
Cantare l’Anna Bolena di Donizetti non significa cercare di eseguire bene tutte le note ed essere personaggio in virtù della propria avvenenza fisica, bensì “esprimere”, trasmettere tutti i contenuti drammaturgici e vocali insiti nel testo, alla luce di una lezione, quella della tradizione, fatta di innumerevoli e diverse vie percorribili. Tradizione che non è un handicap ma il riferimento guida per viaggiare sul giusto binario. Il cast impegnato a Vienna ha, invece, mutuato dal passato solo l’uso selvaggio e primordiale della forbice, ma una forbice di marca del tutto diversa da quelle in uso nei vituperati anni ’50. I tagli contro i quali la filologia moderna lotta erano, in passato, dovuti a vari fattori, in primo luogo il gusto del tempo, quindi le abitudini del pubblico, in certi casi i limiti vocali degli interpreti non specializzati in certi repertori, come le voci maschili nel belcanto. Il taglio, nelle produzioni di alto livello, era finalizzato a garantire esecuzioni magari stringate ma comunque in grado di reggere il teatro, e a minimizzare i difetti. La forbice moderna, invece, funziona assai diversamente, o meglio, ha perduto la sua efficacia passata, dato che le opere, più o meno amputate e scorciate, vengono comunque cantare male o in modo inadeguato. La forbice agisce “pietosamente“ per i cantanti, soccorrendo chi ha il fiato corto, chi non ce la fa proprio più, chi non ha la minimale varietà di accento per regger la ripresa interna ad un’aria bellissima, chi non ha gli acuti o le agilità, chi non ha la robustezza per reggere “da capo” e code sfiancanti, significativo e non accessorio apparato atto a monumentalizzare ciò che è stato concepito proprio per essere monumentale e destinato all’interpolazione personale del grande protagonista del belcanto. La filolgia stigmatizza i tagli della stupefacente edizione dell’Armida di Serafin e della Callas, o della sua Bolena, per poi ritrovarsi oggi tra le mani il terzo atto ridotto ad un moncherino dei Puritani Florez Machaidze ! La filologia trova il suo fallimento moderno laddove non si canta, perché siamo tornati a tagliare robustamente come in questa prova viennese di Bolena, ma mandando in scena superstar che non sono in grado di gestire nemmeno edizioni sforbiciartissime. Già, perché il punto è che continuiamo a parlare degli abusi e della non - filologia dei giganti del passato, dimenticando ( comodamente! ) che i cantanti odierni non sono in grado di reggere nemmeno le opere scorciate. Si è ampiamente tagliato nella produzione viennese, ma il fatto grave è il COME ci è stato restituito quello che ci è stato restituito da questa “stars parade”, che dovrebbe essere il punto di riferimento per tutti i colleghi di minor successo. Si è trattato, infatti, di un’altra crociera di lusso nel mondo del “Vorrei ma non posso” in compagnia di cantanti strapagati, dai volti bellissimi degni delle sponsorizzazioni delle cosmesi di marca, o connotate da un aplomb da modelle un po’ appesantite, dall’espressione narcotizzata idonea forse a Violetta, più che dalla regale maestà di una grande figura della storia d’Inghilterra e del canto, quale è Anna Bolena, prototipo della grande primadonna tragica ottocentesca. Vi è stato anche aggiunto un re belloccio, fin troppo “manzo”, oltremodo arrapato per la bella bionda Giovanna, come la prima scena ci ha fatto vedere, ed un Percy innamorato irruente e un po’ goffo, tutti insieme appassionatamente circondati da un musico piuttosto sgangherato che delle sue scene non sapeva che farsene, comprimari di terz’ordine e da un coro che poteva anche non esserci, dato che ha sempre cantato come fosse ad una serena sagra di paese o intento a far cuocere il lombardissimo “ris e erburin”, come nella scena che introduce il tragico finale. Una bella ricetta insufficiente di quelle che, sole, lo star system sa praticare.
La trama e, soprattutto, il senso profondo dell’opera, a Vienna le conoscevano in pochi a mio avviso, cantanti direttore e regista incluso, che, nel pieno del concitatissimo finale I che inaugura la tragedia di Anna, ha fatto incomprensibilmente sdraiare la protagonista su un letto, come una fatale diva del muto, mentre il marito le sta promettendo il patibolo. Forse il regista intendeva alludere ad accadimenti omessi tra primo e secondo atto, ma ….quale inopportunità per una regina concepita e disegnata, more Ottocento, come una figura statuaria, altera, vittima, aristocratica, insomma, una creazione letteraria romantica. Con Anna Bolena siamo di fronte al verismile non al vero storico, cioè alla rappresentazione di un ideale di sovrana vittima, non alla sua realtà documentaria, e questo deve ritornare a noi nel canto come nella scena, perché è la peculiarità dell’opera. Riecco invece la maniera delle regie forgiate ad immagine dei divi, che manipolano incoltamente i testi: alla signora Dessay, eternamente Lucia isterica, si danno le altalene, mentre alla signora Netrebko, eternamente Manon, il letto, come si addice alla sua immagine di soprano sexy ( ora nemmeno poi tanto! ). L’incomprensione collettiva dell’Anna Bolena è stata tale che la protagonista di regale non aveva un bel nulla ( riguardatevi l’inadeguatezza marchiana del suo ingresso…), con un incedere ora rapido da ragazzina ed il volto da dolce inespressiva Matrioska per i momenti lirici, ora agitato ed esteriore da volgare Gruscenka, o Nedda per i melomani nostrani, quando il canto si faceva tragico, con la voce scomposta, l’emissione di colpo sguaiata in zona centro grave. Se poi ci spostiamo sul canto, apriamo il vaso di Pandora! Peccato, perché la signora Netrebko ha una zona centro acuta ampia, sonora e facile, piuttosto pura, che certe nostre Bolene “di ferro” avrebbero anche potuto invidiarle assieme alla presenza fisica. La zona grave, però, qui come in ogni altro titolo scritto per la Pasta, dovrebbe girare alla perfezione, perché spessissimo là cade l’accento più difficile e raro: se il passaggio inferiore non funziona, non si può trovare l’accento esatto, sia che si canti l’opera integralmente o tagliata. E la coloratura deve avere precisa esecuzione di forza, mentre con la superstar russa i trilli si masticano in bocca, terzine, quartine & c si spappolano, e nei gravi la voce rimbalza tra i denti. Non abbiamo detto che la coloratura deve avere senso drammaturgico? Mali minori, certo, a fronte della devastante assenza di accento della signora, a recitativi straordinari come “Dio che mi vedi in core” o la sortita stessa, “ Come innocente giovane”, messa lì come un brano liliale (!), o battute struggenti boccheggiate come “un serto io volli, e un serto ebb’io di spine” al duetto con Percy, “..gli affanni dell’infelice aragonese” al duetto con Giovanna, o la tragicità di “Ai piedi tuoi mi prostro…” ad inizio terzetto con Enrico e Percy. L’articolato fraseggio di questa parte, tanto complessa e massacrante, buttato alle ortiche da chi non capisce le parole che sta pronunciando perché oltre alla lingua misconosce il canto sulla parola, quello all’italiana. La prova? Il duetto-scontro tra le protagoniste, il massimo del minimo della serata, con la diva travolta dal peso di frasi impetuose quali “ Sul guancial del regio letto”, risolte con enfasi esteriore e volgare e suoni di petto bruti. Evidenti, poi, anche taluni problemi di intonazione, con molte note prese con fastidiosi portamenti ( nell’entrata “..non lasciarti, non lasciarti lusingar…” ), “scivolando” il suono da sotto o da sopra a seconda dei casi ( inizio atto II, attacco su “Dio”, fiato, “che mi vedi in core “) frasi scentrate, e prese di fiato abusive ( esemplare il da capo del “Giudici ad Anna”). Le cose migliori la signora Netrebko le ha offerte nel quintetto della Caccia, al “Io sentìa sulla sua mano”, in alcuni momenti del duetto con Percy, e nella sezione centrale del duetto con Giovanna, “Va infelice teco reca”, di scrittura centrale, e nel finale, il risveglio del “Coppia iniqua”, mentre tutto quanto ha preceduto la cabaletta è parso compitato, con bel garbo ma…..troppo poco per rendere il gigantesco ruolo di Anna. I tagli ( a memoria rammento il da capo di “Non v’ha sguardo”; la coda del “Giudici ad Anna; la chiusa di “Sul guancial del regio letto” con le agilità cromatiche; il da capo del terzetto “Salirà l’Inghilterra sul trono”..etc..) sono arrivati propizi ma insufficienti per una protagonista distante dal ruolo, dal suo senso drammaturgico, dalle sfaccettature del personaggio tragico, che è anche lirico, malinconico, regale, forte ed autorevole, di tecnica insufficiente per il belcanto ed i suoi paradigmi ( onore alla ladies di ferro, Bolenine certo, ma mai scomposte o esteriori..). Lo star system tutte queste inadeguatezze delle proprie stelline da carta patinata non le vede, non le sente….
Ma veniamo agli altri, che non sono stati da meno per altre ragioni, alla diva. Bellissima e gelida la signora Garanca è stata una Giovanna regale di aspetto ( più di Anna ) ma alterna negli esiti vocali ed espressivi. Di fatto mi è piaciuta abbastanza soltanto nella sua grande scena finale, eseguita, con evidente imitazione di Shirley Verrett, ma comunque con poca varietà di accento e spianando le forcelle scritte. Anche in quella che è stata la sua scena migliore si sono sentite certe fissità in alto, nelle frasi ”Odi la mia preghiera..”, che fanno dubitare della sua scelta di cantare la Favorita.. Il rondò, tra l’altro, è stato eseguito senza da capo ( come pure la stretta del duetto con Enrico ), menda grave per chi con il belcanto ha una certa confidenza di carriera. Tecnicamente, infatti, la signora Garanca mi pare poco convincente: all’entrata la voce è suonata subito gutturale, sfuocata e fibrosa, bassa, con un’emissione non nobile, in parte riaccomodata, alla sua grande scena, ma mai a fuoco perfetto. E, soprattutto, è rimasta costantemente estranea all’azione nel duetto con Enrico come pure in quello con Anna, dimostrandosi estranea al personaggio ed alle sue numerose sfaccettature Al primo duetto le grandi frasi di una Verrett o di una Dupuy, “Ah s’è ver che al re sono cara..” sono stata eseguite piattamente e con voce gridata, quindi, nella seconda parte di quello con Anna, anche lei come la sua collega, ha esibito un accento liliale adatto a certi passi di Rosina più che ad un personaggio internamente combattuto. All’“ Ah qual sia qual cor non osa…”, di scrittura acuta, il canto non possedeva il necessario slancio, ed sono arrivati anche i cali di intonazione. Anche lei, come già la Netrebko, ha trovato il suo punto di minimo nel duettone, dove ogni grande frase le è scappata via dalle mani, nella totale indifferenza o incomprensione della parte. Quando Giovanna canta “ Ah! Perdono. Dal mio cor punita io sono ..inesperta…lusingata..” il dolore della donna pentita, sofferente ed il racconto dello smarrimento non hanno trovato alcuna intenzione interpretativa nella cantante lettone. Idem la stretta, “ Ah peggiore è il tuo perdono..”, completata dall’uscita di scena senza un sol moto del volto o del corpo, sebbene il libretto reciti :“ Giovanna esce afflittissima”.
Non saprei che dire del Percy di Francesco Meli. La freschezza vocale esibita al debutto veronese, al di là delle stecche nei do e dei tagli delle riprese, pare lontanissima nel tempo. Da qui l’attuale esecuzione della parte. Taglio della ripresa interna della prima aria come del da capo della cabaletta, trilli scritti inclusi; taglio della seconda sezione della stretta del duetto con Anna; taglio, come per gli altri, stretta terzetto; taglio da capo della cabaletta e della coda della seconda aria etcc..ma soprattutto, una cattiva esecuzione, faticosissima, con la voce strozzata sul passaggio fa-sol, impossibilità a cantare anche i primi acuti. La scena della caccia, con i si bem scritti, lo ha messo in grave difficoltà, per non parlare dell’esecuzione tutta a squarciagola e/o falsetti del duetto con Anna ( le frasi “Anna per me tu sei Anna soltanto…”, come la sezione “ S’ei t’abborre io t’amo ancora…” ) come pure al terzetto, lo struggente “ Fin dall’età più tenera…”. Il canto amoroso e lirico non trovano distinzione di accento da quello nobile o di scontro con Enrico, perché grande e costante è l’affanno in cui il tenore si trova a cantare, con le note alte raggiunte sempre da sotto e l’intonazione accomodata… Le ragioni profonde di questa precoce senescenza le abbiamo scritte molto tempo fa, ed è inutile ripeterle. Questo non è un traguardo dei detrattori, ma una sconfitta per il giovane tenore e, soprattutto, per l’opera lirica di oggi, che non trova modo di conservare le proprie voci migliori affinchè crescano e si perfezionino, ma le consuma crudamente a suon di “Va tutto bene…và bene così..” Noi alziamo le braccia, e ci arrendiamo, pensando anche agli onerosissimi progetti futuri targati……..Verdi!
Il signor D’Arcangelo è stato un Enrico di bella presenza fisica e si è sforzato di cantare compostamente e con autorità. La voce però non ha gran proiezione, tanto che la deve spingere continuamente e con poco esito. Più il cantante cerca suoni cavernosi, più perde in smalto; salendo già ai primi acuti il suono gli scappa indietro, come “l’ebbe alfin ma l’ebbe appena” al duetto con Giovanna, oppure la spinge quasi all’urlo come al terzetto, nelle frasi, “ ah chi può sottrarvi a morte..”, che forse gli costano tanto sforzo da fargli stonare poi la replica prima della stretta. Persino la coloratura, peraltro facile, di “Come il sol egual non ha” al duetto con Giovanna, gli è uscita imprecisa e cempennata. Modesto e talora anche sgangherato localmente lo Smeton della signora Kuhlman, in grave difficoltà nel registro grave, fissa negli acuti, e modesta esecutrice della coloratura. Piatta l’esecuzione della cavatina.
Il maestro Pidò ha messo in campo la sua esperienza, in accompagnamenti funzionali ai cantanti, ma non ha saputo uscire dalla routine, pur disponendo di una grandissima orchestra.. Basta sentire la direzione di Richard Bonynge dell’opera, le mille varietà di colori, la fantasia nello stacco dei tempi, per ricavare la piattezza e la meccanicità della direzione di Pidò, che ci ha ritornato pochissimo delle atmosfere pensate da Donizetti, del grande affresco storico e della continua varietà di accenti insiti nel canto e nell’orchestrazione. Della loffia e catatonica esecuzione dei momenti corali ho già detto. Particolarmente noioso e pesante l’accompagnamento del duetto Enrico Giovanna. Produzione di routine del signor Genovése, di un tradizionalismo stilizzato e non invasivo. Piacevole, molto semplice, ma che forse poteva essere migliorato sul piano registico, soprattutto per quanto concerne la protagonista, in più di un’occasione lontana dall’esatta cifra scenica oltre che vocale del personaggio. Lo star system continua a volare, ma solo a parole. Nemmeno le versioni scorciate gli bastano per essere all’altezza degli spartiti e degli autori.
I divi scintillano fuori scena, sulla carta stampata, nelle interviste, sulle copertine, ma sul palco non riescono ad essere all’altezza del compito di cui vengono incaricati, ed alcuni di loro paiono anche paurosamente lontani intellettualmente da ciò che stanno eseguendo tanto che nemmeno se ne danno cura. Io credo che essere artisti sia avere sensibilità per capire e cogliere la poetica di un musicista e di un personaggio e possedere la capacità tecnica di restituire il messaggio al pubblico per il “medium” della propria personalità. In assenza di ciò, non c’è arte, ed in questo caso nemmeno bel canto, ma molta presunzione di essere. Del resto la critica di questi fatti non si occupa o preoccupa: il suo dovere è accusare e riprovare il pubblico, non (re)censire gli spettacoli, il canto. La critica non guarda piùa quanto avviene sul palco ma ai loggioni. Detto questo si è detto tutto.