Nel dicembre 1981 il Teatro la Fenice di Venezia presentò a cavallo delle festività natalizie cinque recite di Tancredi.
Nel title role Marilyn Horne, che con il guerriero ed esule siracusano aveva già notevole frequentazione. Al suo fianco Lella Cuberli, che a Martina Franca nel 1976, con Amenaide aveva iniziato la carriera. Il trionfo indusse la direzione del teatro a riproporre il titolo con il medesimo cast nel giugno 1983. Medesimo, purtroppo, anche quello maschile. Ma nel maggio del 1983 a New York era stata offerta la possibilità di sentire, finalmente, cantare Argirio, grazie a Chris Merritt. Il quale rimane la più completa e affascinante realizzazione del tenore baritonale ad oggi udita.
Si racconta che, nella prima edizione, dopo la sezione centrale del secondo duetto “Ah come mai quest’anima”, salutata da un diluvio di applausi la Horne commentò con Lella Cuberli che avrebbero potuto proporre, come bis, l’inno americano. E Gino Negri, che recensiva gli spettacoli d’opera per Panorama augurò a Lucia Valentini e Katia Ricciarelli, annunciate protagoniste a Pesaro per l’estate successivo, di pensare a “Fratelli d’Italia”.
Nell’agosto successivo Pesaro propose, quindi, la coppia della repubblica di San Marco Valentini-Ricciarelli.
Chi volesse una sintetica, veritiera recensione dello spettacolo pesarese può andare a leggere la recensione di Rodolfo Celletti sulla rivista “Discoteca-Hifi” dell’ottobre successivo.
Ho visto dal vivo le tre produzioni.
Morta nel 1999 Lucia Valentini il Festival di Pesaro l’ha celebrata. Per chi volesse è disponibile il video “In memoriam” dove compaiono gli organizzatori del Festival a celebrare la defunta e dove Gianfranco Mariotti, senza perifrasi, dichiara che quel Tancredi fu la risposta italiana a quello americano offerto da Venezia.
Una tale affermazione imporrebbe di chiamarla risposta italica. Aggettivo che evoca altre immagini assai consone al principio che governò la scelta.
Ma l’opinione del soprintendente di lungo corso fa comprendere i motivi per cui le due protagoniste del Tancredi veneziano più la terza più autentica signora Rossini di quegli anni (ossia Martine Dupuy) non ebbero con il festival i rapporti della coppia italica.
Credo che nulla più degli ascolti possa testimoniare quello che venne udito in quel principio di anni ’80.
E potrei quindi anche evitare scrittura a me e tedio a chi leggesse.
Un fatto, però, gli ascolti non sono in grado di testimoniare, ossia lo spirito di quegli anni, il clima, la febbre che ardeva nel pubblico per quelle riproposizioni, la cui rilevanza era evidente a tutti. A prescindere dai rapporti fra le primedonne, gli spettatori erano realmente divisi in fazioni. Difficile per il fan della Horne decretare il trionfo alla Terrani e soprattutto difficile il viceversa.
Va anche precisato che i protagonisti di quella stagione avevano ciascuno un differente approccio all’autore. Da un lato avevamo Marilyn Horne, e con lei Blake e Merritt, che delle indicazioni di dinamica e scrittura vocale facevano il punto di partenza per realizzare il legittimo desiderio di esprimere soprattutto mediante la metafora, offerta dal virtuosismo. All’esatto opposto la Valentini (e più ancora la Ricciarelli, una vera fuori luogo del canto rossiniano) che della libertà assoluta dell’esecutore in rapporto con il testo erano poco o nulla convinte, vuoi per formazione, frequentazioni e soprattutto qualità tecniche, perché la sola tecnica (e accade anche nel Verismo come insegna un Pertile o un’Olivero) stimola l’inventiva dell’interprete. A metà, ma più sul versante americano Lella Cuberli e Martine Dupuy che nell’assoluto rispetto della prassi esecutiva sfoggiavano anche risorse di accento molto italiane.
Rossini autore che si affida solo alla metafora ed all’idealità dell’arte per esprimere tutta la gamma dei sentimenti ricorre al mezzo della scrittura vocale ed esige assoluta ortodossia della tecnica. Solo con l’ortodossia tecnica il cantante può essere un interprete rossiniano. Sino alla nausea ed alla monotonia si può, poi, parlare degli accenti nascosti che sono sigla dell’interprete di Rossini, ma lo sono a patto di emettere suoni in ogni zona della voce calibrati sul fiato, morbidi e rotondi. Questi aggettivi sono quelli che accompagnarono per tutta la carriera Marietta Alboni, di fatto l’unica vera allieva di Rossini.
A questa richiesta del quartetto risponde in maniera assoluta e costante Lella Cuberli. Che la voce di Lella Cuberli non fosse eccezionale la prima a saperlo credo fosse proprio la stessa signora Cuberli. La voce non era di grande volume, ma sempre sonora tanto che nei concertati svettava senza alcuna fatica su orchestra coro ed altri solisti. Negli anni di quel Tancredi, sul punto di diventare una star, Lella Cuberli emetteva suoni ampi, morbidi in tutta la gamma della voce (non estesissima, ma facile sino al do5) ed eseguiva tutte le figure ornamentali sia previste dall’autore sia inserite come abbellimenti. Basta ascoltare nella sortita il passaggio alla battuta n° 70 o la purezza del suono nel duetto secondo con Tancredi all’attacco del “A te fedel”. Non abbiamo proposto il primo duetto dove Amenaide all’attacco “L’aura che intorno” è chiamata a cantare su una tessitura centralissima e per giunta fiorita (una serie di terzine vocalizzate nella sezione conclusiva) e dove la voce della protagonista femminile non soffre.
Interpretare Rossini: nessuna Amenaide, magari di timbro più bello (Darina Takova a Pesaro nel 1999), magari più estesa in alto (Mariella Devia in giro per l’Italia) ha espresso patetismo e poesia come Lella Cuberli nell’esecuzione degli andanti, ha sfumato legato sospirato come Lella Cuberli senza intaccare precisione e posizione del suono. In questo è la più Rossiniana che abbia mai calcato le scene. Ovvio che con tali premesse le due arie del secondo atto sono la più completa espressione della cantante.
La posizione della voce è la scriminante delle prestazione della Horne e della Valentini e ciò a prescindere dalla qualità vocale intrinsecamente migliore nella cantante italiana, il cui “colore” era di autentico mezzosoprano.
L’esatta posizione del suono di Marilyn Horne le consente di sfumare in ogni zona della voce, di dare il giusto senso a ciascuna della parole dei recitativi ad animare un personaggio che di suo ossia di scrittura rossiniana non può competere con Arsace, Malcolm e Falliero (non per nulla con i trasporti del caso era la parte di una cantante nobile e patetica come la Pasta e non di una virtuosa inarrivabile come la Pisaroni) .
L’esatta posizione del suono ha un’altra conseguenza ossia quella di esaltare la dinamica della cantante. Quando la Valentini esibisce cospicua dinamica abbiamo la sensazione di una minor varietà di suono perché non c’è il completo, corretto sfruttamento delle risonanze in maschera.
D’altra parte basta guardare il video di Pesaro della Valentini e quello di Roma 1977 della Horne per rendersi conto del differente metodo di respirazione delle due cantanti.
Poi si può anche censurare la Horne che per emettere alla chiusa del rondò un si bem acuto abbassa di un tono il grande rondò a partire dal “traditrice io t’abbandono”, ma il do –interpolato- della Valentini è strillacchiato ossia quanto di più antirossianiano possa essere proposto al pubblico.
Anche in una pagina centrale - batte un’ottava - come l’arietta “Perché turbar la calma” l’interpretazione della Horne è più varia per la superiorità tecnica. A prescindere dagli interventi sul testo dell’esecutrice. Se, poi, certe scelte dipendano da carattere, idea del personaggio , cognizione tecnica è arduo dirlo, ma la Horne si prende il lusso di eseguire o trarre spunto dalle varianti della Pasta nel secondo duetto e di attaccare il rondò finale debitamente rimpolpato, ancor più grave di come scritto, lentissimo e progressivamente stringere il tempo nel punto in cui può esaltare il proprio virtuosismo, amplificando le indicazioni dello spartito, mentre la Valentini lo esegue senza seguire le indicazioni e, per essere chiari, le volate sono tutte piuttosto “strascicate”. Anche se il secondo atto della Valentini, almeno alla prima rappresentazione, era migliore del primo.
Ancora arrivata alla cadenza dell’andante la Horne e la Cuberli ne propongono una di grande effetto, che esalta le doti delle due interpreti. In teatro, posso dirlo, non volava una mosca quando le due voci si rincorrevano sul pentagramma e la Horne alleggeriva e schiariva per raggiungere il si bem del soprano (dopo aver esagerato un poco coi suoni di petto nella prima parte dell’andante sulle parole “cangiò per me d’affetto”) e alla fine esplodevano le urla del pubblico. A Pesaro la Ricciarelli e la Valentini inaugurarono la moda di omettere qualsivoglia cadenza, ossia di non rispettare il segno di corona che compare sul la3 di Amenaide. E ciò dopo averne interpolate e giustamente al primo duetto dove i picchettati soprattutto della Ricciarelli erano tutt’altro che precisi nell’esecuzione.
Dulcis in fundo nell’italica esecuzione ci sarebbe, anzi c’era (purtroppo) la Ricciarelli. Spartito alla mano non c’è nota sopra il sol acuto che non sia gridata, se nelle agilità, o falsettata nei passi spianati. Il cattivo controllo della respirazione costringe a patteggiamenti con le messe di voce, a partire da quella iniziale “Come dolce all’alma mia” a pasticci ed imprecisioni nell’esecuzione de picchettati (primo duetto con Tancredi, cabaletta della seconda aria, con un bel do berciato subito dopo o nel finale lieto, eseguito a Pesaro) e quel che è peggio ad un accento perennemente lamentoso che si confà solo in parte al personaggio. Fra l’altro, sempre spartito alla mano, la parte di Amenaide presenta una coloratura ben più minuta di quella di Tancredi, già presaga dell’evoluzione in quel senso di Rossini. Consegnare un personaggio con tali caratteristiche ad una cantante che tutto aveva cantato senza mai essere una specialista di niente significa tradire l’autore che si voleva a parole onorare.
Ancora il fatto che le protagoniste pesaresi fossero italiane e le veneziane statunitensi, registrazioni alla mano, non comportò affatto per la prima coppia un accento migliore una scansione più netta. Anzi sia la Terrani che la Ricciarelli si rifugiarono in una sorta di castigatezza di accento che si rivelò spesso inerzia. In questo senso gli eccessi yankee di Mrs Horne offrono una visione più sfaccettata del personaggio.
Da quelle recite sono passati quasi trent’anni, delle quattro protagoniste le tre viventi due godono il “meritato riposo” attive come organizzatrici e maestre di canto, un’altra è sempre in carriera. Altra, ma sempre carriera pubblica. Non solo: molti altri Tancredi, anche in Pesaro, sono stati riproposti al pubblico. Abbiamo dovuto assistere a teorizzazioni, sempre di matrice pesarese, circa la superiorità delle attuali generazioni di cantanti rossiniane rispetto alle pregresse, di cui le nostre quatto protagoniste facevano parte. Soprattutto abbiamo dovuto assistere alla crocifissione della prassi esecutiva ed interpretativa di cui la Horne e la Cuberli sono state un esempio. Tutto è lecito, signori, ma solo per riempire il teatro e pareggiare i bilanci. A Venezia quella due signore, una delle quali brandiva una spada della dimensione di un coltello da bistecca, hanno evocato fantasmi. Le attuali, figlie delle pesaresi, sono già in scena fantasmi. E non è un gioco di parole. Ma una triste realtà.
Gli ascolti
Rossini - Tancredi
Atto I
Come dolce all'alma mia - Katia Ricciarelli (1982), Lella Cuberli (1983)
O patria...Tu che accendi...Di tanti palpiti - Lucia Valentini-Terrani (1982), Marilyn Horne (1983)
L'aura che intorno spiri - Katia Ricciarelli & Lucia Valentini-Terrani (1982)
Atto II
Giusto Dio, che umile adoro - Katia Ricciarelli (1982), Lella Cuberli (1983)
Lasciami! Non t'ascolto - Marilyn Horne & Lella Cuberli (1983)
Ah, che scordar non so...Perché turbar la calma - Lucia Valentini-Terrani (1982), Marilyn Horne (1983)
Scarica tutti gli ascolti - via Rapidshare.com
Nel title role Marilyn Horne, che con il guerriero ed esule siracusano aveva già notevole frequentazione. Al suo fianco Lella Cuberli, che a Martina Franca nel 1976, con Amenaide aveva iniziato la carriera. Il trionfo indusse la direzione del teatro a riproporre il titolo con il medesimo cast nel giugno 1983. Medesimo, purtroppo, anche quello maschile. Ma nel maggio del 1983 a New York era stata offerta la possibilità di sentire, finalmente, cantare Argirio, grazie a Chris Merritt. Il quale rimane la più completa e affascinante realizzazione del tenore baritonale ad oggi udita.
Si racconta che, nella prima edizione, dopo la sezione centrale del secondo duetto “Ah come mai quest’anima”, salutata da un diluvio di applausi la Horne commentò con Lella Cuberli che avrebbero potuto proporre, come bis, l’inno americano. E Gino Negri, che recensiva gli spettacoli d’opera per Panorama augurò a Lucia Valentini e Katia Ricciarelli, annunciate protagoniste a Pesaro per l’estate successivo, di pensare a “Fratelli d’Italia”.
Nell’agosto successivo Pesaro propose, quindi, la coppia della repubblica di San Marco Valentini-Ricciarelli.
Chi volesse una sintetica, veritiera recensione dello spettacolo pesarese può andare a leggere la recensione di Rodolfo Celletti sulla rivista “Discoteca-Hifi” dell’ottobre successivo.
Ho visto dal vivo le tre produzioni.
Morta nel 1999 Lucia Valentini il Festival di Pesaro l’ha celebrata. Per chi volesse è disponibile il video “In memoriam” dove compaiono gli organizzatori del Festival a celebrare la defunta e dove Gianfranco Mariotti, senza perifrasi, dichiara che quel Tancredi fu la risposta italiana a quello americano offerto da Venezia.
Una tale affermazione imporrebbe di chiamarla risposta italica. Aggettivo che evoca altre immagini assai consone al principio che governò la scelta.
Ma l’opinione del soprintendente di lungo corso fa comprendere i motivi per cui le due protagoniste del Tancredi veneziano più la terza più autentica signora Rossini di quegli anni (ossia Martine Dupuy) non ebbero con il festival i rapporti della coppia italica.
Credo che nulla più degli ascolti possa testimoniare quello che venne udito in quel principio di anni ’80.
E potrei quindi anche evitare scrittura a me e tedio a chi leggesse.
Un fatto, però, gli ascolti non sono in grado di testimoniare, ossia lo spirito di quegli anni, il clima, la febbre che ardeva nel pubblico per quelle riproposizioni, la cui rilevanza era evidente a tutti. A prescindere dai rapporti fra le primedonne, gli spettatori erano realmente divisi in fazioni. Difficile per il fan della Horne decretare il trionfo alla Terrani e soprattutto difficile il viceversa.
Va anche precisato che i protagonisti di quella stagione avevano ciascuno un differente approccio all’autore. Da un lato avevamo Marilyn Horne, e con lei Blake e Merritt, che delle indicazioni di dinamica e scrittura vocale facevano il punto di partenza per realizzare il legittimo desiderio di esprimere soprattutto mediante la metafora, offerta dal virtuosismo. All’esatto opposto la Valentini (e più ancora la Ricciarelli, una vera fuori luogo del canto rossiniano) che della libertà assoluta dell’esecutore in rapporto con il testo erano poco o nulla convinte, vuoi per formazione, frequentazioni e soprattutto qualità tecniche, perché la sola tecnica (e accade anche nel Verismo come insegna un Pertile o un’Olivero) stimola l’inventiva dell’interprete. A metà, ma più sul versante americano Lella Cuberli e Martine Dupuy che nell’assoluto rispetto della prassi esecutiva sfoggiavano anche risorse di accento molto italiane.
Rossini autore che si affida solo alla metafora ed all’idealità dell’arte per esprimere tutta la gamma dei sentimenti ricorre al mezzo della scrittura vocale ed esige assoluta ortodossia della tecnica. Solo con l’ortodossia tecnica il cantante può essere un interprete rossiniano. Sino alla nausea ed alla monotonia si può, poi, parlare degli accenti nascosti che sono sigla dell’interprete di Rossini, ma lo sono a patto di emettere suoni in ogni zona della voce calibrati sul fiato, morbidi e rotondi. Questi aggettivi sono quelli che accompagnarono per tutta la carriera Marietta Alboni, di fatto l’unica vera allieva di Rossini.
A questa richiesta del quartetto risponde in maniera assoluta e costante Lella Cuberli. Che la voce di Lella Cuberli non fosse eccezionale la prima a saperlo credo fosse proprio la stessa signora Cuberli. La voce non era di grande volume, ma sempre sonora tanto che nei concertati svettava senza alcuna fatica su orchestra coro ed altri solisti. Negli anni di quel Tancredi, sul punto di diventare una star, Lella Cuberli emetteva suoni ampi, morbidi in tutta la gamma della voce (non estesissima, ma facile sino al do5) ed eseguiva tutte le figure ornamentali sia previste dall’autore sia inserite come abbellimenti. Basta ascoltare nella sortita il passaggio alla battuta n° 70 o la purezza del suono nel duetto secondo con Tancredi all’attacco del “A te fedel”. Non abbiamo proposto il primo duetto dove Amenaide all’attacco “L’aura che intorno” è chiamata a cantare su una tessitura centralissima e per giunta fiorita (una serie di terzine vocalizzate nella sezione conclusiva) e dove la voce della protagonista femminile non soffre.
Interpretare Rossini: nessuna Amenaide, magari di timbro più bello (Darina Takova a Pesaro nel 1999), magari più estesa in alto (Mariella Devia in giro per l’Italia) ha espresso patetismo e poesia come Lella Cuberli nell’esecuzione degli andanti, ha sfumato legato sospirato come Lella Cuberli senza intaccare precisione e posizione del suono. In questo è la più Rossiniana che abbia mai calcato le scene. Ovvio che con tali premesse le due arie del secondo atto sono la più completa espressione della cantante.
La posizione della voce è la scriminante delle prestazione della Horne e della Valentini e ciò a prescindere dalla qualità vocale intrinsecamente migliore nella cantante italiana, il cui “colore” era di autentico mezzosoprano.
L’esatta posizione del suono di Marilyn Horne le consente di sfumare in ogni zona della voce, di dare il giusto senso a ciascuna della parole dei recitativi ad animare un personaggio che di suo ossia di scrittura rossiniana non può competere con Arsace, Malcolm e Falliero (non per nulla con i trasporti del caso era la parte di una cantante nobile e patetica come la Pasta e non di una virtuosa inarrivabile come la Pisaroni) .
L’esatta posizione del suono ha un’altra conseguenza ossia quella di esaltare la dinamica della cantante. Quando la Valentini esibisce cospicua dinamica abbiamo la sensazione di una minor varietà di suono perché non c’è il completo, corretto sfruttamento delle risonanze in maschera.
D’altra parte basta guardare il video di Pesaro della Valentini e quello di Roma 1977 della Horne per rendersi conto del differente metodo di respirazione delle due cantanti.
Poi si può anche censurare la Horne che per emettere alla chiusa del rondò un si bem acuto abbassa di un tono il grande rondò a partire dal “traditrice io t’abbandono”, ma il do –interpolato- della Valentini è strillacchiato ossia quanto di più antirossianiano possa essere proposto al pubblico.
Anche in una pagina centrale - batte un’ottava - come l’arietta “Perché turbar la calma” l’interpretazione della Horne è più varia per la superiorità tecnica. A prescindere dagli interventi sul testo dell’esecutrice. Se, poi, certe scelte dipendano da carattere, idea del personaggio , cognizione tecnica è arduo dirlo, ma la Horne si prende il lusso di eseguire o trarre spunto dalle varianti della Pasta nel secondo duetto e di attaccare il rondò finale debitamente rimpolpato, ancor più grave di come scritto, lentissimo e progressivamente stringere il tempo nel punto in cui può esaltare il proprio virtuosismo, amplificando le indicazioni dello spartito, mentre la Valentini lo esegue senza seguire le indicazioni e, per essere chiari, le volate sono tutte piuttosto “strascicate”. Anche se il secondo atto della Valentini, almeno alla prima rappresentazione, era migliore del primo.
Ancora arrivata alla cadenza dell’andante la Horne e la Cuberli ne propongono una di grande effetto, che esalta le doti delle due interpreti. In teatro, posso dirlo, non volava una mosca quando le due voci si rincorrevano sul pentagramma e la Horne alleggeriva e schiariva per raggiungere il si bem del soprano (dopo aver esagerato un poco coi suoni di petto nella prima parte dell’andante sulle parole “cangiò per me d’affetto”) e alla fine esplodevano le urla del pubblico. A Pesaro la Ricciarelli e la Valentini inaugurarono la moda di omettere qualsivoglia cadenza, ossia di non rispettare il segno di corona che compare sul la3 di Amenaide. E ciò dopo averne interpolate e giustamente al primo duetto dove i picchettati soprattutto della Ricciarelli erano tutt’altro che precisi nell’esecuzione.
Dulcis in fundo nell’italica esecuzione ci sarebbe, anzi c’era (purtroppo) la Ricciarelli. Spartito alla mano non c’è nota sopra il sol acuto che non sia gridata, se nelle agilità, o falsettata nei passi spianati. Il cattivo controllo della respirazione costringe a patteggiamenti con le messe di voce, a partire da quella iniziale “Come dolce all’alma mia” a pasticci ed imprecisioni nell’esecuzione de picchettati (primo duetto con Tancredi, cabaletta della seconda aria, con un bel do berciato subito dopo o nel finale lieto, eseguito a Pesaro) e quel che è peggio ad un accento perennemente lamentoso che si confà solo in parte al personaggio. Fra l’altro, sempre spartito alla mano, la parte di Amenaide presenta una coloratura ben più minuta di quella di Tancredi, già presaga dell’evoluzione in quel senso di Rossini. Consegnare un personaggio con tali caratteristiche ad una cantante che tutto aveva cantato senza mai essere una specialista di niente significa tradire l’autore che si voleva a parole onorare.
Ancora il fatto che le protagoniste pesaresi fossero italiane e le veneziane statunitensi, registrazioni alla mano, non comportò affatto per la prima coppia un accento migliore una scansione più netta. Anzi sia la Terrani che la Ricciarelli si rifugiarono in una sorta di castigatezza di accento che si rivelò spesso inerzia. In questo senso gli eccessi yankee di Mrs Horne offrono una visione più sfaccettata del personaggio.
Da quelle recite sono passati quasi trent’anni, delle quattro protagoniste le tre viventi due godono il “meritato riposo” attive come organizzatrici e maestre di canto, un’altra è sempre in carriera. Altra, ma sempre carriera pubblica. Non solo: molti altri Tancredi, anche in Pesaro, sono stati riproposti al pubblico. Abbiamo dovuto assistere a teorizzazioni, sempre di matrice pesarese, circa la superiorità delle attuali generazioni di cantanti rossiniane rispetto alle pregresse, di cui le nostre quatto protagoniste facevano parte. Soprattutto abbiamo dovuto assistere alla crocifissione della prassi esecutiva ed interpretativa di cui la Horne e la Cuberli sono state un esempio. Tutto è lecito, signori, ma solo per riempire il teatro e pareggiare i bilanci. A Venezia quella due signore, una delle quali brandiva una spada della dimensione di un coltello da bistecca, hanno evocato fantasmi. Le attuali, figlie delle pesaresi, sono già in scena fantasmi. E non è un gioco di parole. Ma una triste realtà.
Gli ascolti
Rossini - Tancredi
Atto I
Come dolce all'alma mia - Katia Ricciarelli (1982), Lella Cuberli (1983)
O patria...Tu che accendi...Di tanti palpiti - Lucia Valentini-Terrani (1982), Marilyn Horne (1983)
L'aura che intorno spiri - Katia Ricciarelli & Lucia Valentini-Terrani (1982)
Atto II
Giusto Dio, che umile adoro - Katia Ricciarelli (1982), Lella Cuberli (1983)
Lasciami! Non t'ascolto - Marilyn Horne & Lella Cuberli (1983)
Ah, che scordar non so...Perché turbar la calma - Lucia Valentini-Terrani (1982), Marilyn Horne (1983)
Scarica tutti gli ascolti - via Rapidshare.com
5 commenti:
interessante disamina, soprattutto alla luce di alcune letture fatte da poco. in un disc store, mi sono imbattuto nella "bibbia" di Elvio Giudici, intitolata "L'opera in CD e video. Guida all'ascolto di tutte le opere liriche", aggiornata al 2009, in cui il critico, mi sembra proprio alla voce "Tancredi" (ma potrebbe essere Semiramide o Assedio) sostiene che (parafraso) per carità Sutherland, Horne e Sills avranno pure fatto capire al pubblico come va cantato Rossini, però per fortuna adesso si è superato quell'approccio "scolastico", "da Maestrine", per lasciare spazio ad interpretazioni come ad es. quella di D. Barcellona in Tancredi. Ora, in altri passi del libro il sig. Giudici fa delle osservazioni che sono del tutto appropriate e intelligenti (riconosce la grandezza della Horne, pur accusandola di essere un vortice che risucchia la splendida Cuberli), e mi stupisco della leggerezza con cui abbia potuto recensire tre maestre del belcanto ancora, ahimé, insuperate.
Ero presente a tutte le recite veneziane e a due di quelle pesaresi.Ho poco da aggiungere a quello che avete scritto,posso solo ricordare che la Horne ,nel recitativo prima del duetto con Argirio,meravigliava il pubblico con la frase "Le saprai,conoscerai chi son quando cadrai",detta in un modo che avrebbe meritato una descrizione da parte di un Rovani o di uno Stendhal.A rimarcare la differenza abissale tra i cast di allora e quelli di adesso,si puó anche ricordare il fatto che,nelle ultime tre recite veneziane della prima serie nel 1981,la Horne venne sostituita da Carmen Gonzales.
Saluti
germont: trovo strano (o meglio, per nulla strano...) che Giudici accusi la Horne e compagne di essere "maestine", quando le vere esperte dell'esecuzione letterale (quando va bene), piatta e anodina sono piuttosto le 'moderne', magari di matrice baroccara.
Mi si permettano due commenti.
La "bibbia" di Giudici sarà tale per la mole abnorme delle recensioni e per la cultura musicale enciclopedica dimostrata dall'autore. un po' meno per quanto attiene la qualità delle recensioni, in buona parte incentrate sul criterio del "gusto odierno", apparentemente più appropriato di quello passato. ed è in base a questo "gusto odierno" che si censura - in parte - la horne, rea in fin dei conti di essere troppo personale nell'affrontare i personaggi rossiniani. come se la personalità fosse un difetto.
tutto giusto sulla ricciarelli che ha rovinato pure la Donna del lago del 1983. in realtà della ricciarelli rimane a mio avviso una sola testimonianza passabile: il tancredi di new york del 1978 sempre con la horne. qui i difetti ancora non occultavano reali qualità, anche se latitavano comunque il mordente ed il nitore nelle agilità.
saluti a tutti.
emanuele
grazie per gli ascolti e il bel post... possiamo discutere finchè vogliamo ma èp un gran bel duello... io ricordo delle recite di venezia 83 che la Horne quasi ogni sera era costretta a bissare la cavatina... e la Cuberli faceva crollare il teatro anche lei... della valentini ahimè in fase calante udii gli ultimi bagliori a Torino con Gianna Rolandi... e al giorno d'oggi sarebbero una coppia da infarto!! saluti e baci maometto II
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