La fama, che ancor oggi accompagna il Crociato in Egitto è più virtuale che sostanziale. Il capolavoro del Meyerbeer italiano è oggetto più di riflessioni, chiacchiere e sogni dei melomani, che non di rappresentazioni teatrali.A torto perché di autentico capolavoro si tratta, ma a ragione perché, come sempre accade per i titoli del maestro e non solo per quelli siglati grand-opéra, richiede una tale parata di stelle da sconsigliarne la riproposizione, più oggi che venti o trent’anni or sono.
L’esperienza veneziana della stagione 2007 costituisce monito e consiglio in tal senso. Come lo costituiscono le edizioni sempre differenti e per interventi dell’autore e per interventi degli esecutori con cui il titolo circolò per almeno trent’anni dopo la prima.
Le ultime riprese del Crociato, intorno agli anni '60 del secolo XIX, coeve alle ultime di Semiramide, opera cui il Crociato è in stretto contatto e largamente tributario, vennero accompagnate da robuste dubitative critiche ad opera di Antonio Ghislanzoni, futuro scapigliato e librettista di Aida, che nei panni di critico affermò:" Il crociato di Meyerbeer parve al pubblico nostro musica troppo antica. I vecchi, ammiratori entusiasti del passato, i dotti avversari delle nuove forme, ebbero un bel predicare le bellezze del grande spartito – il publico rispose cogli sbadigli, manifestazione spontanea dei sensi, più eloquente di ogni critica. Sarebbe ingiusto il gravare sugli esecutori tutta la responsabilità del mal esito. Il crociato, non esitiamo a dirlo, è opera inamissibile oggigiorno. Le cause son molte, né vogliamo enumerarle. A noi la musica del Crociato è nuovo argomento per confermarci nella opinione altre volte manifestata, che «il genio non può rinunziare impunemente alla propria natura, né piegarsi a servili compiacenze». Meyerbeer che imita Rossini, Meyerbeer che vuol essere italiano nella melodia e nelle forme, perdendo la sua fisionomia originale, impicciolisce, diviene fiacco e impotente – il suo lavoro tuttoché commendevole dal lato dell’arte, porta una impronta bastarda. Se nel Crociato qualche pezzo ci scuote, se l’introduzione, se la marcia grandiosa, se il finale dell’atto primo ci esaltano per un istante, gli è che in tali punti Meyerbeer ci si presenta nel suo vero aspetto, gli è che noi indoviniamo il futuro autore del Roberto, degli Ugonotti, e del Profeta, sentiamo i primi entusiasmi della sua libera natura chenon vuole né può essere italiana".
Oggi non si può, però condividere l’opinione di Antonio Ghislanzoni che individua il meglio del Crociato nei passi che costituiscono il preannuncio del Meyerbeer francese, mentre nella realtà sono il tributo che l’autore paga a Rossini ed alla Semiramide in particolare. Mi riferisco al grandioso concertato, che chiude il primo atto piutttosto che al quartetto della conversione. Attenuante e discolpa per Ghislanzoni è che difficilmente conoscesse i grandi concertati del Rossini napoletano, non più rappresentato, mentre erano gli anni sessanta quelli della massiccia proposizione dei titoli del grand-opéra.
Gli spunti di riflessioni mossi dal Crociato possono essere moltissimi.
Ne lascio agli esperti uno ossia l’orchestrazione e l’uso della banda che supera quello fatto sino ad allora da Rossini e che poi andrà scemando nel melodramma romantico. Nel Crociato la banda in scena è la sigla della marzialità dell’opera, accompagna l’entrata dei cavalieri ed il grandioso finale primo luogo di scontro affettivo e religioso.
Il crociato costituisce, più dei titoli di Rossini l’esemplificazione di come si confezionassero e per la prima e per le riprese le opere nell’Italia del 1825 circa.
Rimando per l’esauriente cognizione al saggio contenuto nell’edizione di Opera Rara, i cui libretti illustrativi sono, sempre, di gran lunga più interessanti dei CD, che accompagnano e commentano.
Mi limito a segnalare la più significativa peculiarità del Crociato ovvero la presenza di tre voci femminili in ruoli protagonistici, in luogo delle solite due rappresentate da prima donna e da musico. Nel Crociato sono, appunto, tre, in quanto la compagnia scritturata a Venezia prevedeva anche un illustre contralto donna, Brigida Lorenzani, cui venne affidata la parte della pietosa antagonista di Palmide, che drammaturgicamente non esiste, tanto è che le due arie (di grande difficoltà, perché scritte per una illustre e completa cantante) vennero eliminate alla prima ripresa (Firenze e Trieste) quando la compagnia scritturata mancava di una terza prima donna. Con la sublime arte del “metti e togli” che connota la produzione melodrammatica italiana vennero reinseriti numeri, autentici o imprestati, quando la Felicia di turno fosse prima donna di rango quale la giovane Felicia Malibran a Londra nel 1825 o Marietta Alboni a Parigi nel 1860.E’, però, interessantissimo seguire la documentate ed autentiche vicende dei numeri riservati al protagonista maschile Armando. Scritto per Velluti, l’ultimo castrato a calcare le scene d'opera circolò non solo grazie a quest’ultimo, ma per opera di due grandissime cantanti Carolina Bassi-Manna e Giuditta Pasta. Ciascuno dei protagonisti, complice Meyerbeer, lasciò il segno.
Ho il sospetto che Velluti stesso non fosse risultato troppo soddisfatto delle scelte per i suoi numeri solistici dell’autore, che richiamano una vocalità ed un gusto protorossiniano. Alla prima ripresa di cui fu protagonista a Firenze comparve, previa sparizione dei numeri solistici di Felicia ed annessione del di lei recitativo di sortita “Popoli dell’Egitto”, la cavatina “Cara mano” ed il finale dell’opera, che come da consolidata tradizione era il rondò del protagonista divenne un duetto dei due amanti “Ravvisa qual alma”.
Era solo l’inizio delle legittime manipolazioni perché alla ripresa di Trieste con l’arrivo della Bassi, primadonna assoluta di Meyerbeer in ogni senso, venne inserita l’aria “Oh come rapida”, tratta dall’opera l’Esule di Granata (e per la cronaca parafrasata da Mercadante in tonalità differente nella Didone abbandonata) e la primadonna si riprese i propri diritti chiudendo l’opera con il rondò finale. Naturalmente non già quello originale “Verrai meco in Provenza” ma altro tratto dall’opera Semiramide riconosciuta sempre di Meyerbeer, che costituiva non già aria, ma addirittura “l’opera di baule” della Bassi.
L’idea dell’aria “Oh come rapida” elegante e raffinata, per Armando era seconda alle primedonne perché alla scelta si attenne, per la ripresa agli Italiani nel 1825, Giuditta Pasta, che andò oltre, pretendendo per il numero una cabaletta “L’aspetto adorabile”. Anche questa altro busillis perché taluni spartiti la danno come opera di Niccolini, che doveva rappresentare il “refugium peccatorum” di madama Pasta alla ricerca di arie consone, visto che nel Tancredi di Rossini inseriva, variata da Rossini, l’aria del Tancredi di Niccolini.
In questa duplice versione Bassi-Pasta il numero incontrò il favore di altra primadonna del tramonto della vocalità rossiniana, ossia Barbara Marchisio, che protagonista dell’ultima ripresa scaligera del Crociato utilizzò il numero, ma quale cavatina di sortita. E per la cronaca questo numero ha eseguito a Montpellier nel 1990 Martine Dupuy.
Mi domando e rigiro la domanda ai lettori se la storia dell’opera attraverso le prime donne e le loro pretese non abbia un fascino particolare e sia una via interessante ed ardua da seguire.
Evito di raccontare gli inserimenti di altri autori il Rossini di Semiramide, che altre primedonne, precisamente Rosmunda Benedetta Pisaroni apportavano allo spartito indossando i panni di Armando.
Le modifiche, diciamo d’autore, ma non solo, gli accomodi talvolta dimostrano come i ripensamenti siano talvolta felici e drammaturgicamente azzeccati. E non solo in Meyerbeer, ma anche in Rossini la cui Zelmira riveduta e corretta per Giuditta Pasta con il riutilizzo di Ermione è un vero colpo di genio. E di colpi di genio ne troviamo uno mirabile nel Crociato. I cavalieri di Rodi entrano preceduti dal marziale e spettrale coro “Vedi il legno”, che i cavalieri in ogni loro scena inspirano, solo che il climax viene meno con la tradizionale aria di Felicia “Pace io reco” e che invece ne esce esaltato e completato dalla cavatina “Queste destre” di Adriano di Monforte, questa non originale della versione veneziana, ma predisposta per Niccolò Tacchinardi a Trieste. E la stessa impressione di un miglioramento drammaturgico o di una rilevante modifica del personaggio si ha con l’ascolto della cabaletta di Adriano “La gloria celeste” in luogo dell’originale “Or dei martiri la palma”. Passiamo da un'immagine di Chiesa e religione meditativa ad una di Chiesa e religione militante e, magari, militare. Forse più consona ai cavalieri di Rodi, a mezza strada fra il consacrato ed il guerriero.
Altro ancora insegna l’ascolto del capolavoro ossia come ad un anno di distanza dalla Semiramide e dopo una militanza in teatri italiani di seconda serie (Padova e Torino) Meyerbeer si lanci in scelte musicali e drammaturgiche, che superano quelle dell’ammirato maestro e costituiscono i numeri originali, che sempre verranno eseguiti in ogni ripresa del Crociato, quasi che la competenza della prima donna escludesse modifiche agli ensemble. Alludo al meraviglioso terzetto, che principia come aria strofica di Felicia “Giovinetto cavaliere” e dove cantano per terze, secondo la tradizione belcantistica, i loro differenti sentimenti non due voci femminili (come ad esempio in Zelmira o in Otello), ma tre o il quartetto (Adriano, Armando, Felicia, Palmide) “Oh cielo clemente”, che all’atto secondo accompagna il battesimo della già convertita Palmide.Con riferimento a questa scena è facile – seguendo le indicazioni di Antonio Ghislanzoni in veste di critico musicale- sentire i prodromi di un’altra grande scena religiosa di Meyerbeer, ovvero la conversione e matrimonio di Valentina di St. Bris , nei momenti che precedono il tragico epilogo di Ugonotti.
Ma anche i luoghi topici del melodramma rossiniano si colorano nel Crociato di qualche cosa, che sarà il dopo, ovvero il grand-opéra, e penso al grandioso finale primo, costruito secondo le regole del grande finale rossiniano, con tanto di canone “Sogni e ridenti”, ma che al ritmo marziale della banda fa esplodere il contrasto religioso. Elemento nuovo (anche se in Maometto II se ne fa cenno), ma che per ovvi motivi –l’appartenza ad una minoranza di Meyerbeer- costituirà uno dei caposaldi della drammaturgia del maestro berlinese. Come un elemento di assoluta novità è il dettaglio del personaggio di Adriano di Monforte, il Gran Maestro dei cavalieri di Rodi, in equilibrio, fra militare e consacrato composto a strati fra la versione Crivelli, quella Tacchinardi e la definitiva Domenico Donzelli. E’ facile con un simile personaggio presagire il sacerdote laico dell’opera l’Eleazaro di Juive, che il correligionario Halévy, mutuò direttamente dal libro dei Maccabei, quale esempio di fede e religiosità assolutamente tegragona. Credo sia, e non perché ruolo per Domenico Donzelli, il primo caso di personaggio tenorile sfaccettato e musicalmente e drammaturgicamente. Tralasciamo l’estrema difficoltà vocale del ruolo e chiudiamo questo agosto, che abbiamo voluto doverosamente rossiniano, ma al di fuori delle deputate istituzioni e percorsi.
DD & GG
Gli ascolti
Meyerbeer - Il Crociato in Egitto
Prima rappresentazione: Gran Teatro la Fenice, Venezia, 7 marzo 1824
Atto I
Cara mano dell'amore - Martine Dupuy (1990)
Sortita di Adriano: Vedi il legno...Popoli dell'Egitto...Queste destre l'acciaro di morte - Rockwell Blake (1990)
Va': già varcasti, indegno...Non sai quale incanto...Il brando invitto - Rockwell Blake & Martine Dupuy (1990)
Giovinetto cavalier - Caterina Calvi, Denia Mazzola & Martine Dupuy (1990)
Gran Profeta, là dal cielo - Rockwell Blake, Caterina Calvi, Martine Dupuy, Denia Mazzola, Michele Pertusi & Jean Loupien (1990)
Atto II
O Cielo clemente - Martine Dupuy, Rockwell Blake, Denia Mazzola & Caterina Calvi (1990)
Tutto è finito...Suona funerea...L'acciar della fede - Rockwell Blake (1990)
Aria aggiunta per Armando: O tu, divina fè...Ah, come rapida - Martine Dupuy (1990)
Ah, che fate!...Rapito io sento il cor...Verrai meco di Provenza - Michael Maniaci (2007)
Finale alternativo: Ravvisa qual alma - Martine Dupuy & Denia Mazzola (1990)



E pure lo stesso autore era ben consapevole di tale circostanza. Interessantissimo è leggere quanto scrive in quello che è, paradossalmente, il suo vero capolavoro, ossia quella ricca, ricchissima fonte di notizie (indispensabile per comprendere il lavoro nella bottega dell'operista, oltre che di piacevolissima lettura) che sono Le mie memorie artistiche, pubblicate a Firenze nel 1865. Scrive Pacini: “Né a dir vero potei mai pienamente raggiungere lo scopo che mi ero prefisso. Ancor fresco d'età, applaudito, accarezzato, festeggiato su tutte le scene italiane e straniere, poco mi dava pensiero di onorare me stesso e l'arte, come io doveva. Le mie tendenze, le quali miravano a dare un carattere di tinta locale ed un far proprio alla composizione, non poterono fin'allora esser portate a compimento se non che parzialmente: come io credo si riscontri in alcuni pezzi della Sacerdotessa d'Irminsul, nell' Ultimo giorno di Pompei, e più specialmente negli Arabi nelle Gallie e nei Fidanzati. Debbo perciò convenire che molto ancora mi rimaneva a fare per conseguire qualche speranza di prolungata fama. In questa mia prima epoca mi si dava il nome di maestro delle cabalette, poiché in generale avevano qualche pregio di spontaneità, di eleganza e di forma, talché si riteneva da tutti che a me e ostasse ben poco il ritrovare un pensiero melodico di qualche novità, essendo ciò, si diceva, parto del genio e non altro. S'ingannavano a partito. Le mie cabalette non scaturivano come acque limpide da purissima fonte, ma erano bensì frutto di qualche meditazione, conciossiacosaché studiava il modo di dare un accento diverso ai metri della poesia onde non cadere in melodie che ricordassero qualche altro pensiero; cosa troppo facile a veriflcarsi, specialmente nella prima battuta... (omissis) ...II mio strumentale non è stato mai abbastanza accurato, e se qualche volta riuscì vago e brillante, non accadde per riflessione, ma bensì per quel naturale gusto che Iddio mi concesse. Trascurai sovente il quartetto degli strumenti ad arco, né mi curai gran fatto degli effetti che ritrar si potevano dalle diverse famiglie degli altri strumenti. Ebbi sempre però in mira la parte vocale più d'ogni altra cosa, e soprattutto cercai d'indagare i mezzi dei singoli esecutori a cui affidava le mie composizioni, onde adattare al loro organo musica confacente, poiché in tal modo avevo più probabilità di riuscita. Credo che, come il bravo sarto sa tagliare ed adattare l'abito all'uomo, nascondendo i difetti di natura, così debba del paro un esperto maestro non trascurare lo studio dei mezzi che possiede l'artista, e soprattutto non deviar mai da quei precetti che l'arte prescrive sulla tessitura dei differenti registri di voce, onde non forzarli in tal modo da renderli istrumenti inservibili dopo pochissimo tempo. Ciò è un errore imperdonabile, di danno all'arte ed all'esercente. L'amore per l'arte che ho debolmente professata e che professo, non mi ha lasciato mai uà po'di tregua. Invidiava nobilmente i miei rivali, e gli ammirava.” Grande umanità, consapevolezza di pregi e limiti e, soprattutto, onestà! Fatta questa lunga, ma necessaria premessa (prima che gli esegeti dell'odierno pensiero debole, vadano a scovare capolavori dove non ve ne sia traccia), appare opportuno - per tutti i motivi suddetti - proporre uno dei numerosi titoli composti dal buon Pacini.
La scelta è caduta sull'Alessandro nell'Indie, non per particolare valore, né eccellenza, ma per semplicemente motivi contingenti (ne è appena comparsa una buona edizione discografica) e perché esemplificativo di quella buona routine che, nei teatri della prima metà dell'800, si alternava ai riconosciuti capolavori di Rossini (e poi di Donizetti e Bellini). Rappresentata per la prima volta al San Carlo di Napoli il 29 settembre del 1824, alla presenza di Sua Maestà, sfoggiava una compagnia di canto al solito d'eccellenza (com'era costume nel teatro partenopeo): la Tosi, la Liparini, Nozzari, Moncada. Ottenne grande successo e fu, almeno fino al 1847 (quando venne scalzato dai Lombardi verdiani), lo spettacolo più replicato al San Carlo (ben 38 rappresentazioni nella stagione 1824/25). L'opera, su libretto di Tottola e Schmidt, recupera un vecchio melodramma di Metastasio (già messo in musica da Vinci, Hasse, Jommelli, Galuppi, Traetta, Anfossi, Cherubini, Cimarosa, Paisiello, Sacchini, Galuppi, Piccinni, J. C. Bach) e riproduce ordinatamente tutte le convenzioni dell'epoca: le forme consuete del primo melodramma ottocentesco, con la rigida suddivisione in numeri, le arie con cabaletta, le strette nei finali etc... L'ascolto rivela i tanti debiti con Rossini, ed evidentemente si dimostra musica che può sopravvivere solo in virtù di interpreti eccezionali. Tuttavia è costruzione molto gradevole. I brani solisti di Alessandro si fanno ammirare per la complessa scrittura belcantista: più che la cavatina “Su le palme, su gli allori” - abbastanza anonima nel suo incedere secondo gli schemi tradizionali (coro introduttivo/cantabile/cabaletta) - è degna di menzione la grande scena dell'atto II “Oggetto sì adorabile” , più ampia e ricca, sin dall'iniziale scambio con Cleofide e Gandarte, in forma di robusto recitativo accompagnato, non privo di taluni pregi: in particolare la scolpitura della frase e la dimensione tragica; ad esso fa seguito la sezione cantabile (molto fiorita) di scrittura centralizzata, ma con frequenti affondi nella parte più basse della tessitura baritenorile; conclude l'immancabile cabaletta con coro, improntata ad un deciso virtuosismo . Altrettanto spettacolari quelli per la Tosi, tra cui primeggia la grande aria che precede il finale dell'opera, “Del caro mio consorte”, e che è forse il brano più interessante dell'opera (oltre ad essere quello di più ampia estensione): dopo il drammatico recitativo introduttivo, l'aria presenta un cantabile suddiviso in due sezioni (la prima di slancio virtuosistico, quasi un'aria di furore di metastasiana memoria; la seconda più elegiaca, introdotta da un suggestivo obbligato di violoncello), a cui segue, dopo una breve parentesi corale, la consueta e spumeggiante cabaletta iper-virtuosistica. I duetti si somigliano un po' tutti, ma l'invenzione melodica è piacevole. Le cabalette guizzano sempre con facilità e leggerezza. I finali d'atto, pur nell'andamento stereotipato (scena di recitativo e concertato in due sezioni con stretta conclusiva), sono costruiti in modo assai efficace. E' una macchina che funziona, insomma, a patto di saperla ben pilotare. 







