È da poco calato il sipario sulla matinée di Carmen al Comunale di Bologna. La recita, che avrebbe dovuto essere la quinta del ciclo, è stata in realtà la seconda, le prime tre date essendo saltate a causa degli scioperi di protesta contro i tagli previsti dal decreto Bondi. La rappresentazione si è conclusa con un buon successo di pubblico e l’orchestra e le maestranze del Teatro schierate al proscenio, mentre un cartello calato dall’alto citava l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”
A dispetto delle lodevoli intenzioni e dei buoni propositi, la recita è stato molto carente, e in alcuni punti davvero mediocre.
Lo spettacolo, importato dall’Opera Nazionale della Lettonia e firmato da Andreys Zagars, trasporta la vicenda dalla Siviglia del 1820 alla Cuba del presente o di un passato assai prossimo. Fin qui nulla di strano, anzi. Ci saremmo stupiti nel vedere il cambio della guardia, le sigaraie intente a fumare sigarette, la sfilata dei toreri, tutte cose che il moderno teatro di regia ci ha doverosamente insegnato a disprezzare e dileggiare in quanto superati ammennicoli. Però una trasposizione cubana dovrebbe produrre come minimo una rappresentazione incandescente, viva, traboccante di energia e sensualità. Nulla di tutto questo, a meno che qualche passo di lambada ovvero lapdance, goffamente accennato dalla protagonista, basti a colmare la lacuna. Ugualmente carente la gestione dei cori, spesso e volentieri affidata al caso o all’iniziativa dei singoli. Di una povertà quasi imbarazzante, da questo punto di vista, l’incipit del quarto atto, in cui la folla festante si raduna, a quel che sembra, per assistere a un matrimonio di borgata e partecipare poi, verosimilmente, al banchetto. Dulcamara docet!
A differenza dell’Elisir ultimo scorso, in cui peraltro la sola Adina proveniva dai ranghi della Scuola dell’Opera, questa Carmen ha relegato i cadetti del Comunale, almeno in primo cast, ai ruoli di fianco. Soffermarsi sui difetti di questo o di quello sarebbe assolutamente sterile, perché le prime parti, affidate a cantanti in piena carriera, sono risultate ben più carenti dei comprimari. I quali, sia chiaro, non si sono coperti di gloria, ma hanno almeno l’attenuante della giovane età e della scarsa esperienza.
Deyan Vatchkov (Escamillo), subentrato agli annunciati Simone Alberghini e Alexander Vinogradov, ha bella presenza scenica e un certo garbo nel porgere, ma l’emissione tendenzialmente “bulgara” blocca la voce in gola e ne ostacola la naturale espansione nella sala. Peccato, perché la dote sarebbe di qualità. Canta discretamente la canzone del toréador (che la regia trasforma in boxeur) e il duettino con Carmen all’ultimo atto, mentre nella scena con il tenore sceglie di gonfiare le gote, con il risultato di stentare sugli acuti.
Nei panni di Micaela Alessandra Marianelli, vocina di soprano leggero ideale per Cherubino o il paggio Oscar in un teatro di modeste dimensioni. Fin dalla sortita la voce è prossima all’inesistente in prima ottava - il duetto con José è gestito con pianini in odor di accenno -, dal fa in su acquista un poco di volume ma risulta spinta e acidula, e quando nell’aria del terzo atto deve salire al si bemolle e poi al si naturale i suoni si fanno più penetranti, ma tutt’altro che piacevoli a udirsi. Ne consegue un personaggio petulante e tedioso, patetico nell’accezione più deteriore del termine.
Nino Surguladze ha una piacevole figura e un certo talento d’attrice. Purtroppo ha anche parecchi dei difetti delle cantanti dell’Est europeo, a partire dell’emissione tutta di gola, che non solo limita le possibilità della voce, ma la frantuma in tre sezioni: i gravi pompati e aperti, il centro in difetto di appoggio e gli acuti falsettati o (specie nei momenti di maggiore concitazione) urlati. Esegue senza impressionare, ma correttamente, l’habanera, nella seguédille è in debito di ossigeno, canta una pallida chanson bohème e se si risolleva nel duetto con José, soccombe nella scena delle carte (di scrittura piuttosto centrale), mentre nel quarto atto (pure gestito con belle intenzioni, tutt’altro che banali: questa Carmen, a dispetto dell’ostentata sicurezza, è terrorizzata dalla furia dell’ex amante) sembra stravolta dalla fatica e si limita ad accennare. Vocalmente la sua protagonista ha ben poco della maliarda e ancora meno dell’eroina tragica. Peccato che i due aspetti non siano trascurabili, volendo mettere in scena l’opera in questione.
E veniamo all’autentica delusione della recita, il Don José di Andrew Richards. La voce è la più potente fra le quattro prime parti, ma il modo in cui è gestita risulta carente sotto il profilo tecnico, in particolare per quanto concerne l’esecuzione del passaggio di registro superiore. Prova ne siano i suoni larvati e di precaria intonazione nella prima parte della romanza del fiore, che nella zona del passaggio insiste. Problemi ancora più gravi, e suoni ancora più duri e faticosi, si verificano quando si presenta un acuto, sia pure un semplice si bemolle. Per un tenore che canta regolarmente Tosca e Don Carlo, la cosa è sorprendente. Ancora più censurabile è, però, l’interprete, perché le lacune tecniche si riflettono, come di norma accade, sulla definizione del personaggio. Il terzo e il quarto atto, quelli in cui la scrittura si fa più tesa e drammatica, eseguiti a Bologna senza intervallo (come è ormai consuetudine), vedono il cantante, verosimilmente prossimo ad esaurire la riserva di fiato – generosamente impiegata nella prima parte dello spettacolo –, enfatizzare le nevrosi del malcapitato ex brigadiere, risolvendo il tremendo finale terzo e il duetto finale con Carmen a suon di singhiozzi, gemiti e inserti parlati. L’effetto è prossimo non tanto ai vituperati Don José veristi (i quali rispondevano, a titolo di esempio, ai nomi di Giovanni Zenatello e Galliano Masini), quanto a certi giustamente sbeffeggiati José da ima provincia, che oggi si è costretti, piaccia o meno, a rivalutare e riconsiderare. Vedasi l’allegato estratto video.
Sul podio Michele Mariotti, che ha diretto con mano sicura gli entr’acte, ha accompagnato discretamente, seppur con scarso nerbo, i primi due atti (qualche problema di collegamento fra buca e palco, ad esempio nella scena della rivolta delle sigaraie, nel quintetto e nella stretta del finale secondo: rose e fiori, ad ogni modo, rispetto all’Idomeneo), nel terzo ha rinunciato a tratteggiare il clima fosco del rifugio dei contrabbandieri (staccando fra l’altro un tempo troppo lento, per le possibilità della Surguladze, nella scena delle carte) e, nel quarto, nulla ha fatto per contenere e moderare gli eccessi di Richards. In un direttore che proviene da un humus familiare e culturale non estraneo alla filologia e che ha in più di un’intervista espresso vivo interesse per questi temi, il travisamento dell’estetica dell’opéra-comique, e del canto lirico in generale, lascia francamente di sale.
E a questo punto si potrà forse capire come mai, malgrado le tre recite saltate a causa dello sciopero, il teatro fosse sold out solo sulla carta. E soprattutto come mai brani della fama e del calibro dell’habanera e della scena delle carte siano passati sotto silenzio (la canzone del toréador è stata applaudita dai coristi e dalle comparse a ciò deputati).
Il teatro non muore solo per scarsità di fondi, ma per scarsità di idee e competenze. Nonché di rispetto per la musica e per il pubblico. Forse è il caso di ricordare la presenza di quest’ultimo, visto che, proprio in questa stagione che sta volgendo al termine, i prezzi dei biglietti e degli abbonamenti sono aumentati e non poco, a fronte di una programmazione che appare invece sempre meno attraente per i frequentatori storici del teatro, anche per quelli maggiormente disposti ad accettare una programmazione formato mignon, quanto a titoli e interpreti coinvolti. E la soluzione non sta nei video promozionali e nelle iniziative concepite per ammaliare il c.d. popolo di Facebook. Ma evidentemente la sovrintendenza felsinea è di opposto avviso. Auguri molti.
A dispetto delle lodevoli intenzioni e dei buoni propositi, la recita è stato molto carente, e in alcuni punti davvero mediocre.
Lo spettacolo, importato dall’Opera Nazionale della Lettonia e firmato da Andreys Zagars, trasporta la vicenda dalla Siviglia del 1820 alla Cuba del presente o di un passato assai prossimo. Fin qui nulla di strano, anzi. Ci saremmo stupiti nel vedere il cambio della guardia, le sigaraie intente a fumare sigarette, la sfilata dei toreri, tutte cose che il moderno teatro di regia ci ha doverosamente insegnato a disprezzare e dileggiare in quanto superati ammennicoli. Però una trasposizione cubana dovrebbe produrre come minimo una rappresentazione incandescente, viva, traboccante di energia e sensualità. Nulla di tutto questo, a meno che qualche passo di lambada ovvero lapdance, goffamente accennato dalla protagonista, basti a colmare la lacuna. Ugualmente carente la gestione dei cori, spesso e volentieri affidata al caso o all’iniziativa dei singoli. Di una povertà quasi imbarazzante, da questo punto di vista, l’incipit del quarto atto, in cui la folla festante si raduna, a quel che sembra, per assistere a un matrimonio di borgata e partecipare poi, verosimilmente, al banchetto. Dulcamara docet!
A differenza dell’Elisir ultimo scorso, in cui peraltro la sola Adina proveniva dai ranghi della Scuola dell’Opera, questa Carmen ha relegato i cadetti del Comunale, almeno in primo cast, ai ruoli di fianco. Soffermarsi sui difetti di questo o di quello sarebbe assolutamente sterile, perché le prime parti, affidate a cantanti in piena carriera, sono risultate ben più carenti dei comprimari. I quali, sia chiaro, non si sono coperti di gloria, ma hanno almeno l’attenuante della giovane età e della scarsa esperienza.
Deyan Vatchkov (Escamillo), subentrato agli annunciati Simone Alberghini e Alexander Vinogradov, ha bella presenza scenica e un certo garbo nel porgere, ma l’emissione tendenzialmente “bulgara” blocca la voce in gola e ne ostacola la naturale espansione nella sala. Peccato, perché la dote sarebbe di qualità. Canta discretamente la canzone del toréador (che la regia trasforma in boxeur) e il duettino con Carmen all’ultimo atto, mentre nella scena con il tenore sceglie di gonfiare le gote, con il risultato di stentare sugli acuti.
Nei panni di Micaela Alessandra Marianelli, vocina di soprano leggero ideale per Cherubino o il paggio Oscar in un teatro di modeste dimensioni. Fin dalla sortita la voce è prossima all’inesistente in prima ottava - il duetto con José è gestito con pianini in odor di accenno -, dal fa in su acquista un poco di volume ma risulta spinta e acidula, e quando nell’aria del terzo atto deve salire al si bemolle e poi al si naturale i suoni si fanno più penetranti, ma tutt’altro che piacevoli a udirsi. Ne consegue un personaggio petulante e tedioso, patetico nell’accezione più deteriore del termine.
Nino Surguladze ha una piacevole figura e un certo talento d’attrice. Purtroppo ha anche parecchi dei difetti delle cantanti dell’Est europeo, a partire dell’emissione tutta di gola, che non solo limita le possibilità della voce, ma la frantuma in tre sezioni: i gravi pompati e aperti, il centro in difetto di appoggio e gli acuti falsettati o (specie nei momenti di maggiore concitazione) urlati. Esegue senza impressionare, ma correttamente, l’habanera, nella seguédille è in debito di ossigeno, canta una pallida chanson bohème e se si risolleva nel duetto con José, soccombe nella scena delle carte (di scrittura piuttosto centrale), mentre nel quarto atto (pure gestito con belle intenzioni, tutt’altro che banali: questa Carmen, a dispetto dell’ostentata sicurezza, è terrorizzata dalla furia dell’ex amante) sembra stravolta dalla fatica e si limita ad accennare. Vocalmente la sua protagonista ha ben poco della maliarda e ancora meno dell’eroina tragica. Peccato che i due aspetti non siano trascurabili, volendo mettere in scena l’opera in questione.
E veniamo all’autentica delusione della recita, il Don José di Andrew Richards. La voce è la più potente fra le quattro prime parti, ma il modo in cui è gestita risulta carente sotto il profilo tecnico, in particolare per quanto concerne l’esecuzione del passaggio di registro superiore. Prova ne siano i suoni larvati e di precaria intonazione nella prima parte della romanza del fiore, che nella zona del passaggio insiste. Problemi ancora più gravi, e suoni ancora più duri e faticosi, si verificano quando si presenta un acuto, sia pure un semplice si bemolle. Per un tenore che canta regolarmente Tosca e Don Carlo, la cosa è sorprendente. Ancora più censurabile è, però, l’interprete, perché le lacune tecniche si riflettono, come di norma accade, sulla definizione del personaggio. Il terzo e il quarto atto, quelli in cui la scrittura si fa più tesa e drammatica, eseguiti a Bologna senza intervallo (come è ormai consuetudine), vedono il cantante, verosimilmente prossimo ad esaurire la riserva di fiato – generosamente impiegata nella prima parte dello spettacolo –, enfatizzare le nevrosi del malcapitato ex brigadiere, risolvendo il tremendo finale terzo e il duetto finale con Carmen a suon di singhiozzi, gemiti e inserti parlati. L’effetto è prossimo non tanto ai vituperati Don José veristi (i quali rispondevano, a titolo di esempio, ai nomi di Giovanni Zenatello e Galliano Masini), quanto a certi giustamente sbeffeggiati José da ima provincia, che oggi si è costretti, piaccia o meno, a rivalutare e riconsiderare. Vedasi l’allegato estratto video.
Sul podio Michele Mariotti, che ha diretto con mano sicura gli entr’acte, ha accompagnato discretamente, seppur con scarso nerbo, i primi due atti (qualche problema di collegamento fra buca e palco, ad esempio nella scena della rivolta delle sigaraie, nel quintetto e nella stretta del finale secondo: rose e fiori, ad ogni modo, rispetto all’Idomeneo), nel terzo ha rinunciato a tratteggiare il clima fosco del rifugio dei contrabbandieri (staccando fra l’altro un tempo troppo lento, per le possibilità della Surguladze, nella scena delle carte) e, nel quarto, nulla ha fatto per contenere e moderare gli eccessi di Richards. In un direttore che proviene da un humus familiare e culturale non estraneo alla filologia e che ha in più di un’intervista espresso vivo interesse per questi temi, il travisamento dell’estetica dell’opéra-comique, e del canto lirico in generale, lascia francamente di sale.
E a questo punto si potrà forse capire come mai, malgrado le tre recite saltate a causa dello sciopero, il teatro fosse sold out solo sulla carta. E soprattutto come mai brani della fama e del calibro dell’habanera e della scena delle carte siano passati sotto silenzio (la canzone del toréador è stata applaudita dai coristi e dalle comparse a ciò deputati).
Il teatro non muore solo per scarsità di fondi, ma per scarsità di idee e competenze. Nonché di rispetto per la musica e per il pubblico. Forse è il caso di ricordare la presenza di quest’ultimo, visto che, proprio in questa stagione che sta volgendo al termine, i prezzi dei biglietti e degli abbonamenti sono aumentati e non poco, a fronte di una programmazione che appare invece sempre meno attraente per i frequentatori storici del teatro, anche per quelli maggiormente disposti ad accettare una programmazione formato mignon, quanto a titoli e interpreti coinvolti. E la soluzione non sta nei video promozionali e nelle iniziative concepite per ammaliare il c.d. popolo di Facebook. Ma evidentemente la sovrintendenza felsinea è di opposto avviso. Auguri molti.
14 commenti:
Per gli amanti della filologia aggiungo che è stata eseguita la versione Oeser con i tagli di tradizione (primo fra tutti il da capo del duetto José Escamillo).
E evidente che la Surguladze non è un vero mezzo soprano, come l'altra georgiana Rachvelishvili o anche il 99 percento delle cantanti contemporanee (non-georgiane, figurati :D ) chi si chiamano mezzo soprani. Il canto completamente ingolato è, certo, un altro problema.
Eppure, nella scuola georgiana del canto, basata sui stessi principii che la scuola russa,ci sono stati anche cantanti dotate di un vero timbro di mezzo soprano, senza "scurire" artificialmente la voce, - cantanti che avevano tutte le caratteristice che il meglio e il peggio della scuola russa.
Un esempio:
Questo è un film anticissimo basato su una opera buffa georgiana dove la mezzo soprano Nadia Tsomaia presta la sua voce al personaggio che canta a partire da 1:05 in questo video: http://www.youtube.com/watch?v=RC28bn5rVkI
Qui Tsomaia è gia alla fine della cariera. Dimostra un timbro assai ricco e caldo, ma, gestendola con un methodo di emissione tipicamente russa, il risulto è una voce quasi disturbata e barcollata da un particolare vibrato, commune quasi a la maggiorità dei cantanti di questa scuola (con i rarissimi eccezioni come la Arkhipova)! Tuttavia, è uno dei due ultimi autentici mezzo soprani che la Georgia ha prodotta - un mezzo secolo fa.... Poi ci sono stati diversi Surguladze e Rachvelishvili sotto nomi piu o meno esprimibili. :)))
ossia il consueto e incoerente mischiotto........
@Pasta: e nonostante sia a fine carriera, la differenza con i soprani lirici non sfogati che cantano da mezzo perché non sanno fare gli acuti, è comunque percepibile. Grazie dell'ascolto.
@Duprez: sorvoliamo poi sulla velleità di fare i dialoghi parlati (peraltro tagliatissimi, anche perché difficili da adattare alla regia "cubana"), quando il francese è un mistero per i quattro solisti di primo piano...
io credo che la Surguladze e una mezzo soprano ,ne sono certo...e poi e una brava attrice.
ho sentito la sua Carmen e stata bravissima. bellissima voce e bella donna una vera Carmen senza essere mai banale....
http://www.youtube.com/watch?v=cV2NNKOilh8&feature=PlayList&p=0FC611FEFED0B936&playnext_from=PL&index=0&playnext=1
ecco questo e per voi chi parlava di un mistero di francese e dei acuti.
Caro giovanni, direi che il mistero si infittisce: questa signora canta meglio la cosa che le sta meno bene, sulla carta, e poi alle prese con Carmen (parte vocalmente assai meno esigente della regina del Moise) esibisce una voce molto meno bella, molto meno sonora e soprattutto un gusto davvero deteriore, omaggio a un'idea di Carmen un po' "allegra" che banalizza profondamente il personaggio.
Meglio avrebbe fatto, la signora, a ispirarsi alla Carmen di una Supervia o di una Berganza, sia come saggia amministrazione del patrimonio vocale (si canta sempre piano e si dà un po' di volume solo quando occorre, ad esempio nei duetti con José) sia come gusto. Ma queste sono cose cui deve pensare l'interprete, se ne è capace, o altrimenti deve intervenire il direttore d'orchestra. E mi stupisce che Mariotti, che nel gesto ricalca così tanto Abbado, non abbia pensato di suggerire alla sua Carmen di ispirarsi un po' alla Carmen per antonomasia del maestro milanese.
Saluti
AT
Peraltro la Oeser è tutto meno che filologica (ne abbiamo parlato abbondantemente in occasione della prima)... Comunque è semplicemente vergognosa la disinvoltura con cui Mariotti tratta le fonti! Già aveva sforbiciato in modo incoerente e assurdo l'Idomeneo...ora prende la Oeser e no sfrutta neppure i miglioramenti da essa apportati, anzi ripropone i tagli da recita degli anni '50! Bah...resto perplesso!
Duprez, "noi siamo sempre a quella": prima di fare della filologia, e per poterla fare in modo serio, bisognerebbe sempre domandarsi se si hanno gli strumenti necessari. In tutti i sensi!
Non è solo questione di filologia, caro Tamburini. Non c'è differenza - a livello di sforzi produttivi e interpretativi - dal utilizzare in modo coerente i testi che l'odierna filologia ci permette di conoscere (testi finalmente attendibili e scrostati da aggiunte deteriori). Cioè la mancanza di buoni interpreti riesce difficoltosa una Carmen versione Oeser così come una Carmen più rispettosa del testo... Così come non è sforbiciando e riassemblando la partitura di Idomeneo che si diminuiscono le difficoltà. Credo che il problema sia soprattutto culturale. Peraltro mentre 50 anni fa certe porcate che una non ben chiarita tradizione imponeva, erano ampiamente ripagate da interpretazioni eccellenti...oggi si perpetuano certi scempi (per dar soddisfazione alle velleità di presunti divi, e per non turbare i pigri sonni dei tanti vedovi e vestali che riempiono le sale) con interpreti che definire discutibili è un eufemismo!
Comunque è la prima volta che sento dal vivo il "Dragon d'Alcalà" ridotto a UNA SOLA strofa... altro che aggiunte deteriori, qui siamo al "chi offre di meno".
..ma lì c'è lo zampino di Mariotti! Leggevo dei tagli assurdi di Idomeneo. Qui ormai siamo al libero riassemblaggio! Il problema credo risieda proprio nell'atteggiamento del direttore...taglia ciò che LUI ritiene superfluo! Siamo alla frutta...
Torno adesso della recita... appunto, brava la claque, bravo il popolo di facebook! Ma non c'è rimasto nessuno fra il pubblico del Comunale che sappia distinguere, anche vagamente, tra uno spettacolo dignitoso e uno scadente? Così non si va avanti... ad ogni recita sembra che si sia arrivato alla fine, ma la seguente produzione è ancora peggio! E sì, caro Tamburini, pienamente d'accordo su Mariotti. Il quale, per altro, non sembra avere troppa sensibilità per i ritmi e i colori "spagnoleggianti"... Se la Repubblica (come hanno fatto vedere oggi nello striscione sul palco) deve tutelare la lirica... ci risparmi questi spettacoli osceni!
E non finisce qui, caro Ramon! Alberto Triola, direttore della Scuola dell'Opera e ora pure direttore artistico del Festival della Valle d'Itria, sta confezionando per la prossima estate 2010 una stagioncina di Martina Franca tutta "made in Bologna"... e gli "outsider" sono ancora peggio dei "cadetti"! Viene da pensare a uno scherzo di cattivo gusto... http://www.festivaldellavalleditria.it/index.php?opere
MMM...ma "è scherzo od è follia?". A parte la Rodelinda con la Ganassi e il solito controtenore (a dire il vero non tra i più indecenti) di cui peraltro si spaccia la prima esecuzione dell'edizione critica (bisognerebbe denunciare per falso l'autore del programma: l'edizione critica di Rodelinda è stata pubblicata nel 2002, e incisa 2 anni dopo, nel settembre del 2004, da Curtis per la DGG, durante alcune esecuzioni nell'ambito del Festival Barocco di Viterbo...IN ITALIA, precisamente a San Martino al Cimino...e poi replicata ad Amburgo nel novembre dello stesso anno....altro che "prima rappresentazione assoluta in Italia" o "prima esecuzione mondiale dell'edizione critica"...ma ci prendono per rincoglioniti???). A parte Rodelinda mi piace ricordare che la parte di tenore nel Gianni di Parigi venne scritta per Rubini..con tutte le conseguenze del caso: immaginiamo Magrì in tanto ruolo!!!!
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