mercoledì 23 giugno 2010

Le recensioni di Semolino: La Donna del Lago a Parigi

Cari amici,
eccovi il fedele resoconto del nostro Semolino sulla recita di Donna del Lago del Parigi di venerdì ultimo scorso.Spettacolo di punta della stagione parigina e non solo, cui non potevamo mancare per soddsfare la vostra curiosità.


Molto attesa qui a Parigi questa nuova produzione di Donna del lago, una sorta di agitazione intorno a questo spettacolo, sia per il titolo, molto raro, che per i cantanti, in primis Joyce DiDonato e Juan Diego Florez, beniamini del pubblico francese. Dico subito che a me lo spettacolo proprio non è piaciuto. Scene, regia e costumi sono stati contestati alla prima, e con ragione a mio parere. Una produzione in forma di concerto sarebbe stata addirittura più opportuna: i protagonisti vestiti sempre allo stesso modo; ridicola la trovata di fare uscire il coro dall'armadio a muro; oggetti che scendono dal soffitto, dal cielo o che sorgono da sottoterra per illustrare ogni scena, per non parlare di quei ballerini che si danno un gran da fare per mimare quello che i quattro cantanti non sanno realizzare, peraltro buati anche alla recita di venerdi cui ho assistito. L'architettura di fondo era pesante e pacchiana, l'atmosfera romantica della Scozia di Scott completamente assente: non dico che la si debba riprodurre in maniera descrittiva od olegrafica, ma almeno rievocarla simbolicamente, o con atmosfere variamente costruite. Al contrario, una proiezione luminosa tutta blu quasi di tipo psichedelico, allusione al colore del lago, distruggeva ogni pathos: la medesima scena era al contempo un palazzo, un prato, un lago, una rocca e non so che altro. Ho avuto l'impressione che nessuno, nè regista, nè scenografo, nè costumista, nè coreografo, insomma nessuno, avesse una concezione precisa ed esatta di questa opera: assenza di un obbiettivo unitario, tanto che ognuno ha buttato lì a caso la propria idea e ne è risultato un guazzabuglio che non portava a niente.

Mi aspettavo, ed avrei voluto, che almeno il direttore riuscisse a mettere in rilievo i fremiti romantici che percorrono quest'opera. Roberto Abbado, invece, è stato completamente inoperante: se avessero messo al suo posto un metronomo sul leggio sono convinto che il risultato sarebbe stato lo stesso. Fin dall'introduzione l'orchestra è apparsa svogliata, con un suono arido e tendenzialmente fisso negli archi, gli accompagnamenti meccanici, i concertati alquanto grezzi. Non appena il coro ha attaccato "Del dì la messaggera" ci è poi resi conto di quanto il livello del canto sia caduto in basso anche nelle sezioni corali: mancavano compattezza, omogeneità e pienezza di cavata,imprescindibili ad un coro degno di questo nome. Le voci suonavano fibrose, stimbracchiate ed ingolate un po' in tutti i reparti.
Sul libretto, peraltro, è scritto che questo composto da pastori e pastorelle, ed i versi recitano "ai nostri riedasi lavori usati.........così a' sudori del buon pastore". In scena, al contrario,v’era gente vestita come ad un ricevimento di gala, con tanto di coppe di spumante in mano! Mi spiace ma gradirei che ci fosse una coerenza fra quello che è il libretto e quello che viene allestito in scena, altrimenti non ha senso. "Già un raggio forier" è per me una delle più belle pagine non solo di quest'opera ma di tutta la storia dell'opera in generale. A causa di questa compagine e dell'inerzia di Roberto Abbado, il brano è passato via inosservato, come si fosse trattato di una lagna qualunque.

Mi chiedo se qualcuno abbia mai detto a Joyce Di Donato che il belcanto è basato sulla soavità dell'emissione e sull'omogeneità della voce. Sin dalla cavatina di ingresso, "Oh mattutini albori", la voce era già spoggiata e vuota, sintomo di una disorganizzazione vocale che è andata sempre più accentuandosi nel corso della serata. Il registro grave è senza sostegno, grottescamente pompato e pochissimo sonoro, quindi senza autentica proiezione: quando non si è dotati in natura si deve supplire con la tecnica per proiettare la voce; diversamente occorre essere dei superdotati, come la signora Barcellona.
Anche nel centro la voce della signora Di Donato suona vuota, aspramente rimasticata in bocca. La dote vocale emerge nelle salite all'acuto,ma piena voce, perché questo è il registro naturale del soprano lirico e non del mezzosoprano acuto, quale la Di Donato è. Purtroppo la Signora ha la brutta abitudine di ghermire i suoni, risultando così isterica e inutilmente aggressiva, tanto che il fraseggio e la linea di canto perdono le due caratteristiche fondamentali del personaggio, nobiltà e la dolcezza. Ne risulta una Elena becera, volgare, affetta da concitazione esteriore nei momenti più drammatici, lagnosa in quelli più elegiaci, tutta mossette e ammiccamenti. Dopo avere udito tali suonacci da parte della protagonista sentire Uberto commentare "di quegli accenti il dolce suon" viene solo da ridere. Gli acuti, inoltre, sono stati quasi sempre crescenti e fissi, come fisse sono state le rare messe di voce. Le agilità di grazia erano rimasticate in bocca, nè nitide nè precise, una sorta di tartagliamento inintelleggibile; quelle di forza, per utilizzare un termine caro al Mancini, sgallinacciate, sia per l’abuso del colpo di glottide che per via del suo modi di ghermire i suoni in modo sgraziato. Così il personaggio è stato così tradito e sfasato, il canto rossiniano travisato nelle sue caratteristiche più fondamentali. Per completezza di cronaca, Joyce Di Donato ha toccato il fondo nel rondò finale : le variazioni sono state una vera e propria riscrittura della melodia rossiniana, da lei infarcita senza gusto di trilli, peraltro pasticciati nell'esecuzione e aspri nel suono, con picchettati flautati fuori stile. Fossero almeno stati il vero flautato ( che aveva ad esempio una June Anderson o una Aliberti )! Si è trattato invece di suoni ora sbiancati ora smunti, completamente inadatti al canto rossiniano.

La signora Daniela Barcellona può, all’ingresso in scena, destare una certa impressione ed illudere un pubblico sprovveduto, dall'orecchio poco purgato e poco avvezzo al canto autentico, perchè la dote è alquanto cospicua. Non appena comincia a cantare davvero i nodi vengono al pettine: l'aria d'entrata è stata pesante, con un legato molto approssimativo, percorsa da un affanno inutile, non so se causato da una cattiva respirazione o da una concezione interpretativa precisa, mirata ad esprimere l'affanno del personaggio. Il che sarebbe una trovata fuori posto, perchè espediente di stampo naturalista, ed il naturalismo, si sa, con Rossini c'entra ben poco. Nell'interpretazione della signora Barcellona non sono poi emersi nè la nobile fierezza d'animo nè l'eroismo di Malcolm, complice un modo di stare in scena molto goffo e impacciato che la linea di canto troppo affannosa e scomposta.
Gli acuti sono suonati tutti fibrosi e duri nella sala, quello nella ripresa della cabaletta della seconda aria un vero urlo. Il registro grave connotato da gutturalità continue, mentre il centro è parso più compatto ma comunque incravattato, con agilità pesanti e meccaniche. Nelle cabalette, in particolare nelle sezioni variate, quando l'agilità si fa più fitta e minuta, ha fatto ricorso alle aspirate: al canto di gola si è aggiunta l’aria fra una nota e l'altra, con un effetto di meccanicità a tratti addirittura esilarante, non consoni ad una professionista del suo livello. A mio modo di sentire, questo Malcolm non è stato poi di molto superiore a quello dell'Arsace di Barbara di Castri, della famigerata Semiramide al Théâtre des Champs-Elysées qualche annetto fa'.

Simon Orfila ha cantato con una voce compatta e omogenea, ma di una omogeneità dovuta al fatto che tutte le note sono state emesse con un solo ed unico registro, quello di stomaco: dopo quella del muggito eccoci giunti alla scuola del vomito, mai sentita voce tanto dura e aspra! Di legato poi non se ne è parlato per nulla; zero sfumature; tutto ugualmente sbraitato in modo sforzato e meccanico, tanto che il ruolo di Douglas si è trasformato in quello di un basso sgangherato e parlante. Una interpretazione inesistente, perché mancando il canto viene di conseguenza a mancare il personaggio, fatto assai normale dato che il personaggio in Rossini sempre si realizza attraverso il canto. Scenicamente, poi, era sgraziato come se fosse stato preoccupato solo dalla sua vociferazione.

Colin Lee potrebbe anche dare l'impressione di essere un baritenore, ma è una voce emessa a casaccio. Ha improvvisato ogni tre note un metodo di emissione diversa e tutti l'uno più strampalato dell'altro. Così procedendo ha alternato suoni ora opachi ora legnosi, gli estremi acuti aspri e strozzati, le agilità ora aspirate o a colpo di glottide. Quando ha cercato di cantare frasi a mezzavoce, non avendone la tecnica, ha ottenuto solo di mandare la voce indietro, stimbrando paurosamente il suono. Un Rodrigo esageratamente grezzo ed aggressivo, perché l'aggressività risiede nella scrittura vocale, tutta di forza e di sbalzo. Scrittura che occorreva realizzare in modo esemplare, come sapeva fare Chris Merritt, mentre in questo modo Colin Lee ne ha finito, travisando il canto, per realizzarne la caricatura, tutta fondata sulla concitazione.

Juan Diego Florez è stato l'unico della serata a dar prova di un canto, almeno nei grandi parametri, professionale. Certo, per tipologia vocale, è una voce adatta a Lindoro e non al Rossini serio, per il quale occorre una voce più nutrita nei centri, maggiore ampiezza di cavata, più estro interpretativo. Nel signor Florez si percepisce l’assenza di colori, perchè non ha la vera mezza voce; però, almeno lui, non ha cercato di eseguirla stimbrando il suono o strozzandosi. Come al suo solito si è giovato solo di variazioni di intensità, che forse alla fine lo rendono piuttosto monotono, ma almeno non ha emesso suoni brutti. Nelle variazioni e nell'ornamentazione non ha mai usato il trillo, come d'altronde la Barcellona, e questo semplicemente perchè ne l'uno ne l'altra non lo sanno eseguire, mancanza grave da parte di cantanti incensati e dichiarati dal pubblico orecchiante e dalla critica odierna come "rossiniani".
Gli estremi acuti a piena voce di Florez sono suonati timbrati e squillanti ma anche alquanto tesi,mai completamente liberi da sforzo, fatto rilevabile anche scenicamente: il tenore stava in scena tutto teso in avanti, senza la naturalezza e la spontaneità della recitazione scenica e, soprattutto, del canto facile a corpo rilassato. Ciò nonostante il suono non è mai stato veramente sforzato. Il signor Florez, infatti, non canta aperto, non è ingolato, ma non ha nemmeno quella rotondità di suono che deriva dell'immascheramento perfetto. Se questo fosse migliore la sua voce se ne gioverebbe in smalto ed in incisività,e potrebbe conferire al suo fraseggio maggiore autorevolezza. Il suo Giacomo V, infatti, sconta il limite tecnico laddove stenta ad essere credibile nei momenti più concitati come la sfida, dove era davvero alla frusta. Florez ha saputo convincere solo nei momenti dolenti e amorosi, cioè nei duetti con Elena e nell'aria "O fiamma soave".
Comunque,in confronto ai suoi colleghi Florez ha cantato bene perchè ha cantato con buon legato, agilità ben eseguite, nitide e precise, con tutte le note distintamente percepibili ed al contempo legate l'una all'altra (come si suol dire "sul fiato"). Non direi però che abbia rivelato "gli accenti nascosti" del personaggio, conferendo a Giacomo V i colori di un Blake, artefice di una girandola di sfumature realmente espressive.
Di Florez colpisce sempre l'agitarsi con moto ondulatorio del corpo durante la vocalizzazione, soprattutto quelle di forza. E’ certo che il suo canto di agilità sia servito da pietra di paragone per quelle degli altri, gettando su di loro un ombra. In poche parole è sempre la solita storia : Florez sembra un fuoriclasse del canto solo se paragonato al livello generale di cui oggi siamo vittime. Passa per un fuoriclasse solo per mancanza di una vera ed autentica concorrenza.
Semolino





Gli ascolti

Rossini - La donna del lago

Atto II

O fiamma soave - Chris Merritt (1985), Rockwell Blake (1986)

Alla ragion, deh rieda - Lella Cuberli, Rockwell Blake & Chris Merritt (1986)

Tanti affetti - Angeles Gulin (1974), Lucia Aliberti (1990)


8 commenti:

maometto II ha detto...

Cuberli e Dupuy forever.. alla faccia di chi le critica!

emanuele ha detto...

Ho assistito alla recita di ieri sera, data informa di concerto causa sciopero. Quindi e andata bene. Trovo ingeneroso il commento di semolino sulla di Donato. Che non siala cuberli siamo d'accordo. Ma non e quello strazio descritto. La voce e piuttosto bella, omogenea, sufficientemente morbida e timbrata. Le agilità non perfette ma rispetto ad altre asserite specialiste sono roseefiori.concordo sull'inadeguatezza della cadenza del rondò, checi riportavaalleassurdita stlistiche di una tetrazzini o di una capsir. Brava per contro nella primipare del finale. Per gli altri, tutto ok.
Saluti a tutti.
E

Francesco Benucci ha detto...

ahahah, sono pienamente d'accordo, ma dimentichi il buon Blake!

Francesco Benucci ha detto...

Emanuele, la Didonato la voce ahimè ce l'ha. il problema è come la usa: è fissa, non in maschera, tutta giù di posto, con un suono masticato in bocca e non proiettato fuori e in alto.
insomma un canto alla baroccara (dopo anni di servizio nell'armata di Alan Curtis questi sono i miseri risultati).
e la sua voce non cambia se sente quello che c'è di lei in Cenerentola e in Barbiere.
rossini non si canta così, su!

Carlotta Marchisio ha detto...

Basta aprire l'home page della dive per sentire i soliti artigli di Kruger sui tubi della caldaia...

Francesco Benucci ha detto...

aaaaa orrore!

Giulia Grisi ha detto...

Caro Semolino,
mi pare che Orfila avesse dichiarato di avere per modello ....Pol Plancon!.....già.....

Carlotta Marchisio ha detto...

Carissima, cerchiamo di non pretendere la luna! :) E' già buona che certi cantanti sappian chi sia, Pol Plançon! Onore alle buone intenzioni, comunque........