tendono ad un canto sempre più piatto e monotono. L’ascolto in parallelo con Cortis testimonia la grande distanza che in meno di un secolo separa gli interpreti a noi vicini da quelli vicini a Verdi ed alla sua idea di accento. Lascio a voi i dettagli degli ascolti che vi invito a concludere con il recente Riccardo di Alvarez, piatto e sempre sul forte, completamente estraneo quando non addirittura in contrasto con i dettami verdiani, a testimoniare, per primo nel nostro mese di festival, la moderna ignoranza in fatto di accento verdiano.

Gli ascolti

Verdi - Un ballo in maschera


Atto III

Forse la soglia attinse...Ma se m'è forza perderti...Sì, rivederti Amelia

1911 - Enrico Caruso
1923 - Antonio Cortis
1929 - Julius Patzak
1943 - Beniamino Gigli
1956 - Ferruccio Tagliavini
1962 - Carlo Bergonzi
1963 - Richard Tucker
1974 - Placido Domingo
1975 - José Carreras
1977 - Luciano Pavarotti

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sabato 3 gennaio 2009

Il mito del primo uomo: Arturo dei Puritani


E’ inutile dire che il ruolo di Arturo nei Puritani, ultima opera scritta da Bellini, è da sempre uno dei topoi del repertorio tenorile, tra i più grandi ruoli dell’amoroso romantico. Questo perché il ruolo fu pensato ad hoc per un cantante che, estesissimo in alto, si giovava ancora dell’antica prassi dell’acuto in falsettone, che gli consentiva di reggere tessiture acutissime ma con uno slancio ed una forza di accento mai udite prima nei contraltini.

Questo, stando alla descrizione che ne fanno le fonti scritte a lui coeve, gli veniva anche da un mezzo di notevole qualità ed ampiezza, estraneo alla media dei tenori contraltini che lo avevano preceduto. Allorquando recensimmo l’omaggio discografico a Rubini di J.D.Florez vi riportammo il passo in cui Panofka descrive il Rubini celebre ed in fase matura, di fatto quello per cui Bellini scrisse tre titoli fondamentali, Pirata, Sonnambula e Puritani. Per la purezza del canto aereo Panofka lo metteva al pari dei castrati di un tempo; per la sua capacità di flettere la voce al pari di un soprano leggero; sul piano drammaturgico ed espressivo poteva cantare sia da tenore di forza che leggero.
La voce di Rubini era, ad una volta, d’una maschia possanza, meno per l’intensità del suono, che pel suo metallo vibrato, della più nobile lega, e d’una rara flessibilità, al pari d’un soprano leggiero: cosicché egli arrivava alle più alte note del soprano sfogato con una sicurezza ed una purezza d’intonazione così meravigliose, che si sarebbe tentato di crederlo un castrato. Rubini teneva, ad un tempo, del tenore di forza e del tenore leggiero…....Uno de rari meriti di questo cantante consisteva nel potere cantare pianissimo, e far già così un grande effetto; di servirsi del primo registro ( volgarmente e falsamente chiamato di petto ) fino al sol solamente, e d’avere unito il primo al secondo registro in modo, da potere, senz’ombra di sforzo, emettere collo stesso vigore il si b, il si e il do……”( E. Panofka, Voci e cantanti, Firenze, 1871, pg. 97-98 )



Le parole di Panofka sono molto importanti, poichè descrivono Rubini a circa 40 anni dalla prima rappresentazione, alle soglie del tardo Verdi, con voci come Tamberlick e Tiberini nelle orecchie. Sebbene nei Puritani Bellini non abbia più spinto il suo tenore preferito alle vette di Gualtiero o di Elvino prima maniera, il ruolo rimase a lungo legato al nome di Rubini, e soltanto in forza della Grisi, prima Elvira, venne riproposto sulle scene parigine e londinesi, interprete il suo consorte Mario, epigono di Rubini. In Italia invece il titolo circolò grazie all’altro celebre “imitatore” di Rubini, Nicolaj Ivanoff.
Fu comunque una “deriva”progressiva del ruolo verso il tenore cosiddetto di grazia, perché capace di reggere l’altezza della scrittura di Arturo e di emetterne i relativi sopracuti, magari privandolo di parte del suo vigore drammaturgico. Con tenori come Roberto Stagno, prima parte di carriera, Checco Marconi, Alessandro Bonci, Giacomo Lauri Volpi ( che li cantò dal ’21 al ’23, per poi riprenderli nel ’33 al Maggio Musicale Fiorentino e nel ’51 con la Callas ), Dino Borgioli, sino a Kraus, si compone la linea degli interpreti “leggeri”. Termine che, vale la pena di essere ripetuto, non ha nulla a che vedere con i tenori corti, bianchi e falsettanti, che circolano dal dopoguerra con la asserita specializzazione mozartiana e rossiniana (sino all’arrivo di Blake e Merritt): non per nulla erano tenori che affrontavano senza difficoltà Lucia, Favorita, Sonnambula e alcuni di loro i più significativi titoli del Grand-Operà.
Un altro diverso gruppo è costituito da Hipolito Lazaro (Arturo al Met nel ’18 con la Barrientos ), Mario Filippeschi, Gianni Raimondi e Luciano Pavarotti, con i quali Arturo riacquista un maggior peso vocale, perdendo, però, i connotati astratti dell’eroe romantico e buona parte del rispetto di quei numerosissimi segni di espressione che Bellini aveva posto in spartito. Segni di espressione che, nelle incisioni più arcaiche quale quella di Marconi, appaiono addirittura amplificati ed arricchiti dagli interpreti rispetto a quanto previsto dall’autore.
In altra sede abbiamo già commentato l’esecuzione di Checco Marconi. Non possiamo dire che Rubini o Mario cantassero come Marconi, ma che il modello di Marconi venga da molto lontano, ossia dalle origini o quasi del titolo belliniano è scontato. Nessuna esecuzione successiva è varia, quanto a dinamica ed agogica, come il reperto archeologico di Checco Marconi. Nessun tenore, se non Lauri Volpi (di cui forse andrebbero anche ascoltati per le idee interpretative i reperti registrati nel 1959) ed in parte Fleta e Lazaro, è in grado di evocare all’ascoltatore moderno un’idea di canto tenorile differente da quella cui siamo abituato negli ultimi cento anni. Quell’idea di cui il primo Arturo fu indiscutibile inventore.

Arturo non spaventa solo per gli acuti ed i sopracuti scritti, quanto per la tessitura, molto alta in parecchi momenti ed ampiezza e slancio drammatico. Di certo Arturo ha il carattere dell’eroe nobile, lirico ma pare connotato anche da quella maschia possanza che Panofka indicava come peculiarità del canto di Rubini maturo. Gualtiero del Pirata, ad esempio, momento chiave nella definizione del tenore romantico, lo era molto meno. Una delle peculiarità di questo ruolo consiste certo nella gran copia di forcelle, messe di voce e smorzature, spesso poste in sequenza, come nelle prime battute di “Ah te, o cara, amor talora”, su scrittura quasi orizzontale, oppure in frasi come “…tra la gioja e l’esultar.. “ ove Arturo deve eseguire una lunga messa di voce al F nella salita al la acuto; oppure, ad esempio, nell’aria del terzo atto, in chiusa di prima strofa, ove è prescritta una messa di voce nella salita re -si bem acuto e quindi di nuovo una messa di voce e successiva smorzatura sui sol puntati di “..ogni gioja gli par duol…”; idem dicasi per la seconda strofe, le cui frasi conclusive “ Sempre eguali ha i luoghi e l’ore…” sono ricchissime di forcelle singole e doppie. Un canto lontano da qualunque sentore di monotonia o piattezza dinamica per un tenore capace di controllare la voce a qualunque altezza. I fiati di Arturo sono poderosi, immensi, a dare ampiezza alla trenodia del canto belliniano: le legature scritte non lasciano scampo nemmeno in quei limitati passi ove ancora traspare il Rubini virtuoso, come nella sequenza di quartine e duine prescritte legate e con messa di voce-smorzatura di “….mio contento, il mio contento…” sempre dell’ ”Ah te o cara”, oppure ancora nell’aria finale ove compare anche un gruppetto, quartine etc, per giunta con segni di corona, che l’esecutore era chiamato a gestire, ossia …rimpolpare ancora (!) a piacimento. E’ scontata la vena anche malinconica del personaggio amoroso belliniano, che trova nell’aria dell’ultimo atto la sua palestra di accenti patetici ma non certo lamentosi.
Panofka, infatti, parla di accento scandito, di fraseggio scultoreo riferito a Rubini (che, non dimentichiamo, nella fase terminale della carriera fu considerato anche un grandissimo Edgardo, altro ruolo sacro del romanticismo tenorile..) ed il significato delle parole lo si può cogliere esaminando la vocalità che richiede Arturo alla scena della sfida: principia con l’indicazione di “con forza”, prevede una bella corona su si nat di “audace”, richiama anch’essa qualche passo vocalizzato (come accadrà anche in Lucia), chiedendo ad Arturo di fraseggiare in una zona (mi3- sol3) analoga a quelle dei personaggi rossiniani pensati per David e sulla cui vocalità Rubini si era formato.

Quanto al celebre duetto con Elvira, in origine un vero “ duettone “ cui venne scorciato il liricissimo “ Da quel dì che ti mirai” che sentiamo ripristinato da Bonynge con Pavarotti e la Sutherland ed oggi reintegrato nell’edizione critica ( vedi post relativo ), esso richiede accento lirico ma anche uno slancio straordinario. Nella seconda sezione del “Vieni vieni tra queste braccia “ , quella eseguita all’unisono, Arturo canta alla terza sopra Elvira, in zona fa-si nat, con tanto di corona su la nat di “ah deh vieni…” , re nat sopracuto attaccato scoperto e da eseguirsi rallentando (!!!!) di “t’amo si”, svariate forcelle nelle battute seguenti e corone su “d’immenso d’immenso amor” su sol e la nat, inezie rispetto a quanto vien prima! E dopo! con il pesantissimo Largo maestoso “ Credeasi misera”. Le ampie legature, le forcelle e gli accenti non lasciano dubbio alcuno sul come vada eseguito, potendolo eseguire !, questo monumentale finale, con frasi che partono dalla zona rebem-do-rebem-mibem, e salgono al fa-mibem-rebem-fa, quindi a solbem-fa-mibem-fa, salite al la bem, e quindi con gli slanci sino al re bemolle ed al fa sopracuti che han fatto la leggenda del canto, di Arturo e del suo primo interprete.
Che dire ancora? Se questo non è un mito di primo uomo, allora non ci sono miti!


Gli ascolti

Bellini - I Puritani


Atto I

A te, o cara - Hipolito Lazaro (1916), Giacomo Lauri-Volpi (1922), Miguel Fleta (1923) Giacomo Lauri-Volpi (1928), Alfredo Kraus (1966)

Ferma! Invan rapir pretendi - Alfredo Kraus, Piero Cappuccilli & Corinne Curry (1969), Luciano Pavarotti, Sesto Bruscantini & Mirella Fiorentini (1969)

Atto III

Son salvo, alfin - Gianni Raimondi (1959), Nicolai Gedda (1963), Luciano Pavarotti (1969)

Finì...me lassa!...Vieni fra queste braccia - Francesco Marconi & Maria Galvany (1907), Hipolito Lazaro (1916), Alfredo Kraus & Joan Sutherland (1966)

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sabato 29 novembre 2008

Osborn " l'ardito " e la legge di Arnoldo.


Le rappresentazioni concertistiche del Guglielmo Tell romano ci hanno offerto l’occasione di ascoltare un tenore di grandi capacità vocali, oltre che molto coraggioso, poiché si è fatto carico di un ruolo terribile, rifiutato da vari suoi colleghi più noti e blasonati.
Osborn “l’ardito” ha osato ed ha accettato di sfidare uno dei più grandi cimenti dell’arte tenorile, per farsi largo, con forza, a rivendicare un suo spazio di primo tenore nel belcanto contemporaneo.
Impresa riuscita in parte bene, ma non del tutto, perché l’inesorabile “legge di Arnoldo” ha preso forma anche in questa occasione a Santa Cecilia, dandoci ancora di che riflettere.
La scrittura dell’ultimo tenore di Rossini non ha mai perdonato, ed inesorabile ha sempre colpito anche tra i grandi, sin dalle prime rappresentazioni dell’opera. Già, perché non bastano per Arnoldo la facilità all’acuto, o la sicurezza nella tessitura estrema, e talvolta nemmeno il disporre di un certo corpo vocale. La storia lo dimostra sin dall’avventura del primo interprete, Nourrit, che fu anche primo Ory ed il primo Eleazar. Quindi non di certo un “tenorino.” Nourrit dopo qualche rappresentazione, finì per tagliarsi quella cabaletta infernale del IV atto su cui Orborn è malamente inciampato ieri sera, quasi a rinverdire l’ennesimo corso e ricorso storico.
Non conosciamo certo la voce di Nourrit, ma sappiamo dalle cronologie degli interpreti che il ruolo, guarda caso, passò abbastanza presto ai tenori poi definiti “di forza”. Da Nourrit a Duprez ( con interposta anche una versione di Arnoldo per mezzosoprano….tanto era difficile trovare tenori per il ruolo….), nonchè l’incidentale Arnoldo londinese di Rubini, arrivò presto il canto di vera forza di Tamberlick, e quindi di tenori come Tamagno, Martinelli, Slezak. Lauri Volpi….
Queste erano le voci in grado di reggere non tanto l’aria e la cabaletta, o i do di petto in sé, ma la pienezza dello slancio, ( faticoso, per non dire impossibile, per i tenori contraltini di grazia ) che il fraseggio presuppone; l’epica dell’accento; l’ampiezza imprescindibile che le grandi frasi come “ Ah Matilde io t’amo è vero “ del duetto con Tell esigono. Un abisso separa i do dell’aria di Tonio della Fille du Regiment, ad esempio, o le salite vertiginose dell’aria di Uberto di Donna del Lago, dai do della cabaletta di Arnoldo e, più in generale, dal canto del duetto Arnoldo - Tell, o del Terzetto. Un altro mondo davvero!
Il genio di Rossini, nei 16 anni che separano il Tancredi dal Guglielmo Tell, scrisse tutto, tutto quanto fu poi dell’opera italiana sino al tardo Verdi o all’ultimo Meyerbeer : con il Tell inventò il tenore del futuro, ma dentro gli stilemi del belcanto. E di fianco al canto un’orchestra ampia e vigorosa . La scrittura di Arnoldo è quasi la quadratura del cerchio, perchè punisce le voci che non abbiano una saldezza tecnica formidabile, vero slancio e proiezione, ma anche i cantanti privi di stile e ineleganti, concentrati “solo” ( si fa per dire ) ad esibire l’impressionante acuto di petto, in passi difficilissimi, come il duetto con Matilde.
Ed il cimento vocale divenne un’epica battaglia non solo con gli acuti e la tessitura, ma anche con la lunghezza della parte, in passato tagliata nei da capo; con il numero di recite consecutive; il numero di produzioni in carriera.
Conobbero bene la dura “legge di Arnoldo” anche le leggende come Lauri Volpi, che vocalmente risentì molto della sequenza di recite di Tell cantata tra il 1929 ed il 1930: solo a Milano cantò per 6 sere la parte nella stagione ’29-’30, a Roma 4 sere, Napoli solo 3, come 3 furono al Met nella stagione ’30-31 e solo 2 nella ’31-’32.
Al Met fu Martinelli il detentore del record di recite di Tell, ben 7 nella stagione ’22-‘23, e 5 nella ’23-’24. Prima di lui Tamagno, per 5 - 6 recite al Met, e ben 7 a Napoli nella stagione 1888-89…….
Anche per tenori che cantarono Arnoldo frequentemente come Filippeschi, o Raimondi ( anche se con criteri stilistici un po’…protoveristi ) sarebbe interessante ricostruire le sequenze di serate, che a Napoli, ad esempio, furono 3 per entrambi, nelle stagioni 1955-56 e 1965-66 rispettivamente.
E vale la pena di ricordare che due dei tre grandi Arnoldo del disco, ossia Gedda e Pavarotti vantano il primo una sola recita in teatro, il secondo nemmeno una.
Così, alla fine di tutti questi pensieri innescati da Osborn “l’ardito” ieri sera, il pensiero và a Chris Merritt, forse ancora più mostro di quanto non credessimo, per numero di recite ed esiti vocali. Oggi mi sembra più che mai un gigante, un mostro assoluto di forza e resistenza, nonostante tutto quanto potesse avere di imperfetto dal vivo, a cominciare dalla voce non certo grandissima quando si esibì alla Scala. Il numero di recite e produzioni del Tell ( Londra, New York, Verona, Milano, Nizza , Parigi, San Francisco… ) eseguito, che io sappia, sempre integralmente, almeno nelle occasioni principali a noi note, è impressionante e schiaccia anche i leggendari tenori d’ante guerra. Di certo anche Merritt venne ferito dalla legge di Arnoldo, che per molti fu una delle cause dell’insorgere dei suoi problemi vocali, ma …insomma……seppe tenerlo in repertorio per più di dieci anni…!
Credo che chi afferma che Merritt non è stato un tenore completo perché non affrontò l’intero repertorio, ed alludo al buon Enrico Stinchelli, dovrebbe ripensare a quanto afferma, soprattutto dopo quanto udito ieri sera. Il “fenomeno vocale più interessante degli ultimi 10 anni” , come ci è stato presentato dal duo della Barcaccia John Orborn, alla terza recita di Arnoldo si è piegato sotto il peso di una fatica troppo, troppo grande per una voce corposa si, ma adatta ad un belcanto di altro tipo, ai Don Ramiro, agli Stabat Mater, alla Sonnambula, ai Puritani ma non al Tell.
Ansiosi come siamo di sentire cantare di slancio, con squillo, con facili arcate di suono, in un mondo di tenori manierati, di piccole voci spesso asfittiche e senza armonici, abbiamo scambiato tutti il buon Orbon per ciò che non è. E la legge di Arnoldo ce lo ha dimostrato ier sera, quando la voce è parsa imballata sin dall’inizio della recita, al duetto con Tell, come non era certo la sera della prima. Del resto lo aveva detto Osborn stesso in trasmissione che già la seconda recita gli era costata ben di più della prima…..gli effetti del ruolo erano già in atto.
L’esperienza di Osborn, inoltre, ci prova quale diversa forza e saldezza vocale occorrano per cantare la grande scena del IV atto dopo aver cantato tutto quanto precede ( sebbene il tenore al terzo atto canti pochissimo di fatto ) oppure eseguirla in concerto.
Ci prova quanto pericolose siano le idee recentemente messe in circolazione sulla vocalità di Arnoldo, da chi può solo ammiccare al ruolo, ma nemmeno sognarsi di cantarlo per una sera, pur disponendo di un do sicuro.
Ci prova anche quale differenza vi possa essere tra l’esecuzione di alcune recite occasionali e la capacità di tenere il ruolo in repertorio, per almeno le fatidiche tre sere, che oggi sembrano tantissime.
Ringraziamo “Osborn l’ardito” per la grande prova che ci ha dato, per averci dimostrato quanto sia bravo, e per averci rammentato cosa sia il ruolo di Arnoldo.

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giovedì 13 novembre 2008

La perdita della nobiltà, ossia la storia interpretativa del Requiem di Verdi


Spentisi oramai i riflettori sul mancato Requiem scaligero – vittima del consueto “teatrino” sindacale che puntuale ad ogni autunno imbastisce l’indegno spettacolo dei suoi ricatti, pretesti e ripicche – si può tornare a parlare del Requiem di Verdi. Opera questa, che si è avuto modo (e si avrà, sindacati permettendo) di ascoltare più volte nel corso della passata e prossima stagione musicale. Inutile e superfluo parlare qui diffusamente della storia del Requiem, della sua genesi e delle sue vicende: è un lavoro tra i più celebri del Maestro e che non nasconde più alcun mistero.
Composto nel 1874 per il primo anniversario della morte di Manzoni, esso testimonia il problematico rapporto di Verdi con la religione e con la trascendenza. Dalla rabbia alla rassegnazione, sino alla speranza della liberazione e all’ineluttabile certezza della fine. Una sorta di sfida dell’uomo con la morte, una battaglia dall’esito scontato e certo, ma combattuta con disperata ostinazione, in cui la sola via di salvezza appare essere il ricordo e la memoria, unico modo di “sopravvivere” alla morte stessa. Un approccio laico e profondamente umano, che rimanda più al Foscolo dei “Sepolcri” che al Manzoni della Provvidenza.
“E me che i tempi ed il desio d'onore/fan per diversa gente ir fuggitivo/me ad evocar gli eroi chiamin le Muse/del mortale pensiero animatrici./Siedon custodi de' sepolcri, e quando/il tempo con sue fredde ale vi spazza/fin le rovine, le Pimplèe fan lieti/di lor canto i deserti, e l'armonia/vince di mille secoli il silenzio.” (FOSCOLO, “Dei Sepolcri”, vv. 226-234)
Nessun mistero dunque, in un’opera che pone chiaramente i suoi riferimenti e i suoi intenti e che – pur nelle legittime e differenti sfumature interpretative – racchiude in sé una evidente cifra ideale. Tuttavia, a volte, è proprio ciò che appare più limpido e chiaro ad essere frainteso e misconosciuto. Già, perché nella lunga storia interpretativa del Requiem si è assistito ad un progressivo distaccarsi da ciò che la mano di Verdi ha vergato sul pentagramma nell’intento di pienamente evidenziare il proprio disegno estetico ed ideale. Non si tratta di libertà interpretativa, di personalità di visione, di differenze esecutive. Assolutamente no! Si tratta, purtroppo, dell’ignorare colpevolmente le indicazioni espressive (tantissime ed importantissime) che si leggono scritte sulla pagine della partitura. Si assiste, in buona sostanza, e soprattutto oggi, ad una rimozione completa di tutte quei segni che l’autore ha previsto, ad opera di interpreti che, probabilmente, fraintendono completamente l’estetica verdiana e ne fanno veicolo di effettacci grossolani nella rincorsa di facili applausi presso pubblici di “bocca buona”. Ecco quindi che il Requiem si trasforma in un carrozzone chiassoso e fragoroso, giocato solo sulla giustapposizione di forti e fortissimi, fragori di grancassa, ritmi indiavolati e tenori strillanti! Certo che se si pensa ad un’ondata sonora che deve investire le orecchie di chi ascolta, le tante indicazioni espressive di Verdi non possono che essere ignorate (e non succede solo al Requiem, ridotto oggi all’esplosione del Dies Irae, ma a tutti i lavori verdiani, in cui i tantissimi segni espressivi sono bellamente espunti). E cosa si perde con tali omissioni? Beh, si perde la nobiltà, la nobiltà verdiana, cifra necessaria e ineludibile di ciascun lavoro del Maestro. Nobiltà che dovrebbe essere considerata prima di qualsiasi altro aspetto da tutti gli esecutori. Se manca questa nobiltà, manca Verdi. Semplicemente si sbaglia. Non ci sono vie di mezzo. Detto così, però, il discorso rischia di risultare alquanto astratto e indefinito, ecco perché voglio portare un esempio concreto e immediatamente comprensibile. Prendiamo una delle pagine più straordinarie composte da Verdi: l’Ingemisco, per voce di tenore. Analizziamo cosa si trova scritto in partitura. Innanzitutto il tempo: Adagio Maestoso (lo stesso del Rex Tremendae e del Recordare). Un tempo quindi di ampio respiro, solenne, tranquillo, disteso. Il tenore entra con l’indicazione pp (molto piano quindi, poco più di un sussurro, non una cannonata), una serie di forcelle, poi, prescrivono un aumento di forza graduale e breve, in corrispondenza delle parole “rubet” e “supplicanti”, per poi spegnersi in un ppp su un lungo, lunghissimo “parce deus”. Con un senso evidente e voluto, quindi, di pace e penitenza. Al cambio di tonalità, con il cantabile vero e proprio, il tenore parte con il consueto pp e l’indicazione “dolce con calma” (il cantante quindi non dovrebbe strillare, ma dolcemente sussurrare) e dopo una brevissima forcella, la frase – sempre legata – va a spegnersi in un “dolcissimo morendo”, sino a sfumare nella pausa. Sempre piano con forcella a crescere e poi a diminuire riporta il tenore ad un ppdolcissimo” sulla parola “exaudisti”. Subito dopo attacca un ampio legato (da eseguire, quindi senza pause o respiri) e una frase che porta la voce sino al Si bemolle con una lunga forcella che accompagna l’ascesa del tenore, ma che subito si spegne in un pp dopo un difficile salto d’ottava. Si prosegue poi sempre piano con forcelle che diminuiscono in corrispondenza di “fac benigne” e crescono di intensità su “cremer igne” (che però non andrebbe strillato comunque, dato che il tremolo dei violini resta in pp). “Inter oves locum praesta” qui Verdi scrive “dolce”, non drammatico come si sente spesso, e accompagna la frase con numerosissime forcelle, a movimentarne la linea di canto. La stessa frase viene poi ripetuta sempre piano con una forcella sulla parola “statuens”. Ed ecco l’unico f del brano: “statuens” che porta il tenore ad un Sol tenuto e rinforzato per poi spegnersi “morendo”, così è scritto, “in parte dextra”. Siamo al finale: si parte in ppp e poi una forcella accompagna la voce in una rapida e scomoda ascesa sino al Si bemolle da legare al Mi conclusivo. Questo quello che Verdi ha scritto: un brano caratterizzato da mezze voci, dal respiro ampio, dal legato disteso e continuo, da una linea di canto morbida e delicata, nobile appunto, screziata di tanto in tanto da forti, ma mai fortissimi. Gli acuti, difficili e scomodi, sono sempre sfumati ed espressivi, non c’è alcuna ricerca di effetto strillato, di acuto teatrale, di puntatura. Tutto è piano o pianissimo, sussurrato, sottovoce, accennando. E il canto deve essere duttile e fermo, sereno, dolce. Del tutto diverso, invece, quello che spesso ci tocca ascoltare. Andiamo in ordine cronologico e partiamo da chi si sforza di seguire il dettato verdiano, senza sovrascritture o semplificazioni. Ovviamente molto dipende dal direttore e molto dal cantante – dal tenore in questo caso – e dalle sue capacità tecniche. Purtroppo, si osserverà facilmente, man mano che ci si avvicina all’oggi, che le esecuzioni si fanno approssimative, scorrette, brutte. Le dinamiche scritte da Verdi vengono via via ignorate sino a giungere agli odierni Requiem più adatti ad uno stadio di calcio che ad una sala da concerti.
Ma procediamo con ordine e iniziamo con Toscanini e Keilberth entrambe datati 1938, il tenore è Rosvaenge. Colpisce innanzitutto il fraseggio, ampio e nobile e l’incedere solenne, scolpito. In entrambe le incisioni è evidente la cura e l’attenzione ai segni espressivi previsti, alle legature, ai fiati, alle forcelle soprattutto. La voce è grande, ma perfettamente controllata, con dei Si bemolle acuti di potenza tellurica, ma mai sbracati. E dove richiesto essa si fa dolce e calda. Più sfumata e morbida con Toscanini, più solenne e “sacrale” con Keilberth, resta comunque sempre nobile e aristocratica, nella sua estrema compostezza e pulizia.
Procediamo con Gigli e Serafin nel 1940 e Di Stefano e De Sabata nel 1954. Due mondi diversi per sensibilità e stile, ma accomunati dall’accuratezza nel seguire le prescrizioni verdiane. La voce e l’interpretazione di Gigli colpisce innanzitutto per la grande dolcezza e umanità, i pianissimi che sembrano dipinti, gli splendidi “morendo” nella prima e seconda frase del cantabile, eseguiti come nessun altro dopo di lui, che sembrano perdersi dolcemente nell’assoluta bellezza di una musica che non pare scritta dall’uomo. Il fraseggio è accuratissimo (anche se qualche forcella e qualche legato non vengono eseguiti alla lettera). I Si bemolle sono sempre sicuri e facili. Di Stefano, quindici anni dopo, affronta la parte con un atteggiamento diverso, più vigoroso e corposo, caldo e scolpito. Mentre De Sabata impone tempi più ampi e solenni.
L’interpretazione di Reiner nel 1957 è invece caratterizzata da accenti più cupi, drammatici, ma al tempo stesso pieni di aristocratica spiritualità. Perfettamente aderente al disegno direttoriale è l’interpretazione di Bjorling, con cura estrema di fraseggio, legature (anche se non sempre eseguite come prescritto), forcelle. Il canto è nobile, fermo, dolce.
E’ poi la volta di Giulini, col Requiem inciso per la EMI nel 1961, con Gedda. E’ il mio preferito (per quanto possa valere). Semplicemente perfetto. Tutte le indicazioni verdiane sono seguite alla lettera, dai tempi alle agogiche, dai legati ai segni espressivi.
Veniamo a Pavarotti, prima alla Scala nel 1967 con Karajan (un’autentica meraviglia), poi Solti e infine Muti. La voce è sempre splendida e le indicazioni verdiane sono sempre seguite, anche se con Karajan è molto più attento che con Solti (che dà al Requiem un tono forse eccessivamente teatrale ed esteriore) o Muti (la cui interpretazione appare troppo drammatica, con tempi spesso “bersaglieri” e poca attenzione alla dolcezza). Pavarotti resta, inutile dirlo, splendido, solare, con acuti brillanti e grande sapienza nel fraseggio e nel legato.
Lo stesso invece non si può dire per Domingo, secondo me voce del tutto inadatta per il Requiem. Lo trovo sempre schiacciato e poco naturale, giocato più sull’effetto sornione che sul rispetto delle indicazioni espressive. Gli acuti sono come al solito sforzati e spesso brutti. Pessima l’edizione con Barenboim degli anni ’90, con un Ingemisco preso a velocità supersonica. Sciatto e sbrigativo. Deludente anche nell’edizione celebre, ma assai poco riuscita, diretta da Abbado.
Pure alcune riserve sull’edizione Karajan con Carreras, con un Ingemisco poco fedele e troppo drammatico.
Splendido invece Bergonzi, perfetto nel seguire le indicazioni della partitura.
Dagli anni ’80 in poi, però, inizia il progressivo distacco da quella nobiltà propria del Requiem e di Verdi in generale: tale degenerazione sfocerà poi nel completo fraintendimento dello stile verdiano a cui stiamo assistendo da almeno 15 anni. Dopo le prove non certo immacolate di Domingo, Carreras, Hadley, Araiza, Cole etc.., e tralasciando certi episodi che poco hanno a che fare con Verdi, come Bocelli/Gergiev, vorrei soffermarmi su tre edizioni in particolare, censurabili ciascuna per diversi aspetti.
Innanzitutto l’edizione diretta da Celibidache, incisa nel ’93: fin dall’inizio appare chiara la personalissima visione del direttore, con quella estrema dilatazione dei tempi senza però perdere tensione e concentrazione, che è cifra tipica delle sue interpretazioni. Peccato che in questo caso il lato vocale appaia assai trascurato, sia nella scelta dei cantanti che nella loro gestione. Celibidache, in buona sostanza, prescinde quasi totalmente dalle indicazioni verdiane, a favore di un suo disegno che mal si realizza. Il tenore è un Peter Dvorsky in enorme difficoltà negli acuti, che appaiono affaticati e tremolanti. Oltre a questo imprime al brano una piattezza sconsolante, ignora le forcelle, inserisce crescendi e fortissimi ove non previsti, rovinando ad esempio i “morendo” del cantabile. Un canto privo della dolcezza richiesta e perennemente affannato. La “perla” alla fine: un’orrenda pausa per prendere fiato tra “statuens” e “in parte dextra”, con lancio di uno sgangherato Si bemolle che resta per altro soffocato nella gola.
Altra edizione: il Requiem “filologico” di Gardiner, con orchestra on period instruments e diapason aggiustato. Tralascio ogni considerazione in merito all’esecuzione strumentale e alla presunta aderenza alla prassi d’epoca per concentrarmi sulle infelici scelte vocali, in particolare le voci maschili. Il tenore è Luca Canonici, dotato sì di un timbro gradevole, ma del tutto inadeguato a reggere la scrittura verdiana. La voce è troppo piccola e leggera (anche se artificiosamente scurita, con effetto sgradevole), da risultare spesso soffocata dalla già ridotta orchestra “d’epoca”, che non ha certo una potenza sonora soverchiante, immagino che con un’orchestra normale, sarebbe addirittura inudibile. Gli acuti sono faticosi, il Si bemolle osceno, il fraseggio è spesso affrettato. Anche qui, in barba alle premesse filologiche, le indicazioni verdiane vengono spesso ignorate.
Infine Sinopoli. C’è un termine americano che ben definisce questa sua direzione del Requiem: “boombastic”. E’ superficiale e fragorosa, inutilmente chiassosa . Il tenore, Botha, è assolutamente pessimo nel ruolo affrontato: pare ignorare il significato dell’indicazione pp, è perennemente sforzato, omette tutti i “morendo” e i “dolcissimo”, la voce è singhiozzante e sgangherata, la dinamica è completamente appiattita, i salti d’ottava sono sballati, i Si bemolle sono strillati, scomposti e di una bruttezza mai udita. Il tutto comunica una volgarità francamente indegna del grande direttore (oltre che insultante nei confronti della musica di Verdi).
Il resto è l’attualità. L’attualità dei tanti Requiem recenti che occupano tutta la scala di gradazioni che va dal sufficiente al mediocre e al pessimo. Tenori e soprani, mezzi e bassi, che di volta in volta ci sono stati annunciati come fenomeni, come gli “eredi” e i “continuatori”...e di chi? Direttori fracassoni, inclini all’effettaccio più esteriore, sicuri che basta “pestare” come ossessi sulle grancasse del Dies Irae per suscitare gli entusiasmi del pubblico. E infine proprio il pubblico, sempre meno interessato all’esecuzione, ma piuttosto al contesto, alla serata, ai nomi; e sempre più impreparato – perchè ormai disabituato alla nobiltà dello stile verdiano. Ecco, la nobiltà. Questa ormai sta sparendo nell’eseguire Verdi: tutto si fa triviale, strillato, parlato, la linea vocale si sporca, le indicazioni espressive restano ignorate. E la gente applaude, si spella le mani, fa la fila ai botteghini. Per Villazon, Alvarez, Cura e poi ci sarà Florez, prossimo al debutto verdiano, e altri ancora che si improvviseranno tenori verdiani (penso a Vargas). Il tutto con buona pace del Maestro e di ciò che ha scritto e che basterebbe saper leggere.
Scrisse Verdi ad Hans von Bulow il 14 aprile del 1892: “Felici voi che siete figli di Bach! E noi? Noi pure, figli di Palestrina, avevamo un giorno una scuola grande...e nostra! Ora s’è fatta bastarda, e minaccia rovina. Se potessimo tornare da capo!” Vero...se potessimo tornare da capo, tornare a quella nobiltà che già Verdi sentiva che si stava perdendo nel 1892! Figuriamoci ora. Tornare da capo, ma siamo ancora in tempo?

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mercoledì 5 novembre 2008

Flórez in Hyde Park - 08/09/2007

I Proms 2007 si sono chiusi con un concerto in Hyde Park (BBC Concert Orchestra diretta da Carl Davis) cui ha partecipato, fra gli altri, il tenore Juan Diego Flórez.

Il primo dei tre interventi di Flórez è la cavatina del Roméo e Juliette. Non sappiamo se questa scelta sia indicativa dell'intenzione di affrontare il cimento di una produzione teatrale, o magari di includere il brano in un futuro cd "Hommage à Kraus". Speriamo di no, perché la garbata (e alquanto nasale) voce del cantante peruviano non ha il peso specifico del tenore lirico, né l'interprete dispone di quella tavolozza di colori necessaria per non ridurre l'incantevole melodia gounodiana a una languida cantilena da salotto. Insomma, è un problema non tanto di dote naturale (quale era quella di un Giuseppe Morino, capace tuttavia di ricamare ogni dettaglio di questa cavatina come pochi altri?), quanto di assoluta indifferenza nei confronti di quello charme tutto francese che, per dirla con miss Ashton, "si sente e non si dice" (ascolti consigliati: oltre al sempreverde Alfredo, l'elegante ma tutt'altro che anemico Léon David e il classico, benché alquanto stonato, Georges Thill).
Altri due grandi Romei: Beniamino Gigli e Alain Vanzo.

Secondo brano: Ella mi fu rapita... Parmi veder le lagrime. La voce del Duca, nel Rigoletto, viene quasi convenzionalmente associata a quella di tenore lirico. E’ mio parere, però, che il tenore lirico-spinto assurga meglio al compito di restituire il fraseggio e il carattere ideali di questo personaggio. Infatti la miglior resa possibile del personaggio, da ogni angolatura possibile, la ritroviamo nelle prestazioni di tenori quali Caruso, Peerce, Gigli (aggiungiamo anche il “liricissimo” Pavarotti) per citare i primi esempi che vengono in mente. Anche altri tipologie vocali hanno voluto affrontare questo ruolo (o solo delle selezioni), tipologie che sforano dal modello di vocalità richiesto: stiamo parlando, ad esempio, di Schipa, tenore di grazia (ma che i contemporanei descrivono come una voce tutt'altro che piccola) oppure Kraus (sostanzialmente tenore contraltino, ma non certamente una voce di tenore leggero). Nel caso di Juan Diego Flórez ci troviamo in presenza di una voce prettamente da tenore leggero, anche se spesso (ed impropriamente) si sente attribuita a lui la definizione di lirico-leggero. Quando un tenore leggero si avvicina a repertori non di propria pertinenza, come in questo caso, esiste il problema da un lato, di non cadere nella tentazione di spingere troppo in zone della voce non proprio congeniali alla questa vocalità (mi riferisco in particolare ad una certa insistenza nei centri, dove viene richiesta molta polpa vocale), evitando danni a livello degli organi preposti alla fonazione e un calo della qualità dell’esecuzione.
D’altro canto, però, gli stessi accorgimenti, come un serpente che si morde la coda, possono andare a discapito di una corretta caratterizzazione del personaggio (un tenore che si deve mantenere costantemente leggero per necessità non è un tenore che può rendere bene il Duca). Intanto, da questa registrazione di Juan Diego Flórez, notiamo una – mai riscontrata dal vivo – uniformità di volume anche nelle note più gravi. Siccome le discese al registro grave sono frequenti e importanti, su questo fronte ci riserviamo di ascoltare Flórez dal vivo, per fugare ogni dubbio in merito. Posso solo azzardare l’ipotesi che sia merito del microfono.In quest’aria abbiamo una caratteristica alternanza di frasi ora più liriche, ora più spinte. Nelle prime Flórez riesce a mantenere una certa leggerezza (che certamente non hanno una completa aderenza con il personaggio, ma almeno è cosa apprezzabile dal punto di vista prettamente tecnico), mentre sorgono problemi seri per le seconde: il canto si fa muscolare, specie dal sol acuto in su, le note più acute risultano poco timbrate, la voce si fa nasale e con essa la dizione e il fraseggio perdono consistenza (e non sono più quelli di un fiero uomo che ha perduto la donna amata). Credo che sia ancor più esemplificativo dei difetti di Flórez il confronto con Tito Schipa (mirabile prova di equilibrio tra la vocalità di grazia e il pathos drammatico). Il consiglio per Flórez è dunque di evitare questi repertori spinti, proprio per motivi strutturali oltre che per assenza di affinità elettive.

Alcuni ascolti di grandi Duchi:

Enrico Caruso; Jan Peerce; Beniamino Gigli; Alfredo Kraus (a 60 anni); Luciano Pavarotti; Richard Tucker; Tito Schipa.

Il parco programma si chiude con un medley di canzoni latinoamericane ("Solamente una vez" di Lara,"¡Ay Jalisco no te rajes!" di Esperón e "Alma llanera" di Gutiérrez, tratta dall'omonima zarzuela), amore di gioventù di Juan Diego, il quale si scuote per l'occasione dal torpore interpretativo che gli è caro e si abbandona alle melodie, ora cullanti ora spumeggianti, trovando accenti d'ingenua passionalità che fanno pensare al nostro Tajoli. Tali pregi sono particolarmente evidenti nell'ultimo assolo, che, cantato nella zarzuela dalla protagonista Rita, abbigliata con il tradizionale costume venezuelano, gode in patria di una popolarità almeno pari a quella della romanza della Vilja. La zarzuela si conferma quindi un must per i cantanti di area spagnola, e speriamo anzi che Flórez si dedichi con maggiore frequenza a questo repertorio, che cantanti come Teresa Berganza, Alfredo Kraus, María Barrientos e Jaime Aragall hanno reso popolare anche in terra non iberica.

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giovedì 19 giugno 2008

Duchi di Mantova "belli e fatali"

E’ il prototipo del seduttore, senza scrupoli e, soprattutto, senza sentimenti, se non falsi, simulati e strumentali al proprio scopo. Seduttore per il gusto della seduzione, per placare la fame predatoria.
Nonostante l’unico momento di vero sentimento, rappresentato dalla sezione centrale dell’aria del secondo atto, queste sono le note caratteristiche del Duca di Mantova, che lo staccano da tutti gli amorosi verdiani. Gli altri amano e soffrono e, magari, muoiono per amore, lui per esercizio. Tanto è che trova anche una (scema?) che muore per lui.
E l’esercizio predatorio si spiega sempre ed ovunque nei confronti delle dame della sua corte, ovviamente coniugate, nei confronti di una ragazzetta agganciata in chiesa ( talvolta l'agnosticismo giova se non all’anima all’integrità fisica) e di una autentica e conosciuta donnaccia, che "lavora" per le vie e in una osteria, quanto meno di dubbia fama.
Nonostante la connotazione inequivocabile di eroe negativo le possibilità di esecuzione sono varie. Come, infatti, varia è la tradizione interpretativa del Duca di Mantova.
Infatti al primo esecutore Raffaele Mirate, che era un tenore centralizzante, aduso a ruoli cosiddetti drammatici e con una certa propensione al repertorio rossiniano, subito si affiancò il tenore di grazia rappresentato da Mario de Candia.
E il doppio canale è proseguito. Si pensi ai coevi Alessandro Bonci ed Enrico Caruso, paradigmatici delle due scuole di interpretazione, sino al nostro recente passato Alfredo Kraus contrapposto a Luciano Pavarotti.
Questo perché la scrittura del Duca, pur insistendo ostinatamente sul passaggio superiore non prevede ( salvo puntature fuori ordinanza) acuti estremi. Certo è che certe frasi del duetto d’amore in particolare "Ah due che s’amano son tutto un mondo", "sua voce è il palpito", sino al "Ah dunque amiamoci" dove le continue indicazione di ppp, di crescendo e stringendo e le forcelle incrementano le difficoltà, piuttosto che l’intera sezione centrale dell’aria del secondo atto, e l’intera scrittura della parte del tenore nel quartetto insistono nella zona mi3 sol3.
E se l’esecuzione deve essere completa ci sono pure alcuni passi di agilità alla stretta della cabaletta del secondo atto, oltre all’esigenza della ballata e della canzone di un canto sillabico facile ed alla presenza di cadenze originali al duetto con Gilda tutt’altro che elementari.
Non per nulla tenori poco ferrati tecnicamente come Giuseppe di Stefano, in una poco felice ripresa scaligera del 1954 o il recente Alagna scaligero dimostrano che il Duca o sa passare di registro o si strozza ed il suo canto non è ne seducente né predatorio, ma arrancato e faticoso.
Perché che si aderisca all’idea di una seduzione aggressiva e spavalda, incosciente e padana (nessun personaggio di Verdi è più padano del Duca) sia che si segua l’idea di un seduttore quasi perverso e laido il Duca deve saper cantare, legare e smorzare. Chi infatti deve piacere e conquistare lo fa solo con il canto a fior di labbro, sfumato e raffinato anche alle prese con una "da sbarco".
A questa raffinatezza esasperata, quasi femminea, in un personaggio che di femmineo ed efebico nulla ha risponde Giacomo Lauri Volpi. Sebbene ultracinquantenne e non troppo in regola con l’intonazione rende l’idea di quello che doveva essere il duca di tradizione ottocentesca dei grandi tenori. Interpretazione del Duca cui si attenevano, come dimostrano i reperti discografici tenori come Schipa, McCormack , Bonci ed Anselmi. Sorprende più di tutti Lauri Volpi perché, pur avendo debuttato come tenore di grazia si trasformò presto in tenore drammatico, sia pure lontano da stilemi vocali e gusto verista. Alla stessa idea di Duca si attiene in lingua russa, la cui marcata colorazione vocale in alfa, da un particolare misto di languore ed affettazione Kozlosky. Inutile dire che rispetta i segni di espressione e più ancora riesce ad essere al tempo stesso amoroso nel recitativo e nella sezione centrale della grande aria del secondo atto, conclusa con una cadenza spettacolare, che se non sbaglio porta la voce al re bem.
Dotati tutti di voce bellissima, gradevole, insomma, superdotati in natura Aragall, Bjoerling, Pavarotti indulgono un poco più al compiacimento del loro eccezionale strumento rispetto gli altri Duchi che proponiamo.
Basta raffrontare il recitativo di Bjoerling e quello di Kozlovsky ed il risultato non cambierebbe nel raffronto Pavarotti Schipa. E’ quella del cesello dell’eleganza la strada obbligatoria delle voci meno dotate in natura con l’irrinunciabile presupposto di una tecnica scaltrita e di una fantasia quanto meno varia.



Gli ascolti

Verdi - Rigoletto


Atto I
Questa o quella - Jaime Aragall
E' il sol dell'anima - Giacomo Lauri-Volpi & Lina Pagliughi

Atto II
Ella mi fu rapita...Parmi veder le lagrime - Jussi Bjoerling, Ivan Kozlovsky

Atto III
La donna è mobile - Luciano Pavarotti
Un dì se ben rammentomi...Bella figlia dell'amore - Gianni Raimondi, Leyla Gencer, Cornell MacNeil & Carmen Burello

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lunedì 19 maggio 2008

I Lombardi alla prima crociata

I Lombardi alla prima crociata dovevano essere l’opera della conferma, quando andarono in scena l’11 febbraio 1843 alla Scala, conferma che Verdi non fosse una meteora, ma un solido musicista, l’erede della tradizione italiana.
E’ compito della critica togata definire il valore dell’opera, degli esecutori di ogni epoca rendere il miglior e più completo servizio all’autore, eseguendo l’opera con il rispetto della non facile scrittura vocale.

Soprattutto con riferimento a Giselda, il ruolo protagonistico che Verdi predispose per una delle dive più famose dell’epoca: Erminia Frezzolini, prima esecutrice di Lombardi e Giovanna d’Arco. A sentire Gino Monaldi nel suo “Cantanti celebri” il merito del successo della prima rappresentazione dei Lombardi fu più del maestro, quello di Giovanna d’Arco dell’avvenente prima donna.
Leggere le parole che Monaldi dedica alla prima donna ricorda quel che antecedentemente Stendhal dedicò a Giuditta Pasta. Soprattutto la descrizione di Erminia Frezzolini protagonista di Beatrice di Tenda nel 1841, ossia alla vigilia della sua interpretazione dei Lombardi, rende comprensibile perché Verdi nel ruolo di Giselda toccò tante corde espressive e vocali per la protagonista. Elegiaca nelle due arie, vibrante nella grande scena che chiude il secondo atto (a nessuna primadonna Verdi riserverà una scena di così elevato tasso virtuosistico, tanto è che il rondò “No giusta causa” venne anche riciclato nell’Ernani), insurrezionale e patriottarda nella sezione conclusiva della polacca “Non fu sogno”.
Insomma un personaggio poliedrico e sfaccettato, come tutti quelli riservati alle primedonne più famose e più complete dell’epoca, celebri sia come esecutrici che come interpreti.
Certo conta anche il mutamento del gusto, l’avvento della vocalità del tardo Verdi e del Verismo ebbero la loro rilevanza nella sparizione, o quasi, dei Lombardi dai palcoscenici dopo il 1870, ma non può definirsi estranea, anzi, rilevante la difficoltà di reperire soprattutto la protagonista femminile in una parte dove non bastavano il vigore, “il fuoco” e tutte le preclare qualità delle primedonne fra il 1900 ed il 1950, a differenza di quello che accadeva con titoli di identica scrittura vocale come Norma, Abigaille.
Chi sente le registrazioni di Bianca Scacciati, Giselda nel 1930 anche in Scala e che registrò il terzetto finale capisce bene i motivi che sconsigliavano, al di là di gusto ed estetica correnti, una ripresa dei Lombardi.
Anche le esecuzioni discografiche esemplari per qualità vocale, rispetto delle indicazioni dinamiche dell’autore di Giannina Arangi Lombardi e di Elisabeth Rethberg non riportano i grandi passi di agilità, che connotano il ruolo. Certo che è falso quanto sostenuto, anni or sono, da Sergio Segalini, che parlò di mancanza di accento verdiano con riferimento all’esecuzione della Rethberg, la quale, invece, è elegante, precisa nell’esecuzione, pur con il vigore e lo slancio che connotano la cantante verdiana.
Eppure proprio in quegli anni vi era disponibilità di esecutori, che nel dopo guerra, con poche eccezioni (Bergonzi e Pavarotti) non sarebbero stati disponibili, che avrebbero potuto affrontare Oronte o Pagano. La registrazione del terzetto, l’unico brano ripetutamente registrato anche ai primordi della registrazione comprova le qualità di esecutori del primo Verdi di de Angelis o di Pinza, per non dire di Léon Escalais e Lauri Volpi (pure non più giovanissimo), che esemplificano l’accento aulico del più autentico tenore verdiano anche in un personaggio, Oronte, più elegiaco che eroico, ma pur sempre verdiano e di ascendenza donizettiana.

Atto I

Sciagurata! Hai tu creduto - Samuel Ramey, Ruggero Raimondi
Salve, Maria - Giannina Arangi Lombardi, Renata Scotto

Atto II

La mia letizia infondere - Carlo Bergonzi, Luciano Pavarotti, Léon Escalais, Franco Corelli, Giacomo Lauri Volpi
Oh madre, dal cielo - Giannina Arangi Lombardi, Sylvia Sass
No!... Giusta causa - Aprile Millo, Christine Deutekom, Ghena Dimitrova

Atto III

Dove sola m'inoltro? - Aprile Millo & Carlo Bergonzi
Qual voluttà trascorrere - Elisabeth Rethberg, Beniamino Gigli & Ezio Pinza, Renata Scotto, Luciano Pavarotti & Ruggero Raimondi, June Anderson, Carlo Bergonzi & Ferruccio Furlanetto, Frances Alda, Enrico Caruso & Marcel Journet, Vivian Della Chiesa, Jan Peerce & Nicola Moscona

Atto IV

Non fu sogno! - Christine Deutekom

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mercoledì 14 maggio 2008

Le interviste: Shalva Mukeria

Fedeli all'impegno preso ed alle finalità che ci siamo dati con questa nostra infrequente rubrica, siamo riusciti finalmente ad incontrare Shalva Mukeria a Genova. Il tenore georgiano è fra i pochi giovani artisti che ci abbiano favorevolmente impressionato. Come potrete rendervi conto da voi, le sue parole sono state poche, prive di vanità e misuratissime, ma assai significative. Ci è parso un grande professionista che dà il giusto peso a ciò che più che conta nel suo mestiere, ossia la qualità del canto, inteso e praticato secondo le vecchie regole, quelle della grande tradizione tenorile romantica.


DD Lo studio del canto, come mai?
SM Ho studiato il canto per 12 anni. Oggi non si studia più così tanto. Lo studio del canto richiede pazienza. Ho cominciato a studiare ad Odessa, poi in Spagna, ma con un maestro georgiano che vive lì da 20 anni.

DD Poi lei era uno strumentista, se non sbaglio?
SM si un clarinettista. Lo strumento a fiato aiuta moltissimo per il sostegno della voce. (Nel parlare SM fa il gesto significativo del sostegno). Per collegare pancia e gola.

DD Ci sono stati dei modelli di cantanti?
SM Prima di tutto Pavarotti e Kraus. Però è impossibile prendere da uno solo. Impari da tutti. Da Kraus che fu per tutta la carriera molto “stabile” tecnicamente. Poi dai grandi come Schipa, Gigli, Lauri-Volpi, che affrontarono il repertorio più pesante dopo i trentacinque anni.

DD Fra gli ascolti ci sono anche i grandi tenori russi?
SM Si, ma non tanto, Lemeshev e certo Kozlowsky, sotto il profilo tecnico un grandissimo.

DD Smirnov, Sobinoff?
SM Sì, Smirnov.

GG Talvolta il suo timbro richiama quello dolce e giovanile di questi tenori, soprattutto con Edgardo.
SM Edgardo è il mio personaggio; soprattutto nel finale ho pensato molto prima se fosse il caso di farlo a voce più piena, poi, ho pensato che stava morendo e quindi l’espressione doveva essere quella, dolce e cantare piano e pianissimo
AT Infatti tutti hanno trovato splendido il finale, devo, però dire che il momento più emozionante è stata la maledizione al finale secondo.

DD E il repertorio?
SM Altre opere di Donizetti sicuramente, ho preparato a Vienna il Fernando di Favorita nella versione francese. Spero di poterlo fare presto. Poi il repertorio francese, Werther e soprattutto Des Grieux di Manon. Un sogno. Come un sogno era debuttare Arturo dei Puritani. Per Manon devo lavorare ancora. Kraus diceva che ci voleva un anno per una parte. A proposito di Manon devo dire che Schipa è stato un grandissimo tenore, unico.

DD Fra l’altro la voce in teatro era amplissima e grande. Cantava con partners come la Ponselle.
SM Questo è proprio un fatto di tecnica, con la tecnica può bastare una voce piccola, ma se il suono è alto si sente sempre. Questo è poi il segreto della scuola italiana di canto: la proiezione della voce.

DD Anche Edita Gruberova canta con questa tecnica, come è stato cantare con la Gruberova?
SM Bellissimo fare i Puritani, una grande primadonna. Ha una energia, una grande resistenza.

DD Sempre parlando di repertorio e Rossini?
SM Rossini e soprattutto il canto di agilità. Quelle di Rossini cioè quelle di forza non mi vengono sempre bene. Forse dovevo studiarle di più gli anni passati. Adesso potrebbe essere tardi. Però faccio lo Stabat e, soprattutto fra due anni Arnoldo del Tell. Parte difficilissima.

DD Un cantante con le sue cognizioni tecniche quanto tempo dedica alla tecnica?
SM Ancora tanto. Comincio alla mattina presto, alle otto o alle nove, un’ora di tecnica. Poi nel pomeriggio studio l’opera e mi preparo. Questo tutti i giorni salvo la domenica. Domenica è festa. Se ho recita la mattina venti minuti mezz’ora sempre di studio, poi ancora nel pomeriggio.
Però il mattino è il mattino. Al mattino arrivano “informazioni dall’alto”.

DD E quando prepara un ruolo?
SM Non credo si debba esagerare con la tecnica, ossia fermarsi sul solo dato tecnico. La tecnica è, poi, lo strumento per fare musica. Quanto il ruolo è tecnicamente imparato ed a posto arriva la musica ad aiutarti a preparare il ruolo.

DD Il ruolo nel tempo cambia?
SM Non cambia del tutto, ma devi essere pronto a cambiare al momento sul palcoscenico, certo entro i limiti del personaggio non penso si possa essere assolutamente identici tutte le sere e tutte le volte che si riprende un personaggio.

DD L’anno scorso c’è stato il debutto in Scala con Figlia del reggimento. Che ci racconta di questa esperienza?
SM La storia è molto semplice. Mi avevano sentito a Vienna, mi hanno chiesto un’audizione in Scala e mi hanno preso.

DD Certo, ma era emozionato, spaventato all’ingresso in scena?
SM Emozionato, contento al tempo stesso, ma ero ottimista sull’esito, mi sentivo pronto e preparato. Sicuramente quello che provavo era una serie di sentimenti.

GG Ha mai provato ad emettere gli estremi acuti utilizzando il falsettone, tipo Merritt o Gigli?
SM no non ho mai provato. Devo dire che lo sforzo maggiore nello studio è avere sempre il giusto sostegno per poter cantare piano e pianissimo. La scuola italiana parla di gola libera e fa sempre l’esempio della tecnica dello sbadiglio per garantire il controllo tecnico costante e sicuro. La cosa difficile è imparare a sentire la tua voce ovvero non basta mettere la bocca in un certo modo, ma associare alla posizione il suono giusto, sentire che il suono che emetti va bene. E un problema di tempo, di provare e riprovare. Infatti come ho detto prima non si può studiare due o tre anni, ma dieci anni..

DD Il problema dell’insegnante: dove arriva l’insegnante e dove, invece, è l’allievo?
SM Nei primi due o tre anni l’insegnante è essenziale. Poi spesso devi cercare l’insegnante. L’insegnante valido per me può non essere valido per un’altra persona. In realtà l’allievo deve conoscere l’insegnante e sapere che cosa l’insegnante può dare e cosa, invece, non può dare.
Servono molto anche i trattati di canto. Non bastano per imparare a cantare, ma sono un controllo ed una conferma di quello che fai. Spesso leggendo hai la prova di certe impressioni di certe cose che fai, ma che non sapevi spiegarti. E poi, naturalmente, il lavoro quotidiano di studio.

DD L’esercizio, vero, in fondo il cantante è un po’ artista ed un po’ atleta.
SM Vero per il controllo del fiato lo sport è utilissimo. Il nuoto soprattutto, ma anche il tennis.

DD Ritornando ai ruoli, ha mai pensato al Pirata?
SM No, è una parte difficilissima acutissima. Più dei Puritani. Arturo dei Puritani, però richiede, una maggiore ampiezza ed energia del Pirata.
A parte Favorita e Des Grieux, sto guardando Boheme, voglio provare. E’ una prova, un po’ come nello sport che si aumenta giorno per giorno. Sono fatalista, i ruoli spesso arrivano al momento giusto.

DD Se pensa a Rodolfo di Boheme, perché non il Cavaradossi di Tosca, lo hanno fatto anche tenori come Kraus e Schipa.
SM Per il momento è presto, non mi sento pronto. Devo aspettare. E poi chi può pensare di superare Corelli nel “Vittoria Vittoria”?

DD Non mi sembra il caso di preoccuparsi oggi di tenori che squillano non ne esistono più !!! A parte gli scherzi, domanda rituale, che impegni la aspettano?
SM Ancora Sonnambula nei prossimi giorni a Salerno con Annick Massis, poi Rigoletto in Spagna, Puritani a Palermo ed in Francia. E poi, nel futuro Guglielmo Tell.

DD Per questo incrociamo le dita.

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venerdì 22 febbraio 2008

Edgardo di Ravenswood, l'arte romantica della morte.

Se fosse stato un tenore del giorno d’oggi, Louis Gilbert Duprez, interprete della prima rappresentazione della Lucia di Lammermoor a Napoli nel 1835, si sarebbe accontentato dei generici consensi riscossi originariamente cantando il repertorio del tenore di grazia rossiniano.

Generico consenso come quello che gli venne tributato a Milano, in occasione proprio delle rappresentazioni dell’Otello, trionfatrice la Pasta. Duprez, infatti, allora ancora tenorino di grazia, per nulla bello d’aspetto ma assai elegante, pare avesse il solo merito di esibire piedi straordinariamente piccoli, che nobilmente sapevano calzare delle scarpette di seta bianche, capaci di attrarre l’attenzione delle signore. Sarebbe dunque andato avanti così, ad esibire una voce di timbro non certo particolare, a snocciolare buone agilità e ad esibire acuti emessi “di grazia”, ossia in falsettone, come era prassi sino al finire degli anni ’20.
Ma Duprez non pensava come i tenori di oggi e perciò passò alla storia, a dispetto della sua originaria….mediocrità. Non lo decise consciamente, per forza: finì per farlo, travolto dal turbine della competizione con l’indiscusso re del canto del suo tempo, sia di quello epico che di quello malinconico, re per timbro oltre che per ampiezza e capacità acrobatiche: Giovan Battista Rubini. Fare concorrenza a chi ha molti più numeri, si sa, può portare a percorrere strade difficili e talora anche pericolose: il prode francese dal piccolo corpo rachitico e dal timbro non bello, seguì la via dell’accento, del guizzo eroico, secondo un modo nuovo, personalissimo e, alla fine, rivoluzionario per la storia del canto. A furia di cercare proiezione e squillo, e in barba alle convenzioni stilistiche, approdò per primo all’emissione della gamma acuta a voce piena: dal 1831 nel Guglielmo Tell il tenore cominciò a cantare la sua parte integralmente di petto, do compresi. E soprattutto! Un nuovo slancio, una nuova forza di accento eroico e tragico entrarono da quel momento nella vocalità del tenore di grazia, conferendogli prerogative drammaturgiche diverse, in parte appannaggio del precedente tenore di forza. Tecnica e modi interpretativi che gli derivarono proprio da Domenico Donzelli. Le fonti dell’epoca, soprattutto Panofka, deplorarono l’invenzione di Duprez, di fronte alla quale Rossini avrebbe colpevolmente taciuto ( all’opposto del più tardo racconto di Monaldi, secondo cui Rossini gli avrebbe solo profetizzato una breve durata di carriera ), perché portatrice di nuovi equilibri sonori tra le voci, e tra le voci ed la buca ( al contrario di quanto oggi alcuni opportunisticamente affermano ). Non possiamo confondere la concezione dell’epoca con la nostra concezione della “forza”, che siamo ormai soliti scambiare per suoni spessi, sparati e mai portati, figli di prassi stilistiche successive. Era la forza della voce piena appunto, mai mista, ma comunque modulata e controllata, dove l’emissione pura superava ogni eventuale limite timbrico. Così doveva cantare il tenore di cui s’innamorò Donizetti, che per lui aveva già scritto, prima del mirabolante do di petto, la Parisina e la Rosmonda d'Inghilterra, mentre a Lucia seguirono Les Martyrs, La Favorite e Dom Sébastien. Duprez era celeberrimo, in Italia ed in Francia, espressione di una maniera diversa, nuova rispetto a Rubini, di cantare Juive e Les Huguenots.
Anche Duprez aveva cantato il Pirata, immediatamente prima del Tell, e con grande successo. Proprio le nenie composte da Bellini per Gualtiero divennero il modello indiscusso del lamento dell’eroe dolente e sconfitto interpretato dalle voci maschili, e non più femminili. Già con Gennaro di Borgia Donizetti aveva testato, su un personaggio più limitato dal punto di vista drammaturgico, il suo prototipo di scena di morte maschile. Con la Lucia obbligò l’eroe innamorato e perdente sia al canto dell’amoroso del I atto che alle scene eroiche del concertato e della cosiddetta “scena della torre”, che al lamento di morte. Ossia tutti i “topos” drammaturgici del tenore romantico.
La scena della morte di Edgardo, anche nelle sue testimonianze sonore, và inquadrata tenendo presente questi dati: la capacità del primo esecutore e di chi venne dopo di cantare sia “di forza” che “di grazia”. Nonostante innovazioni vocali del suo primo interprete, Edgardo fu appannaggio da subito sia di Rubini, che fu proprio il primo interprete della prima parigina della Luciè di Lammermoor, che di Donzelli. La scrittura di Edgardo, infatti, meno acuto di un Gualtiero, di un Elvino come dei contraltini rossiniani, risultava accessibile anche ai tenori “di forza”, attratti dal lato eroico del personaggio. La storia interpretativa di Edgardo, di fatto, annovera sino ai giorni nostri tenori prevalentemente contraltini ma pure tenori dotati di ampiezza vocale e/o di squillo, soliti anche al tardo Verdi: mentre i primi pativano il peso della scena della torre ( da cui la prassi del taglio, normalmente praticato anche nell’800 ) e della maledizione, i secondi potevano soffrire la scomoda tessitura del finale e, soprattutto, sul piano dello stile, oltre che dell’emissione. La morte di Edgardo, infatti, come già quella di Gennaro, è notoriamente ricca di ascendenze. Riecheggia ancora con evidenza quella di Romeo Montecchi, ad esempio: la giovanile ambiguità di uno degli ultimi en travestì postrossiniani, non ancora molto lontani nel tempo, traspare nel modo sconsolato, solitario, ma sempre astratto di concepire la morte; il lamento solitario, intimo e privo di eroismo come di qualunque cenno epico o guerriero, non può non ricordare quanto Rossini aveva voluto per Tancredi, che, una volta spogliato dai panni del guerriero e dell’amante, moriva con gli accenti del ragazzo. Per questo la morte di Edgardo, nonostante le prerogative arcinote del suo primo esecutore, appartiene al mondo del belcanto, quello astratto, dall’emissione pura, dalla dolce e progressiva salita verso l’acuto ( che non può essere ghermito, spinto o strozzato, e nemmeno “virilmente” emesso ), del timbro giovanile e fresco. Essa costituì, di fatto, un prototipo vero e proprio di scena di morte per l’opera italiana, tanto che Verdi, durante la stesura del Macbeth, scrisse a Varesi, primo interprete, sul modo in cui avrebbe voluto vedere morire il suo re usurpatore, un modo nuovo, diverso, che nulla avesse in comune proprio con la morte di Edgardo o Gennaro (…ma che tanto ricorda la scena di Assur in Semiramide…..). Sapevano morire bene i tenori della generazione successiva a Duprez, i cu repertori ancora si fondavano su Rossini, Donizetti, Bellini, Pacini: iol più celebre, Napoleone Moriani, il tenore della bella morte”. Quelli che praticarono Verdi, di lì a pochissimo, sapevano principalmente ben maledire, invece, come Fraschini o Tamberlick.

Alcuni brevi commenti agli ascolti.

Il vecchio Marconi, in un ascolto un po’ fortunoso, canta la scena finale a metà tra il tenore di forza e quello di grazia. Oscilla liberamente in un mix di accenti variegato, con una cadenza singolare, e per noi assai inusuale, in chiusa al “Fra poco a me”. Quanto al “Tu che a Dio”, la dinamica è anch’essa inusuale per noi, straordinariamente varia quanto antica per il nostro gusto.
Le scelte dinamiche di Bonci restano più simili alle nostre, elegantissima e sfumata la linea di canto; a metà strada Anselmi.

Purissimo il timbro di Mc Cormack: il suo Edgardo è astratto, ultraterreno quasi trasfigurato. Per sentire una simile qualità timbrica occorre scomodare Gigli.

Gigli sta con Schipa e Pertile: è la leggenda del canto del ‘900
A Gigli basterebbe già il timbro, naturalmente ambiguo, malinconico e purissimo. La sua bella morte è poi arricchita anche dal fraseggio: peccato non avergli fatto incidere anche la morte di Romeo Montecchi ….

Pertile è il solo tenore veramente di forza che non soffra per nulla sul piano dello stile nel Tu che a Dio. L’emissione è stupenda come il gioco dinamico dei rallentando , da quello su “ali”, quindi “teco ascenda”, “innamorata”.Come anche l’accentare sulla parola, con voce scura, “cruda guerra”, dolorosissima davvero. Ci si chiede se queste straordinarie intenzioni musicali fossero quelle di Toscanini, perché in questi nostri anni di toscaninismo deteriore……alcuni dovrebbero forse rimediare certe loro convinzioni direttoriali…..

Forse a Tucker manca la purezza del canto di Gigli e Pertile, ma resta facilissimo ed espressivo. Il canto è dolente , ma più di forza che di grazia.

Una parola speciale per Alain Vanzo. Voce più corposa e di maggiore qualità timbrica di Kraus, era il solo capace di esibire una perizia stilistica in grado di stargli a fianco. Il “Tu che a Dio” è cantato con grande intensità, così come più facile nell’accento è il recitativo “Tombe degli avi miei”

Della coppia dei grandi rossiniani, mentre Merritt delude soprattutto per problemi di intonazione, Blake stupisce e desta un certo rimpianto. Pur non avendo mai praticato il ruolo, canta l’aria benissimo: il prodigio del fiato gli consente di creare una grande linea di canto, con smorzature facilissime. Manca il timbro evidentemente, che forse lo penalizza nel “Tu che a Dio”, ma la facilità del canto e la ricerca di intenzioni espressive rendono valido il suo finale di Edgardo.

Shalva Mukeria è molto astratto, assai struggente. Il timbro è veramente giovanile, le salite verso l’alto sempre con voce avanti e timbrata. Tutta la scena è cantata in modo emozionante, il finale poi con vera disperazione, ma sempre in modo composto e bella emissione.
Non conosco un tenore di oggi che sappia cantare questa scena come lui. Il fatto che a questo tenore sia concesso soltanto un secondo cast nella periferica Jesi è la prova della sordità e dell’incompetenza della maggior parte dei direttori artistici italiani

Donizetti - Lucia di Lammermoor

- Tombe degli avi miei...Fra poco a me ricovero
1908 - Francesco Marconi
1910 - John McCormack
1913 - Giuseppe Anselmi
1913 - Alessandro Bonci
1916 - Giovanni Martinelli
1926 - Beniamino Gigli
1937 - Frederick Jagel
1949 - Ferruccio Tagliavini
1954 - Giuseppe Di Stefano
1961 - Richard Tucker
1964 - Alfredo Kraus
1965 - Jaime Aragall
1967 - Luciano Pavarotti
1967 - Gianni Raimondi
1970 - Alain Vanzo
1975 - Carlo Bergonzi
1982 - Rockwell Blake
1992 - Chris Merritt
2007 - Shalva Mukeria

- Tu che a Dio spiegasti l'ali
1908 - Francesco Marconi
1910 - John McCormack
1913 - Giuseppe Anselmi
1913 - Alessandro Bonci
1913 - Tito Schipa
1917 - Giovanni Martinelli
1923 - Aureliano Pertile
1926 - Beniamino Gigli
1931 - Hipolito Lazaro
1937 - Frederick Jagel
1942 - Jan Peerce
1949 - Ferruccio Tagliavini
1954 - Giuseppe Di Stefano
1961 - Richard Tucker
1964 - Alfredo Kraus
1965 - Jaime Aragall
1967 - Luciano Pavarotti
1967 - Gianni Raimondi
1970 - Alain Vanzo
1975 - Carlo Bergonzi
1982 - Rockwell Blake
1992 - Chris Merritt
2007 - Shalva Mukeria

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