lunedì 12 ottobre 2009

Mese verdiano VI - L'accento verdiano parte prima: " Ma se m'è forza perderti"

Secondo gli storici della musica nemmeno Giuseppe Verdi avrebbe lasciato una esatta e completa definizione di “accento verdiano”, espressione comune e diffusa nella storia come nella critica musicale, dato che l’espressione indica sinteticamente i modi del fraseggio pertinenti alla sua opera in generale. In breve, una sorta di motto destinato ad indicarne la poetica vocale, la sua travagliata ricerca per la creazione di un nuovo teatro musicale in lingua italiana. Insomma, il modo nuovo di esprimersi attraverso il canto.

Sul finire degli anni ’40 compaiono, negli scritti di Verdi, i primi accenni all’idea di “parola scenica”, ossia alla parola che necessita di un canto maggiormente e diversamente pregnante dal punto di vista drammaturgico, un canto di “accento” funzionale ad una migliore resa dei sentimenti.
Percorso difficile, non lineare, che portò di fatto alla messa a punto di un nuovo modo di fraseggiare, che si realizza nel conferimento di espressioni esattamente aderenti al significato drammaturgico, utilizzando eventualmente anche il colore della voce o qualche effetto extravocale, ma mai il declamato o il parlato puri come oggi li possiamo intendere. Semmai simulazioni di effetti parlati o declamati. La parla scenica è la grande invenzione verdiana, il nuovo modo della moderna opera italiana, che si attua attraverso una lieve e controllata “enfatizzazione” della parola ed anche delle frasi, che il Maestro sottopone alla propria egida grazie all’abbondanza dei segni di espressione.

La scelta dell’aria di Riccardo del Ballo viene dall’essere un momento topico dell’arte verdiana matura, che perfezione qui il suo archetipo tenorile, ormai svincolato dal retaggio della tradizione precedente, donizettiana in particolare.
Riccardo incarna il nuovo modello, perchè ricchissimo di sfaccettature psicologiche, rese con l’alternanza di momenti lirici e slanci, depurato da ogni relitto di canto fiorito, cabalette ( resta solo quella del duettone d’amore, che Verdi, in accezioni particolari come questa non rinnegherà mai, nemmeno nei suoi tardi remake ….). Psicologicamente il personaggio è un amoroso di rango aristocratico, capace di passare dal canto ironico e baldanzoso a quello di slancio, appassionato e travolgente, ma mai privo del suo “applomb” di nobile, conte e governatore. Il contrasto interiore tra l’amore per Amelia e la lealtà all’amico ed ai principi dell’onore sono accuratamente ed ampiamente rappresentati da Verdi, che impone a Riccardo il cambiamento continuo di accento perché continuo è il succedersi delle situazioni emotive e drammaturgiche. Il suo canto non può mai essere monocorde o piatto, perché così è l’”accento verdiano”: il compositore non lascia all’esecutore un solo attimo di riposo ma lo accompagna lungo il pentagramma con la sua peculiare ricchezza di segni di espressione, forcelle singole e doppie, corone, indicazioni di P, PP, PPP, e F, FF, FFF, e note come “ espressivo”, “stentando”, “morendo”, “cupo”, “con entusiasmo”, come nell’aria del III atto appunto.
Obbedendo in tutto alla prescrizione verdiana è impossibile non dar vita ad un accento vero, pienamente compiuto, drammaturgicamente efficace, vario. Si può solo aggiungere, se è ancora possibile inventare qualcosa che Verdi non abbia già pensato e se le capacità vocali dell’esecutore, anche in questo caso costretto di continuo al canto sul passaggio, lo consentono ( lo abbiamo visto con la straordinaria registrazione dell’Aida dell’Arangi Lombardi …). Ma nulla si potrebbe togliere, perché in questo Verdi, per quanto sintetico e per nulla teorico nell’illustrazione del suo volere, è stato chiaro. All’esecutore spetta l’obbedienza al suo volere, concezione che fa da spartiacque tra Verdi ed il mondo del belcanto ove l’esecutore aveva ampi margini di doverosa libertà ed intervento soggettivo .
Nella grande scena di Riccardo non è difficile, leggendo le parole del libretto, inventariare il succedersi dei pensieri che attraversano l’animo del protagonista, che si appresta alla separazione dalla donna che ama, compiendo il proprio dovere di amico, pur nel presagio della morte imminente. Il dolore per il distacco, la nostalgia, anche futura, per l’amore perduto e lontano, il presagio di morte si alternano nell’andante ove il canto resta sempre nobile, elegante, composto e misurato sebbene leggermente enfatico ( le impennate all’acuto ). Non c’è un solo momento che sia a squarciagola, piatto, di getto, anche se lo spettatore percepisce emozioni immediate e dirette. Il crinale su cui corre il cantante è questo, la resa di una apparente immediatezza ottenuta con la più totale razionalità e misura, anche nei momenti più concitati e di slancio, come la stretta dell’aria che introduce la festa.

Primo interprete del ruolo fu un tenore dalla voce bellissima e capace di canto di slancio, Gaetano Fraschini, nato sulle opere di Donizetti e descritto, per il timbro, come una sorta di Pavarotti, di voce chiara, argentina e squillante, capace, come interprete, di mezze voci e di emissione dolcissima.
Riccardo venne ritenuto da subito ruolo completo, connotato anche da certe ascendenze francesi, comunque molto impegnativo. L’aria del III atto, soprattutto, era giudicata pesante, sia per le sparate in alto che per le discese in zona grave nel recitativo e nell’andante, perciò elisa spessissimo in teatro, prassi questa da far rientrare nelle innumerevoli e varie manomissioni cui le opere di Verdi venivano sottoposte anche vivente il Maestro. Il ripristino effettivo ebbe luogo, di fatto, nel dopo guerra e perlomeno sino agli ’50-‘60 la presenza della grande scena rimase opzionale. Al pari dell’aria di Don Carlos, come vedemmo a suo tempo, vi sono pochi documenti di inizio secolo, mentre numerose sono le incisioni della prima scena come del duettone.

Vi è una incisione rara del mondo dei 78 gg, forse la prima, assolutamente straordinaria, ossia quella del 1923 di Antonio Cortis: è la più impressionate e perfetta interpretazione dell’aria di Riccardo. Il suo ascolto costituisce il paradigma esecutivo per tutti coloro che lo seguono, perché nessuno offre una resa così completa ad ogni risvolto espressivo della scena, parola per parola.
Il recitativo iniziale di Cortis è ampio, scandito, accentato con un tempo abbastanza lento e vario. Il personaggio è da subito chiaro. L’espressione dolente, di passaggi come “l’intimo del cor”, non si sdilinquisce mai nella sola smorzatura e/o nel rallentando, ma convive con lo slancio all’acuto, sempre squillante, che connota il carattere virile del tenore verdiano maturo. Cortis può accentare in ogni modo ogni frase ad ogni altezza: può smorzare in acuto come in centro per avere accento dolente o squillare in alto per dare una connotazione eroica. Il tutto all’interno di una perfetta sobrietà, priva di ogni manierismo o eccesso.
Con Cortis ritroviamo la lezione del tenore verdiano documentata nei dischi di Bonci o di Aureliano Pertile ( che mai incisero l’aria ), capaci di cantare tutte, ma davvero tutte, le infinite nuances della scrittura verdiana. Questi esecutori servono l’autore, nel rispetto della sua essenza, e non lo contaminano mai con personalismi. Personalismi che possono anche essere eccellenti, di grande canto e grande espressività, ma non completamente fedeli. Ne è esempio un tenore grandissimo, che personalmente amo molto, Julius Patzak, per sua natura portato al lirismo ed all’accento malinconico. Descrive benissimo la perdita dolorosa ed inevitabile di Riccardo, ma il suo canto dimentica lo slancio che connota il personaggio.La sua memoria è “chiusa nell’intimo del cor”, che soffre per il distacco definitivo: il suo canto è ricco di smorzature, anche in acuto, ma il presagio di morte non lo assale più di tanto rispetto a Cortis, e “l’ultima ora” dell’addio manca di quella misurata disperazione che Verdi mette nella frase. L’interpretazione della scena, a valle delle riflessioni precedenti, è piuttosto unilaterale, perché elide il lato eroico e baldanzoso del personaggio, anche se il fraseggio è bellissimo ed accurato. Credo che con Patzak ci si allontani già dalla perfetta verdianità del fraseggio di Cortis o Pertile, forse per indole, o per compiacenza di uno strumento straordinariamente bello ( sembra quasi una Freni dei tenori…).

Di diverso tipo i personalismi di un Caruso, che canta con buona fedeltà alle indicazioni di espressione dello spartito ma, complice una voce peciosa ed un‘emissione non più bellissima, non ha la varietà espressiva di Cortis, anzi suona già piuttosto verista. Inserisce una puntatura ed una sorta di cadenza davvero brutta in chiusa che oggi risultano molto datate, non so se di tradizione pregressa o di tradizione da lui stesso inaugurata, tanto che si possono risentire nell’esecuzione di Beniamino Gigli, che incise l’aria nell’edizione completa dell’opera diretta da Serafin nel 1943. Il timbro di Gigli è bellissimo e caldo e la pienezza del suono compensa la stringatezza del tempo adottato. Il canto non è puntuale ed analitico come i casi precedenti o in quello dei due più grandi Riccardo che lo seguirono, ossia Tucker e Bergonzi, ma il canto di slancio e la qualità vocale sono impressionanti.

Nel dopoguerra poi l’accento puramente verdiano di Riccardo lo esprimono, come detto, Richard Tucker e Carlo Bergonzi, capaci di restituire ogni lato del personaggio. Al primo non manca nulla: è completo, non gli sfugge un accento o un colore. Il secondo è aristocratico, elegante, sfumato e con vera ampiezza ma gli manca un po’di punta in acuto, ove canta copertissimo e con voce grigia. Il lato baldanzoso ed eroico sono con lui in secondo piano. Con questi due tenori siamo agli ultimi testimoni dell’ortodossia del fraseggio verdiano, perché sono i soli che possano stare a fianco alla generazione di Cortis e Pertile. Da lì in poi la corruzione del canto verdiano si coglie nella genericità dei fraseggi, nella limitata dinamica di cantanti, Pavarotti compreso, che non possono smorzare oltre il passaggio e che tendono ad un canto sempre più piatto e monotono. L’ascolto in parallelo con Cortis testimonia la grande distanza che in meno di un secolo separa gli interpreti a noi vicini da quelli vicini a Verdi ed alla sua idea di accento. Lascio a voi i dettagli degli ascolti che vi invito a concludere con il recente Riccardo di Alvarez, piatto e sempre sul forte, completamente estraneo quando non addirittura in contrasto con i dettami verdiani, a testimoniare, per primo nel nostro mese di festival, la moderna ignoranza in fatto di accento verdiano.

Gli ascolti

Verdi - Un ballo in maschera


Atto III

Forse la soglia attinse...Ma se m'è forza perderti...Sì, rivederti Amelia

1911 - Enrico Caruso
1923 - Antonio Cortis
1929 - Julius Patzak
1943 - Beniamino Gigli
1956 - Ferruccio Tagliavini
1962 - Carlo Bergonzi
1963 - Richard Tucker
1974 - Placido Domingo
1975 - José Carreras
1977 - Luciano Pavarotti

8 commenti:

silvio ha detto...

Grazie per Cortis, davvero opulento... Pavarotti aveva il solito problema, troppo statuario e fisso, e già la voce stava andando. Vi segnalo che la mia trasmissione inizia oggi alle 14.
http://www.radiocafoscari.it/programmi/afasie/
grazie per gli ascolti, sempre molto interessanti...

germont ha detto...

ringrazio in modo personale giulia grisi, considero questo post un po' un regalo per me. a presto.

scattare ha detto...

Beh, avete esaurito quasi ogni discorso sugli interpreti di questa splendida romanza verdiana. Cortis - che bellezza e direi perfezione, pensando sempre che queste incisioni sono state fatte senza la possibilità di registrare una nota oggi e un'altra tra tre settimane o meglio ancora tirarla fuori da un cassa di sicurezza svizzera e inserita a dovere da qualche bravo tecnico del suono.
Su Caruso non saprei dire. A me piace. All'epoca bisogna ricordare che anche se facevano incisioni e vendevano dischi, non c'erano microfoni e i cantanti cantavano dentro una specia di imbuto. Poi la "tecnologia" dell'epoca cambiava di giorno in giorno e tutto era quasi sperimentale. Anche lui, il GRANDE Caruso, avrà avuto giorni sì e no. Era umano.
Io, però, e vi chiedo scusa, mi sono fermato al caro Tucker. Degli altri tre proprio... diciamo che dal vivo li ho sentiti da Bergonzi in poi e gli unici memorabili erano e rimangono sempre Bergonzi e Tucker, anche se Konya, Labò e Prevedi non scherzavano. Avercene oggi!
A me, poi, personalmente, non danno tanto fastidio le cadenze usate da quegli stupendi interpreti del passato. Prassi dell'epoca che accetto molto volentieri e più facilmente che preziosi organi vocali meno utilizzabili di qualsiasi epoca!

silvio ha detto...

però è innegabile che qui Caruso suoni davvero molto scuro. Al di là delle tecniche di registrazione che, rispetto al 1903 erano già di molto perfezionate, mi semra che questa sua non sia delle migliori, o proprio che avesse una giornata no. Per carità, cento giornate no di Caruso oggi in cambio di una ottima dei contemporanei...

scattare ha detto...

Grazie dell'aggiornamento Patzak! Pathos da vendere. Sublime esempio che anche non usando la lingua "madre" si può, CON ARTE, communicare il senso. E che tecnica! Quegli attacchi così perfetti prima dello sviluppo del suono.
Non ce n'è uno degli ultimi "tre" che avrebbe potuto fare ciò! (sospiro)

Gino ha detto...

Peccato che non siano piu' disponibili gli ascolti!

Antonio Tamburini ha detto...

Devo contraddirti caro Gino.
Gli ascolti sono ora di nuovo disponibili! :D

Cliccate e godetene tutti

Gino ha detto...

ma bravo!