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giovedì 7 aprile 2011

Anna Bolena alla Staatsoper Wien: parata di stelle?

Lo star system espone alcuni dei suoi pezzi da novanta e si cimenta alla Staatsoper Wien in uno dei lavori più impegnativi e straordinari del dramma romantico italiano, l’Anna Bolena di Donizetti. Si espone e mostra con chiarezza virtù ( poche ), velleità ( grandi ) e limiti ( parecchi ), dimostrandoci ancora una volta che le star tanto star poi non sono, dato che ai massimi livelli ( di carriera, intendo ) si canta assai peggio che nella provincia di un passato ancora troppo prossimo per essere dimenticato, e, soprattutto, che a fianco dei limiti tecnici di chi canta o dirige emergono sempre più frequentemente evidenti problemi di comprensione del lavoro che si rappresenta.

Cantare l’Anna Bolena di Donizetti non significa cercare di eseguire bene tutte le note ed essere personaggio in virtù della propria avvenenza fisica, bensì “esprimere”, trasmettere tutti i contenuti drammaturgici e vocali insiti nel testo, alla luce di una lezione, quella della tradizione, fatta di innumerevoli e diverse vie percorribili. Tradizione che non è un handicap ma il riferimento guida per viaggiare sul giusto binario. Il cast impegnato a Vienna ha, invece, mutuato dal passato solo l’uso selvaggio e primordiale della forbice, ma una forbice di marca del tutto diversa da quelle in uso nei vituperati anni ’50. I tagli contro i quali la filologia moderna lotta erano, in passato, dovuti a vari fattori, in primo luogo il gusto del tempo, quindi le abitudini del pubblico, in certi casi i limiti vocali degli interpreti non specializzati in certi repertori, come le voci maschili nel belcanto. Il taglio, nelle produzioni di alto livello, era finalizzato a garantire esecuzioni magari stringate ma comunque in grado di reggere il teatro, e a minimizzare i difetti. La forbice moderna, invece, funziona assai diversamente, o meglio, ha perduto la sua efficacia passata, dato che le opere, più o meno amputate e scorciate, vengono comunque cantare male o in modo inadeguato. La forbice agisce “pietosamente“ per i cantanti, soccorrendo chi ha il fiato corto, chi non ce la fa proprio più, chi non ha la minimale varietà di accento per regger la ripresa interna ad un’aria bellissima, chi non ha gli acuti o le agilità, chi non ha la robustezza per reggere “da capo” e code sfiancanti, significativo e non accessorio apparato atto a monumentalizzare ciò che è stato concepito proprio per essere monumentale e destinato all’interpolazione personale del grande protagonista del belcanto. La filolgia stigmatizza i tagli della stupefacente edizione dell’Armida di Serafin e della Callas, o della sua Bolena, per poi ritrovarsi oggi tra le mani il terzo atto ridotto ad un moncherino dei Puritani Florez Machaidze ! La filologia trova il suo fallimento moderno laddove non si canta, perché siamo tornati a tagliare robustamente come in questa prova viennese di Bolena, ma mandando in scena superstar che non sono in grado di gestire nemmeno edizioni sforbiciartissime. Già, perché il punto è che continuiamo a parlare degli abusi e della non - filologia dei giganti del passato, dimenticando ( comodamente! ) che i cantanti odierni non sono in grado di reggere nemmeno le opere scorciate. Si è ampiamente tagliato nella produzione viennese, ma il fatto grave è il COME ci è stato restituito quello che ci è stato restituito da questa “stars parade”, che dovrebbe essere il punto di riferimento per tutti i colleghi di minor successo. Si è trattato, infatti, di un’altra crociera di lusso nel mondo del “Vorrei ma non posso” in compagnia di cantanti strapagati, dai volti bellissimi degni delle sponsorizzazioni delle cosmesi di marca, o connotate da un aplomb da modelle un po’ appesantite, dall’espressione narcotizzata idonea forse a Violetta, più che dalla regale maestà di una grande figura della storia d’Inghilterra e del canto, quale è Anna Bolena, prototipo della grande primadonna tragica ottocentesca. Vi è stato anche aggiunto un re belloccio, fin troppo “manzo”, oltremodo arrapato per la bella bionda Giovanna, come la prima scena ci ha fatto vedere, ed un Percy innamorato irruente e un po’ goffo, tutti insieme appassionatamente circondati da un musico piuttosto sgangherato che delle sue scene non sapeva che farsene, comprimari di terz’ordine e da un coro che poteva anche non esserci, dato che ha sempre cantato come fosse ad una serena sagra di paese o intento a far cuocere il lombardissimo “ris e erburin”, come nella scena che introduce il tragico finale. Una bella ricetta insufficiente di quelle che, sole, lo star system sa praticare.

La trama e, soprattutto, il senso profondo dell’opera, a Vienna le conoscevano in pochi a mio avviso, cantanti direttore e regista incluso, che, nel pieno del concitatissimo finale I che inaugura la tragedia di Anna, ha fatto incomprensibilmente sdraiare la protagonista su un letto, come una fatale diva del muto, mentre il marito le sta promettendo il patibolo. Forse il regista intendeva alludere ad accadimenti omessi tra primo e secondo atto, ma ….quale inopportunità per una regina concepita e disegnata, more Ottocento, come una figura statuaria, altera, vittima, aristocratica, insomma, una creazione letteraria romantica. Con Anna Bolena siamo di fronte al verismile non al vero storico, cioè alla rappresentazione di un ideale di sovrana vittima, non alla sua realtà documentaria, e questo deve ritornare a noi nel canto come nella scena, perché è la peculiarità dell’opera. Riecco invece la maniera delle regie forgiate ad immagine dei divi, che manipolano incoltamente i testi: alla signora Dessay, eternamente Lucia isterica, si danno le altalene, mentre alla signora Netrebko, eternamente Manon, il letto, come si addice alla sua immagine di soprano sexy ( ora nemmeno poi tanto! ). L’incomprensione collettiva dell’Anna Bolena è stata tale che la protagonista di regale non aveva un bel nulla ( riguardatevi l’inadeguatezza marchiana del suo ingresso…), con un incedere ora rapido da ragazzina ed il volto da dolce inespressiva Matrioska per i momenti lirici, ora agitato ed esteriore da volgare Gruscenka, o Nedda per i melomani nostrani, quando il canto si faceva tragico, con la voce scomposta, l’emissione di colpo sguaiata in zona centro grave. Se poi ci spostiamo sul canto, apriamo il vaso di Pandora! Peccato, perché la signora Netrebko ha una zona centro acuta ampia, sonora e facile, piuttosto pura, che certe nostre Bolene “di ferro” avrebbero anche potuto invidiarle assieme alla presenza fisica. La zona grave, però, qui come in ogni altro titolo scritto per la Pasta, dovrebbe girare alla perfezione, perché spessissimo là cade l’accento più difficile e raro: se il passaggio inferiore non funziona, non si può trovare l’accento esatto, sia che si canti l’opera integralmente o tagliata. E la coloratura deve avere precisa esecuzione di forza, mentre con la superstar russa i trilli si masticano in bocca, terzine, quartine & c si spappolano, e nei gravi la voce rimbalza tra i denti. Non abbiamo detto che la coloratura deve avere senso drammaturgico? Mali minori, certo, a fronte della devastante assenza di accento della signora, a recitativi straordinari come “Dio che mi vedi in core” o la sortita stessa, “ Come innocente giovane”, messa lì come un brano liliale (!), o battute struggenti boccheggiate come “un serto io volli, e un serto ebb’io di spine” al duetto con Percy, “..gli affanni dell’infelice aragonese” al duetto con Giovanna, o la tragicità di “Ai piedi tuoi mi prostro…” ad inizio terzetto con Enrico e Percy. L’articolato fraseggio di questa parte, tanto complessa e massacrante, buttato alle ortiche da chi non capisce le parole che sta pronunciando perché oltre alla lingua misconosce il canto sulla parola, quello all’italiana. La prova? Il duetto-scontro tra le protagoniste, il massimo del minimo della serata, con la diva travolta dal peso di frasi impetuose quali “ Sul guancial del regio letto”, risolte con enfasi esteriore e volgare e suoni di petto bruti. Evidenti, poi, anche taluni problemi di intonazione, con molte note prese con fastidiosi portamenti ( nell’entrata “..non lasciarti, non lasciarti lusingar…” ), “scivolando” il suono da sotto o da sopra a seconda dei casi ( inizio atto II, attacco su “Dio”, fiato, “che mi vedi in core “) frasi scentrate, e prese di fiato abusive ( esemplare il da capo del “Giudici ad Anna”). Le cose migliori la signora Netrebko le ha offerte nel quintetto della Caccia, al “Io sentìa sulla sua mano”, in alcuni momenti del duetto con Percy, e nella sezione centrale del duetto con Giovanna, “Va infelice teco reca”, di scrittura centrale, e nel finale, il risveglio del “Coppia iniqua”, mentre tutto quanto ha preceduto la cabaletta è parso compitato, con bel garbo ma…..troppo poco per rendere il gigantesco ruolo di Anna. I tagli ( a memoria rammento il da capo di “Non v’ha sguardo”; la coda del “Giudici ad Anna; la chiusa di “Sul guancial del regio letto” con le agilità cromatiche; il da capo del terzetto “Salirà l’Inghilterra sul trono”..etc..) sono arrivati propizi ma insufficienti per una protagonista distante dal ruolo, dal suo senso drammaturgico, dalle sfaccettature del personaggio tragico, che è anche lirico, malinconico, regale, forte ed autorevole, di tecnica insufficiente per il belcanto ed i suoi paradigmi ( onore alla ladies di ferro, Bolenine certo, ma mai scomposte o esteriori..). Lo star system tutte queste inadeguatezze delle proprie stelline da carta patinata non le vede, non le sente….

Ma veniamo agli altri, che non sono stati da meno per altre ragioni, alla diva. Bellissima e gelida la signora Garanca è stata una Giovanna regale di aspetto ( più di Anna ) ma alterna negli esiti vocali ed espressivi. Di fatto mi è piaciuta abbastanza soltanto nella sua grande scena finale, eseguita, con evidente imitazione di Shirley Verrett, ma comunque con poca varietà di accento e spianando le forcelle scritte. Anche in quella che è stata la sua scena migliore si sono sentite certe fissità in alto, nelle frasi ”Odi la mia preghiera..”, che fanno dubitare della sua scelta di cantare la Favorita.. Il rondò, tra l’altro, è stato eseguito senza da capo ( come pure la stretta del duetto con Enrico ), menda grave per chi con il belcanto ha una certa confidenza di carriera. Tecnicamente, infatti, la signora Garanca mi pare poco convincente: all’entrata la voce è suonata subito gutturale, sfuocata e fibrosa, bassa, con un’emissione non nobile, in parte riaccomodata, alla sua grande scena, ma mai a fuoco perfetto. E, soprattutto, è rimasta costantemente estranea all’azione nel duetto con Enrico come pure in quello con Anna, dimostrandosi estranea al personaggio ed alle sue numerose sfaccettature Al primo duetto le grandi frasi di una Verrett o di una Dupuy, “Ah s’è ver che al re sono cara..” sono stata eseguite piattamente e con voce gridata, quindi, nella seconda parte di quello con Anna, anche lei come la sua collega, ha esibito un accento liliale adatto a certi passi di Rosina più che ad un personaggio internamente combattuto. All’“ Ah qual sia qual cor non osa…”, di scrittura acuta, il canto non possedeva il necessario slancio, ed sono arrivati anche i cali di intonazione. Anche lei, come già la Netrebko, ha trovato il suo punto di minimo nel duettone, dove ogni grande frase le è scappata via dalle mani, nella totale indifferenza o incomprensione della parte. Quando Giovanna canta “ Ah! Perdono. Dal mio cor punita io sono ..inesperta…lusingata..” il dolore della donna pentita, sofferente ed il racconto dello smarrimento non hanno trovato alcuna intenzione interpretativa nella cantante lettone. Idem la stretta, “ Ah peggiore è il tuo perdono..”, completata dall’uscita di scena senza un sol moto del volto o del corpo, sebbene il libretto reciti :“ Giovanna esce afflittissima”.

Non saprei che dire del Percy di Francesco Meli. La freschezza vocale esibita al debutto veronese, al di là delle stecche nei do e dei tagli delle riprese, pare lontanissima nel tempo. Da qui l’attuale esecuzione della parte. Taglio della ripresa interna della prima aria come del da capo della cabaletta, trilli scritti inclusi; taglio della seconda sezione della stretta del duetto con Anna; taglio, come per gli altri, stretta terzetto; taglio da capo della cabaletta e della coda della seconda aria etcc..ma soprattutto, una cattiva esecuzione, faticosissima, con la voce strozzata sul passaggio fa-sol, impossibilità a cantare anche i primi acuti. La scena della caccia, con i si bem scritti, lo ha messo in grave difficoltà, per non parlare dell’esecuzione tutta a squarciagola e/o falsetti del duetto con Anna ( le frasi “Anna per me tu sei Anna soltanto…”, come la sezione “ S’ei t’abborre io t’amo ancora…” ) come pure al terzetto, lo struggente “ Fin dall’età più tenera…”. Il canto amoroso e lirico non trovano distinzione di accento da quello nobile o di scontro con Enrico, perché grande e costante è l’affanno in cui il tenore si trova a cantare, con le note alte raggiunte sempre da sotto e l’intonazione accomodata… Le ragioni profonde di questa precoce senescenza le abbiamo scritte molto tempo fa, ed è inutile ripeterle. Questo non è un traguardo dei detrattori, ma una sconfitta per il giovane tenore e, soprattutto, per l’opera lirica di oggi, che non trova modo di conservare le proprie voci migliori affinchè crescano e si perfezionino, ma le consuma crudamente a suon di “Va tutto bene…và bene così..” Noi alziamo le braccia, e ci arrendiamo, pensando anche agli onerosissimi progetti futuri targati……..Verdi!

Il signor D’Arcangelo è stato un Enrico di bella presenza fisica e si è sforzato di cantare compostamente e con autorità. La voce però non ha gran proiezione, tanto che la deve spingere continuamente e con poco esito. Più il cantante cerca suoni cavernosi, più perde in smalto; salendo già ai primi acuti il suono gli scappa indietro, come “l’ebbe alfin ma l’ebbe appena” al duetto con Giovanna, oppure la spinge quasi all’urlo come al terzetto, nelle frasi, “ ah chi può sottrarvi a morte..”, che forse gli costano tanto sforzo da fargli stonare poi la replica prima della stretta. Persino la coloratura, peraltro facile, di “Come il sol egual non ha” al duetto con Giovanna, gli è uscita imprecisa e cempennata. Modesto e talora anche sgangherato localmente lo Smeton della signora Kuhlman, in grave difficoltà nel registro grave, fissa negli acuti, e modesta esecutrice della coloratura. Piatta l’esecuzione della cavatina.

Il maestro Pidò ha messo in campo la sua esperienza, in accompagnamenti funzionali ai cantanti, ma non ha saputo uscire dalla routine, pur disponendo di una grandissima orchestra.. Basta sentire la direzione di Richard Bonynge dell’opera, le mille varietà di colori, la fantasia nello stacco dei tempi, per ricavare la piattezza e la meccanicità della direzione di Pidò, che ci ha ritornato pochissimo delle atmosfere pensate da Donizetti, del grande affresco storico e della continua varietà di accenti insiti nel canto e nell’orchestrazione. Della loffia e catatonica esecuzione dei momenti corali ho già detto. Particolarmente noioso e pesante l’accompagnamento del duetto Enrico Giovanna. Produzione di routine del signor Genovése, di un tradizionalismo stilizzato e non invasivo. Piacevole, molto semplice, ma che forse poteva essere migliorato sul piano registico, soprattutto per quanto concerne la protagonista, in più di un’occasione lontana dall’esatta cifra scenica oltre che vocale del personaggio. Lo star system continua a volare, ma solo a parole. Nemmeno le versioni scorciate gli bastano per essere all’altezza degli spartiti e degli autori.

I divi scintillano fuori scena, sulla carta stampata, nelle interviste, sulle copertine, ma sul palco non riescono ad essere all’altezza del compito di cui vengono incaricati, ed alcuni di loro paiono anche paurosamente lontani intellettualmente da ciò che stanno eseguendo tanto che nemmeno se ne danno cura. Io credo che essere artisti sia avere sensibilità per capire e cogliere la poetica di un musicista e di un personaggio e possedere la capacità tecnica di restituire il messaggio al pubblico per il “medium” della propria personalità. In assenza di ciò, non c’è arte, ed in questo caso nemmeno bel canto, ma molta presunzione di essere. Del resto la critica di questi fatti non si occupa o preoccupa: il suo dovere è accusare e riprovare il pubblico, non (re)censire gli spettacoli, il canto. La critica non guarda piùa quanto avviene sul palco ma ai loggioni. Detto questo si è detto tutto.









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giovedì 23 dicembre 2010

Don Giovanni alla Staatsoper

Alcune considerazioni sul Don Giovanni presentato lunedì 20 alla Staatsoper viennese.
Nuova e lussuosa produzione firmata Jean-Louis Martinoty, solita ambientazione atemporale con richiami settecenteschi, qualche forzatura e una scena finale ben gestita (anche se donna Elvira agghindata da Suor Sorriso poteva esserci risparmiata).
Quanto ai singoli artisti, li elenchiamo in ordine crescente di decoro dimostrato e di conseguente meritata attenzione.

I divi d’Arcangelo ed Esposito, padrone e servo, si rifanno alle caccole e all’approssimazione dei Raimondi e dei Corena, senza peraltro possederne la "canna" vocale. D’Arcangelo canta con voce bitumata, larga ma non ampia né sonora (l’orchestra lo sommerge ad esempio nel finale I e nella scena della dannazione), sfalsettante a ogni tentativo di nuance (serenata). Esposito, voce da baritono brillante prestata a un ruolo da basso vero (inesistente il sostegno armonico offerto dal cantante negli ensemble, fin dall’introduzione), sfoggia nell’aria del catalogo il catalogo, appunto, dei propri malvezzi: suoni nasali e malfermi in acuto, difficoltà nel legato, parlati e cachinni indegni di un teatro di provincia. Misteri dello star system.
Altro mistero è come possano i Wiener Philharmoniker risultare svogliati e poco amalgamati in una partitura che dovrebbero conoscere anche capovolta. Inutile attendersi brio e colori da Franz Welser-Möst, neo Generalmusikdirektor del Teatro, ma almeno andare a tempo! Ottimi, per contro, i solisti in scena nei due finali.
Ulteriore mistero e rinnovate riflessioni impone la prova di Albert Dohmen, reputato specialista wagneriano, quale Commendatore. Prova che risulta illuminante circa il livello del canto wagneriano, specializzato e specializzando, di oggi. Quando erano affidati alle cure di cantanti wagneriani, ma non solo, del calibro di Journet o List, i Commendatori mostravano altra diginità, sia da vivi che da morti.
Ildikó Raimondi quale Elvira sostituiva praticamente all’ultimo Roxana Constantinescu, spartita dal cartellone dopo le prime recite (la première, trasmessa dalla radio austriaca, può forse illuminare in proposito). Ci asteniamo da commenti, se non per rilevare che l’intonazione non dovrebbe costituire un tratto negoziabile, a qualunque stadio della preparazione di un ruolo.
Saimir Pirgu si rifà agli Ottavio languidi e linfatici di certa tradizione deteriore, che però sfoggiavano di solito maggiore dolcezza e minore titubanza sul passaggio di registro.
Sylvia Schwartz è la classica Zerlina formato soubrette, garbata ma non sempre corretta sotto il profilo dell’intonazione. Se imparasse a respirare correttamente, ne trarrebbe sicuro giovamento. Anche Adam Plachetka (Masetto), la voce più omogenea e l’interprete più misurato del cast, potrebbe risultare maggiormente sonoro e quindi più incisivo se appoggiasse con maggiore costanza ed evitasse oscuramenti artificiali del timbro. Le premesse per una carriera ci sono, a ogni modo.
Sally Matthews porta assai bene il lutto ed è una voce, per gli standard odierni. Non è un soprano drammatico, ma oggi le donn’Anna di questo tipo sono rarissime, per non dire estinte. Le manca, per risultare convincente, una tecnica che le consenta di non gridare sul secondo passaggio (recitativo della scoperta del cadavere del padre), di cantare piano senza sfalsettare, di non emettere suoni tubati (Rachen-Arie) e di evitare scivolate d’intonazione (picchettati sul la naturale nel rondo). Come e più che per Plachetka, auguriamo anche a lei una pausa di riflessione. Salutare per tutti, in primis per gli addetti alla gestione delle voci, massime giovani.


Gli ascolti

Mozart - Don Giovanni

Atto I

Ma qual mai s'offre, o Dèi...Fuggi, crudele, fuggi - Maria Reining & Julius Patzak (1936)

Madamina, il catalogo è questo - Georg Hahn (1936)

Ah fuggi il traditor - Ilva Ligabue (1970)

Fin ch'han dal vino - Karl Hammes (1936)

Atto II

Vedrai carino - Mafalda Favero (1941)

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venerdì 9 gennaio 2009

I Puritani a Bologna: tra divismo e velleità

Di ritorno dai Puritani di Bologna, le nostre considerazioni su una produzione che ha come principale motivo d'interesse la presenza di Juan Diego Flórez, al debutto italiano nel titolo e alla terza prova nell'opera (dopo Las Palmas 2004 e Vienna 2005).

Nemmeno in questa lussuosa occasione ha trovato la sua esecuzione di riferimento la recente edizione critica dei Puritani di Bellini. Nella sua originaria versione parigina, l’opera continua, infatti, a rappresentare uno scoglio ingestibile, nella sua monumentale integrità, per i cantanti del giorno d’oggi, sia che si tratti di divi consumati o di aspiranti tali. Mentre il programma di sala ingannevolmente afferma agli spettatori che “ …in questa edizione potremo ascoltare tre passi “riaperti”: un terzetto (atto I scena X) per Arturo Enrichetta e Riccardo, “Se il destino a me t’invola”; una parte del duetto Elvira Arturo ( atto III scena II ) a partire dalle parole “Ah perdona ell’era misera” e l’intero Andante sostenuto cantabile “ Da quel dì che ti mirai”. Ultima aggiunta la cabaletta a due per Elvira e Arturo ( atto III scena III ) nel finale ultimo, “Ah sento o mio bell’angelo”…) (Programma di sala, pag. 11, autore G. Gavazzeni), lo scorrere della serata dimostra come la dura realtà dell’andare in scena abbia imposto al celebre tenore come alla sua giovane compagna di viaggio di mettere da parte velleità ed ambizioni e rassegnarsi ad una riduzione sensibile delle rispettive parti, soprattutto per quanto riguarda il terribile terzo atto. Sicchè l’agognata “edizione critica”, indispensabile marchio “culturale” da porre sui cofanetti dei dvd e nei curricula delle carriere dei più giovani, si è semplicemente tradotta nella ricollocazione dell’originario terzetto che precede il finale primo ( Arturo Enrichetta Riccardo) e nella riproposizione, quale “cabaletta a due” e non più per soprano solo, dell’”Ah sento o mio bell’angelo” in chiusa d’opera. Il tutto a fronte di alcuni tagli vistosi, tra cui, nota più dolente di tutte, per non dire dvvero snaturante della sua essenza musicale e drammaturgica, la vasta amputazione del duettone finale ( ove non solo non è stato riaperto alcun taglio, ma si è anche dimezzato quanto di prassi da sempre, e per questo cut si rimanda all’incisione Filippeschi Pagliughi, Previtali ); la sezione finale della seconda strofa dell’aria di Arturo al terzo atto; parte della Polacca di Elvira; parte della sezione finale del duetto Riccardo-Giorgio. Di modo che, come al solito nel nostro presente, alla novità di alcuni elementi di tutto interesse ha fatto da contraltare un’operazione di “sartoria” dello spartito di fronte alla quale paiono ben poca cosa quelle che operava l’augusto avo del curatore del programma di sala! E questo tralasciando, poi, gli aspetti di quella che dovrebbe essere anche la componente “vociologica” (permettetemi il termine) della filologia musicale, poiché in una edizione che pretenda di dirsi ”critica” occorre rispettare, e non tradire, come in questo caso, le corrette modalità del canto del tempo (a cominciare da quella cosa chiamata “emissione stilizzata”, fondamentale nel belcanto ma oramai dimenticata, assieme a tutta una serie di altre “pretese” da melomani rétro come noi, per nulla interessati ai begli occhi del soprano o alla silhouette del tenore, ma al mero canto ). Ma andiamo con ordine.

Sarebbe noioso riproporre considerazioni sullo storico quartetto della prima parigina, nonché le notizie, che già vi ha qui fornito direttamente il curatore dell’edizione critica, prof. Della Seta, circa la genesi di questa opera e la sua edizione critica. Ne abbiamo parlato ampiamente e ritroverete gli argomenti in alcuni post precedenti.
Delle quattro voci scelte dal teatro bolognese solo D’Arcangelo aveva, a mio avviso, le carte in regola per i Puritani, ma nemmeno lui poi ha saputo convincere.

Flórez è per sua propria natura voce leggera, priva del corpo come degli armonici necessari. Canta Arturo per coté di carriera, per imposta necessità a chi vuol essere stella belcantista da star system, ma è intimamente Lindoro, Idreno, don Narciso, al limite Ernesto ( e in questo non v’è niente di male….ognuno ha la natura vocale che ha). Gli mancano la voce e la “potenza” necessaria nel canto belliniano, sia nei momenti eroici che in quelli lirici, ove canta bene, con eleganza ma….in maniera evidentemente inadatta. Anzi, canta con quella “maniera” che già altre volte abbiamo criticato. Si è presentato con voce lunga, facile alla tessitura vertiginosa come allo sfogo nei sopracuti, con una linea di canto pulitissima e nitida, fatto che gli fa grande onore dopo il brutto Rigoletto. E va ammirato soprattutto per la sua capacità di reazione. E per quanto la voce sia molto ridotta di volume, resta di gran lunga il migliore della serata, data anche la capacità dimostrata nel “resistere” ad un ruolo che sfianca. Il ruolo è sempre stato inadatto a lui, e di qui i robusti tagli, eccessivi quelli del terzo atto. La cavatina è stata uno dei momenti migliori della sua serata, perché è elegante ed ancora facile in alto, ad onta di un do diesis non sicurissimo e di alcuni fiati un po’ corti. E' mancato un legato di vera qualità nei passaggi la-re tipo “A te o CA-RA, amor TALO-RA “ e le forcelle, che sono un po’ il suo handicap per forza di cose, non sono risultate ben udibili per mancanza di cavata della voce. Ingiusti gli sparsi buu dall’alto. Anche se non è da escludere che si sia trattato di una reazione all'invadenza dei plauditores.
Flórez ha poi sofferto vistosamente nei momenti di forza per assenza di peso, a cominciare dal recitativo con Enrichetta come al successivo duetto della sfida, ove frasi come ”Sprezza audace..” fanno sembrare il suo timbro infantile. Ha puntato bene in alto le frasi, assai faticose per la sua voce, “ Non temo il tuo furore..ti sprezzo…”, che molto gli costano: si è controllato bene, però, senza spingersi a forzare o gridare. Un po’ di fatica nella tessitura acuta del terzetto, cantato, però, con bel lirismo, a meno di qualche attacco scoperto a voce un po’ troppo piena ed una mezza stecca, che può capitare.
Non ha potuto barare, invece, alla grande aria del terzo atto, opportunamente scorciata, come già altri tenori in passato, da Filippeschi ad Araiza, in questo caso della sezione “ Sempre uguali ha i luoghi e l’ore “ ( battute 442-458 ) della seconda strofa, ove Bellini, stando alle numerose messe di voce e legature, richiede ulteriore ampiezza nella linea di canto. Il brano si addice ad una voce importante, per poter dare vero senso a malinconia, nostalgia, doloroso ricordo insite nella nenia belliniana. L’accento è pertinente, ma Florez arriva a questo punto evidentemente stanco e l’aria è pesante per la sua voce: il canto è risultato leggero e manierato, le forcelle scritte anche in questo caso appena abbozzate. E non ho potuto fare a meno di pensare alla convenienza che avrebbe Florez a praticare Les Pêcheurs de Perles, La dame blanche, Le Postillon de Lonjumeau, la Manon di Auber….. Anche il recitativo all'inizio del terzo atto, ad essere più precisi, è stato eseguito con slancio e proprietà di intenzioni, ma anche con la voce di Ramiro che entra in casa di Don Magnifico. E per inciso è questo recitativo uno dei pochi punti (assieme all'attacco di "Nel mirarti un solo istante" e alle primissime battute del "Credeasi misera") in cui Flórez ha cantato a voce piena in un terzo atto giocato in evidente difesa. Il successivo duetto con Elvira, abbiamo detto, è stato davvero troppo tagliato. Se ne è eseguita la metà circa. Per fortuna! Come da tradizione si è eliso l’annunciato “Da quel dì che ti mirai” ( battute 560-717 ) , ma si è pure tagliata parte della prima strofa di Elvira del “Vieni, vieni tra queste braccia”, per attaccare già sul “Ah deh vieni, vien tel ripeto t’amo” quella che è la sezione finale della ripresa a due voci del brano, ove Arturo canta, tra l’altro, una terza sopra alla sua prima scrittura ( battute 795-838). Gli acuti restano facili, compreso il re naturale prescritto, ma lo slancio di un Pavarotti o di un Kraus, oppure la varietà di accento di certi dischi a 78 giri, appartengono ad un altro pianeta. Ed ad un’altra opera! La fatica è stata tantissima, e la voce è parsa spesso al limite. Né la musica è potuta cambiare al tremendo finale, cantato con tanta fatica, acuti facili ma deficit di ampiezza e di dinamica: il brano è eseguito con logica prevalenza di lirismo, ma frasi come “ ..l’ira frenate..” non sono per nulla liriche , o lo possono essere solo se le approccia una voce corposa e piena. Ed alla fine resta solo una domanda: perché Flórez non dà una svolta opportuna al suo repertorio? Certa opera francese attende questo grande tenore: là stanno da tempo le sue opere ed è ora di cantarle!

Nino Machaidze non possiede qualità tecniche e men che meno timbriche, se queste abbiano mai importanza nel belcanto, per cantare Elvira. I problemi tecnici ve li descrivemmo chiaramente allorquando fu Amina in quel di Genova l’anno passato, e vi rimandiamo a quella recensione, dato che nulla è cambiato. L’interprete, invece, è pertinente nei suoi intenti, ad onta di un portamento scenico non da grande primadonna quale è Elvira.
A parte il fuori scena iniziale della chiesa, ha avuto da subito le sue belle gatte da pelare. Il duetto con Giorgio è caratterizzato da grande slancio, con virtuosismo di chiara ascendenza rossiniana, da eseguire di forza. La voce è arrivata subito acida e vetrosa al centro sin dalle prime battute “ Sai com’arde il petto mio..”, offuscata e a tratti proprio afona in ottava bassa, ove il passaggio di registro non gira come dovrebbe. I primi acuti sono stati anch’essi striduli: note chiave della serata i la bem e la nat tenuti ( ve ne sono svariati scritti ), una vera croce per la giovane georgiana. Sulla coloratura di forza prescritta per frasi tipo “…di dolor io morirò, di dolor…” si è arrangicchiata in qualche modo, incespicando sui lunghi trilli ( altro punto debole ) prescritti sul mi-la nat di “ dolor amor”. Un grido il la nat di “..Ah padre mio..”.
La polacca, tagliata nella sezione centrale ( 208-226 ) e nelle code, è stata eseguita a bella e giusta velocità, ma in modo impreciso, a cominciare sin dal gruppetto previsto in seconda battuta di ingresso, quindi il trillo maldestro scritto sul fa diesis di “rose”, poi quella scritta su “..monil, del bel monil…” e di lì un po’ tutta la coloratura successiva, compreso il sopracuto in chiusa. Il finale primo, eseguito a meno delle tradizionali ma non scritte puntature ai re naturali, ha messo in evidenza i problemi timbrici del registro acuto, nelle salite al do di “Ah vieni..”: la voce è sonora, ma non corposa, almeno non quanta ne serve ad una vera grande Elvira.
Quanto alla scena di pazzia all’atto secondo atto, ha cercato costantemente di cantare piano e dolce dando rilievo espressivo a frasi come “…ah mai più qui assorti insieme…”, ma le difficoltà a legare i suoni al centro han finito col penalizzarla. Mariotti l’ha assecondata al massimo, facendo quasi sparire l’orchestra in alcuni punti, ma l’assenza di cavata necessaria e prescritta da Bellini in frasi come “ ancor tu sai che un cor fido…” è venuta fuori con chiarezza. L’effetto è stato quello di un certo torpore, persistente anche nelle battute di conducimento prima della cabaletta, che meriterebbero di essere ravvivate. La cabaletta chiama in causa ancora il virtuosismo di forza che, pedonatemi!, mi rese tanto celebre all’epoca: spariscono subito i segni di corona scritti sul “ vien ti posa vien ti posa sul mio cuor “, le serie di quartine discendenti sono eseguite alla comemiviene e senza purezza, i trilli lasciamoli perdere assieme al sopracuto in chiusa. Insomma, qui di grande virtuosa non se ne parla proprio, nonostante quel che ci vogliono far credere i signori del management. Quanto al duetto del terzo atto, anche la signora Machaidze ha beneficiato, come Flórez, della forbice della provvidenza, che le ha scontato un bel tocco della sua parte del “vieni vieni fra queste braccia”. Arrivataci stanca, come il suo partner, ha cantato con un accento dolente molto commovente, ma, ahimè, il timbro, per la stanchezza e la tensione, e la qualità del legato sono parsi improbabili. Ciononostante, evidentemente in grazia e della freschezza data dalla giovane età e della scelta di spingere regolarmente i suoni, la signora è riuscita a coprire in più di un punto il tenore nei passi a due. Quanto al senso generale di questa Elvira, non possiamo non sottolineare, come per Florez, la mancanza di peso vuoi lirico-tragico vuoi virtuosistico: Elvira è ben altro che una ragazzina un po' querulina, bensì primadonna completa, con tanto di fascino ed eleganza, caratterizzata da anche da vero vigore drammatico. Il risultato complessivo è stato, per forza di cose, troppo "mignon" per essere accettabile e corretto a valle della belcanto renaissance.

Gabriele Viviani, di solida natura e con voce corposa, facile in acuto ma vistosamente limitato in basso, ha cercato di cantare con accuratezza e dolcezza, ma l’emissione non è stilizzata, spesso vistosamente nasale. Il canto resta punto elegante, e talora anche greve. Nell’aria del primo atto si sono sentite alcune grossolanità anche vistose, come la pausa, non scritta per andare a prendere il mi bem nella coloratura scritta legata di “..alla vita che s’avanza…” e nella corrispondente battuta della seconda strofa. Ma, soprattutto, l’esecuzione è stata piatta e senza colori. Semplificata la cadenza di Bellini, eseguita alla bell’e meglio.
In cabaletta ( terrificante il pertichino del secondo tenore) è stato abbastanza preciso, pur omettendo le quartine vocalizzate della sezione finale, ma, soprattutto, sempre monotono e inelegante.
Al famoso terzetto con Arturo ed Enrichetta gli è stato giustamente richiesto di cantare piano, quasi di sussurrare il pedale alla trenodia del tenore, ma la voce è parsa fuori fuoco, posto che la tessitura è altissima. Nulla di speciale al duetto con il basso, cantato in modo troppo verista e nemmeno molto preciso nella scrittura (e senza contare il taglio di una decina di battute, dalla 317 alla 327).

Ildebrando d’Arcangelo ha cantato con voce bassa, troppo bassa ed ingolata per il suo stesso standard. E’ parso correttissimo nel duetto con Elvira al primo atto, anche nell’esecuzione musicale, ma monotono e un po’ greve, a causa… dell’emissione. Senescente. Anche per lui marcata afonia all'ottava bassa.
Al secondo atto “Cinta di fiori” è stata eseguita con troppa pesantezza, complice anche Mariotti. Nessun colore, nessun accento dolente, nulla. Di nuovo tanta monotonia, pure con qualche frase a voce ballante. Il duetto con Viviani in affanno. Una prova inaspettata da lui.

Terribile il Bruno di Gianluca Floris, un po' meglio il Gualtiero di Ugo Guagliardo, corretta ma priva di slancio e microbica l'Enrichetta di Nadia Pirazzini. Ma pretendere la perfezione dei comprimari, in una compagnia che quasi al completo ignora che cosa sia una voce proiettata, sarebbe grottesco.

La prova, osannata dal pubblico, di Michele Mariotti è stata a luci ed ombre, caratterizzata proprio dalla discontinuità. Le luci sono arrivate, come spesso nei giovani direttori odierni, ove era necessario mettere in primo piano il lirismo, i toni estatici e sognanti. Le ombre, invece, laddove era necessario sostenere con l’orchestra la tensione drammaturgica, dar forza e vigore drammatico all’azione, sottolineare i toni epici e cavallereschi. Esempi: l'inizio dell'opera, in cui nulla faceva pensare alla solennità dell'alba, l’apertura dell’atto secondo, mollissima e noisa; la scena del temporale all’atto terzo, ove non è riuscito ad essere davvero corrusco e spaventoso, oppure nella terribile marcetta, che sarebbe un “Allegro maestoso sostenuto”, che inframezza l’aria di Arturo: che passassero di lì dei “furenti” è stato davvero difficile crederlo. A reggere bene e con convinzione l’azione drammaturgica, poi, gli è riuscito, ma molto bene, nel duetto del primo atto Elvira-Giorgio, con fuori scena suggestivi e begli effetti prospettici e la prima sezione del duetto Giorgio Riccardo, con epica e piglio veri. In altri momenti ha ripiegato su “effetti” molto riusciti, come il clima sospeso del ripristinato terzetto del primo atto. Ho trovato, invece, monotonia e pesantezza in altre parti, come nel coro iniziale dell’opera, oppure nel mix alterno di belle sonorità e inerzia nell’ingresso di Arturo, come pure nel finale primo, con una introduzione molto bella seguita da momenti letargici sulle frasi del coro “ Demente vivrà”, oppure una chiusa veloce molto, troppo meccanica; o nel “Suoni la tromba intrepido”, staccato con bella velocità ma un po’ bandistico.
L’orchestra, inoltre, non ha avuto sempre un bel suono, un po’ di fragore di piatti, qualche fracasso qua e là, intonazione precaria dei fiati soprattutto all'ultimo atto. Insomma una prova alterna, di certo servizievolissima verso i cantanti ( basti pensare alla pazzia di Elvira), di un giovane di belle speranze, spinto un po’ troppo in alto e un po' troppo in fretta per la sua effettiva resa.

Veniamo allo spettacolo di Pier'Alli, il solo che alla fine non benefici delle ovazioni del pubblico, beccandosi qualche fischio a nostro parere ingiustificato. Il regista-scenografo-costumista crea una scena tutta giocata sui toni del grigio e del blu, con begli effetti di luce soprattutto nel duetto atto primo Giorgio-Elvira, al terzetto nel finale primo (con i personaggi isolati da tre proiettori stile Sandro Sequi) e nell'introduzione al terzo atto, risolta con un suggestivo controluce. A scene anche troppo stilizzate e rarefatte si contrappongono costumi ligi alla tradizione, ancora una volta giocati sul grigio-blu scuro, con l'unica macchia bianca costituita dai costumi di Elvira. Già visti i simboli ricorrenti (pugnali che calano dall'alto a mo' di colonne, porte automatiche, proiezioni di cieli foschi che nel finale si rasserenano), così come i gesti rituali del coro, per il quale pare valere la regola cara a Beppe de Tomasi, "si entra da destra, si canta e si esce da sinistra e viceversa" e che per il resto non esce da figurazioni simmetriche e spesso rimane in scena nella totale immobilità. Certo si poteva fare di più per i solisti, che, salvo Viviani e in parte d'Arcangelo, abbandonati a loro stessi tendono ad abbassare un pochino troppo l'età dei loro personaggi, sortendo un curioso effetto di bambini che giocano a fare i grandi. Davvero censurabile la scena della pazzia, con Elvira circondata da prefiche velate di nero che recano in mano, al posto delle tede di classica memoria, più prosaiche lampade ad olio.

Nel complesso, e sintetizzando, uno spettacolo che onora ben poco Bellini e poco aggiunge al percorso artistico del divo per il quale è stato montato, malgrado il rilievo che Flórez viene ad assumere in un cast in cui tutti, ma proprio tutti, sono almeno due spanne sotto di lui. E uno spettacolo sul quale grava l'ombra dell'affaire Mosuc, ben noto e doviziosamente commentato in molti fori specializzati.

Giulia Grisi & Antonio Tamburini


Gli ascolti

Bellini - I puritani


Atto I

Ah! Per sempre io ti perdei...Bel sogno beato - Ernest Blanc (Bonynge - 1963)

O amato zio...Sai com'arde in petto mio - Margherita Rinaldi & Paolo Washington (Ceccato - 1969)

A te o cara - Francisco Araiza (Soltesz - 1987)

Son vergin vezzosa - Gianna D'Angelo (con Kraus, Arié, Granados - Wolf-Ferrari - 1967), Anna Maccianti (con Kraus, Gaetani, Fortunato - Zani - 1970), Adriana Maliponte (con Kraus, Raimondi, Di Stasio - Gavazzeni - 1972)

Dov'è Arturo?...Ah, vieni al tempio - Lina Pagliughi (Previtali - 1952), Anna Moffo (Rossi - 1959), Anna Maccianti (Zani - 1970), Adriana Maliponte (Gavazzeni - 1972)

Atto II

Oh rendetemi la speme...Qui la voce sua soave...Vien diletto - Anna Moffo (Rossi - 1959), Margherita Rinaldi (Ceccato - 1969), Adriana Maliponte (Gavazzeni - 1972)

Atto III

Son salvo, alfin...Corre a valle - William Matteuzzi (con Mariella Devia - Bonynge - 1989)

Finì, me lassa!...Nel mirarti un solo istante...Vieni fra queste braccia - Anna Moffo & Gianni Raimondi (Rossi - 1959), Anna Maccianti & Alfredo Kraus (Zani - 1970)

Ah! Sento, o mio bell'angelo - Lucia Aliberti (Luisi - 1988)

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giovedì 23 ottobre 2008

"Ah non credea mirarti sì presto estinto, o fiore" - La nuova Sonnambula, edizione Decca.

Dopo più di un anno dalle sessioni di registrazione, è “finalmente” disponibile (almeno per il mercato europeo) la nuova edizione della Sonnambula di Bellini targata DECCA. Vi era molta attesa per l’uscita del disco, sia per i nomi coinvolti nell’operazione, sia per la strategia commerciale della casa discografica, che ha preparato l’evento con la pubblicazione di due separati recital dei due protagonisti – Juan Diego Florez e Cecilia Bartoli – ammiccanti ciascuno ad interpreti mitici dell’opera di Bellini: Maria Malibran e Giovanni Battista Rubini. Altro interesse dell’incisione è dovuto all’impiego di compagine orchestrale “ridotta” che utilizza “strumenti antichi” (oltre a tutte le altre caratteristiche esecutive che si rifanno, più o meno, a quella specie di araba fenice che sarebbe il modo antiquo). Prima di passare all’analisi dei singoli numeri dell’opera (condotta con partitura alla mano), giova, però, premettere alcune considerazioni relative al cast vocale, alle modalità esecutive, alla direzione d’orchestra nonché alle scelte editoriali.

Partirei proprio da quest’ultimo aspetto: l’elegante cofanetto Oiseau-Lyre (il dipartimento della DECCA specializzato in musica antica…), dichiara fin dal retro della copertina di seguire la nuova edizione critica dell’opera a cura di Alessandro Roccatagliati e Luca Zoppelli e risalente al 2004 (circa la storia di codesta edizione si rinvia ad altro intervento che si occupava del medesimo argomento, all’indomani dell’uscita della Sonnambula per la coppia Dessay/Meli che pure dichiarava l’utilizzo della medesima fonte). In realtà, leggendo le note che accompagnano il cd si scopre che nonostante venga seguita la lezione dell’autografo secondo le chiavi originali, in tre casi soltanto, si è proceduto a degli abbassamenti di tonalità. I tre brani sono: la Cavatina di Elvino “Prendi, l’anel ti dono” e successiva “Ah vorrei trovar parola”; il duetto Elvino/Amina “Son geloso del Zefiro errante” e successiva stretta; l’aria e cabaletta di Elvino “Tutto è sciolto” e “Ah perché non posso odiarti”. Ossia i tre brani che risultano abbassati nella tradizionale partitura Ricordi. Come a dire che i punti salienti che differenzierebbero l’autografo dalle successive edizioni a stampa – e cioè le tonalità originali (oltre naturalmente alcuni, pochi, dettagli relativi alla strumentazione) – seguono la secolare e consueta tradizione esecutiva dell’opera! Poco rilievo quindi, assume l’utilizzo dell’edizione critica, se proprio i brani che subirono i maggiori rimaneggiamenti, subiscono i soliti e tradizionali trasporti tonali. Poco male e nessuno scandalo: la parte di Elvino è di altezza tale che forse la voce di Rubini solamente era in grado di affrontarla secondo la redazione originaria. Tuttavia fa sorridere il fatto che, mentre si fa pompa di eseguire la Sonnambula “così come scritta”, nella realtà si deve scendere a quei compromessi a cui una saggia tradizione era giunta già a metà ‘800 (e che i veri direttori/filologi, come Bonynge, continuarono senza farsi troppi problemi, ben sapendo la necessità e la legittimità di tali “aggiustamenti” in funzione dei cantanti impiegati e delle supreme esigenze di riuscita artistica). Oltre alla questione relativa alle chiavi e alle tonalità, altra attesa per l’uscita discografica era dovuta al dichiarato utilizzo di una fantomatica “versione Malibran” dell’opera, tanto che codesta Sonnambula veniva indicata sul sito della Bartoli come ultimo tassello dell’omaggio della diva alla divina, nell’ambito dei festeggiamenti per il bicentenario della nascita. Ora in realtà non esiste nessuna “versione Malibran” edita o inedita: semplicemente vi sono alcune cadenze predisposte per la grande cantante a partire dal suo debutto nel ruolo, a Napoli nel 1833. Tutto qui: e infatti la stessa produzione ha dovuto correggere il tiro, dando atto dell’inesistenza di una tale versione in un trafiletto tra le note d’accompagnamento (peraltro accomunando in modo bislacco la vocalità della Pasta a quella della Malibran, confondendo la prima interprete dell’opera e lasciando intendere che Bellini l’avesse in realtà scritta per mezzo soprano, nonostante le spurie e apocrife aggiunte di acuti e sovracuti). Ma questo è solo marketing, specchietto per le allodole. Più importanti questioni riguardano le scelte esecutive e musicali. Si apprende, infatti, che l’orchestra suona secondo un diapason pari a 430 Hz, ossia – per i non addetti ai lavori – di quasi 1/3 di tono sotto rispetto al consueto (cioè 440 Hz). La circostanza fa dire agli estensori del libretto che, proprio per questo si tratterebbe di “incisione storica”. Il diapason abbassato è conseguenza, ovviamente, della scelta di utilizzare orchestra con strumenti d’epoca (o meglio, copie degli stessi) ed è pallino fisso di tutti i cosiddetti specialisti del modo antiquo. L’assunto per cui il La del 1831 fosse più basso di quello attuale è certamente appurato, tuttavia è tuttora controverso (e comunque aperta alla discussione e alla contestazione) il relativo quantum. In realtà, nel secolo XIX l’intonazione variava da città a città, da teatro a teatro. In alto e in basso. Si sa, ad esempio che a Parigi nel 1859 il parlamento votò una legge per riportare il La a 435 Hz (segno che prima era più alto), a Dresda nel 1820 era a 420 Hz, ma appena 10 anni dopo era salito a 435 Hz, alla Scala arrivò oltre i 450 Hz. Non parliamo poi dei secoli precedenti, dove vigeva anarchia assoluta: alcuni diapason riconducibili a Haendel erano accordati a 422 Hz, ma ve ne sono alcuni di 40 anni successivi a 408 Hz, mentre l’organo su cui suonava Bach a Lipsia o a Weimar era calibrato a 480 Hz. L’argomento appare dunque molto aperto. Ma non è il luogo per approfondire la questione (e forse poco importa). Resta il fatto che, a causa dell’abbassamento di diapason, i trasporti di tradizione (già più bassi rispetto all’autografo) appaiono un po' più bassi (si consideri che un Sol diesis o La bemolle ha convenzionalmente frequenza pari a 416 Hz, non molto distante dal diapason scelto): con l’effetto di perdita di brillantezza in molti brani. Quella che dunque dovrebbe essere secondo gli intenti, una Sonnambula autentica, appare falsificata. Ci si può chiedere, stante l’abbassamento di diapason (e la relativa comodità) non sarebbe stato più interessante seguire anche per i brani “incriminati” la partitura autografa? Non credo fosse un grosso problema per l’interprete – che nel registro acuto ha o aveva le sue armi più vincenti – arrivare, con la tranquillità che dà lo studio di registrazione, ad un Do diesis o a un Re o anche a un Re diesis. Nello specifico gli abbassamenti:

1) la Cavatina di Elvino passa dal Si bemolle maggiore originale, ad un La bemolle maggiore solo nominale, poichè in realtà, causa diapason abbassato si percepisce un Re bemolle maggiore molto crescente;
2) il duetto Elvino/Amina, scritto in un limpido Sol maggiore è trasposto un tono sotto, in Fa, che pare un Si bemolle maggiore scordato;
3) l’aria e cabaletta di Elvino che nell’autografo sono rispettivamente in Si minore e in un solare Re maggiore, diventano, in ossequio ai tradizionali abbassamenti della partitura Ricordi, La minore e Si bemolle maggiore, che “grazie” al diapason suonano come un Re minore e un Mi bemolle maggiore entrambi molto crescenti.

Questo è quanto si sente. Non siamo alla “versione da baritenore” approntata da Pidò per Meli, ma comunque risulta la più bassa dell’intera storia discografica dell’opera (con eccezione di quella della VIRGIN), da Valletti a Bros.
Veniamo ora all’orchestra e alla direzione, per poi concentrarsi sul cast.

L’Orchestra La Scintilla è diretta da Alessandro De Marchi. Fin dalle prime note dell’introduzione è chiaro l’orizzonte estetico e interpretativo. De Marchi si segnala per una generale pesantezza di tocco: ritmi marzialmente scanditi, avarizia di colori, contrasti sottolineati. La mancanza più grave è, però, l’assenza di quell’abbandono lirico, di quella morbidezza, di quella delicatezza necessari a disegnare l’ambientazione larmoyante dell’opera. Gli archi, ad esempio (spesso sovrastati dall’ingombro di fiati troppo sottolineati) invece di “dipingere un acquerello” dalle tonalità sfumate e sognanti (che è il mondo di Sonnambula, volenti o nolenti) scarabocchiano un pasticcio dai colori sgargianti e mal accostati. Suonano duri, secchi, freddi. Così pure i fiati che mancano di ogni morbidezza (e talvolta “spernacchiano”). I tempi generalmente affrettati, diventano slentati e trascinati ad uso e consumo delle cantilene sussurrate dalla protagonista. Anche la cabaletta di Elvino è penalizzata dai tempi letargici e pesanti staccati da De Marchi, che non accelera neppure nella stretta. Insomma, il direttore conferma la pessima impressione già suscitata in Rossini: greve, grossolano, privo di lirismo e incapace di far “cantare” l’orchestra (virtù – e fatica – necessaria a ben rendere il melodramma italiano tra Bellini e Donizetti). Ma è ovviamente sui cantanti che si sofferma l’attenzione. Il Rodolfo di Ildebrando D’Arcangelo, che dipinge un Conte abbastanza nobile e contenuto, scevro da orribili e facili forzature (come purtroppo è uso invalso) è reso con voce ben impostata, pulita, calda, forse il migliore del cast. Juan Diego Florez, come Elvino, è irriconoscibile! Appare stanco e in difficoltà, soprattutto nel registro acuto. La voce non gira, l’emissione non è facile. Certo le note ci sono (quasi tutte), ma manca quella leggerezza a cui, nei suoi personaggi più azzeccati (ed Elvino era uno di essi), ci aveva abituati: un Elvino magari privo di abbandoni romantici o venature malinconiche, ma limpido e svettante. Questo sì! E questo qui manca! Gran parte della colpa è da attribuire alla lettura imposta dal direttore, dalla sua secchezza ed aridità, dall’abbassamento ulteriore grazie alle scelte di diapason (che porta a tonalità che all’orecchio suonano “atipiche”, sporche) e dalla scelta di eliminare le puntature al termine dei brani solistici. In nome di una malintesa filologia. L’esibizione vocale infatti (e l’acuto è un’esibizione vocale) è elemento intrinseco – pur se non scritto – dell’opera italiana del primo Ottocento. Non è mera esposizione muscolare, ma è esempio di virtuosismo. Molto meglio chiudere la cabaletta dell’atto II con un acuto svettante e luminoso – che appaghi l’orecchio del pubblico e che è legittimato da decenni di tradizione (fin dalla prima) – piuttosto che variare in stile rossiniano il da capo (con esiti di dubbio gusto). Ma anche Florez si è dovuto adattare. Cecilia Bartoli è Amina. Cecilia Bartoli ormai non canta più l’opera: fa crossover. Canta sì, ma come lo potrebbe fare Madonna. Conferma dell’assunto è il circo Barnum che ha portato in giro per mezzo mondo (a suo modo spettacolo geniale, ma che con l’opera non ha più nulla a che fare). La Bartoli qui appare (per dirla con Tarantino) sé stessa all’apice del proprio masochismo! Fa tutto quello che dalla Bartoli ti aspetteresti: una serie di sospiri, rantoli, sussurri, grida, sgomenti, soffi, tra cui si percepisce, talvolta, una linea di canto appena accennata, soffusa, sottovoce (nei momenti lirici). Oppure un gorgoglio di agilità a suon di colpi di gola che (dopo averne constatata la velocità e la rapidità d’esecuzione – cosa in sé notevole, ma inutile) oltre ad affogare la linea musicale, appaiono fuori stile (tutt’altra cosa quelle agilità, ugualmente funamboliche, ma rese con astrattezza languida e vellutata dalla Sutherland). Giusto/sbagliato, corretto/scorretto…non importa: è la Bartoli. Certo non è Bellini. E non è sicuramente La Sonnambula. Si tralasci poi la considerazione per cui ci si chiede come questo profluvio di effetti possa essere percepito in una vera e propria recita teatrale. Qui il microfono è a pochi cm dalla bocca e si sente tutto, ma si capisce anche che non si può cantare così davanti ad un pubblico vero. Cos’è questa Sonnambula allora? Un esperimento di rielaborazione discografica costruito in laboratorio grazie alla sensibilità dei moderni strumenti d’incisione? O vuole essere un “disco storico” che segni le prossime generazioni nell’interpretazione del titolo? Cos’è dunque? Beh, come tradisce la stessa copertina (che ammicca alle pose di sexy popstar – con tanto di fotoritocchi e set patinato), si può dire che questa Sonnambula altro non è che l’ultimo album della Bartoli (così come si citerebbe l’ultimo album di Sting), ossia un puro oggetto di consumo pronto a scalare la top ten magari, campione d’incassi forse, da inserire in qualche tournè (salvo amplificazioni e mixer audio), da vendere nei megastore. Ma siamo al prodotto puramente discografico, senza più velleità artistiche: il passo successivo è la campionatura di voci e orchestra ed il confezionamento di prodotti virtuali ed artificiali, magari assemblati sul pc di casa. Corretti, puliti. Ma mortalmente gelidi. Ma sarebbe discorso lungo. Concludo con una sintetica analisi dei numeri:

N° 1: INTRODUZIONE – La direzione appare fin da subito rozza e grossolana, scandita con l’accetta: pare ignorare a bella posta i segni espressivi di p e pp. Va bene che si tratta di “festa di paese”, ma non per questo deve essere tutto sguaiato e triviale! La Cavatina di Lisa è sospirosa e piena d’aria (non si stenta a immaginare a chi si ispiri Gemma Bertagnolli, che interpreta il ruolo) e il da capo viene fiorito come se fosse Haendel.

N° 2: RECITATIVO E CAVATINA – De Marchi stacca un tempo assolutamente letargico (la partitura, invece, indica “cantabile assai sostenuto”), che tuttavia non suggerisce nulla di poetico: lo stacco degli archi che accompagna il “Compagne, tenere amiche” di Amina, che in altre incisioni appare come un raggio di sole e di serena felicità, qui passa inosservato tanto è malamente suonato. La Bartoli canta la sua “nenia” (scombinata così dall’orchestra) non risparmiandosi in sospiri, affanni, colpetti di gola. In tutto ciò non lega nemmeno due note: è tutto staccato e spezzato. La melodia lunga lunga belliniana va a farsi benedire, affogata nel lento annaspare della protagonista che termina l’aria senza alcuna cadenza (eppure ci sarebbe una bella corona a suggerirla – ma nessuna corona verrà rispettata nell’intera esecuzione!). Segue cabaletta in un profluvio di sospiri e sussurri, rallentamenti incomprensibili, rantoli e parlati, pause e respiri presi a casaccio. Il da capo è così variato da sembrare una riscrittura!

N° 3: RECITATIVO E DUETTO – attacca il clarinetto, vistosamente calante e poi entra Elvino: corretto, ma come sforzato. Gli acuti ci sono, ma non sono facili. Un Florez decisamente fuori forma in una parte che prima dominava con sicurezza ben maggiore. Nella stretta manca del necessario abbandono. I Do acuti (abbassati, causa diapason) ci sono, ma sono come estrapolati dal contesto, isolati, soli. Il da capo è variato ancora in modo creativo.

N° 4: RECITATIVO E CAVATINA – la Cavatina di Rodolfo è staccata ad un tempo forsennato, rovinando così una delle più straordinarie melodie scritte da Bellini. Il fraseggio è monotono (ma D’Arcangelo è scusato dalla dozzinalità dell’accompagnamento, davvero volgare). Cabaletta a ritmo di galop, ma, curiosamente, senza nessuna variazione nelle ripresa.

N° 5: RECITATIVO E CORO – totalmente assente il clima notturno e l’aura di mistero che anche il più misconosciuto concertatore “di provincia” riuscirebbe a rendere. Oltretutto De Marchi imprime un ritmo troppo veloce e un’aria da sagra paesana (con tanto di sottolineato ZUM-PA-PA).

N° 6: RECITATIVO E DUETTO – la Bartoli sospira, si affanna, rantola, parla e non lega un suono! Florez comincia a farsi riconoscere: tenta di dare un senso alla frase, all’arcata melodica, ma l’orchestra e la partner “remano contro”. Nella discesa al Do nella cadenza prima della stretta, Amina pasticcia alquanto (mentre Elvino finalmente sale al suo Do con facilità).

N° 7: SCENA E FINALE I – si apre con gli accordi stridenti e sforzati degli archi d’epoca, che stonicchiano subito. E siamo al “capolavoro”: entra la Bartoli simulando la voce di una persona che parla nel sonno, sbadigliando e cantando con bocca semi-chiusa e mandibola fissa. Pronuncia male le consonanti a bella posta e canta sovente nel naso (per realismo immagino: avrà fatto alcune ricerche sul fenomeno del sonnambulismo – filologia d'accatto!). Per fortuna la “sceneggiata” termina presto, con l’inizio del duetto. Entra il coro mentre gli archi sembra intonino l’Inverno dalle Quattro Stagioni di Vivaldi. Poi il quintetto in cui la Bartoli ancora mostra completa assenza di legato. Nella stretta conclusiva, infine, i tecnici DECCA mettono in evidenza la voce della loro diva di punta (nonostante dovrebbe essere Elvino a “tirare”) col risultato di avere i piani sonori totalmente sballati. Passiamo all’atto II.

N° 8: CORO D’INTRODUZIONE – la consueta grossolanità di De Marchi compromette il clima pastorale dell’apertura d’atto.

N° 9: SCENA ED ARIA – seguendo la lezione dell’autografo viene ripristinato il preludio per le due trombe prima dell’ingresso di Amina (brano molto suggestivo che qui si ha l’occasione di ascoltare per la prima volta – giacchè l’altra incisione che vanta di seguire l’edizione critica, lo omette – ma meriterebbe un suono più rotondo e morbido). “Tutto è sciolto” manca del languore e della malinconia che la musica di Bellini suggerirebbe. L’abbassamento tonale è marcato (e aggravato dal diapason), l’accompagnamento grossolano. La cabaletta “Ah perchè non posso odiarti” viene staccata a tempo lentissimo perdendo di mordente e trascinandosi verso i parchi acuti (nessuna puntatura è concessa alla fine). Nessuna cadenza viene interpolata, tutto è come scritto in partitura (Gavazzeni scrisse che “l'assoluta fedeltà al testo è un'idea gretta che va contro i valori estetici della musica e va contro la storia”).

N° 10: SCENA ED ARIA – ancora Lisa interpola variazioni haendeliane.

N° 11: QUARTETTO – ben eseguito dai cantanti, ma l’accompagnamento è da banda.

N° 12: SCENA ED ARIA FINALE – siamo alla parodia! Per fortuna non viene replicato “l’effetto” del sonnambulismo all’atto I, tuttavia il recitativo è sempre piagnucoloso e sospirato, senza l’ombra di legato. L’aria è grottesca. “Ah non credea mirarti” staccato a tempo lentissimo, letargico, soporifero. Come si poteva immaginare qui la Bartoli dà libero sfogo alla sua “arte”: sospiri, lamenti, rantoli, affanni. Ricorda più un crooner degli anni’50 alla Tony Bennett, che una cantante d’opera che pratichi il canto professionale. La linea vocale (o quel che ne rimane) è di continuo spezzata dal pianto e dai sospiri – si fatica a percepire l’arcata melodica belliniana! “Io più non reggo”, canta Elvino...e non solo lui! La voce (priva di impostazione e immascheramento) è malferma, indugia in continui rallentamenti e pause non scritte, pasticcia col solfeggio e non lega una nota che è una! Una scena del sonnambulismo ridotta a mera canzonetta pop, manca solo il videoclip. Siamo alla fine: “Ah non giunge uman pensiero” è un delirio di colorature di gola, velocissime e serrate che gorgogliando annegano ogni spunto musicale. De Marchi scandisce l’introduzione con veemenza da corteo (e il risultato è di un’imbarazzante somiglianza con l’incipit di “Bandiera Rossa”). Gridolini, borbottii, sospiri e poi da capo, con variazioni alla Rossini. Sulla puntatura finale (l’unica concessa da De Marchi) cala il sipario su una delle peggiori incisioni di Sonnambula che offra il mercato. Ultima annotazione: la qualità audio è ben inferiore ai consueti standard DECCA. Le voci dei solisti sono costantemente in evidenza e tendono a stridere nella gamma alta (che va spesso in saturazione). Il volume d'incisione è troppo alto e il mixaggio è dozzinale. Si percepiscono chiaramente i rattoppi delle varie sessioni di registrazione. Un disco rivolto ad un pubblico dai gusti...particolari.

Gli ascolti

Bellini - La sonnambula


Atto I
Son geloso del zefiro errante - Luigi Alva & Margherita Rinaldi - Nino Sanzogno (1972)

Atto II
Oh, se una volta sola...Ah! non credea mirarti...Ah! non giunge - Frederica Von Stade - Nicola Rescigno (1986)

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giovedì 1 maggio 2008

Carmen a Firenze: La burletta di Siviglia

Ieri sera, prima di Carmen al Maggio Musicale Fiorentino con il seguente cast:

Carmen - Julia Gertseva
Don José - Marcelo Alvarez
Micaëla - Inva Mula
Escamillo - Ildebrando D'Arcangelo
Frasquita - Gemma Bertagnolli
Mercédès - Bracha Kol
Le Dancaïre - Alessandro Battiato
Le Remendado - Carlo Bosi
Zuniga - Maurizio Lo Piccolo
Moralès - Enrico Marrucci

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino

Maestro del coro - Piero Monti
Direttore - Zubin Mehta
Regia - Carlos Saura

Fin dal Preludio l'orchestra si rivela in tutta la pesantezza prescritta da Mehta. Il fracasso è peraltro assai disordinato (vedi le spernacchiate degli ottoni), anche se l'orchestra suona mediamente bene. Il direttore opta per tempi estremamente stringati, che gli crano non pochi problemi nei cori, nel quintetto del secondo atto, un po' ovunque nelle strette e soprattutto nel finale dell'opera. La notte, il mistero, la sensualità della Spagna fittizia immaginata da Bizet e dai suoi librettisti restano sulla carta (con quale pregiudizio per pagine come gli Entr'acte numero 1 e 2 è facile immaginare). La regia, finto-moderna con questi pannelli di plastica retroilluminati, è un clone dello zeffirellismo più becero, condito da caccole "moderne" tutte da gustare (nella folla del quarto atto fa capolino un cardinale tutto di rosso vestito scortato da un bimbo parato alla stessa maniera: un evidente omaggio ad Almodóvar).

Inva Mula, un sopranino di volume minimo, denuncia fin dal suo ingresso i danni di un'emissione aperta e verista, tanto da non riuscire a legare i suoni nel duettino con lo stinto Moralès di turno.
Dopo i cori di prammatica (pesante e metronomico quello dei fanciulli, assai stonatelli, e incolore e privo di sensualità quello di oziosi e sigaraie, peraltro con i tagli riaperti) entra Carmen: è Julia Gertseva, un soprano con la prima ottava aperta e soprattutto tubata che non sa che cosa sia il canto sul fiato, come dimostra il fallito tentativo di cantare piano, con civetteria, la seconda strofa dell'Habanera. La voce ci sarebbe anche, ma non c'è nessun accento, nessuna insinuazione à la opéra-comique e neppure la sensualità magari volgare delle Carmen all’italiana (sensualità che risiede semmai, per la signora, nel gesto anche troppo frequente di scoprire le gambe). In alto è piuttosto ballante e ingolata. Il tempo assai rapido, del resto, toglie sensualità al brano.
Nessuna carica demoniaca ha la riproposizione del tema "del destino" che prepara il lancio del fiore stregato.
Al duetto Alvarez attacca sgraziato: i suoni in zona centro-alta sono spinti grossi, la voce è inspessita ed inscurita, nessuno squillo, tante contrazioni di gola per salire in centro. Al “Tout cela, n’est–ce pas, mignonne” emette anche suoni buoni, in grazia della scrittura molto centrale. Quando sale - “Ma mère, je la vois” - si strozza miseramente, modello Carreras, e grida un “Souvenir chéri” che spiega il taglio di una buona metà del duetto (in sostanza la prima comparsa del motivo cantabile "Ma mère, je la vois": si passa quindi dal bacio di Micaëla alla frase "Qui sait de quel démom"... taglio filologico o pietoso rammendo per evitare al tenore una doppia, improba fatica?). La Mula grida o emette falsettini. Falsetti pure lui alla chiusa, con un poco di catarro in guisa di corona.
Clangori orchestrali da Wagner durante la rissa delle sigaraie (che sembrano piuttosto valchirie alquanto stridule e in affanno) e all'arresto di Carmen.
Carmen attacca i “Tra la la la” con suoni ora aperti ora ingolati e poitriné, sempre fibrosi: nessuna insinuazione, nessuna volgarità e ovviamente nessuna eleganza. Ogni tanti udiamo suoni degni della miglior scuola russa (Obratzsova). Zuniga non pervenuto.
Seguédille e finale: ancora suoni ingolati, aperti in basso, per una Carmen trasferita dalle rive del Guadalquivir a quelle della Moscova. In alto suona opaca e stimbrata, pessimi i tentativi di cantare piano "Je l’aimerai". Lui replica con un "Carmen, tu m'aimeras?" parimenti strozzato. Nessuna variazione o puntatura alla ripresa finale della Seguédille, eccezion fatta per i suoni nasali sul passaggio superiore.

Arrivati al secondo atto, dopo un preludio assai poco onirico, la Chanson bohémienne, staccata a tempo lento, non vede l'orchestra progredire dionisiacamente strofa per strofa così come previsto dalla partitura. Per Carmen il discorso non cambia: la tessitura bassa evidenzia suoni opachi. Non è insinuante e non è volgare. Sue degne comari le zingarelle: timbro e voci da comprimariato Frasquita e Mercedes. I "montait" della gitana sono uno più gridato dell’altro e l'acuto finale uno strillo. Assai greve la coda orchestrale.
L'assolo di Escamillo è una trombonata e Metha ci va a nozze, ma esagera. Ildebrando d’Arcangelo ha voce dura, stimbrata, bitumata al centro anche in un ruolo di baritono: in alto grida. Non gli riesce neppure l’attacco in piano di Toréador
Il “regarde”, un mi, è un urlo, "l'amour t'attend" praticamente parlato. Manca il cantante da opéra-comique dall’accento spaccone e di gran classe. Pesantissimo l’accompagnamento della ripresa. Pessima la stridula Frasquita.
Quintetto da comprimariato di bassa lega. Mercedes ha emissione sgangherata, Frasquita grida con voce bianca e tutti emettono suoni duri. Siccome le scritture sono elementari gradiremmo almeno un po’ di accento e colori. Tempo velocissimo, generalmente riservato alla ripetizione del quintetto, sfoggiato invece dal primo enunciato. Mehta deve essere convinto di stare dirigendo il Falstaff. Anche qui è pieno giorno su una assolata piazza di Siviglia. Carmen emette pianissimi stimbrati ed indietro.
La voce di Alvarez è bellissima in natura quando canta la canzone del Dragone d'Alcala. L’interprete non esiste: canta solo forte. Al primo acuto si strozza.
Carmen è nasale sulle note di passaggio. Canta piano la prima strofa poi ritorna in riva alla Moscova con difficoltà di legato e diffusa piattezza (non differenzia i vari “La la la”). Quando la scrittura richiede un po’ di mordente, grida. Lui è piattissimo, incapace di rendere il senso di quel che canta.
Arrivati al Fiore l'attacco è incerto, i suoni indietro, aperti ed opachi nel tentativo di addolcire il canto. Nella sezione centrale declama, al "seul désir" sono urla scomposte, il legato è avventuroso e frammentario. Al “Ma Carmen” compare il singhiozzo. Calante e urlato il si bem che l'autore avrebbe voluto in pianissimo.
Anche scenicamente il buon Marcelo si adegua ai canoni vigenti: il lancio della seggiola è da manuale.
In finale d'atto lei emette suoni in basso da riva della Moscova: compare un falsettino maschile alla chiusa della sezione "a due". Poi cominciano a cantare Sansone e Dalila senza, ovvio, la grandeur dell’opera di Saint-Saëns. All'arrivo degli zingari nessuna ironia, l’orchestra pesta. Pesantissimo il concertato condito dalle urla di Frasquita.

L’introduzione al terzo atto non ha la necessaria atmosfera notturna e la levità che pur nel mistero deve possedere la scena per non sembrare un clone delle scene di congiura tipo Ugonotti.
Nella scena delle carte è difficile dire chi delle due zingarelle sia la più scalcinata, stimbrata, urlante. Carmen crede di cantare la profezia di Marfa, suoni di petto e nasali del miglior pessimo gusto. Con tanti saluti al ritorno a quanto previsto dell'autore. Scontata la piattezza dell'interpretazione.
Rientra in campo la Mula e sfoggia voce da megera, dura in prima ottava, un po’ meglio in alto dove le sonorità risultano però attutite. Nella sezione centrale espone impietosamente suoni non sostenuti. Il si naturale è spinto e forzato, i fiati assai corti. Quando i soprani non eseguono correttamente il primo passaggio cantano come Inva Mula, e le filature si spezzano. Nonostante tutto la signora guadagna il primo vero applauso della serata.
Al duetto con José, Escamillo vuole dimostrare di non essere da meno del rivale e lo imita nel vociare. Resta il fatto che Alvarez ha il doppio della voce. Un la naturale di Alvarez è un suonaccio stimbrato in chiusa della sfida. Gli acuti di d’Arcangelo sono sistematicamente “indietro”, quelli di Alvarez duri e spinti e la scrittura centrale acuisce il vizio del cantare aperto a centro. Anche qui megataglio di tradizione (tutta la sezione centrale, in cui Escamillo atterra il rivale e gli risparmia la vita prima del secondo assalto: viva la filologia).
In chiusura d'atto la Mula stenta nel “Moi je viens te chercher”, non lega i suoni e gli acuti sono ghermiti e le cose non vanno certo meglio a “Une parole encore”. Alvarez scade al più bieco parlato verista alle ultime battute: man mano che l'opera si allontana dal modello dell'opéra-comique e tende al "vero", i cantanti scivolano o meglio si buttano a capofitto verso la retorica di stampo verista.

Quarto atto: preludio e coro d'introduzione fragorosi, ma per una volta è quello che richiede la circostanza. Resta il fatto che entrano i toreri e non i Maestri cantori. L'emissione assai plebea dei cantanti rende impossibile la giusta e opportuna civetteria del duettino Escamillo/Carmen.
Al duetto finale lui è gemebondo all’inizio poi comincia a schiumar rabbia e allora grida, bercia, vocifera, il tutto a maggior gloria dell'opéra-comique, mentre lei passa con acuti gridati e calanti, suoni bassi tubati e alla fine autentici schiamazzi da cortile. Con simili cantanti, il finale tragico assume il sapore di una comica finale, specie quando Alvarez, gettata a terra Carmen, le si avvinghia quasi a mimare un amplesso more ferarum. Entrambi i contendenti arrochiscono sensibilmente, tanto che il tema del Toréador esposto dal coro fuori scena appare per contrasto un celeste canto di purificazione. Finale veramente da Politeama Garibaldi, che il pubblico fiorentino accoglie con battimani e grida di giubilo, a dimostrazione del fatto che il malcanto continuerà a imperare nei nostri teatri finché ci sarà un pubblico che così apertamente lo ama, lo brama e lo reclama.

E ora, qualche Carmen per rifarci la bocca:

Atto I
Habanera - Emma Calvé
Parle-moi da ma mère - Veriano Luchetti & Mirella Freni

Atto II
Les tringles des sistres tintaient - Shirley Verrett, Marilyn Horne
Votre toast je peux vous le rendre - Samuel Ramey
La fleur que tu m'avais jetée - Giovanni Martinelli

Atto III
Terzetto delle carte - Christa Ludwig (con Lucia Popp e Margarita Lilowa)

Atto IV
Mais moi, Carmen, je t'aime encore - Giovanni Martinelli & Geraldine Farrar

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martedì 4 marzo 2008

Lucrezia Borgia a Barcellona: Arsenico e vecchi merletti


Nel desolato panorama d'oggi, la parabola di Edita Gruberova ha del miracoloso: a sessantuno anni - e in carriera da quaranta - la signora ha un ritmo lavorativo da far invidia a colleghe e colleghi tanto più giovani di lei. Mentre i trenta-quarantenni arrancano per arrivare a fine recita e cancellano produzioni onde "riposare" la voce, la cantante ceca inanella concerti (in cui alterna e dosa con saggezza Lieder e pagine d'opera) e produzioni liriche (eclettiche anche queste: ad Ariadne auf Naxos e Puritani si affiancano Devereux e Norma) e arriva ad annunciare, per il 2011, nientemeno che una ripresa di Anna Bolena. E trova anche il tempo di preparare un debutto ambizioso e per certi versi assolutamente folle come Lucrezia Borgia! Il Corriere della Grisi non ha potuto fare a meno di volare a Barcellona per assistere all'ultimo (ma non ultimo, ne siamo certi) peccato di vecchiaia di Frau Edita.
La signora ha evidentemente studiato, e tanto: l'impegno è sempre massimo, tanto sotto il profilo vocale quanto interpretativo, che poi nel caso della Gruberova (in questo veramente "old style") coincidono perfettamente. La signora coglie di Lucrezia soprattutto il lato di madre trepida e sventurata, trasformando l'altera duchessa di Ferrara in una composta signora dell'alta borghesia che al massimo potrebbe vendicarsi delle amiche che spettegolano su di lei mettendo il pepe nelle loro tazze di tè. Persino l'abito scelto per il concerto (una mise pesca-rosa da matura cresimanda) appare non tanto inadeguato, quanto del tutto indifferente allo spessore tragico del personaggio. Ed è di conseguenza soprattutto nei cantabili (Com'è bello, M'odi ah m'odi) che Edita (come la chiama, anzi la invoca a gran voce, il devotissimo pubblico del Liceu) dà il meglio di sé, sfoggiando una voce ancora ben salda al centro e inserendo, fra un portamento e l'altro, prodezze tecniche che hanno, oggi, pochi o punti termini di paragone (un esempio per tutti: il la bemolle acuto nel finale del prologo, attaccato in pianissimo, tenuto allo spasimo e rinforzato), testimonianza della capacità, languente ma non spenta, di piegare la propria voce agli effetti desiderati (per quanto di dubbio gusto). Anche i sovracuti, tradizionale tallone d'Achille della Gruberova anni 2000, appaiono più saldi del consueto (tranne l'ultimo, attaccato bene ma sporcato in chiusura). Semmai questa matura Lucrezia mostra la corda, malgrado raggiusti e puntature, nei recitativi e ovunque sia necessario sfoderare un minimo sindacale di accento imperioso (Son la Borgia: ma de che?), per tacere delle ossute variazioni di Era desso il figlio mio, in cui è scontato, ma non per questo scorretto, rimpiangere l'impeccabile vocalizzare di una Sutherland a fine carriera.
Nei panni di Gennaro, Josep Bros fornisce una prova corretta e priva di brividi (in ogni possibile senso). La voce, ben proiettata al centro, è sufficientemente morbida, nonostante risulti a più riprese alquanto nasale. Il fenomeno si avverte in maniera spiccata nell'aria aggiunta T'amo qual s'ama un angelo, in cui la scrittura, decisamente alta, fa emergere più di una tensione, particolarmente negli acuti ghermiti con visibile - e udibile - sforzo. Confortante, comunque, la solidità di questo onesto professionista, in un'epoca che eleva agli altari ben più modesti idoli.
E veniamo alla grande delusione della serata. Ewa Podles non esibisce più che una voce smilza smilza, che facilmente sparisce nei "tutti" e ovunque non appena l'orchestra oltrepassi il mezzoforte. La tessitura centrale di Maffio (cui si aggiungono, tradizionalmente, non poche impennate all'acuto) fa a pugni con quel che resta di una vera voce di contralto: la signora freme e sbuffa, agitandosi in modo piuttosto scomposto e compromettendo la qualità dell'emissione. Eufemistico parlare di registri disomogenei: si fatica a trovare due note, anche prossime, che non sembrino assemblate a partire da voci differenti. Si aggiunga la parsimonia (questa davvero sospetta) di variazioni nel celebre brindisi, che il pubblico applaude vigorosamente forse più per tradizione che per convinzione.
Ildebrando d'Arcangelo, voce piccola perché maldestramente proiettata, corta in alto e fioca in basso, è un Duca Alfonso un grandino sopra il comprimariato (e fatto salvo il giovane e gentile aspetto).
Comprimari tremendi, a eccezione del Gubetta di Roberto Accurso.
Stefan Anton Reck sceglie tempi spediti (richiesta della Diva?) e scarse finezze (ma con un'orchestra, e soprattutto un coro, come quelli del Liceu non c'è da aspettarsi copia di raffinatezze), conducendo abilmente in porto l'operazione "Edita Borgia", un'operazione improbabile cui neppure la Diva (che pure annuncia una ripresa in forma scenica per il 2009 a Monaco) sembra credere sino in fondo.

Lucrezia Borgia
dramma tragico in un prologo e due atti
libretto di Felice Romani
musica di Gaetano Donizetti

versione in forma di concerto

Alfonso d'Este - Ildebrando d'Arcangelo
Lucrezia Borgia - Edita Gruberova
Gennaro - Josep Bros
Maffio Orsini - Ewa Podles
Jeppo Liverotto - Roger Padullés
Apostolo Gazella - Alberto Feria
Ascanio Petrucci - Francisco Santiago
Oloferno Vitellozzo - Jordi Casanova
Gubetta - Roberto Accurso
Rustighello - Bülent Külekçi
Astolfo - Bálint Szabó
Servitori - Xavier Comorera, Pierpaolo Palloni
Una voce - Mariano Viñuales

Orchestra Sinfonica e Coro del Gran Teatre del Liceu
Direttore - Stefan Anton Reck
Maestro del coro - José Luis Basso

Gran Teatre del Liceu, Barcellona
1 marzo 2008

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