lunedì 21 giugno 2010

Edgar al Comunale di Bologna

Venerdì nel teatro felsineo ha debuttato l'ultimo titolo prima della pausa estiva: Edgar, seconda opera di Puccini, scelta invero poco consona a un weekend di tarda primavera, sia pur umido e uggioso.

Il titolo è stato proposto non nella versione definitiva, in tre atti, ma in quella originale, in quattro, seguendo un malinteso spirito “ultrafilologico” che persino il festival, istituzionalmente preposto alla valorizzazione del catalogo pucciniano, non aveva ritenuto di onorare al momento di allestire l’opera in questione.
Il teatro era semideserto, con molti posti vuoti in platea, consistenti “forni” nei palchi (e questo malgrado la svendita dei biglietti relativi, operata tramite la pagina Facebook del teatro) e un loggione in cui gli sparuti spettatori non arrivavano neppure a colmare la prima fila di posti. Ulteriori defezioni si sono avute in occasione dei due intervalli.
La serata, per la cronaca, si è conclusa a mezzanotte passata, anche perché, prima dell’inizio dell’opera, è stato proiettato un video, realizzato dai lavoratori del Teatro, e volto a sensibilizzare il pubblico sul tema dei tagli allo spettacolo. Sensibilizzazione che è proseguita con l’annuncio di uno sciopero bianco in ragione del quale alcuni artisti di orchestra e coro avrebbero devoluto parte dei loro compensi in beneficenza.
L’iniziativa è senz’altro nobile e meritoria, ma come nel caso della Carmen, a questi annunci dovrebbe seguire uno spettacolo meno zoppicante rispetto a quanto proposto l’altra sera.

L’opera, diciamolo subito, non è un capolavoro: patisce un libretto a dir sconsolante, ma anche il trattamento musicale presenta più di una battuta d’arresto, con svariate lungaggini soprattutto nel secondo e quarto atto. E non per caso proprio su questi si incentrarono le modifiche apportate dall’autore nelle due revisioni successive. Puccini ha ben presente la lezione dell’opera francese e costruisce grandi quadri in cui i numeri chiusi, romanza, duetto o concertato che siano, si succedono senza soluzione di continuità. Con i lunghi passaggi di declamato sugli infelici versi di Ferdinando Fontana, l’autore sembra predisporre le prove generali del canto di conversazione che tanta parte avrà nelle opere successive, e anche la scrittura orchestrale (specie nei preludi al terzo e quarto atto) fornisce ampi saggi del valore del musicista come strumentatore. Il trattamento delle voci, invece, non è sempre felicissimo e sembra, in alcuni punti, al limite delle possibilità umane. Ma questo brillante risultato è in buona parte da ascrivere al plateau riunito per l’occasione.

La parte del protagonista, che ebbe fra i primi interpreti Francesco Tamagno (a Madrid) e Giovanni Zenatello (al Colón di Buenos Aires), trova in José Cura un interprete ridotto ai minimi termini. E non parliamo certo della tecnica, che mai è stata all’altezza del repertorio e dei titoli affrontati, ma proprio dello strumento, che suona opaco, larvale in basso, privo di spessore al centro, fibroso e gridacchiato in acuto. Ogni tentativo di cantare piano e di dare senso alle frasi, soprattutto se in zona centro-acuta, fa sì che la voce vada indietro, con abbondante messe di suoni spoggiati e bianchicci, non di rado stonacchiati (soprattutto nel monologo del secondo atto). In queste condizioni la decenza consiglierebbe il ritiro dalle scene e la prosecuzione della carriera musicale, se del caso, in altri ambiti, ad esempio quello della direzione d’orchestra, in cui l’argentino ha offerto, proprio in Bologna e nel repertorio pucciniano, una prova ben più brillante rispetto a quest’ultimo deludente cimento.

Nei panni di Fedelia Patrizia Orciani, subentrata in corsa alla dileguata Svetla Vassileva, ha esibito i resti di una gradevole voce di soprano leggero, eseguendo scolasticamente il primo atto (sia pure con uno strumento che non ha, specie in prima ottava, l’ampiezza e la capacità di penetrazione richiesta dallo spessore dell’orchestra pucciniana: nel finale primo, in cui il soprano deve “tirare” il concertato, era difficile accorgersi della sua presenza) e soccombendo nel terzo e nel quarto, per l’incapacità di legare al centro e per la tendenza a stonare nella zona del passaggio superiore. Gli acuti, poi, sebbene più ampi rispetto al resto della gamma, erano suoni tutt’altro che piacevoli a udirsi. Clamorosa l’improntitudine del “fan” che ha azzardato uno stentoreo “Brava!” dopo l’imbarazzante esecuzione dell’aria del terzo atto, aria che proponiamo, per ogni opportuno confronto e riflessione, affidata alla voce, e più ancora all’eloquenza, di Raina Kabaivanska.

Tigrana, parte creata alla prima scaligera da Romilda Pantaleoni (prima Desdemona) e poi di fatto condominio di mezzosoprani (Giuseppina Pasqua, a Madrid) e soprani drammatici (Giannina Russ, al Colón), era affidata a Giuseppina Piunti. La signorina Piunti si era esibita a Bologna un paio di stagioni fa, quale Adalgisa. Ci era parsa un soprano lirico di buona voce, ma con molte cose da sistemare in zona centro-acuta. Due anni dopo, i gravi permangono poco udibili (canzone al primo atto) e l’ascesa all’acuto assai impervia (brindisi al secondo, pagina ostica anche in ragione di un minimo di coloratura previsto in spartito). Persino il timbro è drasticamente impoverito rispetto a quanto ricordassimo. La voce è un po’ più sonora nella romanza del terzo atto, ma a prezzo di una notevole fatica nelle grandi frasi legate in zona centrale. Ottima la presenza scenica.

Frank era Marco Vratogna. La parte, meramente decorativa e vocalmente non certo proibitiva (il che non scoraggiò l'approccio di alcuni dei più forbiti baritoni fra Otto e Novecento, capitanati da Antonio Magini-Coletti e Mario Ancona), gli ha consentito di figurare un poco meglio rispetto ad altre occasioni. Il canto, nella romanza al primo atto, è quello di sempre, fibroso e di scarsa qualità nel legato.

Discreta la prova di orchestra e coro, mentre la direzione di Mario De Rose ha trovato i suoi momenti più felici nelle pagine di carattere idilliaco del primo e quarto atto, risultando invece greve e bandistica tanto nel furore orgiastico del secondo quanto nella solennità funerea del terzo. Qualche lieve sfasamento fra buca e palco negli attacchi del coro fuori scena, ma anche a questo siamo ormai avvezzi.

La regia di Lorenzo Mariani, che spostava l’azione dalle Fiandre trecentesche a una sorta di campagna padana risorgimentale (con tanto di corazzieri e bandiere di casa Savoia), era piatta e decorativa al punto da far rimpiangere una bella esecuzione in forma di concerto, che nulla avrebbe sottratto ai meriti della partitura e avrebbe comportato un discreto risparmio per le casse, già molto provate, del Teatro.


7 commenti:

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Opera, in effetti, davvero poco felice: per colpa certamente di un libretto sgraziato, ma pure dall'ispirazione assai zoppicante di Puccini (e pensare che, al contrario, la precedente "Le Villi" è, secondo me, partitura splendida e affascinante). Dell'Edgar conosco solo la versione "definitiva" (e che, nonostante le plurime revisioni, rimane un mezzo aborto), non oso immaginare la versione originale... Del resto ritengo che generalmente sia interessante ascoltare o studiare le primissime versioni di opere più conosciute nelle loro vesti definitive...a patto che ciò avvenga in modo serio e nei contesti adeguati: e soprattutto quando il giuoco vale DAVVERO la candela! Forse non è indispensabile conoscere tutte le versioni di un'opera già dimenticabile nella sua ultima redazione...forse in un ambito "da festival" l'operazione potrebbe avere senso... Ma così? E da ultimo rifletto su una circostanza: ultimamente Edgar ha già avuto il privilegio di 3 diversi "recuperi"...perchè soffermarsi in modo così sproporzionato su di un'opera di scarsissimo valore (se pure del sommo Puccini) piuttosto che pescare nel "mare magnum" del nostro '900 musicale e dare l'opportunità di ascoltare qualcosa di maggior valore e interesse? Oppure - lo ripeto per l'ennesima volta - perchè Bologna non fa davvero un servizio alla cultura riproponendo quei Goti che tanto scalpore ebbero negli anni '70 dell'800...poco rischio (non esistono termini di paragone), grande merito, buona disposizione al successo, e probabile interesse di qualche casa discografica...

Lele B. ha detto...

Non un capolavoro, certo; però... l'edizione che offro agli amici che avranno voglia di scaricarsela, a tratti offre momenti di non poca suggestione.
Si tratta di un'edizione allestita dall'allora benemerita RAI di Torino, e radiotrasmessa il 12 ottobre del 1971 con la coppia - in arte e nella vita - Veriano Luchetti e Mietta Sighele. C'è anche Biancamaria Casoni, e dirige Cillario.
Credo basteranno poche battute per sincerarsi come un tenore a suo tempo un po' sottovalutato come Luchetti faccia la figura di un redivivo Caruso, a confronto di una celebrità di princisbecco come il signor Cura. Aggiungo che un cast di onesti professionisti come quello messo insieme dalla RAI in quell'occasione, oggi meriterebbe l'inaugurazione di qualsiasi teatro, non solo italiano.

http://rapidshare.com/files/385744107/Edgar__Puccini__Rai_Torino_12.10.1971_-_Luchetti__Sighele__Casoni_-_Cillario_01.rar

http://rapidshare.com/files/385744105/Edgar__Puccini__Rai_Torino_12.10.1971_-_Luchetti__Sighele__Casoni_-_Cillario_02.rar

Domenico Donzelli ha detto...

grazie gabriele
avessimo oggi lucchetti, labò, prevedi, barioni, borsò,fernandi, zanasi, colzani, protti, clabassi, arie, e poi la orlandi malaspina, la ligabue, la tucci, la malacrida, la maragliano, la pobbe, la de osma, la mattiucci, la berini, la nave per citare le prime ed i primi che mi vengono in mente e che ho anche sentito faremmo aide, balli forza, favorite, don sebastiano, ernani gioconde, mefistofele, faust, carmen etc. alla faccia della provincia
ciao dd

Alessandro Stefanini ha detto...

Penso si tratti du una delle opere più brutte mai state composte

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Vero...almeno tra quelle di un grande e celebre compositore. Neppure il Divieto d'Amare di Wagner è tanto goffo! Tuttavia la palma come l'opera più brutta mai scritta, per me la detiene ancora il Nerone di Boito: un guazzabuglio che supera Edgar, Amica di Mascagni, Alceste di Gluck... Se si tenesse conto dei minori, però, credo che il "catalogo" aumenterebbe (Ponchielli e Pacini la farebbero da padroni...)

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Peraltro, da quel che mi risulta, la primissima versione di Edgar (1889) è, ad oggi, irrecuperabile: resta solo il libretto e alcune testimonianze nella cronaca dell'epoca e nella corrispondenza di Ricordi. La musica invece, non essendo mai stata pubblicata, è andata persa. Di fatto il "primo" Edgar che ci è dato conoscere è quello della sua seconda versione (1891), sempre in 4 atti e con notevoli rimaneggiamenti. Ci resta però il solo spartito per canto e pianoforte (completo e pubblicato da Ricordi), mentre dell'autografo sopravvivono il I e III atto. Stessa cosa per la terza versione dell'opera (1901), di cui, credo, si disponga del solo canto e piano. In effetti l'unico Edgar ad oggi rappresentabile in modo fedele è la versione definitiva (la quarta): per recuperare le altre due è necessario un lavoro aggiuntivo di parziale riorchestrazione (con tutti gli arbitri che l'operazione comporta). La primissima, invece, è persa. Credo tuttavia che nessuno abbia grossi rimpianti: certo che, ricollegandomi a quanto scritto giustamente da Tamburini) vi è da chiedersi quanto siano legittimi tali recuperi, laddove lo stesso autore si è prodigato in tutti i modi per far sparire le tracce di versioni evidentemente scartate. Una cosa analoga è successa con una specie di Ur-Hollander, quando un direttore d'estrazione baroccara "recuperò" (dal cestino dei rifiuti immagino, e a patto di pesanti rielaborazioni) una pretesa prima versione dell'Olandese Volante di Wagner (con nomi diversi e libretto parzialmente modificato), spacciandola per l'opera che l'autore aveva pensato per l'Opéra. Ma tale versione non è mai esistita se non negli abbozzi e nella mente del compositore: operazione dunque inutile e arbitraria (e pure brutta, dato l'impiego di orchestra pseudo filologica con ottoni naturali e senza uso del vibrato). In questi casi penso a Kubrick che, dopo aver licenziato i suoi capolavori in forma definitiva, distruggeva personalmente tutto quanto era stato scartato in sede di montaggio, temendo, per un futuro, che qualche "esperto" si inventasse "edizioni originali" o "integrali" o "estese" dei suoi film...

Felipe Malboro ha detto...

La versione rappresentata a Torino e poi a Bologna si basa sull'autografo, di cui sono stati recentemente ritrovati gli atti II e IV. Semmai si può discutere su cosa fu effettivamente eseguito alla Scala nel 1889. Aggiungo che né a Torino né a Bologna l'opera è stata eseguita integralmente.

Venendo all'opera, che il libretto sia veramente brutto, sotto molti aspetti (drammaturgico ma forse più ancora letterario), è fuori discussione. Ma la musica è bella. Anzi direi che lo è a maggior ragione se si pensa che Puccini dovette lavorare su quel libretto. D'altronde molti hanno scritto che l'Edgar è brutto, ma quando si tratta di ragionare sulla partitura musicale (che alla fine vale di per se stessa) i giudizi cambiano nettamente. Questo sin dalle recensioni dalla prima assoluta.

Credo anch'io che sarebbe necessario ascoltare un'esecuzione pulita, in orchestra e nelle voci, al di là del fatto che è vero: le tre parti principali sono difficilissime.

Quanto alle versioni, quella in 3 atti è un aborto: certo, molti dettagli sono più belli ma nel complesso non è né carne né pesce. L'unico modo di sentire l'Edgar è in 4 atti, cioè come una "grande opera" d'impianto - diciamo così - ponchielliano anche se senza ballo.

Molti trovano Le Villi superiore, ma
quella sì è un'opera a numeri vecchio stampo, senza raccordi o con raccordi terribili (ad esempio quello tra la Romanza di Anna e il duetto), il libretto è ancora più brutto, manca totalmente la struttura leit-motivica (si ascolti invece con attenzione il quarto atto di Edgar, che è tutto un ritorno di motivi, a volte solo un accenno, secondo la tecnica del Puccini maturo). Insomma l'unico vantaggio delle Villi potrebbe essere la sua semplicità (banalità?) narrativa. Ma un'opera va anche scoperta ascolto dopo ascolto e per me Edgar ha solo bisogno di un'incisione come si deve. La messa in scena è più problematica, lo capisco, anche se il terzo atto è assolutamente teatrale, e il quarto ha quel duetto d'amore che nessuno conosce ma che secondo me è straordinario.