mercoledì 30 marzo 2011

Le cronache di Giuditta Pasta - Thomas Hampson in concerto alla Scala

Solido successo lunedì sera alla Scala per il concerto di canto del baritono veterano Thomas Hampson.

Concerto esclusivamente dedicato ai Lieder in lingua tedesca, per la goduria del pubblico straculturale, piamente munito dei programmi di sala con le traduzioni delle saggezze poetiche e filosofiche comunicate nei diversi brani di Schubert, Liszt e Mahler – pubblico che, ahimè, è stato letteralmente costretto a godere anche in forma di bis di tre altri Lieder di Mahler. Implacabile contro le implorazioni “Fa' il repertorio!” e “Opera!”, quale quarto bis Mister Hampson ci ha regalato una canzone tedesca di Meyerbeer che per conto mio avrebbe potuto essere anche un brano di Hugo Wolf in una rielaborazione dell’ultimo Alban Berg e rivisto da parte sua da Dallapiccola.
Cantante di veneranda e ormai trentennale carriera, dall'aspetto maschio e decisamente simpatico, Thomas Hampson ci ha dimostrato quello che è e quello che è sempre stato quale vocalista e liederista. Voce non di grande volume né di particolare fascino timbrico, complice una posizione della voce abbastanza “bassa” e l’assenza di una vera proiezione, il timbro risulta pieno e bello solo nel registro centrale quando canta sul mezzo-forte e senza spingere. In basso la voce è abbastanza vuota e costretta a forzare le note gravi, problema evidente già nel primo Lied schubertiano “Der Atlas”. In alto, appena richiesto un canto sul piano, il baritono sfalsetta sistematicamente e quando canta sul forte gli acuti risultano spinti, scolorati e rauchi – entrambi caratteristiche nella “migliore” tradizione di Dietrich Fischer-Dieskau di cui peraltro Hampson sembrava talvolta una copia di prima mano. Personalmente, capisco pienamente il pubblico che ieri ammirava il baritono americano, perché in un mondo musicale in cui la liederistica di un Dietrich Fischer-Dieskau è quasi unanimemente considerata come un classico ed un patrimonio intoccabile, un altro modo di cantare il Lied tedesco non sembra possibile neanche nella più lontana teoria. Forse solo nei dischi di un Heinrich Schlusnus, una Lotte Lehmann o Herbert Janssen che ormai sono sorpassati e apprezzati solo da qualche passatista. Inesistenti forse anche gli eminenti liederisti del dopoguerra, come Fritz Wunderlich o Christa Ludwig che sarebbero due vere testimonianze del Lied cantato al posto del Lied declamato. L’onnipresenza di Fischer-Dieskau nel canto di Thomas Hampson si attesta non solo attraverso la sua succitata organizzazione vocale, ma anche nel suo approccio generale all’arte del Lied, ossia la prevalenza del declamato, perfettamente realizzato nell’alternanza fra suoni “parlati”, da una parte, con voce spinta e, dall’altra, quelli abbastanza aggressivi e “abbaiati” con voce falsettata e sussurrata. Il legato è escluso per principio e, quando applicato nei rari momenti di cantabile, come per esempio nel “Urlicht” di Mahler (il brano sicuramente meglio riuscito dell’intera serata), risulta molto insicura sia per intonazione sia per l’incoerenza stilistica dovuta agli inevitabili “salti” di tipo di emissione sotto e sopra il passaggio. L’approccio declamatorio di Hampson è peraltro segnato da un altro “vizio” della tradizione fischer-dieskauiana, ossia una comprensione troppo letterale delle forme e funzioni dell’espressività liederistica che l’abbassa spesso ad un naturalismo abbastanza banale. Con una tale visione declamatoria-naturalistica dell’estetica del lied, peraltro uguale e completamente indifferente sia in Schubert che in Liszt, Mahler e… Meyerbeer, diventa irrilevante anche una varietà più grande nella loro realizzazione vocale e finisce in un’interminabile e monotona alternanza fra suoni sforzati e sfalsettati. Un elemento fondamentale di questo approccio è l’enfatizzazione del lato testuale dei Lieder e l’articolazione dei versi con una chiarezza quasi da teatro di prosa. Thomas Hampson possiede in effetti una pronuncia tedesca impeccabile. Eppure, si chiede quale può essere il piacere o il senso estetico di un canto liederistico tutto centrato sul lato linguistico davanti ad un pubblico la cui maggioranza è decisamente non-germanofono e ha bisogno di rivolgersi alle traduzioni riprodotte nel programma di sala. Quest’autocelebrazione dell’articolazione testuale nell’ambito della liederistica rappresenta poi una sorte di contradictio in adjecto, perché un Lied che, bene o male, rimane quello che vuol dire in tedesco “das Lied”, una canzone, un pezzo cantato, ma in cui l’articolazione del testo diventa l’obiettivo a spese del lato musicale, dimostra una visione estetica basata su dei truismi ed un’unidimensionalità generale dovuta ad una carenza tecnica vocale. Non è né originale né “emozionante” o particolarmente “suggestivo” un canto per cui gli unici “colori” vocali trovati per le parole articolate sono la monotonia bicolore dei falsetti-sussurri e grida-sforzati, invece di portare e carezzare le parole ammorbidendole e variandone le dimensioni espressive-cromatiche con delle inflessioni venute da una varietà e flessibilità rese unicamente possibili da una tecnica vocale che, primariamente, permette l’esistenza di un’omogeneità dello strumento e, secondariamente, nel ambito di questa coerenza, una molteplicità di accenti e modi vocali.
In quanto al pianista della serata, Wolfram Rieger, i suoi accompagnamenti ci sono apparsi piuttosto privi d’ispirazione. Oltre i piccoli errori ortografici, ha dimostrato un suono piuttosto secco e generico, senza veramente creare un’atmosfera di continuità né fra le diverse sezioni dei lieder come “Der Schildwache Nachtlied” di Mahler ed il laconismo grave e pesante degli accordi disparati del “Doppelgänger” schubertiano né fra i diversi lieder, terminando pure ogni brano con un gesto discreto e quasi sacrale di compimento a cui il pubblico, massimamente all’altezza del rito, rispondeva con un religioso silenzio di raccoglimento.


Gli ascolti


Denza

Si vous l'aviez compris - Mattia Battistini (1924)


Rotoli

La gondola nera - Mattia Battistini (1911)


Tosti

La serenata - Mattia Battistini (1911)

Read More...

martedì 29 marzo 2011

"Death in Venice" in Scala: la non vita di Aschenbach

Gustav von Aschenbach, figura fortemente autobiografica di Thomas Mann, è un intellettuale che ha già vissuto. Ha attraversato e affrontato tutte le fasi della vita con routine, con ferrea autodisciplina, con austerità, imponendoselo, riuscendoci, coltivando la purezza della sua scrittura e inseguendo un ideale di bellezza, anche morale, che crede di aver raggiunto; ma forse proprio per questo si ritrova solo a meditare sulla vacuità di tale condizione e sulla giustezza di tanta rettitudine.In fondo Gustav von Aschenbach è un personaggio passivo; vuole vivere, o tornare a vivere, e lo fa spiando gli altri, osservandoli, studiandoli, giudicandoli, è un voyeur della vita che non partecipa, la insegue, ma non né coglie l’essenza, non si lascia travolgere. Non agisce mai Gustav von Aschenbach, nemmeno quando si scopre affezionato, infatuato, innamorato, ossessionato del bellissimo Tadzio, giovinetto che incarna la bellezza a lungo vagheggiata, quella beatitudine arcaica, quella perfezione di forme sensuali eredità classica dell’apollineo; lo insegue, certo, ma non riesce a parlargli, vorrebbe salvarlo dal colera, ma si blocca di fronte alla possibilità di avvertire la madre del contagio, vagheggiando un mondo mostruoso senza uomini, abitato solo da lui e dal bel ragazzino polacco.

Dall’apollineo si passa al dionisiaco: non più “oggetto osservato”, ma “oggetto desiderato”, lussurioso, da possedere, e intanto tutto intorno a lui cambia, ruota, si muove agisce: Venezia brulica di personaggi grotteschi guidati dalla mano melliflua delle incarnazioni dionisiache; Venezia cambia continuamente sotto l’influsso del dio, con piccoli tocchi, con pochi oggetti evocati, con le sue luci seducenti e vaporose ed il suo mare solo suggerito; Venezia si ammala, diventa putrescente, esacerbata nei colori e venefica nei miasmi lagunari; Venezia diventa una tomba di luce fioca e ombre, testimone dell’unico gesto vivo che il morente Aschenbach compirà per salvare il “suo” Tadzio, il suo ideale, dalla contaminazione violenta dell’ “altro”. Questa, in sintesi lo splendido ed essenziale allestimento, nato in coproduzione con la English National Opera di Londra e con il Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles, curato dalla regia di Deborah Warner coadiuvata dalle scabre scenografie di Tom Pye, dai costumi primi del ‘900 (come faceva notare l’amica Carlotta Marchisio, più vicini a Fitzgerald che a Mann) di Chloe Obolensky, dalle piacevoli coreografie di Kim Brandstrup e le luci di Jean Kalman. E intanto ci si domanda: perché per mettere in scena le opere di repertorio si sperperano allegramente montagne di soldi producendo (con la pretesa di farle ingoiare al pubblico facendole passare per Kultura, senza colpo ferire) le idee sbilenche di un Cassiers, o un Bondy, o un Mussbach, quando invece ci sono in giro registi capaci e di ben altro spessore drammaturgico che impongono un’idea senza massacrare l’opera, al contrario, esaltandone il contenuto? In carriera dai primi anni ’80 ed esperto interprete di Britten, non disdegnando ruoli sia principali che di carattere anche in Mozart, Strauss, Puccini, Janacek, Weber, Rossini e Schönberg, il tenore inglese John Graham-Hall sostituiva il previsto Ian Bostridge colto, già alcuni mesi fa, da “una acuta e persistente infezione alle vie respiratorie, tale da richiedere un periodo di riposo” così come riportato sul sito del Teatro alla Scala; già con questo gesto si guadagna tutta la mia stima e la mia gratitudine risparmiandomi l’ascolto della voce esanime e incolore del suo collega malato, il quale era sulla carta una “interessante attrattiva”, eppure non se n’è sentita la mancanza stando alla risposta più che positiva del pubblico in sala. Nulla da eccepire sulle doti istrioniche del signor Graham-Hall: l’attore è scafato, carismatico e brillante, sposa appieno la visione registica così da interpretare un Aschenbach i cui nervi lo costringono a creare una distanza disperata e incolmabile con gli altri, verso cui invece bramerebbe amalgamarsi; se non fosse per il suo passivo intellettualismo che lo costringe ad analizzare e analizzarsi fino all’autopunizione, fino a perdere di vista il proprio coraggio annullandosi nella vita altrui. Perseguitato da movimenti a scatti, scostante e curioso nel suo vagare senza sosta con lo sguardo e con il corpo, questo Aschembach è anche burattino tragico, svuotato e inerte quando si accascia sulla sua sdraio e riempie il suo essere con la vista di Tadzio, infetto e morbosamente malato già al suo apparire in scena. Il cantante, però, è decisamente inferiore all’attore: la voce ha una sua proiezione, nonostante sia timbricamente molto arida, ma l’emissione traballa non poco a giudicare dal vibrato che spezza la frase quando invece dovrebbe essere legata come da partitura; in più, soprattutto al primo atto, fatica a riscaldare il suo strumento così da alternare frasi letteralmente parlare, anche quando dovrebbe cantare, a un canto più affine a Broadway. Il secondo atto lo vede decisamente migliorato, ma, ahimé, Britten qui prevede anche gli acuti, i quali sono tutti o indietro, o fissi, o fastidiosamente falsettanti tanto da chiedersi se il controtenore ingaggiato per la voce di Apollo li faccia al posto suo fuori scena! Per onestà, potremmo anche soprassedere alle mende tecniche, visto che il ruolo è stato creato per il sessantatreenne Peter Pears che sicuramente non possedeva la freschezza timbrica degli esordi, ma non era mai stato nemmeno un’aquila in fatto di tecnica, anche se nella registrazione del ‘73 l’artista, più sensibile, canta più del suo attuale collega nonostante condivida con Graham-Hall alcuni difetti; il quale però salva la serata grazie ad una dizione praticamente perfetta ed un fraseggio al calor bianco, coerente con l’azione e con la regia. Ugualmente trascinante a livello scenico, e leggermente migliore come cantante, il baritono Peter Coleman-Wright che interpreta la proteiforme controparte del protagonista. Il timbro risente dell’età, anche se il colore baritonale si mantiene suggestivo e l’emissione, sufficiente a sostenere la voce nel centro, sicuramente più sonoro e compatto, non lo è altrettanto negli estremi della sua estensione, che possono talvolta suonare rigidi; supplisce allora l’artista, l’attore, l’interprete che scava nel fraseggio dei molteplici personaggi differenziandoli perfettamente attraverso il colore stesso della voce per mezzo di un diabolico falsetto oppure scurendo senza sforzo con glaciale disinvoltura. Ne sortisce l’esatta nemesi del protagonista, una sorta di Caronte che traghetterà Aschenbach, con raffinato cinismo e gusto dello sberleffo verso una morte annunciata. Non solo divinità multiforme dunque, ma anche specchio della coscienza di Aschenbach, compiendo tutto ciò che il protagonista si nega nonostante l’incitamento reiterato e irresistibile. Una bella interpretazione. Ho sempre avuto una violenta idiosincrasia verso la voce di controtenore: nonostante i vari appelli alla bontà dell’evoluzione tecnica, agli studi matti e disperatissimi, alla nuova morbidezza timbrica, alla intrinseca beltade di questi colori nuovi e, dicono, suadenti ho sempre ritenuto questa vocalità falsa e bugiarda oltre che la tragica rappresentanza di uno dei misteri dolorosi dell’opera, confermato dall’ascolto per certi versi micidiale oltre che fisicamente fastidioso delle varie “starlette” baroccare di ieri come di oggi, con la sola eccezione del, per me, grande Russell Oberlin.
Potranno anche piacere, per carità, ma lo ammetto, è un limite mio; quindi mi ha per certi versi sorpreso positivamente la prova di Iestyn Davies scelto per interpretare la Voce di Apollo: si resta impressionati dall’ampiezza del volume che riempie con facilità la sala, e dalla buona proiezione, anche se più appoggiata a doti naturali, ma il timbro si sente che è filtrato da naso e gola e molte note risultano fisse, ovviamente, nemmeno soccorse da un ventaglio espressivo molto ampio.
Discreti i numerosi artisti comprimari e ottimi i mimi ed i ballerini impegnati nelle pantomime e nei movimenti coreografici.Non capita spesso di vedere un’orchestra che rimane in buca per tributare il personale plauso a direttore, cantanti e maestranze tutte schierate sul proscenio; ma quando avviene significa che il clima che si è respirato durante le prove e le recite è stato di affiatamento. Hanno lavorato bene! Ed un plauso se lo merita il direttore Edward Gardner soprattutto per la direzione del II atto. Una direzione la sua nettamente spezzata in due: molto dilatata e sinistra nel primo atto, direi un po’ troppo cervellotica nella sottolineatura calligrafica e glaciale dei temi fondanti come quello del “Viaggio”, quello dedicato a “Venezia”, il ricorrente tamburellante tema di “Tadzio” in questo caso reso lugubre come un presagio, oppure i preziosismi degli interventi folkloristici, tutti filtrati attraverso un’ottica davvero troppo ragionata, rasentando sovente la noia, nonostante le belle potenzialità. Di gran lunga superiore l’atto successivo in cui la ricchezza espressiva può fluire dinamica e più naturale; gli stessi temi del I atto associati alla passacaglia, al tema dell’ “Epidemia”, alle citazioni dalla musica sacra sono come trasfigurati e resi con una dinamica decisamente più tesa e suadente; un atto in pratica divorato dalla presenza malata del colera il quale domina la scena, ma anche l’orchestra e dalla presenza di Dionysius reso ancora più minaccioso e fatale dalle diverse gradazioni timbriche dell’organico britteniano. Peccato che l’orchestra a ranghi ridotti, nonostante gli sforzi encomiabili, risponda con un suono non sempre adeguato con talune note calanti soprattutto nelle trombe, nei tromboni e degli archi ben poco cristallini. Teatro pieno e festante, soprattutto grazie alla “svendita” salvifica dei biglietti invenduti su Facebook, che ha provocato l’irritazione di quanti avevano già acquistato il biglietto a prezzo pieno … Ma come? Un’ occasione altamente Kulturale come questa, dunque ghiottissima almeno a sentire i vari proclami, ovvero la prima in Scala del “Death in Venice” dopo quasi quaranta anni dal suo esordio, trattata così dal pubblico, che vuole così bene a Mamma Scala, e dalla biglietteria?



Fin qui la recensione di Marianne Brandt. Ovviamente la Grisi non sarebbe la Grisi se non proponesse, a commento della suddetta, una rassegna di altre scene operistiche, di morte o comunque lugubri e funeste, ambientate a Venezia. Buon ascolto.


Gli ascolti


Verdi - I due Foscari

Atto II - Notte! Perpetua notte...Non maledirmi, o prode - Carlo Bergonzi (1973)

Atto III - Questa dunque è l'iniqua mercede - Pasquale Amato (1909)


Ponchielli - La Gioconda

Atto IV - Così mantieni il patto? - Pasquale Amato & Ester Mazzoleni (1909)




Read More...

domenica 27 marzo 2011

Verdi Edission: Il Trovatore a 78 giri in italiano

Quello che vi proponiamo di fare oggi con la puntata dedicata al Trovatore a 78 giri in lingua italiana è un viaggio nella quarta dimensione del canto. Dimensione che nemmeno noi pensavamo potesse esistere, ma gli ascolti effettuati di circa 150 tra brani acustici ed elettrici di uno dei titoli più popolari e maggiormente eseguito dai cantanti antichi, ci hanno posto davanti un altro mondo, un’altra lirica.

L’intento era quello di documentare il Trovatore come si può ricostruire dai microsolchi dalle origini sino al periodo tra le due guerre, dando per assodati e trattati cantanti celeberrimi, veri monumenti della storia, come la Stignani, collocati a cavallo tra quel passato remoto e l’era moderna. Documentare significava, in questo caso, scegliere in modo mirato nel mare magnum dei documenti pervenuti sino a noi di voci storiche di prima seconda e terza “classe”, in modo da mettere a disposizione materiali rappresentativi della storia della vocalità, ossia tipi di voci e prassi esecutive. Impresa rivelatasi da un lato impossibile per via della difficoltà di scegliere tra tante esecuzioni eccezionali, dall’altro a causa della rarità di alcune incisioni e il disinteresse per certe parti dell’opera rispetto ad altre, fatto anche questo assai significativo perché documento chiaro della concezione che i cantanti antichi avevano di questa opera, e di cosa fosse per loro la grandezza dell’esecuzione del ruolo in cui si cimentavano. Impossibilità di scegliere? Certamente! E’ impossibile scegliere un numero limitato di esecuzioni significative perché il numero dei grandi esecutori e dei passi tramandatici è altissimo, e non per la popolarità dell’opera quanto per il livello altissimo, per noi oggi assolutamente inconcepibile, del canto espresso. Esemplifico: non esiste un solo tenore, di serie A, B o C che non squilli negli acuti, esecuzione della Pira in particolare. Fatto eclatante per noi, che viviamo in un presente in cui nessun tenore nel ruolo di Manrico sappia, non dico, squillare, ma eseguire correttamente gli acuti. Fatto ancor più eclatante perché l’ascolto seriale di questi materiali dimostra che anche tenori come Bergonzi o Corelli avrebbero stentato a reggere il confronto, per estensione, completezza di fraseggio e timbro con i Manrico dei 78 giri. Solo Richard Tucker sembra avere avuto tali e tante armi da poter competere con loro. Ma nel complesso, il dopoguerra pare essere stata un’età di svolta per la corda di tenore ed in parte per quella di soprano, svolta verso l’assoluta rarità di esponenti completi per il ruolo protagonistico maschile, eccezionalità di grandi protagoniste femminili, oggi come oggi estinte pure loro. La constatazione che vi sottopongo non è espressa a cuor leggero o senza riflessione, ma discende dagli ascolti che pure voi invito a fare. Ascolti che saranno ulteriormente rafforzati dalla prossima puntata, quella delle esecuzioni a 78 giri in lingua straniera, che completano il quadro delle grandi scuole di canto europee, che oggi come oggi possiamo solo dichiarare estinte. Dall’altro emerge gigantesca la constatazione che a fronte di innumerevoli artisti di statura storica non sono documentati che alcuni, pochissimi, nomi di direttori d’orchestra. Questi artisti sono sé stessi da soli, e non per le bacchette anche celeberrime, con cui lavorarono, da Toscanini a Mugnone etc..Ed il pensiero istintivo di chi, melomane come me, vive il presente, và alle moderne diciture: il Trovatore di Muti, il Trovatore di Temirkanov, di Pappano…Il Trovatore dei direttori, insomma. Possiamo avere tutti i geni della bacchetta che vogliamo, ma senza grandi cantanti non si può fare un grande Trovatore, nemmeno avvicinarsi ad una buona esecuzione. E questa concezione velleitaria è una delle più grandi storture del nostro presente sulla quale dovremmo riflettere al cospetto di questi ascolti straordinari, incommensurabili ed innavicinabili da parte nostra oggi.

Gli ascolti dei brani hanno tutti o quasi un denominatore comune, che li unisce e li differenzia dalle esecuzioni del dopoguerra, ossia il tempo, nella maggioranza dei casi più lento di quelli cui noi siamo avvezzi. Le arie in particolare sono eseguite con maggior larghezza, voci piene e varietà di fraseggio, conferendo agli andanti una espressione più marcata, insomma …un sapore più netto rispetto ad oggi. Quello del protagonista è certamente il ruolo “perduto”, ossia il ruolo che l’età moderna ha maggiormente alterato nel suo carattere come nella vocalità. Tutti gli interpreti con cui siamo venuti in contatto, a cominciare da Francesco Tamagno, già ritirato all’epoca dell’incisione della sua Pira, ai De Muro e Caruso sino ai più recenti Pertile e Lauri Volpi, inclusi tenori di secondo piano come Scampini o altri di fama ancora minore che qui abbiamo omesso come Biel, Garcia o Valls, tanto per fare dei nomi, erano dotati di squillo. Non solo di perfetto dominio del registro acuto, ma di squillo vero e proprio. E tanto per intenderci sul significato che sino al dopoguerra si è attribuito alla parola squillo, abbiamo incluso una Pira dalla voce di un tenore ritenuto poco squillante e dotato in zona acuta, ossia Beniamino Gigli, per noi oggi squillantissimo. Pira per la quale non si ammetteva l’esecuzione senza puntature, con buona pace della filologia moderna, a cominciare proprio da Tamagno. L’esecuzione abbassata era prassi accettata e diffusa per i tenori, che non potessero eseguire il do come ad esempio Pertile, mentre anche altre interpolazioni venivano eseguite come quelle oggi del tutto desuete nella scena del Miserere, come udiamo ad esempio nella bellissima incisione della scena di Celestina Bonisegna e Augusto Scampini, quelle della canzone di ingresso oppure quella, bruttissima a mio avviso, in chiusa all’ ”Ah si ben mio”, ancora frequente nei 78 giri, o addirittura nella scena del convento da parte di De Muro. Acuti, ma anche un canto legato, a sostegno di un fraseggio più o meno articolato, funzionale alla creazione di un personaggio indiscutibilmente eroico, nobile, in alcuni casi malinconico, sempre virile. Colpisce in tal senso il modo di gestire la canzone di ingresso, Deserto sulla terra, eseguita con tempo lento, in alcuni casi lentissimo, come tradizione che va da Tamagno a Pertile. La malinconia pare essere un tratto prevalentemente moderno, di pochi, mentre i più preferivano conferire al brano il tratto di una nenia cantata da un eroe di guerra, come del resto ci dice il personaggio stesso. Il colore della voce di Manrico non era affatto prestabilita, variando da quella scurissima e baritonaleggiante di Caruso a quella chiara ed ampia di De Muro sino a quella adolescenziale e squillantissima di Lauri Volpi. Tutti sanno legare il suono con la voce, e, fatto per noi oggi assolutamente straordinario, legano anche i tenori di forza, legano e modulano il suono con assoluta facilità, mantenendo sempre un’emissione perfettamente composta e, soprattutto stilizzata. Stupisce la completa assenza di “fibra” o di sforzo in queste voci, che suonano sempre completamente libere ed astratte. Francesco Merli un prodigio vocale e di forza fisica, che ebbe questo ruolo in repertorio per trent’anni assieme a tutti i ruoli più pesanti del repertorio, canta con voce enorme, facile, legatissima e morbida, senza portamento alcuno al contrario di molti suoi epigoni, a cominciare da Franco Corelli, che finisce per essere un tenore di gusto deteriore al confronto. La lezione di Merli e di Pertile rappresenta la lettura toscaniniana del canto di Manrico, di un canto composto, sempre diretto sulle note, mai o comunque assai meno abusato e connotato da libertà esecutive quali quelle che si riscontrano in un Paoli, ad esempio, molto ottocentesco e “marconiano” nell’emissione dei suoni centrali come ben si percepisce nell’esecuzione dell’”Ah si ben mio”, seguito, peraltro, da una delle Pire di forza più impressionati dell’intero mondo dei 78 giri. Il loro è il canto cui noi siamo maggiormente abituati, mentre Paoli suona per noi arcaico e lontanissimo per gusto nell’esecuzione degli andanti, al contrario della cabaletta. Non è Caruso, dunque, a fare da spartiacque , come già altre volte, tra il tenore antico e quello moderno nell’evoluzione del gusto, forse anche perché cantò l’opera raramente. La sua incisione dell’aria, nel 1908, pare poco “carusiana” per il gusto, particolarmente varia per i suoi standard di fraseggio, e per nulla compiaciuta di certi vezzi tipici, il portamento soprattutto, che tanto fecero scuola tra i suoi epigoni. Il timbro scurissimo, piuttosto, in parte naturale in parte voluto, vera anomalia rispetto a tutti gli altri colleghi sino al secondo dopoguerra, sembra oggi la sola componente che lo accomuna a certi (malsani) esecutori di età moderna, che bitumano artificiosamente le loro voci. La sua Pira, va detto, pare essere il primo caso di manipolazione fraudolenta, in modo da far credere che Caruso eseguisse il brano in tono. Quanto poi alla seconda linea tenorile, quella più lirica e leggera che abbiamo visto in campo subito all’epoca della composizione dell’opera, trova ancora documentazione in voci come Piccaver o Dalmorès, famoso per l’esecuzione del trillo in chiusa all’ ”Ah si ben mio”, che suonano comunque assai più liriche e piene di quanto non abbiamo sentito, ad esempio, da un Pavarotti. Trovare morbidezza e lirismo in un esecutore abituale di Donizetti come Piccaver non stupisce, mentre và oltre ogni nostra aspettativa sentire una qualità di canto che noi oggi non conosciamo nemmeno nel belcanto in un tenore solito a praticare il Verismo più spinto come Bernardo De Muro, che ricorda per molti aspetti il canto spinto all’estremo delle proprie risorse di Lauri Volpi, che, ad onta della sua planetaria fama come più grande Manrico di tutti i tempi, non ci ha lasciato una esecuzione di “Ah, si ben mio” e Pira cantante con quel timbro adolescenziale che tutti conosciamo attraverso i live della sua tarda età. L’incisione Brunswick del 1923, infatti, è quella del Lauri Volpi antecedente l’incontro con Maria Ros, quando il tenore ancora imitava apertamente i modi di Caruso di scurire il suono. L’esecuzione, comunque, resta straordinaria per accento e squillo. Per quanto concerne il personaggio di Leonora, fortemente caratterizzato da una componente belcantistica e da una tragica contrapposte, i 78 giri documentano assai limitatamente la prima. O meglio, la riscontriamo nel canto di primedonne tecnicamente straordinarie, dall’emissione perfettamente astratta almeno in zona centro acuta, in grado di amministrare con scioltezza i passi di agilità, complice la precoce affermazione della prassi del taglio della cabaletta successiva al Miserere, reintrodotta in età moderna. Si tratta, comunque, di soprani eccezionali anche per il gusto sobrio, modernissimo, come la Raisa, prima, la Russ o l’Arangi Lombardi o la stessa Muzio, che portarono in teatro un titolo come la Norma senza cadere nelle contaminazioni del gusto verista. Soprani che praticavano abitualmente il repertorio spinto o drammatico, e con loro anche la Rethberg, di cui ci resta solo il finale live con Martinelli dal Met, già pubblicato nella puntata precedente, capaci di accentare in modo composto ma vario, insomma di esprimere sempre solo con il canto. E’ in questa loro arcaica perfezione di tecnica unita a strumenti privilegiati per timbro ed estensione, le prime due in particolare, che risiede la peculiarità di un canto estraneo ad ogni inflessione di tipo naturalista destinato ad estinguersi di lì a poco. Soffrono entrambe nel registro grave, l’Arangi forse un po’ meno della Raisa (che però sale con straordinaria facilità al re bemolle), mentre di loro la più perfetta anche nei gravi fu certamente la Rethberg, ma fraseggiano con un pathos ed una poesia ( la Muzio poi, laddove non arriva con il suo strumento arriva con la spontanea ricercatezza ed fantasia del suo emozionante fraseggio ) che dopo di loro solo la Callas, la Cerquetti e la Gencer hanno saputo avvicinare. E’ la sola Amelita Galli Curci a rappresentare, nel mondo dei 78 giri, il filone del belcantismo puro, dato che all’incisione delle arie la Tetrazzini ( che esegue male, fra l’altro, la scena del quarto atto ) non diede alcun seguito con l’esecuzione dell’opera in teatro. La Galli Curci con la sua ampia voce cristallina da leggero purissimo, lascia la sensazione di trovarsi al cospetto di una grandissima artista diva piuttosto che di Leonora, una diva che voleva, in virtù della natura sonorissima del mezzo, cimentarsi al di là della propria natura vocale, antesignana dichiarata delle performances newyorkesi della Sutherland, ma non so in che misura aderente all’arcaico modello della più grande belcantista ottocentesca, cioè la Patti e la Grisi. Al loro fianco le voci stupende della Ponselle, più comuni, ma elegantemente amministrate di soprani spinti di secondo piano come la Spani, che esegue benissimo la cavatina, o di dive veriste al cento per cento come la Destinn, che nel Miserere offre una prova perfetta del modo sopra le righe e retorico di approcciare il passo più drammatico e di scrittura grave dell’opera. Arrivano i suoni aperti e sbiancati, le note di petto ed un fraseggio abbastanza esteriore. Meglio certe italiane, come la Bonisegna, estesissima nei gravi tanto da arrivare a cimentarsi anche con le incisioni delle scene di Azucena, oppure la Minghini Cattaneo, davvero poderosa in questa scena. Della Caniglia e della Cigna vi abbiamo già dato documentazione nella puntata precedente. La scena che, nel post Callas che ha fortemente liricizzato ed alleggerito il peso specifico del ruolo, non ha poi più trovato esecutrici in grado di amministrare la scena con la forza, a volte certamente esagerata per il nostro gusto, tipica dei soprani drammatici. Per quanto attiene il ruolo della zingara, i 78 giri in italiano documentano ancora mezzosoprani di caratura belcantistica come Eugenia Mantelli, Azucena numerose volte al Met alla fine dell’Ottocento e con Francesco Tamagno, o Ernestine Schumann-Heink, qui nella celeberrima incisione dell’ultima scena con Enrico Caruso, cui si affiancavano altre interpreti straniere che vedremo nel volume dedicato alle esecuzioni in lingua. Queste interpreti restituiscono la dimensione ottocentesca a metà tra retaggio belcantistico e nuova vocalità del mezzosoprano verdiano di cui parlammo nella prima puntata e che si perse nei primi decenni del novecento, a favore di un personaggio meno raffinato e rifinito sul piano vocale. Ne è un esempio Elvira Casazza, l’Azucena più famosa precedente “l’impero” di Ebe Stignani, che con il suo arrivò ripristinò stile, emissione perfetta ed eleganza esecutiva del personaggio. Nessuna di queste cantanti del pre Stignani si abbandona mai al canto sgangherato e volgare di Fedora Barbieri. Possono avere magari la voce con due registri non omogeneizzati, come la Casazza appunto, o cantare con ampio uso del registro di petto oltre il nostro gusto moderno come la Minghini Cattaneo, voce peraltro bellissima oltre che ampia, che canta disordinatamente il "Deh rallentate o barbari" o la Zinetti, che, al contrario, è volgare nel "Giorni poveri vivea" ma regge meglio la stretta della scena, mai si abbandonano ad una dimensione becera e volgare della zingara e che le moderne Azucene, vuoi per limiti tecnici vuoi per gusto deteriorato, sovente ci restituiscono. Quanto ai baritoni c’è assi poco da dire. Voci ampissime come pure voci di normale tonnellaggio si sono cimentati nell’incisione dell’aria del Conte di Luna, che non è esattamente un must che interessasse ai grandi cantanti incidere per documentare le proprie virtù canore. Mattia Battistini rappresenta il modo ottocentesco di eseguire il duetto con Leonora ( l’incisione dell’aria risulta perduta..), sempre composto, elegante, estraneo ad ogni truculenza moderna che da Tagliabue e MacNeil in poi ci viene regolarmente propinata ad ogni produzione di Trovatore, buona e non ultima quella parmigiana. Eppure come il re dei baritoni cantavano no solo le star, di mezzo limitato come De Luca o importante come Galeffi, ma anche, e soprattutto per noi oggi, le voci di secondo piano. Abbiamo già proposto nel leggendario video Giacomo Rimini, marito di Rosa Raisa, o una coppia più ruspante, la Poli Randaccio con Inghilleri. In questa puntata ho scelto un’esecuzione più tarda, anni ’30, di Enrico Molinari, che incise l’opera con Francesco Merli e Bianca Scacciati. Esecuzione strepitosa per il legato, la morbidezza di emissione, la facilità del canto, un canto fin troppo regale per la rozzezza del personaggio. Molinari canta porgendo ogni frase quasi si trattasse del Re di Favorita, eppure no toglie nulla al profilo drammaturgico del personaggio, che di fatto è caratterizzato da una psicologia, posticcia, falsa, come in una fiaba. Quanto al ruolo di Ferrando, si tratta di rare incisioni, quasi delle curiosità da parte di celebrità come Ezio Pinza, o Nazareno De Angelis, rari ma eccezionali interpreti della scena iniziale, la cui presenza in teatro poteva essere un lusso per produzioni particolari, ma più frequentemente una presenza legata ad altre in ruoli più rilevanti nelle tournée dei grandi teatri.

Gli ascolti Giuseppe Verdi Il trovatore
Atto I


Abietta zingara - Ezio Pinza (1923)

Tacea la notte placida...Di tale amor che dirsi -
Hina Spani (1919), Rosa Ponselle (1922), Maria Nemeth (1927), Claudia Muzio (1935)

Deserto sulla terra - Francesco Tamagno (1903), Bernardo De Muro (con Ernesto Badini - 1917), Augusto Scampini (1912)
Di geloso amor sprezzato - Giuseppe Pacini, Giannina Russ & Luigi Longobardi (1905)

Atto II

Stride la vampa
Armida Parsi-Pettinella (1904), Eugenia Mantelli (1905) Condotta ell'era in ceppi - Armida Parsi-Pettinella (1909)

Mal reggendo all'aspro assalto...Perigliarti ancor languente - Enrico Caruso & Louise Homer (1910), Bernardo De Muro & Elvira Casazza (1917), Aureliano Pertile & Irene Minghini-Cattaneo (1927)

Il balen del suo sorriso - Giuseppe De Luca (1907), Riccardo Stracciari (1917), Enrico Molinari (1930) E deggio e posso crederlo? - Bernardo De Muro & Janni, Badini & Bettoni (1914)

Atto III

Giorni poveri vivea - Armida Parsi-Pettinella (con Pasquale Amato & Ferruccio Corradetti - 1909), Irene Minghini-Cattaneo (con Apollo Granforte & Bruno Carmassi - 1930), Giuseppina Zinetti (con Enrico Molinari & Corrado Zambelli - 1930)

Ah sì, ben mio - Enrico Caruso (1908), Antonio Paoli (1911), Bernardo De Muro (1917), Alfredo Piccaver (1923), Giacomo Lauri-Volpi (1923), Aureliano Pertile (1925), Francesco Merli (1930)

Di quella pira - Francesco Tamagno (1903), Antonio Paoli (1911), Giacomo Lauri-Volpi (1923), Francesco Merli (1930), Beniamino Gigli (1940),

Atto IV

Timor di me?...D'amor sull'ali rosee - Rosa Raisa (1918), Amelita Galli-Curci (1918), Giannina Arangi-Lombardi (1927)

Miserere - Celesina Boninsegna & Augusto Scampini (1907), Emmy Destinn & Giovanni Martinelli (1912), Irene Minghini-Cattaneo & Aureliano Pertile (1927)

Mira d'acerbe lagrime...Vivrà, contende il giubilo - Elvira Barbieri & Mattia Battistini (1913), Giannina Arangi-Lombardi & Carlo Galeffi (1928), Tina Poli-Randaccio & Giovanni Inghilleri (1929)

Ai nostri monti - Enrico Caruso & Ernestine Schumann-Heink (1910), Beniamino Gigli & Cloe Elmo (1940)

No, non m'inganna quel fioco lume - Giovanni Zenatello, Ester Mazzoleni & Elisa Bruno (1908)

Read More...

venerdì 25 marzo 2011

Stagioni 2011-12: la Quaresima perpetua. Stazione seconda: il Met

La nuova stagione del MET è il più fedele ed esemplare specchio dei tempi, che corrono nel teatro d'opera.

Il MET è sempre stato un teatro esemplare, almeno nei suoi primi cinquant'anni di vita, per organizzazione, ricchezza di proposte, abilità ed avvedutezza di gestione.
Non per nulla Gatti - Casazza, il manager più significativo nella storia del teatro, era un ingegnere e non mi risulta avesse studi musicali, se non hobbistici, benchè figlio di impresario teatrale.
Esemplare per scelta di titoli, esemplare perché talvolta offrì asilo politico e culturale a chi, grande artista, altrove non poteva esprimere la propria arte. Mi vengono in mente due nomi per tutti: Bruno Walter ed Alexander Kipnis. Esemplare perchè spesso il teatro Newyorchese fu il baluardo di concezioni interpretative altrove messe al bando. Richiamo al Wagner cantato e non parlato ovvio e scontato esempio.
Va anche sottolineato come questo teatro sia stato, per contro, negli ultimi trent'anni ancorato a repertori e schemi interpretativi ed organizzativi, che esemplari un tempo appaiono censurabili oggi o quanto meno datati.
Anche qui un po' di esempi, come le censure e le perplessità innanzi i "desiderata" di una diva come Marylin Horne o la assenza di titoli donizettiani nei periodi in cui questo repertorio ebbeinterpreti di riferimento.
Sul Rossini tragico proposto nelle ultime stagioni, piuttosto che sulla "Anna Bolena", che inaugura la stagione 2011 - 2012 e che per certi versi costituisce il titolo simbolo della rinascita donizettiana il massimo teatro americano arriva inesorabilmente tardi. Negata ad una Sutherland, ad una Caballé o ad una Scotto, Anna Bolena per l'onerosità della parte sia sotto il profilo vocale che interpretativo non può certo trovare in Anna Netrebko, che non canta più "Traviata" da tempo, un'interprete congrua. L'idea di proporre, poi, nelle stagioni prossime a venire la cosiddetta trilogia Tudor è la fima ad idee scontate e superate. Da teatro provinciale per idee italiano o francese.
È solo un esempio, altri dobbiamo aggiungerne, come la Fleming che riprende a distanza di dieci anni la sua ben poco handeliana Rodelinda, regina dei Longobardi, in compagnia del fior fiore dei surrogati di castrato Andrea Scholl, il cui volume vocale rende certa una pesante amplificazione vocale.
I cast di Aida (con Violeta Urmana e Marcelo Alvarez), Ernani (Meade, Licitra, Furlanetto, Hvorostovsky) della new production di Faust con Kaufmann e Alagna nel ruolo protagonistico,nonché René Pape e la Poplavskaya, la tetralogia dove appaiono i fantasmi di Deborah Voigt e Terfel o il Nabucco con quello della Guleghina ed il Macbeth con quello di Hampson, costituiscono antologico florilegio dei più quotati, pagati, non sempre acclamati e mai all'altezza di cachet e fama, divi dello star system.
Due posizioni mi sembrano da segnalare al pubblico, ovvero il concerto solistico di Jonas Kauffman e la "Traviata" di Natalie Dessay.
Invito chi mi leggere a scorrere il sito della cronologia del MET per verificare la circostaza che nessuno dei grandi tenori che calcarono le scene del MET (e parlo di De Reszke, Caruso, Gigli, Tucker) mai ebbero l'onore e l'onere del concerto solistico. Del pari non posso omettere di segnalare perplessità sia circa l'adeguatezza che l'effettiva presenza della signora Dessay nei panni della "mantenuta" verdiana. Non è presunzione non è cattiveria, ma semplice raffronto fra le esigenze vocali ed interpretative della parte e vocali lugduniense.
Tutto questo rientra nell'esemplarità del MET, un tempo gli acclamati soprani e baritoni del teatro cantavano nel volgere di un mese tre o quattro parti e comparivano in cinque o sei stagioni per produzione. Siccome internet serve a smentire i bugiardi invito sempre a consultare la cronologia del MET usando come motore di ricerca i nomi di Caruso, Gadski, Gigli, de Reszke, per citarei primi che mi vengono in mente. Insomma i protagonisti di tante e tante "favole di Giulia Grisi"
Oggi, invece, i divi passano da un forfait all'altro, inanellano cancellazione per l'assunzione di ruoli impossibili o per tentarne degli altri inadeguati.
Come sempre siccome la storia non si fa con le chiacchiere, saranno i fatti ovvero applausi e disapprovazioni, che iniziano a comparire anche al MET a smentirmi, come mi auguro. A darmi ragione, come son certo.



Gli ascolti

Mozart - Don Giovanni

Atto I - Ah chi mi dice mai - Maria Müller (con Ezio Pinza e Virgilio Lazzari - 1934)


Verdi - Ernani

Atto III - Si ridesti il Leon di Castiglia - Dimitri Mitropoulos (1956)


Verdi - Traviata

Atto I - E' strano...Ah fors'è lui...Sempre libera - Amelita Galli Curci (1919)


Verdi - Aida

Atto III - Pur ti riveggo mia dolce Aida...Ma dimmi...Di Napata le gole...Traditor! - Beniamino Gigli & Zinka Milanov (con Carlo Tagliabue, Bruna Castagna & Ezio Pinza - 1939)


Wagner - Götterdämmerung

Atto III - Starke Scheite - Lillian Nordica (1903)







Read More...

mercoledì 23 marzo 2011

Flauto magico alla Scala

Diretta televisiva tra le ultime nevi di stagione in montagna e poi seconda recita dal vivo.
Un Flauto Magico incardinato sull’allestimento di un famosissimo artista contemporaneo, William Kentridge, che da solo ha prodotto tutto quanto avesse da dire questo spettacolo, sul piano musicale abbastanza incolore e noioso, atto II soprattutto.

Siamo stati attratti e distratti dalla produzione pensata con abbondanza di trovate dal signor Kentridge, che ha fondato il suo allestimento sull’adozione di retroproiezioni sui fondali avanti ai quali si svolge l’azione. Con le immagini Kentridge ha individuato l’essenza del pensiero del XVIII secolo: l’immagine scenica moderna trova la sua antenata negli albori del cinema alla Lumière, prima ancora nei dagherrotipi e nella camera oscura, prima ancora nei principi dell’ottica e nella rivoluzione scientifica newtoniana. Proprio l’Opticks era stata la vera via di divulgazione della moderna concezione dell’universo nel XVII secolo, quella del sistema solare più volte proiettato sul fondale, che attraverso l’illustrazione di saperi accessori, dai principi dell’ottica, proiettati subito in coincidenza della presenza in scena di una camera oscura e poi di dagherrotipi, giungeva a far corrispondere gli intervalli di colore con l’ottava musicale. La massoneria “retropresente” nel Flauto è rappresentata senza mezzi termini dal regista con un coro e Sarastro in abiti borghesi, e l’allusione è ai circoli intellettuali e laicizzati di mezza Europa. L’uomo illuminista scruta con un cannocchiale lo spazio del cielo, perché finalmente può cogliere razionalmente lo spazio e dominare la natura infinita, mentre la sfera celeste ove appare la Regina ritorna come nelle immagini della prima dell’opera, alla Schinkel. Dopo i confini della scienza, l’uomo moderno, Tamino, esploratore in abiti ma, soprattutto, per attitudine mentale, si spinge lontano, nell’antico delle origini, quindi le proiezioni di templi neogreci e neoegizi, altro topos dell’architettura settecentesca, ma anche nell’oriente esotico vero e proprio, quindi i palmizi e Monostatos non più nero, ma con fez e frustino, come i mercanti di schiavi, sino alla proiezione della caccia grossa in bianco e nero.
Il primo atto dell’opera di fatto esaurisce l’idea brillante e sapiente del regista, che non trova però altrettanta forza in quello successivo. Non manca l’occhio massonico entro la piramide nella scena dei monaci, citazione obbligatoria per la metafora del rito massonico che si svolge in scena, ma poi le proiezioni perdono la pregnanza precedente, per divenire mero movimento di fondo, bella e scenografica ripetizione. Molto garbata e graziosa la regia, con piccole gag e trovate simpatiche mai eccessive. In definitiva, una bella idea ben realizzata anche se non sull’intero arco dell’opera.

Certo, il regista non ha trovato nel maestro Böer un compagno di viaggio all’altezza. Con buona pace delle grandi parole per lui spese dal sovrintendente Lissner nell’intervista televisiva, il maestro Böer non ha fatto nulla che fosse degno di nota, a meno di aprire lentamente la valvola del gas e narcotizzarci con la sua noiosa concezione di Mozart. Chi scrive non vive nel dogma dell’assolutezza ed immensità del genio salisburghese, men che meno dell’indiscutibile perfezione del Flauto Magico, ma sono ben lontana dall’accettare che questa opera venga restituita con tale piattezza, monotonia ed assenza di fantasia. Al contrario, credo che Mozart cristallizzi in sé tutte le mille diverse facce del tardo settecento, e parecchio del poi e del prima, catalizzati da una fantasia creatrice senza limiti e da una speciale capacità di scrivere grande musica per ogni situazione drammaturgica e genere, cambiando continuamente da una scena all’altra.
La bacchetta di questa produzione, però, latita non riuscendo a trovare colori e differenze tra le scene, al punto di sbagliare proprio la cifra dell’opera nella seconda parte, trasformando il clima dell’azione scenica in quello delle farsette comiche della scuola napoletana (….si veda incredibilmente la scena delle prove di Tamino e Pamina ). E’ vero che Mozart ha messo in musica una favola, ma una favola assai speciale, metafora del divenire uomini in senso intellettuale e massonico. Laddove la favola và oltre e diventa simbolo, per noi oggi coglibile forse solo in parte, il clima da farsetta napoletana non si dà, perché cori di monaci, riti di iniziazione e prove, simbologie ed allusioni tanto pregnanti e rilevanti per l’epoca, non appartengono all’opera napoletana. Il ridotto coro di una dozzina di signori in panciotto ( i massoni dichiarati dal regista..) accompagnato da una orchestra di grandi dimensioni è una contraddizione in termini di rapporti sonori che tradisce il significato magico e mistico della scena, tanto per esemplificare….
Non so quanto l’estetica moderna baroccara inquini effettivamente le esecuzioni contemporanee di Mozart o se si tratti proprio di una nostra moderna concezione di questo musicista, quale manierato cicisbeo asfittico ed esangue, concezione riduttiva ed errata dell’epoca come del musicista, tra l’altro in netto contrasto con i riferimenti colti e puntuali espressi del regista. E’ abituale oggi udire meccanici e nevrotici plin plin nei momenti veloci, noia e torpore nei tempi larghi anziché respiro o lirismo o solennità. L’azione non è mai sostenuta con nerbo dall’orchestra, le scene scorrono l’una identica all’altra. Vi vorrei invitare all’ascolto di quel capolavoro di archeologia musicale che è il Flauto salisburghese di Toscanini per risentire una direzione davvero vitale, fantasiosa, varia e “di tocco” ……..
Questo è un Mozart filologico o un Mozart mal eseguito? O frainteso? O tradito? Perché a me pare che troppo spesso oggi si tenda a dare il nome di “filologia” a cattive o mediocri esecuzioni, come quella cui abbiamo assistito questa sera.

Quanto al canto, non si decampa dallo stesso quesito retorico: filologia o malcanto?
Che Tamino sia quella creatura eunucoide e senza personalità che i moderni tenori “specialisti” ci obbligano a sentire, con le loro voci falsettanti e gli acuti bianchi ed indietro, è cosa tutta da dimostrare. Anzi, è cosa falsa, dato ciò che si cela ( mica poi troppo!) dietro il principe della favola, ossia l’uomo moderno. Per me Tamino deve avere un’identità sessuale nota e chiara, essere un principe della ragione e non sospirare come una servetta innamorata. Tamino canta, con lirismo e stile. Canta come Roswaenge o Wunderlich, non come il signor Pirgu e affini, con la sua affettazione esagerata, o come il signor Davislim, che avrebbe un mezzo in natura più adatto al ruolo ma non sapendo affatto girare gli acuti tutta sera si arrabatta falsettando pure lui.
E con lui anche Pamina, la signora Kühmeier, garbata ma ahimè pure lei manierata e terribilmente fissa, priva di colori e di un minimo di vitalità vocale, un mezzo naturale minimo, cui bastano i quattro passaggi di “Ah, ich fühl’s ” per metterla in difficoltà.
Meglio il signor Esposito Papageno, forse il solo del cast che si ricorda di essere vivo, che cerca sempre un senso e delle intenzioni in ciò che canta. Lo fa con un bel tedesco ma con un mezzo che poco realizza il canto legato e l’emissione corretta, ma comunque meglio degli altri, pur non abbandonando il suo ampio repertorio mimico gestuale già visto all’identique nel Leporello.
La Regina della Notte della signora Shagimuratova mi è piaciuta più alla seconda rappresentazione che in televisione. Ha bei sopracuti, mediocre coloratura, buon suono al centro che si assottiglia molto in alto. Le manca però l’ampleur della Regina, eseguendo velocissimamente la prima aria con poco mordente nelle agilità, quindi …di fatto una Regina buona, per nulla terribile.
Insignificante il Sarastro del signor Groissböck, che canta correttamente e compostamente con un mezzo modesto, di bassa sonorità e senza fraseggio. E con lui Papagena, e gli altri rimanenti. Vocine.













Read More...

domenica 20 marzo 2011

I Vespri Siciliani a Torino

Quando un governo afferma ripetutamente di voler riconoscere e premiare il merito individuale, quindi di essere contrario a finanziamenti distribuiti a pioggia che non attuino dei distinguo nell’operato di chi amministra, dovrebbe dare alle proprie enunciazioni anche una conseguente realizzazione nei fatti per essere credibile. Con i tagli al Fus si sono operate drastiche riduzioni delle possibilità di fare per tutti i teatri italiani, con limitatissime eccezioni individuate in realtà di grande fama internazionale. Giusto o sbagliato che sia, il principio guida adottato dal governo resta, per noi melomani, evidentemente in contrasto con le enunciazioni di principio, diversamente il Teatro Regio di Torino avrebbe dovuto essere la realtà prima italiana premiata per i fatti concreti e non per l’altisonanza del nome.


E’ tradizione che nel nostro paese quando si arrivi al momento di riconoscere a questo o a quello delle virtù superiori scattino tutta una serie di meccanismi da cui non riusciamo a liberarci causa l’abitudine antica a pensarla in un certo modo, dalle paure per le polemiche alle rivendicazioni sindacali o di parte, dai vincoli politici al sentito dire consolidato, ora pure la “logica del nome”, per cui di fatto si afferma sempre la legge del più forte (che non è sempre il migliore), l’agognata meritocrazia finisce chiusa nell’armadio e del meritevole tutti si scordano.
Eppure se si vuole che qualcosa cambi nel disastro generale, perché un segnale occorre darlo non solo al pubblico ma anche a chi i teatri gestisce, occorre premiare chi all’interno delle regole, uguali per tutti i teatri al nord come al sud, ha fatto meglio, senza creare scandalose voragini milionarie e riuscendo a mantenere un certo livello medio degli spettacoli.
La richiesta generica di ricolmare i tagli al Fus da parte di intellettuali e maestranze è lecita ma forse inattuabile nella realtà della nostra economia, perciò destinata a restare lettera morta, proclama retorico in favore della cultura minata dalle fredde leggi dell’economia. Forse lo è meno fare eccezione per chi è stato effettivamente virtuoso, riconoscendo ciò che il pubblico abituale dell’opera ha percepito con chiarezza dal teatro piemontese. Forse non sarebbe retorico e nemmeno eccezionale ma doverosa e giusta individuazione e premio per comportamenti non dico esemplari o perfetti, ma senz’altro migliori di altri tenuti in altri teatri, come ancora lo spettacolo di ieri sera, tutt’altro perfetto, ha dimostrato.
Smettiamo di fare eccezioni o di investire sempre sui potenti spreconi e cominciamo a farlo, al di là delle logiche politiche, per chi merita, per chi ha fatto meglio, per chi ha evidentemente saputo metterci qualcosa di più in ogni produzione, perché coro ed orchestra del Regio, dopo tanto Boris, tanto Parsifal e tanti Vespri possono ben stare orgogliosi a braccia alzate sulla scena, come hanno fatto alla recita del Parsifal cui ho assistito.
Ed anche con il forfait della diva protagonista ieri sera, il Regio è riuscito ad allestire uno dei must più difficili di Verdi e ad uscire dalla difficile prova con onore e dignità, allestendo una produzione funzionante sul piano musicale anche se non perfetta.

In primo luogo, i cantanti. Come finalmente ha detto apertamente il maestro Noseda nell’intervista radiofonica, senza cantanti l’opera non si fa, la buca da sola può suonare fin che vuole, ma se non si canta sulla scena, non si va da nessuna parte. Finalmente, ripeto, dato che i direttori d’orchestra moderni, non appena maturano una certa fama e notorietà, si fanno prendere dalla sindrome del “basto io..”: Noseda ha almeno riconosciuto che le cose non stanno così, e questo fa piacere.
Trovare interpreti all’altezza di uno spartito come i Vespri siciliani è sempre stata impresa difficilissima, perché soprattutto quelli di soprano e tenore sono due ruoli monstre della storia della vocalità. E mentre possiamo enumerare alcune straordinarie interpreti di Elena, sul ruolo di Arrigo conosciamo interpreti meno felici e famosissimi….assenti. E proprio sul ruolo di Arrigo Torino ha fatto la scommessa più azzardata della produzione, rivolgendosi fuori dal novero delle voci che normalmente praticano Verdi. Ha privilegiato l’esperienza ed un bagaglio tecnico oggi ignoto ai tenori verdiani, rischiando sul peso specifico e, soprattutto, sull’età del tenore prescelto. Già, perché i Vespri, oltre che pesanti sul piano drammatico per un ex contraltino rossiniano ( …oggi oramai tuttologo a tutti gli effetti ), hanno nella lunghezza smisurata una delle maggiori componenti di difficoltà della parte. Gregory Kunde, come abbiamo udito a Bergamo, soffre e mostra la corda e l’età se canta tessiture orizzontali di grande ampiezza, ma si trasforma, o meglio, maschera certi suoi odierni difetti legati alla lunghissima carriera, laddove la scrittura si muove e si impenna, come già nel Tell immediatamente successivo al Poliuto ( e potremmo riaprire la discussione su Nourrit Poliuto che sospendemmo per ritmo di blog ma…..). A meno della scena “Giorno di pianto”, centrale e per lui visibilmente faticosa ( impeccabile però l’esecuzione agitata della chiusa, ove i tenori di solito inciampano ), ha retto la parte con una scioltezza invidiabile ed impressionante se si considerano, poi, la sua natura vocale e la sua età, trovando anche accenti giusti ed una esecuzione precisa e mai brada. Qualche stonatura e/o forzatura in certi momenti come al duetto del II atto con Elena, nell’”Addio mia patria”, passaggi con certe sue legnosità sentite altre volte, ma nel complesso una prova impressionante, soprattutto al tremendo quarto atto. Il timbro è il solito, ma la perizia, facilità e la sicurezza esibite nella serata, Siciliana compresa, mi paiono dimostrare ….che i belcantisti di ieri erano cantanti incomparabili sul piano tecnico con quelli delle generazioni successive. Complimenti davvero.

Sostituta del secondo soprano originariamente prescelto, Tamar Iveri, e sostituta all’ultimo della titolare Rodvanovsky ( le protagoniste designate in origine non hanno smentito il pronostico che facemmo a settembre, all'epoca della presentazione della stagione, contrariamente a Gregory Kunde ), Maria Agresta ha stupito, andando oltre le aspettative. Non ho mai sentito questa cantante in teatro, e parlo per mero ascolto radiofonico. Ha gestito una parte che richiede una voce di peso ed estensione maggiori alla sua, che è meramente lirica, con pertinenza e bell’aplomb musicale, cercando sempre di non essere piatta ma di fraseggiare, come nell’”Arrigo, ah parli un core”. I suoi momenti migliori sono stati quelli in zona centro alta, gestiti con facilità nel passaggio superiore ( anche nel finale dell’”Arrigo, ah parli…” ha cercato le smorzature, non perfettamente riuscite ma comunque provate per cantare come si deve cantare il passo… ), meno in tessitura grave ove sul primo passaggio la voce non gira. Frasi davvero infelici quelle di petto e sguaiate precedenti l’aria nella scena del carcere ( e che Noseda avrebbe dovuto moderare ), meno sgradevoli certi passaggi nell’entrata, di scrittura assai grave, eseguita con compostezza. Però, pur con un mezzo leggero e forse nemmeno abbastanza ampio, è andata fino alla fine con sicurezza, si è ben disbrigata nel Bolero ( …senza trilli ), ha retto il peso dei concertati, il “Patria adorata” soprattutto, che spetta ad Elena tirare, anche con un centro spesso non perfettamente “coperto.” Sarò stata benevolente ieri sera, ma ho trovato serietà in questo approccio da parte di chi si è trovata in pole position in una simile occasione e con un simile ruolo. E non ho potuto fare a meno di pensare al recente Verdi festival, in cui la signora Agresta ha cantato senza esiti una Odabella che non dovrebbe cantare, mentre con Elena ieri sera ha voluto farci pensare di essere stata il miglior soprano passato da Parma da settembre ad oggi. Paradosso o realtà, stabilitelo voi.

Meno bene Procida e Monforte. Ildar Adbrazakov è un cantante per natura composto e statico, dalla voce bella ma non ampia e ricca. Ha dato vita ad un Procida corretto, ma incolore, per nulla statuario, perché vero basso di ampleur da Verdi non è. Nell’aria, infatti, ha anche forzato la voce per darle un corpo che non ha, ma è stato un canto innaturale e, per forza di cose, piatto, sempre forte. Quando il personaggio deve svettare, come nel concertato “Addio mia patria”, il basso russo non svetta, resta inerte, anche perché in alto la voce non ha proiezione.

Orribile Franco Vassallo. Ha un mezzo naturale di qualità ragguardevole, ma canta muggendo, dando di naso, digrignando il suono di continuo, gli acuti indietro. Ne è uscito un Monforte truculento, becero…una sventura per le orecchie cui il maestro Noseda avrebbe dovuto dire qualcosa, un suggerimento di moderazione. Spiace, in un mondo senza baritoni, che le poche voci di qualità siano gestite con siffatti limiti tecnici e, soprattutto, culturali, perché alla base di questo modo di intendere il canto in corda di baritono c’è un consolidato gusto deteriore. Eppure i dischi di Tagliabue, di McNeill, di Bruson, ma anche degli Zanasi etc sono disponibili in commercio, ed affrancherebbero questi cantanti, almeno in parte, dalla tradizione stile Carroli, Gavanelli.etc.. E starebbe anche alle bacchette dire loro qualcosa, come i Serafin o i Mitroupulos sapevano fare con i beceri incalliti alla Guelfi…

Gianandra Noseda ha diretto bene, assai meglio della Traviata dell’anno passato. Più a suo agio in una partitura di questo tipo, ha diretto con sicurezza, bello stacco di tempi, tensione drammaturgica, bel suono. Non mi è piaciuto nella seconda parte del secondo atto, quella che segue il duetto Elena Arrigo, e all’ingresso del quinto, cioè nelle scene di colore, prive di quelle suggestioni cromatiche tipiche del Grand’Operà e, soprattutto nel secondo atto, davvero pesante. Però ha dato un bel nerbo alle scene d’assieme come al preludio, ed ha accompagnato bene il canto ( forse un po’ lento per i cantanti la sezione centrale del duetto Arrigo Monforte..). Tutto però è stato diretto con sicurezza evidente, senza scollamenti, e conferendo all’opera la giusta cifra senza astrusità, fracasso, etc. Senza tante parole o annunci, una bella e convincente direzione di un maestro italiano più bravo che sponsorizzato.

Della retorica di Livermore, che ha profittato degli osannanti telecronisti Rai per scagliarsi contro i cosiddetti puristi e la loro supposta "voglia di alabarda" (sic), non voglio dire nulla. Ha scelto la via della lettura politica di un testo che ha un soggetto politico, quindi un'idea che in astratto aveva perfettamente senso. Concepire un'idea è cosa diversa dal fatto di poterla e saperla sviluppare. La realizzazione pratica mi è parsa più un omaggio alla nostra storia recente (omaggio connesso alle celebrazioni del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia) che non una effettiva rilettura d’attualità dei Vespri siciliani, che il regista ha dovuto forzare, e non poco, per infilarci dentro la propria visione, cadendo per giunta nei soliti cliché, ma, sopratutto, nell'ideologica equiparazione di un invasore straniero alla mafia: vespri siciliani e mafia anche sul piano storico nulla hanno in comune. Un esempio, poi, fra i molti possibili di abuso di chichè frusti e decotti, quello relativo al ruolo dei media : Elena canta il Bolero seguendo il "gobbo" e attorniata da ballerine che sembrano uscite da uno show di Renzo Arbore. Una idea così forte da risultare forzata, a tratti grottesca e involuta (i cattivi con la mascherina color carne, il finale che vorrebbe essere simbolico ed è solo raffazzonato e sbrigativo). Resta uno spettacolo a se stante, che però con il clima, le atmosfere e certi significati fortemente ottocenteschi insiti nei Vespri poco c’azzecca, per non dire che confligge apertamente. Ma l’occasione in cui la produzione ha avuto luogo era fortemente celebrativa, densa di significati attuali assai pregnanti, dunque, data l’occasione va bene così, ne accettiamo la retorica ma anche la superficialità ed i luoghi comuni. A condizione di non riscoprirli, identici a se medesimi, nella prossima regia, magari gluckiana o pucciniana.




Read More...

venerdì 18 marzo 2011

Stagioni 2011-12: la Quaresima perpetua. Prima stazione: Teatro Real di Madrid

È stata presentata in questi giorni la prossima stagione del teatro madrileno. La prima della quale il direttore artistico Gérard Mortier si sia assunto pubblicamente, e con orgoglio, la totale paternità.

Con l’annunciato cartellone la dirigenza del teatro si propone di attrarre nuove fasce di pubblico. Magari sbarazzandosi di una buona parte dei frequentatori storici, che in passato hanno regalato al teatro grandi trionfi e altrettanto clamorosi tonfi. Buon ultimo quello dello Chénier dello scorso anno, che costrinse la radio spagnola a sospendere la trasmissione in diretta dello spettacolo.
Di certo il repertorio, così come concepito dal melomane ottuso e passatista, à la Grisi insomma, esce da questa stagione polverizzato o quasi.
Scompare del tutto il Settecento, con la sola eccezione (non molto fantasiosa, a dire il vero, e quasi degna dei certo meno illuminati programmatori di stampo tradizionale) di Mozart, del quale vengono proposti due titoli, uno serio e uno comico (quest’ultimo in forma di concerto). Il serio è ovviamente La Clemenza di Tito: pretendere un Silla o un Mitridate, ma anche un Idomeneo, sarebbe certo follia pura. Quello che inquieta, come quasi sempre avviene in queste produzioni, è il cast, capitanato da Yann Beuron (che già offrì modesta prova delle proprie capacità quale Idamante in Aix) e Kate Aldrich, di ritorno alle scene dopo il lieto evento che la spinse al forfait quale Cenerentola a Pesaro la scorsa estate (ma che non le impedì di essere, a distanza di poche settimane, una Carmen alquanto discussa all’Arena di Verona). Il resto del cast, direttore compreso (Hengelbrock, reduce dalla Norma “della” Bartoli), sarà verosimilmente fonte di ulteriori perplessità. La regia è quella, collaudatissima, dei coniugi Herrmann, che si vide fra l’altro anche a Parigi durante il regno di Mortier. La Finta Giardiniera sarà invece affidata alle cure filologicamente corrette di René Jacobs e a un cast di cosiddetti specialisti, con la sola eccezione di Alexandrina Pendatchanska, che frequenta volentieri anche altri repertori. Sempre con i medesimi risultati.
Se grama è la sorte degli autori del XVIII secolo, quelli ottocenteschi, massime se italiani e quindi in odor di vociomania, non se la passano meglio. Eresia sarebbe, ancora una volta, attendersi Bellini o il Rossini tragico, ma qui mancano all’appello Donizetti e Verdi, per tacere dei veristi. Sola e notevole eccezione – Cultura con la C maiuscula – I Due Figaro di Mercadante, che Riccardo Muti proporrà anche a Salisburgo e Ravenna, con un cast di giovani cantanti, da sempre prediletti dal direttore italiano. Altrettanto poco generosa la selezione di titoli francesi e tedeschi: uno a testa, entrambi in versione concertante. Il Don Quichotte sarà affidato alle mature grazie di Anna Caterina Antonacci e all’usurato strumento di Ferruccio Furlanetto, mentre il Rienzi, che torna a Madrid dopo più di un secolo di assenza, beneficerà di un cast da profonda provincia tedesca, con il punto interrogativo (che rischia seriamente di mutarsi in esclamativo) di Anja Kampe quale Irene. Fa capolino anche Tchaikovsky, con la Iolanta affidata alla bacchetta di Currentzis e a un cast di talenti russi. L’opera è proposta in doppio con la Perséphone di Stravinsky, solo uno dei tanti titoli del XX secolo (frontiera estrema della Cultura operistica, almeno agli occhi del signor Mortier) che letteralmente affollano la stagione madrilena.
Si comincia infatti, non certo con un dispendio d'inventiva, con Elektra, spettacolo affidato alla bacchetta di Semyon Bychkov e alla regia di Grüber. Nel cast spiccano le due interpreti di Clitennestra, Jane Henschel e Rosalynd Plowright, che certamente pensano di poter emulare, in tutt’altro repertorio, gli ultimi exploit di una Devia o di una Gruberova. Contente loro. Altro veterano, anzi irriducibile dei palcoscenici, Chris Merritt, ormai evidentemente alla ricerca di parti che possano essere abbordate con minori rischi rispetto ad un Eleazaro. Il resto del cast rientra nell’ambito della cosiddetta scuola del declamato, apparato che appare oggi irrinunciabile in questo ambito operistico. Ricordiamo sommessamente come la prima autovedova di Agamennone fosse, a Dresda, Ernestine Schumann-Heink e la prima Crisotemide, Margarethe Siems.
Altro titolo imprescindibile, e anch’esso un poco usurato, il Pélleas, spettacolo di Bob Wilson proveniente anch’esso da Salisburgo e Parigi (come dire, da casa Mortier). Sul podio Sylvain Cambreling, nel cast spicca Camilla Tilling, rapidamente passata da ruoli di soprano leggero alla scrittura rigorosamente centrale di Mélisande.
E non poteva certo mancare la mitica Lady Macbeth di Mtsensk, da sempre titolo diletto al colto e all’inclito, che troverà una protagonista adeguatamente prosperosa nella vamp dell’opera Eva-Maria Westbroek. Poca fantasia e ancor minore estro nella riproposta dell’abbinamento Domingo-Radvanovsky nel Cyrano di Alfano, che un po’ a sorpresa non ripropone la regia vista un paio di stagioni fa in Scala, protagonista l’identica accoppiata di cantanti. Le restanti proposte novecentesche e/o moderne sono così raffinate che dispenseremo i nostri lettori dall’elenco, invitandoli, se interessati, a consultare la pagina web del teatro. Ma in tutta questa Cultura, un singolo Puccini non poteva davvero trovare posto?
Concluderemo osservando come all’opera barocca, da sempre uno dei must dei teatri à la page, sia riservato in Madrid un trattamento piuttosto gramo: un solo titolo, L’Incoronazione di Poppea (scelta tutt'altro che estrosa, ed è l'ennesima), nell’orchestrazione di Boesmans. Ma il cast è prestigiosissimo, come si addice alla nomea di uno dei primi teatri di Spagna. Protagonista sarà infatti Nadja Michael, che peraltro nella stagione ventura affronterà in altre piazze ben più aspri cimenti (ma non anticipiamo il soggetto di future stazioni). Con lei Charles Castronovo, Maria Riccarda Wesseling, Willard White e altre star, nascenti o già consolidate, del panorama lirico internazionale. Non potevamo non commentare siffatta scelta con uno storico adattamento del capolavoro monteverdiano, che vide nel ruolo del titolo un’altra cantante di notevoli doti fisiche, non disgiunte da quelle canore.



Gli ascolti


Monteverdi - L'Incoronazione di Poppea


Atto I - Speranza, tu mi vai - Grace Bumbry (1967)


Mozart - La Clemenza di Tito

Atto II - Deh per questo istante solo - Teresa Berganza (1976)


Strauss - Elektra

Atto unico - Helft! Mörder!...Agamemnon hört dich!...Ob ich nicht höre? - Gertrude Grob-Prandl (con Dino Halpern & Gertraud Hopf - 1963)


Read More...

mercoledì 16 marzo 2011

Norma a Zurigo

Il ruolo della appassionata sacerdotessa druidica è da sempre ammantato da un’aura non solo sacrale, ma anche di terrore e le cantanti che le si avvicinano lo fanno sempre in punta di piedi, con rispetto e timore reverenziale. Forse è esagerato, eppure Norma potrebbe diventare, per colei che ne ha le caratteristiche, il pesronaggio della vita, il personaggio con il quale verrà identificata dal pubblico, il personaggio che vale una carriera. L’Opernhaus di Zurigo ci prova presentando qualcosa di nuovo, puntando su una cantante di spiccata carriera belcantista, frequentatrice assidua e applaudita del palcoscenico zurighese.

Elena Mosuc, forte di una voce fino a poco tempo fa estesa e sufficientemente agile, probabilmente crede, o le hanno fatto credere, di essere colei che prenderà lo scettro di Edita Gruberova e Beverly Sills, con le quali condivide alcuni ruoli in repertorio, ma sicuramente non la sensibilità, l’intelligenza interpretativa o la perizia tecnica; e questa “sua” Norma è tragicamente qui a dimostrarlo.
Non so se per capriccio, per mancanza di alternative, per levarsi semplicemente uno sfizio, magari per la follia di un momento o, peggio ancora, per turpe consiglio, la Mosuc ha deciso di essere “Norma”: ed eccola qui “questa” Norma con la sua vocina piccina e carina, da soprano leggero, bianca, bianca, esile, esile, in posizione alta ed in maschera, certo, con tutte le sue notine più o meno belle e a posto, ovvio, con i suoi acutini in pianissimo lievi e soavi, sicuro; ma basta avere qualche nota per ESSERE Norma?
Per nulla, soprattutto se il registro grave è parlato o falsettante, gli acuti a piena voce tutti rigorosamente sostituiti da pianissimi flautati, suggestivi quanto si vuole, d’accordo, ma uno su tre di intonazione precaria oltre che di irritante monotonia espressiva, il legato funzionale a fasi alterne che sarebbe meglio chiamare “slegato” e quel vezzo di attaccare le note prima attraverso un suono fisso per poi farle vibrare.No, mi spiace, non basta!Ma allora c’è un fraseggio bruciante, un accento elettrizzante, una personalità travolgente, un’idea espressiva originale, altrimenti che senso ha questa figurina statica e pallente?
Vedete, la Cedolins, pur essendo fuori parte e in parte fuori stile, quando era in serata “si”, possedeva anch’essa le note, ma si sforzava con costrutto e sensibilità di infondere nella sua sacerdotessa druidica la sua personale visione; la Theodossiou, per quanto di canto sgangherato, possiede personalità e accento innegabili; la Anderson pur possedendo una voce limpida, più affine ad Adalgisa, sa padroneggiare lo stile, la tecnica e ha saputo scavare, nel tempo, il ruolo con rara sensibilità, anche arrivando un filo tardi; una Gruberova, per quanto discutibile vocalmente, oscillando tra i poli del grottesco e del sublime, ha sempre creduto nei suoi mezzi e nella SUA sacerdotessa, pur essendo lontana dalla quadratura del cerchio; una Dessì, quella della manciata di recite bolognesi, oscillando tra verismo e belcanto, e tenendo sotto controllo l’usura incipiente della voce, aveva temperamento da vendere, una femminilità incandescente, una sensualità del tutto naturale:
Ma la Mosuc… cos’è? Sotto quelle notine più o meno carine, sotto quella vocina delicata, sotto quei pianissimi cosa c’è?
Non la fantasia dell’interprete: le variazioni dei “da capo” sono avarissime, quasi minimaliste, e quando ci sono, ovviamente rivolte all’acuto o decorate con qualche sparuto vocalizzo, non possiedono alcun colore, alcuna vibrazione dell’anima, nessuna perentorietà; non si concede nemmeno un sovracuto fuori ordinanza, nei concertati magari, al termine delle scene, o delle arie, tanto per risvegliare i sensi assopiti del pubblico o per stupirlo. NIENTE! In tale monolitico contesto è c’è da sospettare che la Mosuc non abbia compreso il senso del libretto e delle parole, tanto care a Bellini e non è questione di debutto.
Così questa Norma diventa una macchina di note, un carillon sinistro, un file MIDI meccanico e raggelante nella sua totale assenza di accento, di tinta, di spessore, di commozione, di umanità, di carisma, tanto da sconsigliare vivamente la frequentazione della stessa Adalgisa, alla cui voce la Mosuc sarebbe destinata!
In definitiva la Mosuc è la figlioletta tascabile di Norma travestita da chierichetto e non so quanto sarebbe opportuno portare tale personaggio sulle tavole di altri teatri.
Per continuare sulla strada delle vocine, al fianco di questa Norma formato Zerlina (ogni riferimento è voluto) avrebbe dovuto esserci il nuovo super-tenore dei nostri giorni, Vittorio Grigolo, che ringrazio dal profondo del mio cuore e per aver con saggezza evitato, o rimandato, il debutto nel ruolo di Pollione.
Al suo posto un altro debuttante, Roberto Aronica, sonoro di voce e volume, di buona proiezione soprattutto nei registri centro-grave, ma stile e gusto allo stato brado, a volte palesemente rozzo nel suo canto perennemente paralizzato nel mezzo-forte con un accento mutuato dai marziali cinegiornali dell’Istituto Luce; ha quasi del virtuosistico l’uso del medesimo tono da “discorso in Piazza Venezia” sia per il corteggiamento di Adalgisa sia nelle risposte a Norma! Eviterò di infierire sul registro acuto crescente, fisso o calante secondo quanto suggerisce il momento drammatico.
Al suo fianco l’Adalgisa del mezzosoprano Michelle Breedt, già mediocre Fricka e Brangäne a Bayreuth, qui è solo di poco superiore. Gonfia le gote la signora Breedt pur di dimostrare che la voce c’è ed è sonora, almeno se circoscritta al solo registro centrale; peccato risuoni tutta in bocca, dunque velata, tanto da compromettere la dizione (molte consonanti sono opzionali) e la saldatura con il passaggio inferiore, vuoto, e superiore, stridente. Va, però, dato atto alla Breedt di essere l’unica sulla scena a possedere un minimo di accento, seppure aggressivo e non sempre a fuoco con l’azione, ma è già qualcosa.
Duro, arido e sgraziato l’Oroveso di Giorgio Giuseppini, che ha sostituito il basso László Polgár purtroppo deceduto nel Settembre dello scorso anno, in più il volume si è ridotto a tal punto che la voce è costantemente risucchiata dal coro; nella speranza che si sia trattata di una serata storta, è per me un vero peccato, visto che altrove ed in questi anni il cantante aveva offerto prove interessanti.
Liuba Chuchrova e Michael Laurenz interpretavano rispettivamente Clotilde e Flavio, la prima gorgogliando, il secondo nasaleggiando. Il coro diretto da Ernst Raffelsberger brilla per intonazione e compattezza, anche se suona un po’ esangue a causa di una direzione di rara sciatteria.
Il direttore Paolo Carignani, infatti, ha il pregio di regalarci una “Norma” praticamente integrale, con tanto di “da capo” e parche variazioni; peccato che si ricordi di essere un direttore d’orchestra soltanto nel Preludio del I atto e negli ultimi venti minuti finali (da “In mia man alfin tu sei”), alla luce dei fatti gli unici momenti in cui si sente un minimo di idea interpretativa ed un accompagnamento più mosso; purtroppo il resto è compitato, nota per nota, con un monocromatismo talmente pronunciato da sfiorare la narcolessia: tempi incoerenti nel loro perenne dibattersi tra velocità inconsuete e lentezze slabbrate, in puro stile “una nota al minuto” nel loro voler essere a tutti i costi forse sacrale o forse sublime, quando in realtà è soltanto insensibilità spinta fino al cinismo. Dopo un preludio suonato ottimamente dall’orchestra in un turbinio di colori al calor bianco e in un crescendo stringato e ricco di tensione, stesso trattamento che riceverà, anche se in maniera liofilizzata, il finale II, ecco che tutto si trasforma, perde ogni connotato diventando impersonale e profondamente noioso: l’aria e la cabaletta di Pollione, “Casta Diva”, arie, duetti e terzetti successivi, possiedono la stessa uniformità di un omogeneizzato, senza che nulla stravolga tale placido grigiore. Una implacabile trascuratezza espressiva davvero imperdonabile.
La regia anodina di Robert Wilson, con la sua immarcescibile astrattezza da teatro Nō giapponese, nulla può fare se non cercare di bombardare il pubblico con un simbolismo insistito.
Su una scena vuota, ma colorata da un accattivante disegno luci dello stesso Wilson, coadiuvato da AJ Weissbard e Hans-Rudolf Kunz si snoda una vicenda che contrappone il femminino sacro, rappresentato da Norma, incarnazione terrena e pallente della Luna e nelle sue fasi in un affascinante gioco di numeri, posizioni e rimandi, alla dimensione maschile connotandola sicuramente con Pollione e con il suo machismo sbruffone, ma anche con i guerrieri druidici dalle cui spalle di innalzano lunghe e minacciose lance.
Non solo, ma Pollione e Adalgisa, l’unica figura colorata, risultano figure mosse da pulsioni base, dall’istinto, dalla carne: così il primo troverà il suo corrispettivo in un candido leone dapprima e poi, durante il duetto con la giovinetta, in un fascinoso scambio di ruoli, entrambi vedranno tradotte le loro emozioni nei gesti eleganti di un unicorno, simbolo di purezza assoluta, ma anche fallico, ed un ariete, sia animale sacrificale, sia maschio dominante, in un continuo gioco di ruoli e scambi. Tutto molto elegante soprattutto nell’astrazione gestuale, tutto molto cervellotico e intellettuale in questa insistita metafora, certo, ma a lungo andare ci si ritrova a non capire le ragioni di Wilson, come i cubetti di ghiaccio sospesi nel vuoto, o quei mattoncini che volano verso un rosso ciel, oppure come possono essere mai nati quei due pargoletti se nessuno si guarda e nessuno si tocca. Così tra incoerenze tra quanto viene cantato e ciò che avviene in scena, con esiti a volte comici, e di fronte alle raffinatezze senza palpito di Wilson, si viene facilmente cullati dalle braccia di Morfeo.
Sublime noia d’autore.

Successo composto e cordiale alla fine, con una manciata di timidi buetti provenienti dalla platea e dalle gallerie a salutare Carignani alla sua uscita per i ringraziamenti: i contestatori non hanno pagato il fio della loro audacia con il sangue.
"Però la Callas… però la Milanov… però la Cerquetti… però la Sutherland… però la Scotto… però la Gencer… però la Caballé…” Già, “però”, questa parola che mette in discussione tutto, che fa riflettere, che rimanda a varie considerazioni anche storiche.
Quei “però” non erano miei: erano del pubblico zurighese, che evidentemente si aspettava altro, al termine della recita in riferimento alla presunta “adeguatezza” della protagonista.
“Però dovremmo ringraziare la Mosuc, che ci permette di ascoltare un’opera come Norma!”, ragionamento leggittimo e nel contempo accomodante; PERO’, appunto, siamo disposti, pur di rappresentare “Norma” ad ascoltarla in queste condizioni stilisticamente lontane e completamente travisate?
Con interpreti che non hanno nulla da spartire con i rispettivi ruoli?
Dobbiamo permettere e applaudire questi “Normicidi”, o altri esperimenti di tal fatta, pur di andare a teatro, accettando che “Le opere si fanno con i cantanti che passa il convento”, anche quando questi sono al di sotto delle aspettative o non hanno i requisiti richiesti?
Non era meglio, con una Mosuc, mettere in scena un’altra opera più adatta alle caratteristiche della cantante?
Non sono domande retoriche, rispondere NO sarebbe fin troppo facile, sono domande che mi sono posta per capire che importanza hanno il canto e lo stile oggi, per comprendere le ragioni di un teatro o di un artista, per conoscere i motivi che spingono a certe scelte, che non siano solo economiche.
Queste domande possono essere ovviamente estese a buona parte delle opere oggi ritenute giustamente “irrapresentabili”… con buona pace di coloro che parlano di “tempi d’oro!” e applaudono, giustificandola ed esaltandola perché “tal dei tempi è il costume” e va bene così, la mediocrità.









Read More...

lunedì 14 marzo 2011

Le cronache di Giuditta Pasta - Luisa Miller all'Opéra di Parigi

La nostra frenetica Pasta è volata alla volta di Parigi causa i suoi mille impegni di diva. Tra un successo e l'altro ha avuto modo di recarsi all'Opéra, ove ha assistito alla Luisa Miller verdiana, protagonista Krassimira Stoyanova.

Il 10 marzo abbiamo assistito alla seconda recita di “Luisa Miller” all’Opéra Bastille di Parigi. Recita che può facilmente servire per fare una piccola anatomia delle tendenze generali sia del canto attuale sia delle predilezioni di un pubblico moderno.
L’allestimento di Gilbert Deflò è puramente decorativo. Il signor Deflo ci risparmia un’interpretazione originale ed ultra-moderna della “tragedia borghese” verdiana-schilleriana e si accontenta con un sottofondo che dipinge un sereno paesaggio provinciale. Sul primo piano si alternano le varie scene con una semplicità scenografica che lascia tutta la libertà ai cantanti, cioè li abbandona interamente alle loro capacità vocali e drammatiche. Il pubblico parigino non ha voluto apprezzare questa circostanza ed è anzi comprensibile la sua fredda distanza verso questa regia (o assenza di regia), perche le decorazioni quali decorazioni mancavano visibilmente di gusto e di quella discreta invenzione che rende autenticamente suggestiva anche la più semplice scenografia. Ma si chiede se l’illuminato pubblico di Parigi avrebbe preferito vedere una “lettura” moderna ed “attuale” dell’opera verdiana che, pur essendo basata sulla tragedia di Schiller, non contiene quasi più nessun potenziale per essere rappresentata come qualcos’altro che un solito melodramma del Verdi degli “anni di galera” con tutta la brillantezza di tante delle pagine vocali e le sue debolezze drammatiche. C’è poco che sia così grottesco come il progetto di rendere “problematico per l’attualità” un banale melodramma italiano che non richiede altro che essere ben eseguito musicalmente per potere affermare la sua validità attuale.
Eppure, se anche “Luisa Miller” fosse un’opera della più grande intensità e coerenza drammatica, il maestro Daniel Oren, direttore dello spettacolo parigino, sarebbe stato perfettamente in grado di distruggerla fino nell’ultimo dettaglio. Ha diretto l’intero spartito con un’assenza totale di senso della struttura e dell'equilibrio musicale (addirittura scandaloso nella sinfonia!). Ha prodotto solo un fracasso insopportabile anche nei semplici accordi che richiedevano di essere eseguiti sul forte, ed ha accompagnato i cantanti senza qualsiasi flessibilità ed istinto ad hoc per le esigenze di ciascun di loro, per non parlare del rumore con cui era sempre pronto a coprire i solisti nei momenti vocali decisivi, come nella seconda aria di Luisa o l’aria di Rodolfo. Una prova senza lode né infamia, invece, da parte del coro dell’Opéra.
Passiamo al cast ed iniziamo dalle voci maschili. I due bassi che incarnavano i ruoli del Conte e di Wurm, ossia Orlin Anastassov e Aratjun Kotchinian, sono degli esemplari rappresentanti della moderna scuola slava del canto di basso. Le voci sono emesse tutta di gola, rigide nella gestione della linea vocale e si lasciano portare dall’unica intenzione di una cruda e selvaggia dimostrazione di “Guardate quanto volume ho!”. Il baritono Franck Ferrari, che interpretava il padre Miller, s’iscrive in quella lista interminabile dei baritoni dal timbro anonimo, sgraziato ed invecchiato, fraseggio abbaiante, particolarmente malmessa negli acuti, che finiscono sia nella gola sia nel naso sia in entrambi. Peculiarità del signor Ferrari il fatto di non sentirsi nella grandiosa sala della Bastille quando cantava nel registro acuto.
Marcelo Alvarez quale Rodolfo non mi è affatto piaciuto. Non posso comprendere che cosa ci sia di così “emozionante” nel suo canto squarciagola, dall’emissione volgare, che alterna suoni aperti e nasali, nominali "mezze-voci", che sono nient’altro che dei suoni mal falsettati alla Jonas Kaufmann. Il legato è debolissimo ed un una espressività ispirata al peggior naturalismo e sentimentalismo. Tuttavia, è questo tipo di canto, completamente spinto, aggressivo e privo di qualsiasi mediazione e stilizzazione, a piacere al pubblico parigino. E’ stato Marcelo Alvarez, infatti, a ricevere i più grandi applausi sia dopo la sua aria che alle uscite singole, mentre il pubblico non ha saputo tirare una differenza qualitativa fra la Federica spoggiata e calante di una Maria Jose Montiel e la formidabile Luisa del soprano bulgaro Krassimira Stoyanova, premiandole entrambe con un applauso tanto genericamente caloroso quanto indifferente alla qualità e alle premesse tecniche delle rispettive prestazioni.
Krassimira Stoyanova, pur non essendo più un’artista giovane, ha mostrato una voce più fresca dei suoi colleghi. Non mi ha convinto nella prima aria (“Lo vidi in primo palpito”) dove ha omesso tutti i picchettati prescritti dallo spartito verdiano, senza veramente compensare la mancanza della brillantezza vocale dell’aria con un fraseggio particolarmente incisivo. Tuttavia, già dall’inizio, la Stoyanova ha regalato alle nostre orecchie un suono interamente immascherato, rotondo, morbido ed omogeneo in tutti i registri, una linea vocale naturalissima ed agile, ed innumerevoli smorzature, messe di voce, mezze-voci e pianissimi che non erano né falsettati, né indietro, come quelli appena udibili di Alvarez. Al contrario, le mezze-voci della Stoyanova riempivano l’intera sala della Bastille e circondavano l’orecchio, confermando ancora una volta che le vere mezze-voci sono quelle che non sono caratterizzate né da una riduzione del volume e della pienezza del colore né da una trasposizione della voce nella gola o qualsiasi altro posto oltre la maschera. Il personaggio incarnato dalla Stoyanova è stato massimamente lirico, e questo unicamente per una gestione coerente dei suoi mezzi vocali che, per quanto attestano una bella preparazione tecnica, sono tanto ingenerosi di natura. La voce della Stoyanova non è grande per volume, ma è resa udibile al massimo da un'ottima proiezione. Sono soprattutto gli acuti ad essere di natura limitati nel volume (non saprei dire se la causa sia l’usura della voce per l'alto ritmo della carriera...). Il soprano bulgaro, perciò, sceglie di conformare la concezione del personaggio alle sue premesse vocali naturali e rende Luisa autenticamente lirica, tutta fatta di piani e pianissimi. Ha cantato l’aria e la cabaletta del secondo atto senza un sol suono spinto e sforzato ed è stata massimamente sonora e drammatica attraverso una minima perdita di energia, grazie al suo canto gestito tutto sul fiato ed eterei pianissimi e mezze-voci. Eppure il suo atto è stato il terzo dove, eccetto due acuti un po’ spinti, ha incarnato una Luisa pronta alla morte, morente prima ancora di aver bevuto il veleno. Solidissima nel duetto con il padre, offrendoci una “La tomba è un letto” tutto morbido, sul piano e preciso nell'esecuzione; davvero commovente nella preghiera e stupenda nel terzetto finale cantando “Ah vieni meco” con un legato ed un’espressività eccezionali.
E' stata lei a dimostrare che cosa sia il canto di scuola, non avendo mai cantato “forte”, generico, alla Alvarez. Può essere che alla Stoyanova manchi talvolta un poco di passione (come nella prima aria) o di slancio e che non sia particolarmente carismatica, ma un canto come quello di Krassimira Stoyanova suona, soprattutto per i nostri giorni, come un vero lusso. Ed è finalmente stata un personaggio completo, soprattutto per la sua coerenza vocale. Ma il pubblico parigino sembra avesse un’idea molto differente della coerenza ed attrattività artistica, mancando l’ascolto di un canto non-sforzato, dolce e flessibile e apprezzando le cosiddette mezze-voci solo laddove siano emesse di gola, inudibili, falsettate ed in radicale ed assurda opposizione ad un canto a squarciagola o tutto forte negli altri casi. Cantare piano o mezza-voce equivarrebbe a cantare senza essere udito, e cantare forte equivarrebbe a cantare spingendo e sforzando. E’ un’estetica sonora che sembra avere profondamente impregnato le orecchie dei parigini (e a questo punto non solo dei parigini...). Ancora una volta si conferma il triste fatto che cantanti capaci (che ci sono anche oggi!) come Krassimira Stoyanova non corrispondono con la loro estetica vocale e preparazione tecnica (che rende possibile ad un soprano di limitato volume come lei di cantare alla Bastille senza essere microfonata) al gusto generale del pubblico. Una psicologia del personaggio dipinta non dalle energiche gesticolazioni, ma dalle rifinitezze della tecnica vocale, non piace. E’ ormai una vox clamans in deserto (scusate il riferimento al latino.... sono grisino!). Forse ci vuole un/a cantante di simile compostezza tecnica che abbia al contempo più carisma e fascino scenico per (re)insegnare alle orecchie moderne la differenza fra il bel canto ed il mal canto? Perché è evidente che questo dovrebbe fare un cantante, sul palcoscenico, oggi. Ed un ascoltatore critico (grisino o no, cattivo o no) non può fare altro che cercare di distinguere e di fare valere questa differenza qualitativa.


Verdi - Luisa Miller

Preludio - Francesco Molinari-Pradelli (1969)

Atto II

Quando le sere al placido - Fernando de Lucia (1908)

Atto III

La tomba è un letto sparso di fiori...Andrem raminghi e poveri - Luisa Maragliano & Mario Zanasi (1969)

Hai tu vergato questo foglio? - Richard Tucker, Luisa Maragliano & Mario Zanasi (1969)

Read More...