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domenica 10 aprile 2011

Verdi Edission. Il Trovatore a 78 giri... internessional!

Quando in un cantante l’elevata statura tecnica si coniuga con l’eleganza interpretativa ed il gusto ci troviamo, allora, in presenza di un artista, che trasforma il canto in poesia, in moto dell’anima. Ecco il messaggio comune a tutti i rappresentanti della scuola tedesca, che oggi chiudono la Verdi edission, dedicata al Trovatore. In un presente afflitto da soprani che nei casi migliori fraseggiano in modo marziale oppure sibilano con voce fissa, tenori abbaianti o sbadiglianti, mezzi sguaiati degni di esibirsi al circo, ecco qua il documento di un passato straordinario, direi quasi miracoloso. La lingua tedesca la fa da padrona perché i francesi hanno tradotto in misura assai inferiore, per nulla gli spagnoli che cantavano in italiano.

Quella di lingua tedesca ( con la sola eccezione di Leon Escalais, che canta in francese ) si rivela scuola di canto all’italiana, in nulla diversa da quelle che abbiamo incontrato nelle precedenti puntate. Tanto italiana che questi cantanti, certamente eccezionali, abituati al repertorio wagneriano o, comunque, pesante esibiscono con assoluta facilità non solo un fraseggio sfumato e lirico, retto da un canto perfettamente legato, una voce omogenea in tutta la gamma ed alta qualità timbrica, ma anche irreprensibile dimestichezza con i passi di scrittura fiorita, trilli in primis, e completo dominio del registro acuto. Alcuni di loro, aggiungo, si comportano come veri belcantisti, a cominciare da quella cantante quasi inumana che fu Siegrid Onegin, la sola in grado di sopravanzare la perfezione di Ebe Stignani; il baritono Heinrich Schlusnus, che canta e si esprime nel “Balen del suo sorriso” con l’eleganza, il legato, il lirismo e gli acuti squillanti di un grande amoroso romantico, per non parlare dell’aplomb esecutivo ed interpretativo del duetto del quarto atto, un modello di canto verdiano; di Frau Margarete Siems, allieva di Pauline Viardot e preziosa testimone audio della grande tecnica di canto del XIX secolo, falsamente ritenuta non documentata, che canta con assoluta facilità ed eleganza un lentissimo “D’amor sull’ali rosee”, mostrando un controllo della voce al di sopra del si bem da fare impallidire una Sutherland ( la signora amministrava contemporaneamente il Rigoletto, l’Aida, la Traviata, gli Ugonotti in entrambe le parti femminili, la Norma, il Ballo, la Lucia, la Marescialla e Zerbinetta, tanto per capire con quale fenomeno abbiamo a che fare ..); Frau Frieda Leider, wagneriana leggendaria, perfetta come nessuna dopo di lei, anzi ultima a sapere affrontare il repertorio italiano con lo stile, l’accento e la perfezione tecnica, che i passi di Leonora dimostrano. Per la Leider non esistono note acute, e nemmeno note gravi, ma solo note, tutte perfettamente identiche, emesse senza sforzo alcuno, trilli stupendi inclusi, i fiati sono di un’ampiezza, che impressiona: nessuna è mai più tornata al suo livello, a dispensare Brunhildi e Norme contemporaneamente in questo modo. La sua Leonora è strepitosa, dotata di eleganza e slancio davvero verdiani nel duetto del questo atto con Schlusnus, accento lirico e soavissimo nelle arie, dove esibisce prodigiose smorzature in tessitura acuta nell’aria finale ed un uso sapiente dei rallentando. Modalità espressiva questa che viene dall’antico perché è la medesima di Frau Siems. Nemmeno le agilità le costano fatica, il trillo poi è pari a quello delle belcantiste moderne.
Nel registro di mezzosoprano Margarete Matzenauer, versatile stella del Metropolitan negli anni ’10-’30, è un'altra cantante formidabile per mezzi e tecnica. Nel duetto con Knote ci ha lasciato una documentazione preziosa per gusto, accento e dei suoi celebri acuti in “falsetto femminile”, nella fattispecie il do5 scritto di “Perigliarti ancor languente”, probabilmente i modi dell’emissione dei leggendari re nat 5 di Rosmunda Pisaroni e che sentiamo anche nelle incisioni di Ernestine Schumann Heink. Ma c’erano anche interpreti come Barbara Kemp, soprano anni ’20, che, pur avendo calcato i maggiori palcoscenici tedeschi non uscì mai dai confini patri, ci ha lasciato un “D’amor sull’ali rosee” lunare, una sorta di “Casta diva” verdiana di grandissima suggestione cantata con voce bellissima, oppure il professionismo impeccabile, per emissione e gusto compostissimo di una Runger, che canta in compagnia del dolcissimo Julius Patzak dalla voce morbida e legata. Alle medesime conclusioni si giunge ascoltando Sabine Kalter capace congiuntamente di eleganza e compostezza, che le consente di essere alla conclusione del “Condotta ell’era in ceppi” allucinata ed espressiva al tempo stesso senza indulgere in alcuno degli effetti che rendono Azucena una caricatura. Tralasciamo poi che gli acuti e in generale la zona medio alta della voce ha una risonanza ed uno squillo di rara qualità.
Come già nella puntata sui 78 giri in lingua italiana rileviamo un cambio nel gusto tra i tenori dei primissimi anni del novecento e quelli immediatamente successivi. Tra i più arcaici Leo Slezak, tenore di forza solito praticare anche Ugonotti, Ernani e Lucia di Lammermoor, in subordine Lohengrin e Tannhauser, canta con i modi e le libertà dei tenori ottocenteschi, oltre che con una voce bellissima; Jacques Urlus, tenore spinto dalla voce forse un po’ meno “bella” di Slezak (che sia detto subito era un super dotato), ma che coniuga il canto del tenore eroico con la morbidezza, il legato, l’accento epico accompagnato ad un buon trillo e facili smorzature. Per la cronaca e la polemica il repertorio di Urlus coincide con quello dell’oggi ultra incensato Jonas! Di Heinrich Knote, il wagneriano della triade, si apprezzano le medesime qualità, il legato, lo squillo e le soluzioni espressive, come i piani e le messe di voce dell’ ”Ah si ben mio”, senza dimenticare che anche lui….trillava con facilità. Tenori come Voelker, Patzak e Roswaenge hanno già un gusto postottocentesco, secondo quell’evoluzione che abbiamo visto per i tenori della puntata scorsa. Franz Voelker, ad onta del repertorio spinto praticato, e Julius Patzak aderiscono ad una concezione più lirica di Manrico ( idea per nulla originale quella a noi contemporanea..!), di grande timbro e legato, mentre Roswaenge, al contrario del primo, canta con maggiore epica e piglio, e con un gusto ancora a mezza strada tra l’ottocento ed il tenore postcarusiano. Rimangono a noi documenti di una koinè culturale di aerea tedesca completamente estintasi col secondo dopoguerra. Giocate un po’ voi con l’immaginazione e mettete a cantare il Trovatore, nella vostra mente, le stelle della “Collina” wagneriana, soprattutto quelle recenti, ma fate attenzione perchè potreste morire di spavento!!!


Gli ascolti

Giuseppe Verdi

Il trovatore


Atto I



Tacea la notte placida...Di tale amor che dirsi - Irene Abendroth (1902), Barbara Kemp (1919), Frida Leider (1925), Tiana Lemnitz (1939)

Di geloso amor sprezzato - Heinrich Schlusnus, Frida Leider & Julius Huett (1925)


Atto II


Stride la vampa - Margarete Matzenauer (1910), Sigrid Onegin (1919)

Condotta ell'era in ceppi - Sabine Kalter (1926)

Mal reggendo all'aspro assalto - Julius Patzak & Gertrud Runger (1936)

Perigliarti ancor languente - Margarete Matzenauer & Heinrich Knote (1909)

Il balen del suo sorriso - Heinrich Schlusnus (1925)


Atto III


Ah sì, ben mio - Jacques Urlus (1923), Leo Slezak (1907), Heinrich Knote (1906), Leon Escalais (1906), Franz Voelker (1928), Helge Rosvaenge (1938)

Di quella pira - Tino Pattiera (1916), Leon Escalais (1906)


Atto IV


D'amor sull'ali rosee - Margarethe Siems (1908), Barbara Kemp (1919), Frida Leider (1925), Tiana Lemnitz (1939)

Miserere - Meta Seinemeyer & John Glaser (1928)

Mira d'acerbe lagrime - Frida Leider & Heinrich Schlusnus (1925)

Ai nostri monti - Julius Patzak & Getrud Runger (1936), Richard Tauber & Sabine Kalter (1926), Helge Rosvaenge & Friedel Beckmann (1943)

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martedì 26 gennaio 2010

Vendetta ti chieggio: le grandi Donn'Anna

In fondo, dato il temperamento del personaggio, alla vendetta potrebbe benissimo provvedere da sola senza nessun ausilio vuoi di don Ottavio o di chicchessia. Oltre che virago la nostra è anche ipocrita. Deve, quindi, salvare le convenienze sociali, ossia la faccia, ed allora chiede all'uomo di turno di essere ultore del proprio onore di figlia. Perchè siamo onesti basta leggere il libretto di da Ponte per comprendere che altro onore, l'onore per antonomasia, donna Anna l'ha perso da tempo, visto che alle visite maschili notturne è avvezza. Lo ammette lei stessa nel lungo recitativo, che precede la procellosa aria "Or sai chi l'onore".

Insomma è una sorta di Erinni in versione andalusa e già borghese.
E all'essere Erinni le grandi donne di ogni tempo sono avvezze, anzi lo invocano, lo richiedono e lo pretendono.
Basta scorrere l'elenco delle grandi donna Anna. Agli Italiani di Parigi un autentico gotha del bel canto Giulia Grisi, Rosina Penco, Teresa Tietjens. Quando, poi, si affermò il teatro romantico e il don Giovanni subì quel che taluni ritengono "orrendo scempio" e che per noi sono le indimenticabili esecuzioni di Walter, Furtwängler, Busch, donna Anna divenne il corollario, il "riposo per la voce" delle grandi Rezia, Elisabeth, Isotta e Brunilde.
Poi venne la salvezza, secondo alcuni, la rovina, secondo altri e donna Anna finì cantata da soprani che in altri tempi avrebbero cantato Zerlina, che -sia detto- delle donne del capolavoro mozartiano fu l'altra parte, che attirò le grandi prime donne. Riflettiamo sulla circostanza che a Londra nel 1861 Adelina Patti vestì i panni di Zerlina, mentre Giulia Grisi e Rosina Penco quelli della figlia del commendatore, ed ancora al Met Marcella Sembrich fu sempre e solo Zerlina in compagnia di Donne Anna quali Lilli Lehmann o Lilian Nordica. Con queste scelte è pacifico che la differenza timbrica delle tre prime donne oltre che il carattere del personaggio era salvaguardato.
Addirittura in talune rappresentazioni i panni di Donna Anna erano affidati a mezzo soprani, come accadde con Virginia Guerrini al Colon di Buenos Aires nel 1897. Sarebbe interessante sapere gli accomodi che in questo, come in altri casi, vennero realizzati, soprattutto all'ingresso delle maschere, dove la scrittura vocalizzata è acuta e al rondò del secondo atto.
Rondò del secondo atto la cui sezione conclusiva, unica pagina acrobatica del ruolo ed ipostasi della di lei ipocrisia, si aveva l'abitudine di tagliare. Beneficio di cui si giovò anche Rosa Ponselle al Met negli anni '30.
Era e qui dobbiamo anche condividere la tesi di chi parla di travisamento dell'opera uno dei tagli, che si praticavano unitamente a quello del finale, atteso che l'opera finiva con la apocalittica scena del dissoluto punito inghiottito dalle fiamme dell'Inferno.
Opera da sempre in repertorio e mai uscita dallo stesso comporta che le testimonianze fonografiche delle grandi protagoniste partano dagli albori delle registrazioni per fermarsi a ieri sera.
Almeno sino al 1950 Donna Anna fu appannaggio di soprani drammatici, possibibilmente nella declinazione del drammatico d'agilità. Era la diretta derivazione delle Donna Anna di Giulia Grisi o Teresa Tietjens quella, che dal 1870 al 1909, venne considerata la più completa ossia Lilli Lehmann. Il suo repertorio ridicolizza quello della Callas o della Caballé, la durata della carriera ridimensiona quella di una Sutherland o di un'Olivero. Passava da Filina a Carmen, con tutto quel che c'era in mezzo ossia Violetta, Norma e le parti drammatiche di Wagner. Approdò al disco prossima ai sessant'anni di età ed ai quaranta di palcoscenico e ciò nonostante sentiamo un soprano in assoluto inarrivabile nel rondò e difficilmente eguagliabile nella cosiddetta Rache-Arie, dove il tempo trascorso costringe la divina Lehmann ad alcuni patteggiamenti con i fiati e soprattutto con il primo passaggio (vedasi i passi del recitativo). Patteggiamenti e limiti spariscono nel rondò perchè le esigenze vocali ed espressive dello stile grazioso e non grande agitato inducono a moderazione di accento e di suono. Il legato della prima sezione, lo slancio di quella conclusiva e la sicurezza dell'ornamentazione (vedasi per tutti i picchettati sul si bem. del lungo vocalizzo su pietà) rendono chiara l'idea di quello che per i nostri avi intendessero per soprano drammatico di agilità.
A questo modello si attennero, per certo, le donne Anna di scuola italiana come Giannina Russ e la Arangi-Lombardi. Ed ancora a quel modello si attennero sia Frida Leider, di cui dobbiamo solo rimpiangere che non abbia mai inciso la seconda aria, che Elisabeth Rethberg, di cui esiste una fortunosa integrale di Salisburgo (1937) sotto la guida di Walter.
Nessuno dei soprani, che oggi proponiamo dispone nell'esecuzione della prima aria dello slancio e della facilità di canto congiunta ad un timbro al tempo stesso nobile ed astratto come Frida Leider. Ai suoi tempi passava, soprattutto in Wagner, per una fraseggiatrice compassata. Oggi, per contro, noi parliamo di cantante misurata, ritenendo l'espressione algida e distaccata carattere essenziale del personaggio della perbenista dama sivigliana. Mai nessun soprano, neppure Birgit Nilsson o Joan Sutherland, hanno coniugato al grado della Leider queste caratteristiche. Ed è logico. Vero soprano drammatico, nonostante l'ampiezza della voce la Sutherland non lo è mai stata e la Nilsson ha sempre presentato nella prima ottava durezze nibelungiche ed un canto assai meno all'italiana della Leider.
Quanto ad Elisabeth Rethberg approdò a Donna Anna nella fase finale della carriera (un decennio prima al Met era stata una applaudita donna Elvira) dopo almeno quindici anni di Aida, Ballo, Forza, Butterfly, Elsa, Sieglinde. E se l'accento nel recitativo è quello della tragedienne, coniugato ad una saldezza del primo passaggio esemplare (vedasi frasi come "Era già alquanto avanzata la notte") qualche frase patisce un'enfasi di troppo rispetto al mezzo vocale ed acuti un poco aperti e spinti e le agilità che concludono il rondò non hanno le caratteristiche di quelle della Lehmann.
Va, però, detto che frasi come quelle del recitativo che apre la grande aria o la sezione conclusiva risultano prive del loro significato tragico quando non siano affidate ad un soprano drammatico o almeno lirico spinto.
Basta sentire quel che accade con Beverly Sills o Leyla Gencer. Se donna Anna può considerarsi un incontro occasionale per il soprano americano, Leyla Gencer, per contro, la cantò e con una certa frequenza ed in grandi teatri.
La Gencer è sempre e prima di tutto una grande fraseggiatrice ed una fine dicitrice quindi nel recitativo debutta con grande foga, sfoggia una voce misteriosa per frasi come "un uom che al primo istante", attenzione a come sfrutta le prossibilità espressiva delle consonanti arrotate di "torcermi" ed arrivata il "da lui mi sciolsi", che con la sola voce rende il senso dello sfinimento, subito dopo ritorna ad assere arroventata nell'"arditamente" per ritornare ad un suono dolce in coincidenza della memoria del padre. Grandissima, signora Gencer! Ma quando arriva all'aria eseguita con autentico furore si sente che il peso vocale non è quello della Leider e l'accento può molto, ma non tutto.
In fondo era la voce al più di Donna Elvira o forse di una corposa Zerlina. Naturalmente nell'esecuzione del rondò le agilità sono fluide e scorrevoli anche se, Leyla Gencer non è Joan Sutherland cui appartiene- scontato dirlo- la più fluida, mordente esecuzione del medesimo brano. Ma la stessa Sutherland, i cui modelli intepretativi e vocali sono a 78 giri, non può, a sua volta, competere a parità di solennità e distacco con le donne Anna dell'ante guerra.
E siccome la parte è proprio ardua l'altra grande donna Anna del dopo guerra Leontine Price, timbro eccezionale per bellezza accento drammatico genuino e forse un po' verdiano arrivata al rondò, anche nel proprio momento migliore per impegno di studio e salute vocale, mette in pista compromessi e cempennamenti (la salita al la di "tu conosci la mia fè") ed il rigore classico non è certo quello della Leider, pur trattandosi di una storica esecuzione.
Eppure parliamo, criticando, di quattro primedonne, che hanno fatto la cronaca e forse la storia di almeno due decenni di melodramma e di cui oggi sentiamo la dolorosa mancanza.
Ciascuna è grandissima, ciascuna, però, è destinata a cedere dinnanzi al modello di Lilli Lehmann e, credo, di Eleanor Steber. La Steber non era un soprano drammatico nel vero senso del termine, vantava (basta guardarne un video) un controllo del fiato e della respirazione paradigmatico, che dava alla voce una ampiezza ed una risonanza capace, in grado in altro e ben più oneroso repertorio, di far soffire un Mario Del Monaco, e che le consentiva di cantare a tutte le altezze ed a tutte le sonorità, il che la trasformava, con l'ausilio di una buona dizione italiana, in una fraseggiatrice sobria e varia al tempo stesso.
Sentire Eleanor Steber nella prima aria: attacco da tragedia, rispettoso dell'indicazione in spartito "in estrema agitazione" e l'agitazione cresce sino a "il padre mio", cambia colore ed espressione a "al primo istante", la frase è una parentetica e la Steber ci canta una parentetica. Arrivata al "da lui mi sciolsi" a differenza della Gencer è la virago che si libera, nessuna fatica per la lotta, ma trionfo -ipocrita- della virtù. Il recitativo sta nella zona compresa fra i due passaggi, ossia scomoda per definizione, eppure si deve far attenzione alla assoluta proiezione del suono. La progressione tragica del racconto impone per fini espressivi un attacco sommesso, ripiegamenti come "il padre mi tolse" così il primo dei numerosi "vendetta" è efficace. La parola vendetta, ossia l'ossessione di donna Anna, anzi il comando della stessa a Don Ottavio sono sempre più scanditi e senza che il suono, pur nella zona del secondo passaggio possa essere qualitativamente parlando intaccato. Fraseggiatrice accorta, maestra dell'effetto drammatico la Steber attacca poco più che piano il primo "lo chiede il tuo cor" della perorazione finale. Una chiosa sul podio un direttore universalmente ed a ragione considerato noioso e meccanico come Karl Böhm non sembra quello di venti anni dopo con donne Anna di agenzia teutonica.
Il peana è lo stesso per la Steber nel rondò. Non sai se ammirare la facilità con cui supera certe inside come il si bem del recitativo "abbastanza per te" con tanto di messa di voce o il lungo passo vocalizzato conclusivo dell'allegretto moderato o la ripresa del "non mi dir" senza presa di fiato,ovvero con un ineccepibile rubato o l'interprete che riesce nell'assoluto rispetto del testo ad essere la ipocrita dama, forse solo seccata di non aver "messo in lista" anche don Giovanni.
Poi, poi abbiamo pensato che l'importante per il personaggio fosse l'esecuzione del rondò, la cui tessitura è piuttosto acuta e, quindi, abbiamo vestito della obbligatorie gramaglie della dama spagnola Mariella Devia ed Edita Gruberova. Abbiamo ottenuto fluide e flautate esecuzioni della sezione conclusiva della pagina e, magari, dell'intervento di Donna Anna nel finale, sentendo poco o nulla dell'incontro-scontro con il protagonista e della Rache-Arie, e, in buona sostanza confondendo donna Anna con Zerlina. Perché le grandi Zerline cantavano Elvira di Ernani (Marcella Sembrich) o addirittura Aida (Adelina Patti). Ve le vedete le nostre due inossidabili in quei ruoli?
Se, poi l'ultima possibile donna Anna rimane Diane Damrau, la cui voce è "coperta" dal suono di un'arpa mi domando se le campane a morto vadano suonate per il ruolo o per le cantanti inadeguate e votate a morte vocale, complici siffatte inadeguate scelte.
E d'altra parte se cerchiamo ancora qualche donna Anna drammatica sentiamo esecutrici che, prive del minimo supporto tecnico, vociano senza pietà e senza alcun rispetto per le prescrizioni vocali ed interpretative mozartiane. Starnazzone, ha detto qualcuno. Perdonate, non c'è altro motivo per proporre la signora Poplavskaya.


Gli ascolti

Mozart - Don Giovanni

Atto I


Ah, del padre in periglio...Fuggi, crudele fuggi - Rosa Ponselle & Tito Schipa (1935), Maria Reining & Julius Patzak (1936), Birgit Nilsson & Anton Dermota (1955), Joan Sutherland & Richard Lewis (1960), Leyla Gencer & Richard Lewis (1962)

Don Ottavio, son morta!...Or sai chi l'onore - Lilli Lehmann (1906), Frida Leider (1928), Rosa Ponselle (1935), Maria Reining (1936), Elisabeth Rethberg (1937), Zinka Milanov (1943), Birgit Nilsson (1955), Eleanor Steber (1957), Joan Sutherland (1960), Leontyne Price (1960), Leyla Gencer (1962), Beverly Sills (1966), Margaret Price (1970), Carol Vaness (1988)

Bisogna aver coraggio...Protegga il giusto Cielo - Joan Sutherland, Ilva Ligabue & Richard Lewis (1960), Leyla Gencer, Sena Jurinac & Richard Lewis (1962)


Atto II

Crudele? Ah no, mio bene...Non mi dir bell'idol mio - Lilli Lehmann (1906), Elisabeth Rethberg (1937), Zinka Milanov (1943), Birgit Nilsson (1955), Eleanor Steber (1957), Joan Sutherland (1960), Leontyne Price (1960), Leyla Gencer (1962), Beverly Sills (1966), Margaret Price (1970), Cheryl Studer (1987), Renée Fleming (2000), Mariella Devia (2006), Marina Poplavskaya (2008)



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sabato 24 ottobre 2009

Mese verdiano X - L'accento verdiano parte seconda: "Calpesta il mio cadavere, ma salva il Trovator"

Verdi ed i suoi librettisti ci misero del loro per dar sapore all’incontro tra donna Leonora ed il conte di Luna nelle sale del palazzo di Aljaferia. Pare, infatti, che nel dramma di Gutiérrez, il Conte non si scaldasse gran chè davanti alla “proposta indecente” della dama disperata, mentre nell’opera di Verdi …beh…si scalda eccome! Mai prima di allora una primadonna aveva offerto il proprio corpo in cambio della vita dell’amato in modo così dichiarato e plateale.

I piccanti accordi non finirono lì, perché, si sa, che una volta aperta la via, l’emulazione dilaga. Con maggiore o minor ipocrisia svariate altre primedonne faranno, poi, mercato di sé per l’amato, ma sarà sempre salva la regola che chi ha virtù trionfa e chi non ne ha perde. Barnaba resterà con un palmo di naso davanti al cadavere di Gioconda, mentre morirà l’opportunista Manon; Tosca verrà rincorsa da Scarpia, che riuscirà solo a rovesciarla su un canapè prima di finire accoltellato mentre Minnie, maestrina scaltra, barerà per vincere alle carte e non cedere allo sceriffo.
Leonora è ancora una donna idealizzata, astratta nel suo aplomb dal sapore stilnovista: si prometterà al cattivo ben sapendo che non cederà e che dovrà morire per sfuggire all’orrendo patto. Incarna purezza e candore, un mix psicologico perfetto perchè semplice, come quello dei protagonisti del favole. Anche il cattivo conte di Luna è uno stereotipo: lo agitano la gelosia per Manrico ed un profondo desiderio di vendetta…..oltre che di possedere la bella dama.
Come sempre in Verdi, soprattutto questo, alla fine della sua “galera”, tutto è estremo, verace, esplicito ed immediato, in breve, decisamente sopra le righe rispetto agli operisti precedenti ma incredibilmente cogente.
Leonora si para davanti al Conte all’improvviso, come un fantasma, proprio mentre il conte la pensa scomparsa chissà dove. All’iniziale sorpresa segue la supplica della donna disperata, che implora pietà con vero slancio. L’andante è con moto, perché Verdi dà rilievo drammaturgico al momento concitato, all’agitazione interore di Leonora, che sa che il tempo stringe per Manrico, ed alla risposta sdegnosa del conte, furente. Il canto del conte è continuamente accentato, perché il canto deve trasudare rabbia, anche se composta; quello di Leonora accentato ma, soprattutto, ricco di forcelle, ampie messe di voce, perché accorata ed estrema deve suonare la sua profferta al conte: “ Calpesta il mio cadavere ma salva il Trovator”. Poi la musica si arresta ed il patto si fa velocemente, in due battute. Per il conte la grazia non ha prezzo, e Leonora rilancia con la più alta delle poste; sbalordito il conte accetta, dunque Manrico vivrà. Una felicità un po’isterica percorre i due: “Vivrà!Contende il giubilo..”, allegro brillante, addirittura. Lei, morendo, potrà dire a Manrico che è salvo grazie al suo amore; il conte, incredulo e felice, potrà finalmente possedere Leonora, che in effetti alla fine avrà, ma….“ fredda, esanime spoglia!”.
Una sintesi incredibile di azione e successione rapida di stati d’animo, peculiari di tutto il Trovatore del resto. E sarà un grande successo anche a Parigi, ove Verdi aveva incontrato tanta resistenza nella critica e nel pubblico, tanto che vi sarà anche una versione in francese dell’opera. Il nuovo modo di fare teatro lirico iniziava a passare anche nella roccaforte del belcantismo d’élite.

Qui, come altrove, l’accento verdiano sta nel dar senso ad ogni sfumatura del testo, nel rispetto dei segni di espressione che costellano lo spartito ed indicano inequivocabilmente la via da seguire ma…nella misura. L’enfasi che Verdi richiede al canto non scade nell’eccesso o nell’esagerazione, anche quando a queste offre il fianco, come può accadere in questa celebre scena.

Vi sono alcune leggendarie incisioni di questo duetto nel nostro ripostiglio di anticaglie.
Di una addirittura è conservato il video, del 1928. Il soprano Rosa Raisa, prima interprete di Turandot, donna elegante e bellissima, che, se non avesse calcato le tavole del palcoscenico, avrebbe fatto la diva del cinema muto, alle cui primedonne si ispira con tutta evidenza come attrice. Canta con una perfezione ed una purezza di emissione derivata dalla scuola assolutamente belcantista di Barbara Marchisio. E’ anche una interprete straordinaria, viva, misurata ed intensa, soprattutto…moderna. Con lei è il signor Giacomo Rimini, visivamente anche lui da cinema muto…ma da comica. Vocalmente, invece, bravissimo. La voce è piuttosto scura, soprattutto per me, che amo baritoni di colore chiaro, ma questo è affare di gusti. Canta sobriamente, con mordente ed un gusto che nei baritoni sparirà di lì ad un paio di decenni.

Pari suggestione per me hanno Frida Leider e Heinrich Schlunsnus ( 1925 ), che documentano un Verdi rappresentato in contesti diversi da quello italiano. Lei, la wagneriana della leggenda, ci ha lasciato delle incisioni di brani del Trovatore con cui possono competere forse un paio di signore dell’intero universo discografico ( il suo “D’amor sull’ali rosee” è eccezionale ). Esegue tutto, accenti, forcelle, coloratura della cabaletta inclusa, con una facilità disarmante, dando rilievo a tutto, ad ogni segno, ogni nota. Il suo conte di Luna le assomiglia alquanto, per qualità del mezzo vocale, bellezza di emissione, compostezza ed eleganza di accento. A voci ampie che cantano perfettamente, dominando ogni passo dello spartito con facilità, basta poco per accentare. Quella leggera enfasi di cui si parlava anche altrove basta ed avanza.

Terza proposta, il duo italianissimo Arangi Lombardi – Galeffi ( 1928 ) in un incisione che è documento perfetto della più italiana delle tradizioni verdiane. Forse meno perfetta vocalmente l’Arangi Lombardi rispetto alle altre due ( in basso la voce non suona perfettamente come già altre volte abbiamo rilevato, ma parliamo di una cantante assolutamente straordinaria ), strepitoso e perfetto Galeffi. Entrambi sono grandi fraseggiatori,composti ma intensi e vivi. E moderni. I tempi adottati per l’esecuzione, poi, sono a noi più familiari rispetto alla coppia precedente: è possibile che l’audio documenti i modi di Toscanini, perché i due furono gli esecutori da lui prescelti in più occasioni, anche per altre opere di Verdi. E’ inutile descrivere il loro modo di fraseggiare e dire come e perché costituiscano un modello di accento verdiano. Basta ascoltarli perché tutte le definizioni si chiariscano subito: loro passano da soli!


Gli ascolti

Verdi - Il trovatore

Atto IV

Udiste...Mira, d'acerbe lagrime...Vivrà, contende il giubilo

1920 - Rosa Ponselle & Riccardo Stracciari

1925 - Frida Leider & Heinrich Schlusnus

1928 - Giannina Arangi-Lombardi & Carlo Galeffi

1929 - Tina Poli-Randaccio & Giovanni Inghilleri



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sabato 6 dicembre 2008

Tristan und Isolde: riflessioni, parte II



In attesa del 7 di dicembre, quando (sindacati permettendo naturalmente) la coraggiosa bacchetta di Barenboim si alzerà, per condurre l’orchestra del Teatro alla Scala sugli impervi sentieri di una partitura di gran lunga superiore alle sue odierne capacità (è la stessa orchestra, infatti, che mostrò palesi difficoltà già con il Candide, figurarsi con le complesse ed estenuanti trame musicali del Tristan), può essere utile una riflessione sull’opera.
Tristan und Isolde viene composto da Wagner dall’autunno del 1857 all’estate del 1859, ma dovrà attendere il 10 giugno del 1865 per la prima rappresentazione, avvenuta a Monaco con la direzione di Hans von Bulow, il tenore Ludwig Schnorr von Carosfeld nel ruolo di Tristano, il soprano Malvina Schnorr von Carosfeld nel ruolo di Isotta e il mezzosoprano Anna Deinet in quello di Brangane. L’opera ottenne un successo di stima, lasciando freddo e perplesso un pubblico (tra cui un diffidente Bruckner – mentre Liszt, pure invitato, se ne resterà a Roma) non abituato a quella che la critica contemporanea salutava (o denigrava, a seconda delle posizioni ideali e degli intenti polemici) come “musica dell’avvenire”. Durante questa lunga e faticosa gestazione, Wagner venne influenzato da svariati elementi, che concorreranno tutti a definire l’aspetto finale del Tristan e che vanno considerati e approfonditi per comprenderne la portata rivoluzionaria ed individuarne il carattere e la corretta cifra ideale e interpretativa. Da una parte la lettura di Schopenauer, dall’altra l’amore passionale e clandestino per Mathilde Wesendonck (per la quale scriverà negli stessi anni il famoso ciclo di lieder che tanto ha in comune con il Tristan e che è essenziale per la piena comprensione dell’opera). Non appare opportuno in questa sede (per ovvi motivi di brevità) soffermarsi in modo analitico su ogni aspetto della partitura e della sua composizione. Meglio dunque, procedere per cenni e sfiorare soltanto le problematiche più rilevanti. Innanzitutto, dove si colloca il Tristan nell’opera di Wagner? Esso è allo stesso tempo un punto di svolta ed un unicum. Infatti, da una parte, con esso, Wagner abbandona definitivamente la distinzione aria/recitativo e la struttura essenzialmente strofica che ancora sopravviveva – seppure in modo sempre meno evidente – nei sui titoli precedenti (Lohengrin, Tannhauser, Der fliegende Hollander, e naturalmente Die Feen e Rienzi), ancora riconducibili all’opera romantica post weberiana: la musica fluisce ora senza soluzione di continuità, una sorta di melodia infinita che scorre libera e senza argine nelle continue modulazioni musicali e ritmiche. Dall’altra però, questa continuità, questo discorso ininterrotto si pone con caratteristiche uniche ed autonome rispetto a tutto il resto della musica di Wagner, precedente e successiva: vi è infatti, una prevalenza assoluta dell’aspetto melodico-vocale sugli altri elementi musicali. E’ ancora la fase “italiana” di Wagner, dove ancora si sentiva debitore della nostra tradizione vocale (del resto i cantanti per i quali scriveva allora, da questa scuola venivano formati), prima delle successive (e a dire il vero un pò triviali) prese di posizione e di distanza (si pensi allo sgradevole – e di pessimo gusto – attacco alla tradizione italiana e a Rossini in particolare, nell’atto II dei Meistersinger, dove viene citato, a scopo di derisione, “Di tanti palpiti”). Qui Wagner è ancora debitore di Bellini (di cui fu grande ammiratore: “Di tutte le creazioni belliniane – scrive Wagner – Norma è quella che, accanto alla più ricca pienezza delle melodie, unisce l’ardore più intimo con la verità più profonda” - opera, la Norma, per la quale lui stesso compose un’aria alternativa per Oroveso) e dell’astrattezza del belcanto. E proprio questa astrattezza si ritrova nel Tristan. E se ben si osserva – senza preconcetti o posizioni ideologicamente cieche – l’atmosfera notturna, il mistero, la malinconia di certe pagine, gli aspetti “lunari” sembrano trovare un palese e manifesto richiamo proprio in Norma. Così pure lo stesso trattamento delle linee vocali richiama apertamente il belcanto belliniano. Se poi si analizza il tessuto armonico orchestrale e strumentale, si noterà come anch’esso viene ricondotto al canto vocale: al contrario della Tetralogia (dove emerge il predominio dell’orchestra e dove le stesse voci vengono trattate alla stregua di strumenti musicali nell’intento di ricondurre il tutto ad un'unica grande costruzione sinfonica), nel Tristan, i temi musicali sono essenzialmente vocali (a differenza del sistema dei leimotive, sviluppato nei lavori successivi) e anche quando vengono affidati all’orchestra essi appaiono nati per la voce e solo successivamente trasferiti agli strumenti. Si può dire che mentre altrove in Wagner le voci “suonano”, qui l’orchestra “canta”. In questo senso Tristan und Isolde è opera che, più di qualsiasi altra del suo catalogo, va “cantata” e non declamata! E in ciò ovviamente risiede la sua difficoltà, la sua ambiguità, il suo fascino e anche il motivo dei molti fallimenti interpretativi, laddove invece, non se ne colga la natura.
Questa natura inafferrabile e ambigua è realizzata anche attraverso un trattamento orchestrale assolutamente rivoluzionario, fatto di cromatismo semitonale, armonico e melodico, di modulazioni tonali, di strumentazione complessa e ostica (si pensi al ruolo inusitatamente ampio delle viole, che all’epoca erano suonate da violinisti di terza scelta e che mai avevano avuto un ruolo di così ampio rilievo). Wagner anche nell’orchestrazione, coerentemente all’impianto “belcantista” del Tristan, opera in maniera opposta rispetto alle successive composizioni (appaiono molto lontane le compagini mastodontiche del Gotterdammerung, con le sue 6 arpe, 8 corni, 4 tube etc..), attraverso cioè un progressivo “svuotamento”, un alleggerimento del contorno per evidenziare l’essenzialità delle linee melodiche. Alleggerimento funzionale all’emergere della dimensione intima e individuale, sino ad ora assente dalle ampie costruzioni wagneriane: non ci sono imperscrutabili eroi, e il mito – seppur presente, anche se più come spunto narrativo che simbolico – lascia spazio al dramma tutto interiore dell’anima umana, contesa tra luce e buio, vita e morte, ragione e passione. Probabilmente influenzato da certe suggestioni di Novalis (si pensi agli Inni alla Notte: “fedele il mio cuore segreto rimane alla notte, e a suo figlio, l’amore che crea...”), Wagner contrappone la notte che diviene mistero e magia, luogo dell’anima ove la passione non ha freni e diviene lussuria (Tristan non parla di amore, ma di passione e di carnalità), ove la morale è sommersa dal piacere, alla prosaicità del giorno (che è razionalità, convenzioni, ruoli). Tutto scompare nella notte, tutto si mescola, tutto è lecito, i confini spariscono, la vista si annebbia, i sensi si risvegliano. E la morte alla fine altro non è che un’eterna notte, ove finalmente sfogare i desideri: un buio perpetuo in cui la passione, liberata dalla schiavitù della luce vive questi suoi desideri. La morte di Isolde non è che un atto sessuale in cui essa si perde nei propri sensi. Opera quindi del desiderio irrazionale e nascosto, opera dell’incomunicabilità, più vicina a Debussy che alla Tetralogia, e priva di ogni cedimento a certa retorica e manierismo esteriore. Attraverso questo complesso disegno di passioni non appagate, il direttore (e l’orchestra) è chiamato ad un compito difficilissimo. Sia a livello tecnico che interpretativo. Diversi quindi, sono stati gli approcci alla partitura, e diversi, di conseguenza gli esiti. Furtwaengler, ad esempio, attraverso tempi morbidi e meditati, e la ricerca di un suono rotondo e definito, tratteggia il suo Tristan come una sacra rappresentazione, senza però fraintenderne l’intimismo. Accentua il dramma della rassegnazione e dell’impotenza di fronte ad un destino che si figura avverso e nemico. Il finale è una alta trasfigurazione di tutti i sensi verso un ideale superiore fatto sì di sensualità, ma anche di pace e bellezza.
Solti (che non sembra molto a suo agio col mondo ideale evocato dall’opera) al contrario, ne evidenzia gli elementi più esteriori, i contrasti dinamici, il vitalismo di certe pagine. Risulta alla fine un pò manierato nella ricerca del mito a tutti i costi. Fa del Tristan una scultura di marmo, invece di un dipinto sfumato.
Kleiber ha della partitura, una visione che pare ispirata al Nietszche della “Nascita della Tragedia”, come un contrasto tra apollineo e dionisiaco. Un mare infinito che appare placido e uniforme, ma che in realtà è, sotto la superficie, agitato da correnti e vortici, e solcato da venti gelidi, pronto a sommergere e a scatenarsi con la potenza delle sue onde. E così la sua lettura: una apparente perfezione formale, una cura meticolosa di ogni dettaglio, di ogni sfumatura, di ogni pausa, che però sottintende l’agitarsi di passioni sopite, e che talvolta emergono con forza.
Barenboim, infine, ispirandosi sicuramente alla lezione di Boulez, riduce al minimo le dimensioni, ne accentua il nervosismo, la problematicità, il senso di sconfitta, il pessimismo, si pone agli antipodi di Furtwaengler: quanto quello è sacrale e metafisico, questo appare laico, umano, materialista. Ogni dettaglio è sviscerato con diligenza maniacale, spogliato da ogni trascendenza. Una visione quasi “cameristica” della partitura. Ma oltre all’approccio direttoriale (e naturalmente, fortemente influenzato dallo stesso) vero centro della partitura, vero snodo, è la morte di Isolde, “Mild und Leise”: momento in cui tutto viene ricondotto all’unico esito possibile, ove tutto si scioglie e si libera. Ove la visione e l’interpretazione del direttore è chiamata al banco di prova. Luogo in cui si evidenziano i differenti atteggiamenti ideali: morte o nuova vita? Fine o inizio? La morte di Isotta è un lungo abbraccio che porta al trionfo del buio sulla luce: attraverso la morte, la passione si libera da ogni costrizione. E diviene splendente: la notte che risplende infuocata dai sensi. Ma solo lei lo vede questo fuoco, solo lei lo sente. Ancora l’individualità che emerge su tutto il resto. Queste sono le parole di Isolde, nella traduzione di Manacorda:

"Lieve, sommesso
come sorride,
come l’occhio
dolce egli apre…
lo vedete amici?
Non lo vedete?
Sempre più limpido
come esso brilla
e raggiante d’una luce stellare
si leva verso l’alto?
Non lo vedete?
Come il cuore a lui
baldanzosamente si gonfia,
e pieno e maestoso
nel petto gli sgorga?
Come alle labbra,
voluttuosamente miti,
un dolce respiro
lievemente sfugge…
Amici! Vedete!
Non lo sentite, non lo vedete?
Odo io soltanto
questa melodia
che così meravigliosa
e sommessa,
voluttà lamentosa
tutto esprimente,
dolce conciliante,
da lui risuonando penetra in me,
e verso l’alto si libra
e dolce echeggiando
intorno a me risuona?
Queste armonie più chiare
che mi circondano,
sono forse onde
di miti aure?
Sono forse vortici
di voluttuosi sapori?
Come esse si gonfiano
e mi circondano del loro sussurro,
debbo io respirarle,
prestar loro ascolto?
A sorsi beverle,
sommergermici?
Dolcemente in vapori
dissiparmi?
Nell’ondeggiante oceano
nell’armonia sonora,
del respiro del mondo
nell’alitante Tutto…
naufragare,
affondare…
inconsapevolmente…
suprema letizia!”


Come affronta Wagner questi versi? Innanzitutto il tempo: molto moderato, che firma l’intero brano, a volte accellerando e sostenendo il ritmo, a volte ritornando alla placida calma iniziale. Tempo di ampio respiro quindi, largo, comodo, mai affrettato. Si inizia in pp, con una frase legata, da tenere con un unico fiato: un sospiro, un sussurro, accompagnato dal tremolo dei violoncelli con sordina e dal clarinetto basso che raddoppia la frase, donandole una sfumatura di malinconica dolcezza. E’ poi la volta delle viole (sempre con sordina) e del clarinetto ad accompagnare il canto. Questo procede, attraverso un cromatismo che dona al brano instabilità e ambiguità tonale, e su di esso si innestano i corni e i violini (divisi in quattro parti) con sordina, a riecheggiare la frase iniziale (come se si ripetesse all’infinito nella mente di Isolde) in un crescendo che accompagna il crescere del canto fino al culmine, per poi spegnersi morendo, con dolcezza, sfumando nel cambio di tonalità. Qui la linea vocale si intreccia con le viole, i violini e i legni, con frasi ampie e trasognate. Tutto è pp, dolce, con molte forcelle, a movimentare la dinamica. E’ poi la volta di un lungo crescendo accompagnato dal tremolo degli archi, e che è un susseguirsi di amplissime frasi legate, dove dosare sapientemente i fiati per non spezzare la continuità del discorso musicale. Il tutto va eseguito dolcemente e con calma. Sul canto, modulato e sfumato, si innestano talvolta delle screziature, come degli scheletri di agilità belcantiste che ricordano l’astrattezza delle prime frasi di “Casta diva” (e qui emerge ancora tutto il debito di Wagner nei confronti dell’opera di Bellini). Gradualmente tutta l’orchestra viene coinvolta in queste ondate di crescendo e diminuendo, quasi a rappresentare il respiro affannato e stanco di Isotta, che procede rallentando, spegnendosi, al ritmo del suo cuore che anch’esso, lentamente, si spegne. E con il cuore il canto: le pause si fanno più ampie, le note di legni e ottoni vengono tenute lunghe, come un letto su cui appoggiare la voce, sostenuta appena dal tremolo degli archi e dal dolce sussurro dell’arpa, mentre clarinetto, oboe e corno inglese si scambiano frammenti di frasi. Si va verso la fine, “hochste lust”, “suprema letizia”: un ultimo e difficile salto di ottava verso l’acuto, pianissimo, dolce, un ultimo Fa da sostenere e smorzare, sino a spegnersi negli accordi finale, ancora un breve crescendo e un diminuendo, un ultimo brivido e, sul pizzicato dei contrabbassi l’immensa partitura sfuma nel buio notturno della fine, come la sua protagonista. Così scrive Wagner. Ma naturalmente ogni cantante l’ha reso con la propria sensibilità, è quindi opportuno un breve excursus tra le interpretazioni, vecchie e nuove. E parlando di Isolde non si può che cominciare con la Flagstad. Voglio considerare due incisioni: 1948 diretta da Issay Dobrowen e 1952 diretta da Wilhelm Furtwangler. In entrambe le versioni (la prima mostra una maggiore freschezza, mentre la seconda – con una voce appena più brunita – comunica una certa maggiore sensualità) la Flagstad fa mostra della purezza adamantina della sua linea vocale, della morbidezza dell’emissione, della sicurezza regale degli acuti, della perfezione del legato, del fraseggio sfumato, ricco e continuo. Un’Isolde “cantata” dalla prima all’ultima nota: una interpretazione che sottolinea soprattutto la musica e la sua nobiltà. L’Isotta della Flagstad è una dea celeste che si trasfigura verso un’idealità superiore: la morte non è che una metamorfosi. A questa visione altamente tragica (nel senso classico del termine), si può contrapporre l’Isolde “elegiaca” della Nilsson (diretta nel 1960 da Solti), risolta quasi esclusivamente nella bellezza del canto, qui sgargiante e perfetto – anche se talvolta appare un po’ troppo compiaciuto della propria perfezione. Qui la regina diviene l’eroina bellissima e seducente che non ha bisogno di filtri o magie (che sembrano quasi dei pretesti) per far scaturire la passione di Tristan. Unico appunto che si può muovere è l’orchestra a volte soverchiante, dovuta più che altro alla lettura di Solti che accentua in modo spesso invadente l’aspetto strumentale. E’ poi la volta di Margaret Price, che incide nel 1982 con Carlos Kleiber: la voce è angelica, rotonda, levigata, perfetta nel seguire ogni dettaglio della complessa costruzione wagneriana. Splendido il legato e il fraseggio, l’acuto è sempre sicuro e tagliante, senza perdere mai la morbidezza. Un’Isolde giocata sulle mezze voci e il canto rifinito, nell’ottica dell’alleggerimento per evidenziare l’assoluta bellezza del canto. Una visione fortemente lirica, malinconica e romantica. Un’eroina non più tragica o divina o sovrannaturale, ma fragile e terrena, aristocratica e decadente, quasi trasparente nella sua semplicità. L’Isolde della Price appare fin da subito consapevole della propria morte d’amore, e comunica – in questa accettazione schopenaueriana e buddhista – un senso di pace e rassegnazione, solo talvolta screziato dalla sofferenza e dal dolore: il dramma è intimo e divora da dentro. Diametralmente opposta la lettura della Meier, con Barenboim nel 1994 (entrambi saranno i protagonisti della prossima apertura scaligera, 13 anni dopo quest’incisione, ed entrambi con grossi problemi da affrontare: lei un’usura vocale ed un innegabile decadimento, già messo impietosamente in evidenza nell’ultimo Lohengrin scaligero; lui un’orchestra assai decaduta e priva di disciplina e professionalità che da almeno 3 anni non manca di mostrare ad ogni sua esibizione, evidenti problemi di tenuta e affidabilità). L’Isolde della Meier, che sembra rifarsi alla discutibile lezione della Modl, è una potenza infernale: la voce è più scura, ambrata, nervosa. Gli elementi drammatici vengono accentuati. Il senso di dolore, rabbia e morte lascia poco spazio al compiacimento estetico dell’assaporare la bellezza musicale. Il canto appare sforzato – e questo, purtroppo, non solo per scelte interpretative – l’acuto è meno brillante, più faticoso. Già allora la Meier correva pericolosamente su di un filo, temo che oggi faticherà a portare a termine il ruolo “cantando” (ecco perché credo che assisteremo ad un’Isolde “declamata” – strana e consueta via di fuga quando l’usura comincia a farsi evidente e la tecnica inizia a scemare – in barba al carattere essenzialmente vocalista dell’opera). Chi è dunque Isolde? Dea tragica, eroina bellissima, angelo, femmina sensuale, strega infernale? Vittima o artefice del suo destino? Creatura malinconica e decadente o demonio egoista guidato solo dalle sue passioni? Venere o Elisabetta? Redenzione o condanna? Forse è tutto questo. Forse tutti questi caratteri coesistono nello stesso personaggio. Forse è proprio l’ambiguità e l’inafferrabilità a rendere possibili tutte queste sfaccettature interpretative. Interpretazioni tutte legittime, certo, a patto di non tradirne l’essenza vocalista, direi addirittura belcantista. Ecco il punto: il Tristan und Isolde va cantato. E cantato per davvero (pensando a Bellini e a Norma), senza le facili vie di fuga di un declamato che sfocia nel parlare, o di una teatralità soverchiante, finalizzata solo a mascherare le mancanze vocali. Non ci possono essere scappatoie, se al canto si sostituisce la parola, non si regge, nessuno regge: né il cantante né il pubblico!

Gli ascolti

Mild und leise

Félia Litvinne - 1902
Lilli Lehmann - 1907
Lillian Nordica - 1911 - Cilindri Mapleson 01/1903 & 02/1903
Melanie Kurt - 1911
Olive Fremstad - 1913
Amelia Pinto - 1914
Nanny Larsen-Todsen - 1928
Meta Seinemeyer - 1928
Germaine Lubin - 1930
Giuseppina Cobelli - 1930
Frieda Leider - 1931
Kirsten Flagstad - 1936
Marta Fuchs - 1938
Gertrud Grob-Prandl - 1953
Birgit Nilsson - 1959

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Tristan und Isolde: riflessioni, parte I


Parlare di Wagner non è facile. Lo è ancora di meno per l’ascoltatore o l’appassionato del melodramma italiano o, almeno, di ispirazione italiana.
Tristano ed Isotta è opera sia da grandi cantanti che da grande direttore. E se è per quello anche da grande orchestra. Caratteristica questa non solo di Wagner, ma di tutto il melodramma almeno dal 1870 in poi. In repertori assolutamente diversi dal wagneriano incontri fra grande cantante e grande direttore hanno dato risultati di levatura storica.
Con riferimento a Wagner basta pensare a Furtwaengler con la Leider o la Flagstad.
L’assenza di grandi cantanti, ove per grandi si intenda professionisti dotati di grande tecnica in primo luogo è la condicio sine qua non comune al Tristano ed alla Traviata. Non può essere liquidato l’assunto come opinione di vociomane. Troppo facile ed antistorico, soprattutto.
La credenza che Wagner possa essere eseguito senza il rispetto della quadratura tecnica, che proviene dalla scuola di canto italiana ottocentesca e la sua aberrante derivazione che Wagner (e tutto l’operismo tedesco successivo) si canti con una tecnica differenze ed il corollario che i grandi cantanti di scuola italiana sarebbero negati al canto wagneriano sono malintesi nella migliore delle ipotesi antistorici e nella peggiore forzatamente interessati.
Bastano cento anni di registrazioni, in quanto sono di fatto documentati i primi cantanti che affrontarono il repertorio wagneriano.
Bastano le uniche registrazioni di Marianne Brandt (1842-1921) prima Kundry, in alternanza con Amelia Materna (1844-1918), che canta il brindisi della Borgia e l’aria ! Ah mon fils” di Fides del Profeta con gusto e tecnica sono quelli del canto ottocentesco se non addirittura del bel canto.
A seguire il filone del pensiero “tecnica diversa” si arriverebbero a due egualmente abberranti conclusioni o che la Brandt quando cantava Wagner cantava con una tecnica diversa (quale poi?) o che Wagner, che la scelse personalmente, non capiva nulla di canto wagneriano.
La più concludente prova che Wagner debba essere cantato è la documentazione lasciata da Lilli Lehmann (1848-1929) celebre tanto quanto Isotta e Brunilde quanto come Norma o addirittura Philine di Mignon. La carriera quarantennale, la freschezza vocale documentata sono un altro colpo alle opinioni della differente tecnica o della non necessità dell’uso del canto di scuola.
Gli esempi continuano in tempi all’epoca contemporanea sino a Birgit Nilsson, l’ultimo vero soprano drammatico wagneriano, che abbia praticato il repertorio italiano. Si può discutere l’interprete, la qualità vocale, ma non certo il dominio dei cosiddetti “ferri del mestiere”. Persino nei passi virtuosistici. D’altra parte chi sentisse Lillian Nordica (1857-1914) e Lilli Lehmann, due fra le più famose Isotte della storia, ascolterebbe in altro repertorio un’impeccabile esecuzione dei passi di agilità.
E le risultanze non cambierebbero neppure ascoltando Melanie Kurt (1880-1941), che passava per una Isotta veemente ed interprete e, però, fronteggiava e superava l’impervia scrittura di Berthe del Profeta. Mi piacerebbe sentire le Stemme e le Polansky alle prese con i duetti Berta-Fides.
Per altro il malinteso del canto wagneriano come negazione del canto o superamento della tecnica italiana è un parto degli ultimi cinquant’anni coevo alla decadenza rapida e sembra irreversibile della scuola di canto tedesca.
Olive Fremstad (1871-1951), documentata nella morte di Isotta, e passata alla storia come cantante attrice (l’anti Nordica?) e assai vicina al gusto di Bayreuth, fatte le debite tare dovute ai primordiali metodi di registrazioni, che penalizzano Wagner più di ogni altro autore esegue il brano con una castigatezza di accento un’attenzione al legato ed una levigatezza non molto diffuse nell’ultimo mezzo secolo. L’allusione alle Modl e Varnay è ovvia, scontata e soprattutto dovuta.
Il canto non sostenuto da una tecnica adeguata compromette il legato, elemento indispensabile per dare vita ai due amanti wagneriani.
Basta guardare le indicazioni di cui lo spartito è costellato.
Il problema delle Isotte furenti, stimbrate, spacciato per sacro furore interpretativo è il problema dei protagonisti maschili degli ultimi cinquant’anni. Si chiamino Vickers, Kollo, Hoffmann, Heppner, che arrancano miseramente nel duetto d’amore con timbri per nulla amorosi e neanche eroici) e che rendono grati all’ascoltatore i tagli del terzo atto, che, di fatto, si regge sul protagonista maschile.
Adesso è di grande moda denigrare il più documentato e qualificato Tristano della storia dell’opera Lauritz Melchior. E figuriamoci se ci fossero le registrazioni di Jean De Reszke (1850-1925), che accadrebbe. Qualcuno dai microfoni RAI ci direbbe che cantava come Maurice Chevalier o Luciano Tajoli.
E pensare che il maggior elogio documentato all’arte di Melchior viene proprio da una intervista di Astrid Varnay, la quale in un’intervista televisiva parla della straordinaria proiezione ed ampiezza del suono del tenore danese. Strano che la presunta profetessa del Wagner senza tecnica classica canti le lodi del più tecnico cantante wagneriano !!!!
Anche qui delle due o la Varnay non capisce nulla di canto ed è priva di autostima o, più probabilmente, i cultori del canto parlato in Wagner sono smentiti dalla loro medesima profetessa.
In linea di principio la scrittura vocale marcatamente centrale (salvo qualche impennata all’acuto, do compreso per Isotta), in certi punti prossima all’omofonia richiede voci che abbiamo la loro miglior ampiezza e penetrazione in quella zona, tenuto anche conto della necessità di svettare sul magma orchestrale.
Al centro, è noto, tutti o quasi cantano anche per virtù naturale con la sostanziale differenza che la voce impostata in quella zona assicura a differenza della naturale la proiezione idonea a fronteggiare senza sforzo la massa orchestrale. Quel suono che in Verdi come in Wagner riempie il teatro
Sotto questo profilo sono esemplari le ricchezze degli strumenti della Flagstad e della Grob Prandl (la cantante wagneriana vocalmente più dotata, che i dischi documentino) nella scena di Isotta che apre il secondo atto, ma sono ancor più sorprendenti i risultati di due voci estesissime in alto come la Nilsson e più ancora Nanny Larsen-Todsen(1884-1982). Quest’ultima soprano wagneriano ufficiale a Bayreuth fra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 protagonista della prima registrazione in studio dell’opera.
E’ evidente che sia il cosiddetto racconto di Isotta al primo atto che l’attesa della protagonista al secondo vengono eseguiti con grande rispetto del legato (il segno di espressione più speso nell’intera partitura), con una dinamica spesso più varia di quella prevista dall’autore e, naturalmente dominando con irrisoria facilità il pesante orchestrale.
Ancora nella sezione centrale del duetto d’amore gli amanti se dilettanti del canto aiutati dalla tessitura centrale reggono, ma il suono non ha né la penetrazione né la lucentezza di voci come Melchior e la Leider o la Flagstad. Melchior ha lasciato le incisioni del duetto con entrambe le partners.
E quanto ad ampiezza e proiezione di suono colpiscono, più di ogni altro per le registrazioni assolutamente primordiali Lillian Nordica e Georges Anthes (1863-1923) negli stralci dei cilindri Mapleson. Impressionante quando i due amanti cominciano a “dare volume” alle voci per l’idea di un canto, che si espande e riempie il teatro. Poi si potrà anche discutere che sin dai primi acuti si percepiscono suoni un poco fissi nella Nordica, ma l’idea dello stile grandioso che a Wagner derivava dal grand-operà è reso a meraviglia.
All’ascoltatore attento non sfuggirà, almeno sotto il profilo vocale che Wagner non è affatto un unicum nella storia del canto, che, al contrario, si inserisce nella tradizione e secondo la tradizione deve essere eseguito.L’impressione circa l’effetto della voce “live” di Lillian Nordica, al di là della frammentarietà e difficoltà dell’ascolto si rinnova nel delirio finale di Isotta sul cadavere di Tristan. Le doti vocali e tecniche sono anche nel finale il discrimen fra le Isotte di tradizione “belcantistica” e quelle dello sprachgesag. Ed anche qui si devono superare i malintesi. Certo che l’esecuzione della Flagstad è tale da far dire a Joan Sutherland che il soprano norvegese è una belcantista e privilegia la qualità del suono, la perfezione dell’emissione tutti attributi e manifestazioni prima di tutto delle regalità; però le esecuzioni della Gadski (1872-1932) o della Fremstad, che sarebbero ispirate ad altra di estetica sono, comunque, rispettose del testo musicale e della tecnica. Le altre, spiace dirlo, latitano come interpreti ed anche come esecutrici.

Atto I
- Entrata di Isolde - Kirsten Flagstad, Gertrud Grob-Prandl
- Wie lachend sie mir Lieder singen - Nanny Larsen-Todsen, Kirsten Flagstad, Birgit Nilsson

Atto II
- Attesa di Isolde - Kirsten Flagstad, Gertrud Grob-Prandl, Birgit Nilsson
- Duetto d'amore - Nordica & Anthes (Mapleson 1 e 2), Leider & Melchior, Larsen-Todsen & Graarud, Flagstad & Melchior, Grob-Prandl & Windgassen, Nilsson & Windgassen
- Canto di Brangaene - Ebe Stignani

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