Coccarde gialle e manifesti contro il nuovo decreto-legge del Ministro Bondi, davano il benvenuto al pubblico dell’ultima recita (la seconda di fatto, la quarta sulla carta), di “Die Frau ohne Schatten”, l’opera di Richard Strauss scelta per l’inaugurazione del 73° Maggio Musicale Fiorentino dedicato all’oriente. Già problematica si è rivelata la sua preparazione, con il forfait del regista previsto, Mario Martone, sostituito a tambur battente da Yannis Kokkos, a cui è seguito quello, durante le prove, della “Tintora” che avrebbe dovuto avere la voce ed il corpo di Jeanne-Michèle Charbonnet.
Il caso funesto ha inoltre complottato contro le quattro recite previste: negli stessi giorni l’approvazione del decreto-legge del Ministro Bondi sulle Fondazioni Lirico-Sinfoniche e lo spettacolo, ha avuto come conseguenza l’avvio di una serie di manifestazioni e scioperi in tutto il paese che hanno portato all’annullamento di due delle 4 recite di questa “Frosch” e delle due serate di danza indiana a cura di Alarmél Valli. Sulle questioni politiche e sulle posizioni del Blog in merito all’argomento, rimandiamo ad un futuro post più accurato in cui il tema verrà sviscerato. Per quanto mi riguarda, posso dire che è bello poter uscire da Teatro accompagnati da senso di soddisfazione e con le mani spellate per gli applausi.
Il Maestro Zubin Mehta dimostra con quanta passione, con quanta premura, con quanta cura, abbia preparato il suo esordio nella direzione della magnifica partitura straussiana. Tempi ovunque rispettati, una narrazione serrata e discorsiva in cui il novecento straussiano diventa quasi romanticismo ottocentesco, con solo una certa pesantezza nella parte finale del I atto. Molte reminiscenze dal sinfonismo wagneriano, soprattutto quello del “Siegfried”, nei colori della sua lettura, ma anche un inedito piglio cinematografico donato ai stupendi interludi in cui può a piacimento aumentare il volume orchestrale, ricordando certi temi musicali hitchcockiani realizzati da Bernhard Herrmann. Di grande bellezza i monologhi dell’Imperatore in cui emergono tutti quei fraseggi che il tenore non farà percepire, cioè l’ambiguità psicologica, la tenerezza erotica, la gelosia. Grande il rilievo ottenuto in tutti gli episodi magici che hanno per protagonista la Nutrice, oppure nei duetti tra Barak e la sua Frau, filtrati da un accompagnamento che sostiene il canto di conversazione e ne scopre le tragiche nervature. Il culmine viene raggiunto da un III atto letteralmente al calor bianco in cui la tensione emotiva dell’Imperatrice e dell’orchestra aderiscono perfettamente. Unico appunto, certe asprezze e fissità sgradevoli da parte del settore dei fiati, ma ovunque l’imponente massa dell’orchestra è coinvolta e coinvolgente, rispondendo al gesto della bacchetta con un suono terso, netto, eppure mai secco. Un grande lavoro di squadra!
Il ruolo dell’Imperatore è relativamente breve, confinato, cioè, a due lunghi monologhi e agli interventi finali in duetto con l’Imperatrice e nell’elettrizzante quartetto che chiude il III atto; scrittura sadica e infernale quella pensata da Strauss, il quale costringe il tenore a cantare in una tessitura acutissima con intere frasi che insistono sul passaggio, dal Mi al Sol, per poi sfogarsi in La e Si acuti da tenere con forza su un’orchestra dal suono densissimo che non ostacola il passaggio del suono se robusto e ben sostenuto. Il tenore Torsten Kerl condivide con Johan Botha la palma di “Reiner Goldberg dei nostri giorni”, e non è un complimento; ovvero, voce dal timbro genericamente tenorile, non molto potente, ma capace di spandersi con facilità, dotata di emissione penalizzata da un percettibile vibrato che compromette l’estensione verso l’acuto perennemente rigido e in debito di intonazione, ma che sa trovare maggiore solidità quando la tessitura insiste nel registro centrale e sotto al rigo in cui il timbro diventa sonoro e dai contrasti baritonali. Voce cortissima, però, il cui limite naturale sarebbe il Sol, poiché dal La la linea di canto diventa afona e stonata. Il fraseggio è decisamente monocorde, nonostante riesca a trovare talune inflessioni di dolcezza soprattutto nel cantabile del II monologo, ma nel suo eloquio non troveremo né il cacciatore, né il caldo amante dell’Imperatrice.
Di solito il soprano Adrianne Pieczonka si distingue per la glacialità del fraseggio e per la precarietà dell’intonazione. Stavolta debuttando nel ruolo dell’Imperatrice ha positivamente sorpreso. Il suo presentarsi in scena avvolta nella sensuale mollezza in cui l’avvolge l’accompagnamento di Mehta è un momento che riempie la sala di magia. La voce è padroneggiata con cura, ben proiettata e timbrata soprattutto nella gamma centro-acuta, ovvero la zona in cui insiste maggiormente la tessitura del personaggio. I brevi frammenti di coloratura come il breve trillo ed il successivo vocalizzo delle frasi iniziali, le acciaccature nel ricordare la profezia del Falco sono sufficientemente padroneggiate, anche se qualche durezza in note come Si, Si bemolle, Do e Re acuti sono abbastanza evidenti, ma la buona tecnica le permette di sostenerne l’intonazione. La difficile scena del sogno in cui le lunghe frasi diventano sempre più ostiche ed il cantabile più frastagliato è molto cauta, al contrario tutto il terzo atto è giocato sui colori dell’accento caricando le frasi di risolutezza e di femminile sensualità, così la partecipazione dell’interprete diventa totale e la voce può vibrare nel suo robusto cristallo.
Fallimentare, e mi spiace, si rivela l’approccio del mezzosoprano Lioba Braun al ruolo della Nutrice. Anche in questo caso la scrittura straussiana è spigolosa, frastagliata e volutamente contorta oscillando tra colori contraltili (moltissime le note sotto al rigo con ricchezza di Sol e La gravi) e salti all’acuto (molti La ed un Si naturale), che sa però aprirsi a squarci di dolce canto spianato in cui si presentano molte frasi legate. La Braun ha tutte le note che la parte richiede, il suo problema è l’emissione completamente ingolata nelle frasi centrali e gutturale nella prima ottava, in cui perde completamente corpo. La voce poi è piccola, il timbro terribilmente querulo, poi, fatica ad attraversare l’orchestra nonostante Mehta cerchi ovunque di sostenere il suo canto alleggerendole il muro sonoro. Purtroppo una emissione che apre invano il registro acuto stonando, volentieri, la nota, che perde continuamente il controllo del legato, riduce a squittii le acciaccature previste e che circoscrive il fraseggio ad una sguaiataggine di maniera senza l’approfondimento che un personaggio di tali sfaccettature richiede, fanno rimpiangere il ricordo di prove migliori come la Brangaene di S.Cecilia, la Waltraute interpretata a Bayreuth e la Kundry di Napoli e Genova.
Felice rivelazione della serata la debuttante nel ruolo della “Tintora” Elena Pankratova! La Tintora entra in scena e deve, a freddo, emettere Si naturali, un bel biglietto da visita, ma ciò che verrà dopo richiede al soprano uno sforzo totale quanto a gestione dei fiati, controllo dell’intonazione e della linea di canto, ed una estensione quasi proibitiva in quanto Strauss richiede alla cantante di toccare il Fa sotto al rigo e, nel finale, arrivare al Do acuto! Un ruolo micidiale quanto a lunghezza e complessità insomma,eppure la tessitura esalta quelle voci dai centri robusti, dagli acuti fulminanti e dai gravi possenti. Un vero tour de force che la Pankratova affronta con grande sicurezza dei propri mezzi. Il timbro è da soprano spinto, con accento drammatico, robusta, omogenea in tutta la gamma; la voce è potente e ben sostenuta, la respirazione aiuta il canto e l’emissione è solida. Alla fine del II atto gli acuti diventano un po’ metallici e calanti, anche causa della stanchezza, ma risultano sempre penetranti. L’interprete è concentrata nell’esaltare la componente bifronte della parte: da un lato la donna esacerbata, insoddisfatta del matrimonio, iraconda e persecutrice del marito, che nega ciò che possiede, dall’altra la moglie devota che nasconde l’amore che prova e che non riesce a tradire Barak pur avendo di fronte la vita luccicante e falsa che la Nutrice le propone. Una maggiore frequentazione del ruolo le potrà dare quella maggiore profondità che ora padroneggia solo in parte. Grande intesa con Albert Dohmen con il quale rende letteralmente travolgenti i duetti e magnifica nell’intervento finale quando si accorge di amare ciò che già possiede.
Discontinua, ma apprezzabile la performance di Albert Dohmen nel ruolo del tintore Barak. Il registro acuto è parecchio avventuroso, spezzato dal registro centrale, con il suo perenne andare indietro risuonando nel naso e perdendo l’intonazione. Se il legato è falloso a causa della ruvidezza vocale e dell’emissione traballante, almeno le indicazioni dinamiche di addolcire il suono in espressivi piani o di caricarlo di rabbia nel terribile confronto al termine del II atto lo trovano ben preparato. Almeno l’accento è quello giusto e accorato dell’uomo semplice che ama in maniera totale e sincera arrivando a giustificare la moglie perché conosce anche la parte migliore di lei. Anche se da un lato il fraseggio ha ancora un po’ troppe reminiscenze del Wotan bayreuthiano (certe inflessioni nei duetti ricordano da vicino più l’”Addio a Brunnhilde” che Strauss) dall’altro Dohmen riesce a trasmettere la semplicità genuina dei sentimenti di Barak, e la tenerezza quasi paterna che già il timbro da basso-baritono suggerisce.
Tra le parti di fianco emerge senza sforzo il poderoso Messaggero di Samuel Youn voce di basso-baritono volitiva e sicura, mentre il Falco di Chen Reiss, il Guardiano del Tempio di Daniela Schillaci, l’Apparizione del giovane di Emanuele d’Aguanno, la Voce dall’alto di Manuela Bress, i tre fratelli di Barak interpretati da Rolf Haunstein, Markus Hollop e Karl Michael Ebner, le voci di Sabrina Testa, Sonia Peruzzo, Silvia Colombini, Elena Borin, Raffaella Ambrosino, impegnate in parti minori, si comportano dignitosamente. Ottimo, coeso ed intonato il coro di voci bianche della Scuola di Musica di Fiesole a cura di Joan Yakkey.
Il regista Yannis Kokkos, ideatore di scene e costumi, che già conoscevo per il suo allestimento de “Il crepuscolo degli dei”, in cui nell’essenzialità delle scene e dei gesti voleva “imitare” le regie di Wieland Wagner, e per la raffinata “Ifigenia in Aulide”, entrambi al Teatro alla Scala, non propone un teatro di regia, non propone scelte stravaganti, non vuole dire nulla di scioccante e di ciò gli rendiamo grazie! Con una strizzata d’occhio allo spettacolo salisburghese di Götz Friedrich, la sua si dimostra una regia narrativa, fluida, di immediata comprensione, semplice ed ingenua nella sua essenzialità, ma che sa trovare il giusto approfondimento nei personaggi dell’Imperatrice, della Frau e di Barak. Diversi e speculari il mondo fantastico degli spiriti e quello degli umani: per il primo fantasiose sagome di foreste dai colori sgargianti, sinuose strade di luce, ombre deformi di palazzi che ricordano cattedrali del gotico francese, lune piccole o gigantesche in cui si riflettono strisce di luce (a cura di Gianni Mantovanini) o episodi dolorosi come l’ingresso dell’Imperatore nel Tempio dell’acqua della vita in cui verrà mutato nella gigantesca statua del “Pensatore” di Rodin; per il secondo abitazioni geometriche e spigolose dal vago sapore roccioso dalle tonalità spente e uniformi illuminate solo dai variopinti drappi di Barak e dalla Luna immensa e minacciosa. Interessanti le proiezioni di Eric Duranteau, molte delle quali acquatiche oppure formate da strie rosse che ricordano sia macchie di sangue, sia terminazioni nervose che intricati e contorti rami di alberi invisibili, ma trovo discutibile risolvere l’inondazione del II atto come se si trattasse della ripresa dell’interno di una lavatrice. La recitazione è un po’ lasciata all’estro dei singoli anche se molto misurata e naturale nel caso dei tre artisti sopra citati, mentre manierata se non proprio “bloccata” quella della Nutrice e dell’Imperatore. Bellissimi i costumi del mondo degli spiriti dal gusto persiano, e dal taglio più moderno e volutamente anonimo quello degli umani.
Al termine trionfo unanime per tutti, con punte di entusiasmo per la Pieczonka, la Pankratova, Dohmen e ovviamente Mehta, il quale ha voluto condividere il successo con tutta l’orchestra schierata al proscenio e tutti i tecnici ed i lavoratori che agiscono dietro le quinte. Ripeto: un grande lavoro di squadra.
Gli ascolti
Richard Strauss
Die Frau ohne Schatten
Atto I
Bleib' und wache, bis sie dich ruft
Atto III
Wenn das Herz aus Kristall zerbricht in einem Schrei
Sind das die Cherubim? Das sind die nicht Geborenen
Der Kaiser: Franz Völker
Die Kaiserin: Viorica Ursuleac
Die Amme: Gertrude Rünger
Direttore: Clemens Krauss
Wiener Staatsoper, 1933
Il caso funesto ha inoltre complottato contro le quattro recite previste: negli stessi giorni l’approvazione del decreto-legge del Ministro Bondi sulle Fondazioni Lirico-Sinfoniche e lo spettacolo, ha avuto come conseguenza l’avvio di una serie di manifestazioni e scioperi in tutto il paese che hanno portato all’annullamento di due delle 4 recite di questa “Frosch” e delle due serate di danza indiana a cura di Alarmél Valli. Sulle questioni politiche e sulle posizioni del Blog in merito all’argomento, rimandiamo ad un futuro post più accurato in cui il tema verrà sviscerato. Per quanto mi riguarda, posso dire che è bello poter uscire da Teatro accompagnati da senso di soddisfazione e con le mani spellate per gli applausi.
Il Maestro Zubin Mehta dimostra con quanta passione, con quanta premura, con quanta cura, abbia preparato il suo esordio nella direzione della magnifica partitura straussiana. Tempi ovunque rispettati, una narrazione serrata e discorsiva in cui il novecento straussiano diventa quasi romanticismo ottocentesco, con solo una certa pesantezza nella parte finale del I atto. Molte reminiscenze dal sinfonismo wagneriano, soprattutto quello del “Siegfried”, nei colori della sua lettura, ma anche un inedito piglio cinematografico donato ai stupendi interludi in cui può a piacimento aumentare il volume orchestrale, ricordando certi temi musicali hitchcockiani realizzati da Bernhard Herrmann. Di grande bellezza i monologhi dell’Imperatore in cui emergono tutti quei fraseggi che il tenore non farà percepire, cioè l’ambiguità psicologica, la tenerezza erotica, la gelosia. Grande il rilievo ottenuto in tutti gli episodi magici che hanno per protagonista la Nutrice, oppure nei duetti tra Barak e la sua Frau, filtrati da un accompagnamento che sostiene il canto di conversazione e ne scopre le tragiche nervature. Il culmine viene raggiunto da un III atto letteralmente al calor bianco in cui la tensione emotiva dell’Imperatrice e dell’orchestra aderiscono perfettamente. Unico appunto, certe asprezze e fissità sgradevoli da parte del settore dei fiati, ma ovunque l’imponente massa dell’orchestra è coinvolta e coinvolgente, rispondendo al gesto della bacchetta con un suono terso, netto, eppure mai secco. Un grande lavoro di squadra!
Il ruolo dell’Imperatore è relativamente breve, confinato, cioè, a due lunghi monologhi e agli interventi finali in duetto con l’Imperatrice e nell’elettrizzante quartetto che chiude il III atto; scrittura sadica e infernale quella pensata da Strauss, il quale costringe il tenore a cantare in una tessitura acutissima con intere frasi che insistono sul passaggio, dal Mi al Sol, per poi sfogarsi in La e Si acuti da tenere con forza su un’orchestra dal suono densissimo che non ostacola il passaggio del suono se robusto e ben sostenuto. Il tenore Torsten Kerl condivide con Johan Botha la palma di “Reiner Goldberg dei nostri giorni”, e non è un complimento; ovvero, voce dal timbro genericamente tenorile, non molto potente, ma capace di spandersi con facilità, dotata di emissione penalizzata da un percettibile vibrato che compromette l’estensione verso l’acuto perennemente rigido e in debito di intonazione, ma che sa trovare maggiore solidità quando la tessitura insiste nel registro centrale e sotto al rigo in cui il timbro diventa sonoro e dai contrasti baritonali. Voce cortissima, però, il cui limite naturale sarebbe il Sol, poiché dal La la linea di canto diventa afona e stonata. Il fraseggio è decisamente monocorde, nonostante riesca a trovare talune inflessioni di dolcezza soprattutto nel cantabile del II monologo, ma nel suo eloquio non troveremo né il cacciatore, né il caldo amante dell’Imperatrice.
Di solito il soprano Adrianne Pieczonka si distingue per la glacialità del fraseggio e per la precarietà dell’intonazione. Stavolta debuttando nel ruolo dell’Imperatrice ha positivamente sorpreso. Il suo presentarsi in scena avvolta nella sensuale mollezza in cui l’avvolge l’accompagnamento di Mehta è un momento che riempie la sala di magia. La voce è padroneggiata con cura, ben proiettata e timbrata soprattutto nella gamma centro-acuta, ovvero la zona in cui insiste maggiormente la tessitura del personaggio. I brevi frammenti di coloratura come il breve trillo ed il successivo vocalizzo delle frasi iniziali, le acciaccature nel ricordare la profezia del Falco sono sufficientemente padroneggiate, anche se qualche durezza in note come Si, Si bemolle, Do e Re acuti sono abbastanza evidenti, ma la buona tecnica le permette di sostenerne l’intonazione. La difficile scena del sogno in cui le lunghe frasi diventano sempre più ostiche ed il cantabile più frastagliato è molto cauta, al contrario tutto il terzo atto è giocato sui colori dell’accento caricando le frasi di risolutezza e di femminile sensualità, così la partecipazione dell’interprete diventa totale e la voce può vibrare nel suo robusto cristallo.
Fallimentare, e mi spiace, si rivela l’approccio del mezzosoprano Lioba Braun al ruolo della Nutrice. Anche in questo caso la scrittura straussiana è spigolosa, frastagliata e volutamente contorta oscillando tra colori contraltili (moltissime le note sotto al rigo con ricchezza di Sol e La gravi) e salti all’acuto (molti La ed un Si naturale), che sa però aprirsi a squarci di dolce canto spianato in cui si presentano molte frasi legate. La Braun ha tutte le note che la parte richiede, il suo problema è l’emissione completamente ingolata nelle frasi centrali e gutturale nella prima ottava, in cui perde completamente corpo. La voce poi è piccola, il timbro terribilmente querulo, poi, fatica ad attraversare l’orchestra nonostante Mehta cerchi ovunque di sostenere il suo canto alleggerendole il muro sonoro. Purtroppo una emissione che apre invano il registro acuto stonando, volentieri, la nota, che perde continuamente il controllo del legato, riduce a squittii le acciaccature previste e che circoscrive il fraseggio ad una sguaiataggine di maniera senza l’approfondimento che un personaggio di tali sfaccettature richiede, fanno rimpiangere il ricordo di prove migliori come la Brangaene di S.Cecilia, la Waltraute interpretata a Bayreuth e la Kundry di Napoli e Genova.
Felice rivelazione della serata la debuttante nel ruolo della “Tintora” Elena Pankratova! La Tintora entra in scena e deve, a freddo, emettere Si naturali, un bel biglietto da visita, ma ciò che verrà dopo richiede al soprano uno sforzo totale quanto a gestione dei fiati, controllo dell’intonazione e della linea di canto, ed una estensione quasi proibitiva in quanto Strauss richiede alla cantante di toccare il Fa sotto al rigo e, nel finale, arrivare al Do acuto! Un ruolo micidiale quanto a lunghezza e complessità insomma,eppure la tessitura esalta quelle voci dai centri robusti, dagli acuti fulminanti e dai gravi possenti. Un vero tour de force che la Pankratova affronta con grande sicurezza dei propri mezzi. Il timbro è da soprano spinto, con accento drammatico, robusta, omogenea in tutta la gamma; la voce è potente e ben sostenuta, la respirazione aiuta il canto e l’emissione è solida. Alla fine del II atto gli acuti diventano un po’ metallici e calanti, anche causa della stanchezza, ma risultano sempre penetranti. L’interprete è concentrata nell’esaltare la componente bifronte della parte: da un lato la donna esacerbata, insoddisfatta del matrimonio, iraconda e persecutrice del marito, che nega ciò che possiede, dall’altra la moglie devota che nasconde l’amore che prova e che non riesce a tradire Barak pur avendo di fronte la vita luccicante e falsa che la Nutrice le propone. Una maggiore frequentazione del ruolo le potrà dare quella maggiore profondità che ora padroneggia solo in parte. Grande intesa con Albert Dohmen con il quale rende letteralmente travolgenti i duetti e magnifica nell’intervento finale quando si accorge di amare ciò che già possiede.
Discontinua, ma apprezzabile la performance di Albert Dohmen nel ruolo del tintore Barak. Il registro acuto è parecchio avventuroso, spezzato dal registro centrale, con il suo perenne andare indietro risuonando nel naso e perdendo l’intonazione. Se il legato è falloso a causa della ruvidezza vocale e dell’emissione traballante, almeno le indicazioni dinamiche di addolcire il suono in espressivi piani o di caricarlo di rabbia nel terribile confronto al termine del II atto lo trovano ben preparato. Almeno l’accento è quello giusto e accorato dell’uomo semplice che ama in maniera totale e sincera arrivando a giustificare la moglie perché conosce anche la parte migliore di lei. Anche se da un lato il fraseggio ha ancora un po’ troppe reminiscenze del Wotan bayreuthiano (certe inflessioni nei duetti ricordano da vicino più l’”Addio a Brunnhilde” che Strauss) dall’altro Dohmen riesce a trasmettere la semplicità genuina dei sentimenti di Barak, e la tenerezza quasi paterna che già il timbro da basso-baritono suggerisce.
Tra le parti di fianco emerge senza sforzo il poderoso Messaggero di Samuel Youn voce di basso-baritono volitiva e sicura, mentre il Falco di Chen Reiss, il Guardiano del Tempio di Daniela Schillaci, l’Apparizione del giovane di Emanuele d’Aguanno, la Voce dall’alto di Manuela Bress, i tre fratelli di Barak interpretati da Rolf Haunstein, Markus Hollop e Karl Michael Ebner, le voci di Sabrina Testa, Sonia Peruzzo, Silvia Colombini, Elena Borin, Raffaella Ambrosino, impegnate in parti minori, si comportano dignitosamente. Ottimo, coeso ed intonato il coro di voci bianche della Scuola di Musica di Fiesole a cura di Joan Yakkey.
Il regista Yannis Kokkos, ideatore di scene e costumi, che già conoscevo per il suo allestimento de “Il crepuscolo degli dei”, in cui nell’essenzialità delle scene e dei gesti voleva “imitare” le regie di Wieland Wagner, e per la raffinata “Ifigenia in Aulide”, entrambi al Teatro alla Scala, non propone un teatro di regia, non propone scelte stravaganti, non vuole dire nulla di scioccante e di ciò gli rendiamo grazie! Con una strizzata d’occhio allo spettacolo salisburghese di Götz Friedrich, la sua si dimostra una regia narrativa, fluida, di immediata comprensione, semplice ed ingenua nella sua essenzialità, ma che sa trovare il giusto approfondimento nei personaggi dell’Imperatrice, della Frau e di Barak. Diversi e speculari il mondo fantastico degli spiriti e quello degli umani: per il primo fantasiose sagome di foreste dai colori sgargianti, sinuose strade di luce, ombre deformi di palazzi che ricordano cattedrali del gotico francese, lune piccole o gigantesche in cui si riflettono strisce di luce (a cura di Gianni Mantovanini) o episodi dolorosi come l’ingresso dell’Imperatore nel Tempio dell’acqua della vita in cui verrà mutato nella gigantesca statua del “Pensatore” di Rodin; per il secondo abitazioni geometriche e spigolose dal vago sapore roccioso dalle tonalità spente e uniformi illuminate solo dai variopinti drappi di Barak e dalla Luna immensa e minacciosa. Interessanti le proiezioni di Eric Duranteau, molte delle quali acquatiche oppure formate da strie rosse che ricordano sia macchie di sangue, sia terminazioni nervose che intricati e contorti rami di alberi invisibili, ma trovo discutibile risolvere l’inondazione del II atto come se si trattasse della ripresa dell’interno di una lavatrice. La recitazione è un po’ lasciata all’estro dei singoli anche se molto misurata e naturale nel caso dei tre artisti sopra citati, mentre manierata se non proprio “bloccata” quella della Nutrice e dell’Imperatore. Bellissimi i costumi del mondo degli spiriti dal gusto persiano, e dal taglio più moderno e volutamente anonimo quello degli umani.
Al termine trionfo unanime per tutti, con punte di entusiasmo per la Pieczonka, la Pankratova, Dohmen e ovviamente Mehta, il quale ha voluto condividere il successo con tutta l’orchestra schierata al proscenio e tutti i tecnici ed i lavoratori che agiscono dietro le quinte. Ripeto: un grande lavoro di squadra.
Gli ascolti
Richard Strauss
Die Frau ohne Schatten
Atto I
Bleib' und wache, bis sie dich ruft
Atto III
Wenn das Herz aus Kristall zerbricht in einem Schrei
Sind das die Cherubim? Das sind die nicht Geborenen
Der Kaiser: Franz Völker
Die Kaiserin: Viorica Ursuleac
Die Amme: Gertrude Rünger
Direttore: Clemens Krauss
Wiener Staatsoper, 1933
2 commenti:
Grazie per la bellissima recensione....
Grazie di questa meravigliosa recensione, Mariandl. Mi ha dato il desiderio di aver assistito allo spettacolo me stesso. Ma ho potuto almeno ascoltare la registrazione radiofonica della prima di questo FroSch e l'impressione che mi è restato è piu o meno la stessa. Noti bene ch'è un grandissimo lavoro di squadra, questo merito "generale" avendo anchè mascherato e annacquato partialmente i difetti particolari di certi cantanti.
A proposito al massimo merito di Mehta devo dire ch'era quasi la prima volta che questo direttore mi è veramente e complettamente piacuto. Mi sembrava sempre che particolarmente al suo Wagner mancava la buona misura, il senso dell'archittetura. Il suo Ring che ho ascoltato nella versione di Valencia ho trovato troppo lento e esagerato. Ma questo FroSch è di una lucidità affascinante. La scrittura orchestrale di Strauss chi tende sempre a un superlativo, a una stravaganza chi supera anche la strapienezza dell'orchestra wagneriana, suona sotto la bacchetta di Mehta quasi con un pragmatismo ed una semplicità che non cerca a fare risuonare l'ambiente magico di FroSch attraverso una esagerazione pseudo-romantica, ma a mezzo di una certa austerità che apre la magia froschiana dal di dentro. Magnifico il secondo finale (lo noto perchè amo questa parte particolarmente). Un immenso grazie a Mehta per i tre colpi finali del secondo atto. :D
Riguardo ai cantanti condivido quasi tutto che hai detto. Con Dohmen non c'è mai una garanzia che fara bene. Problematissimo il registro acuto, detestabile la maniera in cui canta sulla vocale "u", e per me troppo aggressivo nei momenti dove bisogna la piu grande dolcezza (sopratutto quando parla della revocabilità delle parole della sua moglie). Il ruolo del Kaiser è certamente troppo alto per Torsten Kerl. Lioba Braun è forse la Nutrice piu mediocra che ho mai ascoltato. L'ho ascoltato dal vivo nella Terza sinfonia di Mahler; riusciva di farsi affogare anchè da un orchestra giocando al pianissimo ("O Menschm gibt Acht"). La Pieczonka convince nel Terzo atto, ma ha problemi evidenti colla coloratura nella scena dell'entrata del primo atto e qua e là anche con l'intonazione. La Pankratova è stata effetivamente una vera sorpresa. Penso che i problemi che ha avuto nel finale del secondo atto provengono piuttosto della insufficiente esperienza con questo ruolo e che trovera la buona "sistema" per affrontare la sua Tintora ch'è già una donna d'intensissima passione e travaglio interiore.
Insomma, un FroSch dove ovviamente c'erano alcuni "Übermächte im Spiel". :)
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