giovedì 8 ottobre 2009

Mese verdiano IV: Simon Boccanegra, dal 1857 al 1881.

Sempre più spesso – in questa nostra epoca così smaniosa di scoprire “capolavori dimenticati”: sia per ansie musicologiche, sia, più probabilmente, per rinnovare un repertorio sempre più assottigliato (e per molte ragioni) e sempre più a rischio di confronto con un passato, anche recente, divenuto troppo ingombrante e imbarazzante – l’interesse degli “addetti ai lavori”, con il consueto plauso e sostegno di una critica musicale sempre più militante e militarizzata (nella difesa dell’indifendibile), si è concentrato su titoli rari o rarissimi, sconosciuti ai più, dimenticati, desueti, scomparsi e ricomparsi, ovvero su versioni alternative, originali, rivedute, definitive, inedite, apocrife e quant'altro, di capolavori riconosciuti: nascondendo in realtà, dietro la facile maschera della serietà e rispettabilità filologica, un gigantesco vuoto di idee e capacità.

Dal barocco all’opera seria, sino al melodramma di più largo consumo, è tutto un fiorire di eroi, divinità e semidivinità, consoli, proconsoli e imperatori di metastasiana compostezza; di servette astute, scaltre, infide e un pò mignotte, sempre attorniate da tutori rimbambiti, da amanti languidi e imbranati o da padroni babbei; di re, regine, duchi, conti, principesse assortite e cavalieri tenebrosi o reietti; di drammoni storici improbabili ambientati su e giù per l’intera Europa (e non solo): titoli spesso di modesto valore musicale, ma scritti per cantanti dalle doti eccezionali e che proprio nella pura esibizione vocale trovavano la loro vera ragion d’essere (laddove oggi nell’ambito di festival più o meno estivi o di stagioni più o meno autunnali, vengono affidati ad interpreti volenterosi – a volte – ma, spesso, ahimè, del tutto inadeguati agli sforzi). Recentemente – pure nella reiterata omissione di interi settori di repertorio che sarebbe doveroso scandagliare (per l’intrinseco valore estetico e storico): si pensi alla maggior parte del teatro donizettiano o al tanto vituperato verismo – sono stati oggetto di queste attenzioni, rectius dotte pruderie musicologiche, anche certi lavori di Wagner e di Verdi: e questo proprio quando le vicende interpretative dei due grandi compositori (i più rappresentati al mondo e i cui cataloghi non parevano riservare più nuove sorprese) stanno vivendo una sofferta decadenza, la più grave, forse dai rispettivi esordi. Tralasciando dietrologie e motivi che hanno condotto a tali operazioni, di particolare interesse appare, tuttavia, la rivalutazione delle prime redazioni di alcuni tra i più celebrati capolavori del cigno di Busseto: La Forza del Destino, Don Carlos, Macbeth e Simon Boccanegra. E’ arcinota l’ansia di Verdi – soprattutto nell’ultima parte della sua carriera – nel rivedere forma e sostanza di alcuni titoli del suo vecchio catalogo: a volte per ragioni estetiche (finalizzate ad un supposto “miglioramento” dell’originale che, forse, non aveva ottenuto il successo sperato), ma più spesso per mere contingenze (Verdi fu sempre uomo pratico, con la concreta mentalità dell’artigiano, priva di quelle suggestioni messianiche e trascendentali che annebbiarono il senno del suo coetaneo collega di Sassonia: e a dire il vero non solo a lui...), rappresentate dall’occasione di riprese di lavori passati, sui quali sembrava necessario (e lo era in un teatro lirico ancora vivo e non già imbalsamato in una, pur splendida, sala di museo) un attento restyling per consentire maggior appeal all’orecchio di pubblici nuovi e diversi, ormai avvezzi ad altri linguaggi: certe formule che erano prassi almeno sino alla metà del secolo e oltre, derivate dal melodramma donizettiano e tardodonizettiano – ambito entro il quale si muoveva diligentemente il primo Verdi – non erano più proponibili a cominciare dagli anni ’60. Non si commetta, però, l’errore di scambiare questo procedimento (assolutamente naturale e comune) per un progresso anche qualitativo, in ossequio ad una concezione hegeliana della storia intesa come processo di superamento e maturazione verso un livello superiore! E’ semplicemente un mutare linguaggio per renderlo più comprensibile e spendibile. Peraltro Verdi, procede in modo assai differente a seconda delle esigenze, delle circostanze, delle necessità e del titolo oggetto di revisione, passando dalla mera sistemazione di dettagli (orchestrali e vocali) all’omissione di taluni brani ormai morfologicamente superati, all’aggiunta di pezzi nuovi, sino al totale stravolgimento della struttura musicale dell’opera.

L’esempio del Boccanegra si pone a mezza via. La prima versione dell’opera ebbe il suo battesimo a Venezia, il 12 marzo 1857. Non fu un successo: Verdi scrisse “ha fatto fiasco quasi altrettanto grande che quello della Traviata”. Forse esagerava. Gli esiti comunque non furono lusinghieri e non mutarono neppure nel corso delle poche repliche. Succeduta di poco alla “trilogia popolare” – che segnò il primo, vero punto di svolta nell’estetica verdiana, rispetto ai cosiddetti “anni di galera” – il Simone si inserisce in quella fase di passaggio e transizione che comprende i Vespri Siciliani e, soprattutto, il Ballo in Maschera. Il linguaggio verdiano, che ancora risente della tradizionale separazione dei numeri chiusi e di tutti i cliché del genere (nella scansione di arie e cabalette, concertati e strette), mostra, tuttavia, evidenti sforzi per un superamento delle forme. Ciò che ancora sopravvive, nella scrittura vocale e nell’accompagnamento, è innanzitutto l’attaccamento a soluzioni debitrici del melodramma romantico donizettiano (un canto ancora fiorito e abbastanza rigido, con cabalette d’ordinanza e separazione netta tra episodi solistici e recitativi: e comunque qualitativamente inferiore al modello), nonché un uso essenziale e spesso impacciato dell’orchestra, in bilico tra strumentazione ora bandistica (e piena di effettacci) ora esageratamente scarna, finalizzata ad un mero accompagnamento privo di ogni intento espressivo (Verdi, al contrario di Donizetti, non padroneggerà mai compiutamente l’arte dell’orchestrazione). Il primo Boccanegra risente di tutti questi aspetti, a cominciare dalla struttura: si apre con un breve preludio (tra i meno ispirati dell’autore) che si limita a riassumere alcuni temi dell’opera, segue la classica introduzione con cori e solisti, per sfociare nella cavatina dell’antagonista. E così via. La strumentazione è elementare, severa, rigida e cupa. Le formule vocali sono ripetitive. Tutto questo viene rivisto nel 1881: l’occasione è data dall’appena nata collaborazione con Arrigo Boito (che rivide per primo il libretto) e dalle insistenze di Ricordi che cercava in ogni modo di riportare il musicista al teatro, dopo il lungo silenzio succeduto ad Aida; ma già nel 1868 l’editore (10 anni dopo la prima) propose a Verdi di riprendere in mano l’opera, ottenendo un seccato rifiuto (opera troppo triste e monotona, scrisse l’autore). Verdi ci lavorerà per più di 6 settimane: rivede quasi ogni singola battuta (anche i più piccoli dettagli). La scrittura orchestrale si fa più elaborata, tendente a fondere con essa la linea vocale. Ma oltre a questo complesso lavoro di piccoli tagli, continui ritocchi, inserzioni e modifiche – che, pur stravolgendone il contenuto, mantengono intatta la struttura – Verdi opera alcuni cambiamenti radicali: importantissimi per il rilevo che assumono nel rapportarsi alle soluzioni estreme della parabola musicale dell’autore. In particolare: elimina il preludio (sostituito da una breve e suggestiva introduzione strumentale) e la cabaletta che segue l’aria di sortita di Amelia; riscrive completamente il duetto tra Fiesco e Gabriele nell’atto I; sostituisce il finale d’atto – che prevedeva originariamente una scena di festa in onore del doge davanti al porto di Genova – con la grande scena del Palazzo Ducale; compone una nuova scena in apertura dell’atto III. Tutti questi cambiamenti sono emblematici del procedere dello stile verdiano e dell’evoluzione della sua scrittura – che non diventa necessariamente migliore, ma semplicemente diversa: anzi, a dirla tutta, il “nuovo” Boccanegra presenta al suo interno problemi di coerenza compositiva (il distacco di oltre vent’anni tra le due redazioni, infatti, è distanza incolmabile e le differenze stilistiche rimangono evidenti, soprattutto nell'atto II, nonostante gli sforzi dell’autore protesi nello smussarle il più possibile), laddove la versione originale si presenta, invece, seppur con tutte le sue evidenti debolezze, come un lavoro del tutto compiuto e omogeneo, sicuramente ancora debitore di certe convenzioni (poi superate), ma strutturalmente più compatto e drammaticamente efficace. Comunque sia, oggi è possibile – anche attraverso alcune incisioni del primo Boccanegra – sperimentare l’ascolto della versione originale: tralasciando i numerosissimi dettagli della revisione che, come già accennato, percorrono l’intera partitura, vorrei soffermarmi su quegli episodi che marcano la differenza tra le due versioni.

1) Preludio: scomparso nella redazione del 1881 e sostituito da una breve introduzione strumentale di appena 26 battute (caratterizzata da un andamento lirico e nobile con un impiego molto delicato ed evocativo della tavolozza strumentale), il preludio non è che un centone di alcuni temi che si ascolteranno nel corso dell’opera. Strutturato in quattro sezioni, si apre con dei rozzi accordi suonati ad orchestra piena, a cui segue la citazione del tema lirico del duetto tra il doge e Amelia fino ad un crescendo che propone il tema della sommossa ordita dai cogiurati (orchestrato in modo bandistico), per terminare col tema finale del perdono. Un brano decisamente poco ispirato, pesante e piuttosto ingenuo (ben altro livello aveva raggiunto Verdi con altri preludi precedenti: si pensi a Traviata, ma anche ad Attila o Masnadieri) con l’unico pregio della brevità: poco meno di 3 minuti di musica scadente.

2) Cabaletta di Amelia: dopo la sortita del soprano “Come in quest’ora bruna” (che nella prima stesura non presenta la suggestiva ed evocativa raffigurazione strumentale dell'aurora che sorge sul mare, bensì una più convenzionale introduzione) e appena seguente alla voce di Gabriele fuori scena (accompagnata da una fisarmonica, sostituita poi dall’arpa nelle revisione del 1881), la versione originale prevedeva una cabaletta prima della scena e duetto col tenore, a rappresentare l'esplosione di gioia per l'imminente arrivo dell'amato. Dello stesso stile di “Trionfai” del primo Macbeth (e ugualmente espunta), è la tipica cabaletta con il da capo: caratterizzata da una scrittura vocale ancora virtuosistica (con abbondanti trilli) e un veloce accompagnamento arpeggiato, segna un deciso passo indietro, nella sua convenzionale banalità. Brutta e inutile la definì Verdi, e con ragione: eppure ancora nel 1883, in occasione di alcune recite a Parigi, il soprano chiese all’autore di ripristinare proprio quella cabaletta (probabilmente per dare mostra delle sue doti), e, poiché nel frattempo la partitura non era più disponibile, di ristrumentarla: naturalmente l’autore rifiutò seccato, sostenendo di averla ormai gettata nel fuoco.

3) Duetto tra Fiesco e Gabriele: la versione originale prevedeva, in luogo del duettino del 1881 (col suo procedere organistico e solenne, ma senza effettacci), un’esplosione rabbiosa nei confronti del doge, un giuramento di vendetta tra timpani, grancasse e ottoni. Un brano feroce, ma non privo di una sua efficacia.

4) Finale dell’atto I: è il cambiamento più rilevante. Al posto della famosa scena nella Sala del Consiglio (considerata, e a ragione, uno dei vertici del teatro verdiano, nonostante certi eccessi di Boito che sfiorano il comico involontario: il “romito di Sorga”, ne è esempio preclaro e, spesso, saggiamente modificato), vi era in origine un finale assai più convenzionale con coro, banda, ballabili, concertato dei solisti e stretta conclusiva. La scena è una vasta piazza di fronte al porto, sovrabbondante di gente d’ogni sorta e imbarcazioni, in occasione della celebrazione dell’anniversario dell’incoronazione del doge. Si apre con un lungo episodio corale: musica festosa, senza troppe pretese, di puro intrattenimento (come tutta la musica cerimoniale dell’epoca) che comprende una barcarola di voci femminili, un inno al doge di retorica bruttezza, un ballabile di corsari africani e di nuovo coro femminile e banda: effettacci a profusione (nemmeno negli anni di galera l’ispirazione di Verdi era scesa così in basso)! A seguire, la denuncia del rapimento di Amelia e l’accusa al doge, ritenuto responsabile: la situazione degenera fino all’ingresso dell’interessata che scagiona Boccanegra, lasciando tutti sorpresi. Qui Verdi inserisce un sestetto “di stupore” (che nel suo effetto di sospensione e di staticità, come afferma giustamente il Budden, ricorda troppo certi espedienti dell’opera buffa – si pensi al rossiniano “Freddo ed immobile” – per non suscitare una certa ilarità, del tutto inadatta ed incongrua al momento così altamente drammatico). Dopo il racconto di Amelia circa il suo rapimento (in parte mantenuto nella revisione), segue la consueta stretta, ancora irrinunciabile nel 1857, che conclude l’atto in un banale accordo in maggiore: nulla di diverso da un Pacini o un Mercadante, solo molto meno riuscito e molto più scontato. Poco o nulla di tutto questo rimarrà nella redazione del 1881 e nel Verdi maturo.

5) Inizio dell’atto III: nel 1857 la scena si apre con un doppio coro di vittoria, banda e popolo fuori scena, orchestra e senatori in scena. Un breve dialogo tra Paolo e Pietro, interrotto da un coro nuziale in lontananza, introduce l’arrivo di Fiesco che apprende, inorridito, dell’avvelenamento del doge. La revisione è radicale, il personaggio di Paolo assume un nuovo e più disperato spessore, mentre Fiesco si rassegna al proprio destino.

Riassumendo la portata degli interventi si può ben affermare che il lavoro di Verdi, in quest’occasione, fu ben più radicale che nel Macbeth o in Jerusalem o nella Forza del Destino: non solo questi 5 episodi, ma l’intera partitura venne ripensata, i personaggi stessi assumono nuovi caratteri (Paolo, ad esempio, ottiene una maggiore complessità; Fiesco e Boccanegra vengono meglio rifiniti nel loro carattere di disillusa nobiltà, Amelia perde certe incongruenti incrostazioni belcantiste e pure Gabriele acquisterà un maggior interesse, anche se il personaggio resta il meno riuscito dell’opera e quello più legato alle convenzioni che pretendevano un innamorato tenore). Tuttavia, ancora evidenti rimangono le suture tra vecchio e nuovo: troppi anni sono passati, troppo legata a formule ormai desuete è la versione originale e troppa strada aveva percorso il linguaggio verdiano (non insensibile alla continuità drammatica di una scrittura post-wagneriana). Otello e Falstaff erano alle porte e, nonostante gli sforzi e le revisioni, una classica “opera a cabaletta” restava estranea alla nuova poetica (diverso il caso di Don Carlo che già in partenza parlava un diverso e più moderno linguaggio). Il 24 marzo del 1881, la nuova versione di Simon Boccanegra va in scena al Teatro alla Scala di Milano, con un cast di prestigio, a cominciare dal direttore, Franco Faccio, oltre a Victor Maurel (Simone), Francesco Tamagno (Gabriele), Edouard De Reszke (Fiesco) e Anna D’Angeri (Amelia, anche se Verdi aveva pensato alla Patti). L’opera ottenne un buon successo (ben lontano, però, dall’atteso trionfo), ma faticò non poco a circolare stabilmente nei teatri, almeno fino alla sua definitiva consacrazione al Metropolitan di New York nel 1932: da quel momento il Boccanegra entrò a pieno diritto tra i grandi capolavori del Maestro di Busseto. Nel 2010 l’opera tornerà sul palcoscenico del Piermarini in una produzione che si preannuncia chiacchierata, per la direzione di Barenboim (a disagio con Verdi, almeno a giudicare dalle ultime esperienze), per il protagonista (un Domingo in chiave baritonale ancora incerto su come concludere una carriera altrimenti eccezionale, senza far rimpiangere i suoi fans di non averla interrotta prima) e per il cast di contorno (dai profili inquietanti). Salvo fantasiose alchimie direttoriali (sempre in agguato alla Scala) che potrebbero condurre a improbabili ed inediti assemblaggi, sarà la consueta versione del 1881 a sfidare i fantasmi dell’ormai mitizzata edizione del 1971 (poi fissata in disco per la DGG nel ’77) curata da Abbado e Strehler (spettacolo ormai entrato nella leggenda aurea del teatro milanese, ma che a ben guardare, rivela più di una crepa soprattutto nel cast vocale). E, a dimostrazione di quella desolante mancanza di originalità di cui si parlava all'inizio, proprio il Boccanegra dovrebbe essere presente nella stagione lirica parmigiana dell'anno venturo (dopo che le previste recite di quest'anno, nell'ambito del Festival Verdi attualmente in corso, sono state cancellate, con la solita scusa dei tagli al FUS). E chissà, magari qualche altro teatro non si farà mancare il suo Boccanegra (come quest'anno è capitato con l'handeliana Agrippina: 4 edizioni diverse in un paio di mesi). Nulla di nuovo, del resto anche i cartelloni dei nostri teatri soffrono di corsi e ricorsi, e passare dall'oblio all'indigestione è, spesso, rischio frequentissimo.


Gli ascolti

Verdi - Simon Boccanegra (prima versione, 1857)


Preludio - John Matheson (1975)

Atto I

Come in quest'ora bruna...Il palpito deh frena - Josella Ligi (con André Turp - 1975)

A festa! A festa, o Liguri...Tradimento! Quai grida!...Egli è salvo! O ciel, respiro...Amelia, di' come tu fosti rapita...Giustizia, giustizia tremenda - Sesto Bruscantini, Josella Ligi, André Turp, Gwynne Howell, William Elvin & Paul Hudson (1975)

19 commenti:

scattare ha detto...

Sempre interessante gli ascolti delle "prime versioni", ma sono del parere che se il compositore ha cambiato qualcosa era per un motivo solo - per migliorare. Quindi sotto il profilo musicologico/filologico va bene, ma preferisco sempre le versioni "finali" e ascolto quelle.
Ho sentito un "Macbeth" originale e l'ho trovato privo della drammaticità della versione finale. Anche la prima "Forza". Le versioni di "Butterfly", sempre itneressanti, anche loro tradiscono le aspettative.
Gli esempi, almeno per me, sono numerevoli e finisco sempre di apprezzare "l'aiutino" del compositore. Il "Simone" scaligero fece furore per l'LP che ne uscì, anche se Scala cambiò un pò il cast sui dischi e la continuità del lavoro fatto in "sala" andò in fumo.
Ma per fortuna, io rammento delle edizioni belle e forse più verdiane altrove con Colzani, MacNeil, L Price, Tebaldi, Tucker, J Hines et al. PERO'... avercene qualche edizione così oggi! Vedremo questo spettacolo "dominghiano" che sta per approdare in giro. Mah...

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Per migliorare, sì, certo (nel caso del Simone), ma direi soprattutto per aggiornare il linguaggio. Non tutti i ripensamenti dei compositori sono dovuti a istanze migliorative: spesso fu pura esigenza pratica (tradottasi magari, anche in miglioramento estetico). A ben guardare l'articolo, non nascondo nessuna delle debolezze del primo Simone...tutt'altro: molti brani poi eliminati, erano bruttini! E così pure son d'accordo per Butterfly, Don Carlo, Aida, Macbeth etc...(non lo sono, però, con Jerusalem: a mio giudizio inferiore ai Lombardi). Per il Simone scaligero di Abbado: è versione ormai mitizzata e divenuta intoccabile (se ci si azzarda, in pubblico, a criticarla - è successo qualche giorno fa davanti alla Scala - si è subito critica, o ritenuti pazzi), ma sarebbe ora di ridimensionarla. Soprattutto per il cast vocale (anche se, per me, Abbado non ha un briciolo dellautentico spirito verdiano: come invece possiede Levine). La Freni, ad esempio, con una linea vocale discutibilissima e certe tendenze ad aprire e emettere suoni sguaiati (molto meglio persino la Ligi o la Ricciarelli); Cappuccilli, dal canto poco nobile e quindi poco verdiano; Carreras spompato, Ghiauruv...al limite. Insomma, di difetti ne ha, non si può dire, ma ne ha! Certo è migliore di quella diretta da Solti, ma sta alla pari con quella di Santini con Gobbi, per me, o a quella di Gavazzeni (per stare alle incisioni commerciali e ufficiali)...

mozart2006 ha detto...

Sui rifacimenti, si deve dire che Verdi li faceva anche e aoprattutto per motivi pratici. La versione riveduta della Forza, ad esempio, nasce per rielaborare una parte tenorile pensata su misura per un fenomeno come Tamberlick, e che senza di lui stava diventando ineseguibile. Tra gli altri cambiamenti, quelli della parte di Preziosilla sono dovuti all´esigenza di adattare la tessitura ad una cantante come Ida Nagy, che era piú soprano che mezzosoprano. Il Simone è l´unico caso di revisione quasi completa della partitura.
Sulla versione di Abbado, mi dispiace ma non sono d´accordo, soprattutto quando si tira in ballo un paragone con Santini e Gavazzeni, bacchette che per me sono il paradigma di un Verdi pesante e bandistico, da respingere in bloco. Casomai, l´unico confronto accettabile é quello con la versione live di Mitropoulos.

Saluti

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Esatto Mozart2006: Verdi fu uomo pratico e con mentalità artigianale (se mi permetti: sanamente artigianale). Sulla revisione del Simone è bene chiarirsi: l'edizione riveduta è migliore musicalmente, ma meno coerente stilisticamente. E' un'opera nata "vecchia" più vecchia di altre a lei precedenti. La versione originale, pur datata 1857, è un ritorno poco ispirato agli "anni di galera". La revisione ha messo qualche pezza, ma ha lasciato molte falle: un esempio è l'atto II, che rimane il meno interessato al restyling verdiano. In realtà molta parte della revisione - tolti i 5 episodi citati - è nel dettaglio orchestrale, spesso minimale, però. In realtà se vuoi indicare un esempio di revisione totale, devi citare il Don Carlo. Circa le valutazioni del Boccanegra di Abbado, vedi, confermi i miei assunti. Non me la prendo con te, ci mancherebbe, ma sono la dimostrazione che una bugia ripetuta un milione di volte diventa verità. La versione di Abbado è carente in due aspetti: il cast (innegabile l'inadeguatezza della Freni, basta ascoltare cos'è la sua sortita; e la volgarità di Cappuccilli) e la concertazione (per certi versi splendida, ma poco o nulla verdiana). Verdi non è Mahler e questo il Sig. Abbado avrebbe dovuto accettarlo: manca, nella sua concertazione, quell'aspetto lirico e cantabile, aristocratico e nobile, ma anche, a volte, robusto e veemente che caratterizza l'orchestra di Verdi. Insomma se ascolto Levine (il miglior direttore verdiano vivente, per me) è ben altra cosa..così come Schippers. Però nn si può dire, e l'assuefazione al "fenomeno" Abbado è più forte del buon senso e dell'obbiettività. E poi, passi per Santini (che però non è certo volgare, l'unico scotto che paga è l'orchestra di Roma...non certo un granché allora e pure adesso, checché ne scriveranno i soliti critici allorquando il messia Muti ne prenderà le sgualcite redini), ma resta INACCETTABILE quel che scrivi di Gavazzeni: direttore tra i più adatti all'opera, per cultura, tecnica, ispirazione e bravura. Alla pari di Patané, però, maltrattato dalla critica ignorante e preconcetta... Forse i due - tra i più grandi direttori d'orchestra italiani - non hanno mai coltivato le stesse amicizie di Abbado...

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ps: dove sia bandistico o volgare Gavazzeni (uomo di immensa cultura e raffinatezza musicale) devi proprio spiegarmelo........

justsmile ha detto...

Ce n'è uno, non so se gira però... con un giovane Levine davanti la Cleveland Orchestra(!!!!) del (forse) '70 con MacNeil, Tebaldi, Tucker, Plishka (o Flagello)- insomma non mi ricordo bene ma per me, con tutti i suoi difetti, marca meglio lo stile verdiano. E' vero, bisogna rivedere la versione Abbado sotto tanti punti di vista. Cosa c'è che non va con un raffinato Gavazzeni o un Santini teatrale ed "esperienzato"??

Velluti ha detto...

Gentili signori,
posso dire che delle vulgate e dei miti me ne frego: ascolto il Simone di Abbado e SENTO (non perchè me l'hanno inculcato) una SPLENDIDA concertazione. Manca di lirismo? Ma per favore... E la scena dell'alba dove la mettiamo? Manca di "retorica verdiana"? E il concertato? L'aria del tenore? Manca di aristocratica nobiltà? Questa è proprio grossa... Forse tale elemento sembra mancare maggiormente proprio in Mitropoulos, più attento alla corrusca drammaticità e non alla nobile compostezza tragica (si veda il duetto con Amelia o la scena dell'avvelenamento; si veda anche la splendida frase, che prelude all'ingresso di Amelia prima di "Nell'ora soave", "Quel vile pria di morir... Empio corsaro incoronato, muori! - T'arresta!; qui Carreras si copre di gloria con un fraseggio vibrante e non sguaiato... Qui è facilissimo sguaiare!).
Si tratta di gusti, di prospettive, di visioni interpretative... Ma tutte offrono una LETTURA di Verdi. In base a che Abbado non sarebbe verdiano? In base a quale paradigma? Ho avete sentito un'orchestra diretta da Verdi per dirlo? Abbado rispetta tutti i segni di espressione sparsi in quel capolavoro che è il Simone, grande come tutto ciò che è "di passaggio" (lo stesso non può proprio dirsi di Santini!). Il punto è che se uno ha in mente un'idea di "verdiano", perchè fondata su una determinata TRADIZIONE, automaticamente è influenzato da quella nella sua valutazione. Ma una tradizione non è Verdi (come Verdi dirigesse rimane un fatto inattingibile) e non è detto che una tradizione, anche se consolidata, non sia lontana anni luce dall'"originale".
Alla fine resta il prodotto: è il Simone di Abbado è un CAPOLAVORO. Anche se non fosse completamente aderente a Verdi lo preferirei a una direzione "verdiana" come quella di Santini, ammesso che lo sia. Su Gavazzeni preferisco soprassedere: bella drammaticità, belle intuizioni, ma anche tanta sciatteria e tanta banalità. In realtà ai melomani incalliti l'orchestrina-banda piace di più: il canto per loro dovrebbe essere assoluto, dominare tutto, a discapito di orchestre, coro, suono degli strumenti, tutti elementi SECONDARI. Ma il Simone di Verdi è opera STUPENDA dal punto di vista orchestrale, bisogna solo che il direttore lavori su questo e riesca a rendere partecipe di cotanta bellezza il pubblico. Sul cast vocale di Abbado posso dare ragione, ma con dei ma: la Freni non stona (cosa che fa la De los Angeles... Terribile in questo ruolo... Un orrore senza pari), non sbraca (cosa che fa la Gencer... Ma è la Gencer!), non strafà (la Ricciarelli... Bellissimo timbro, ma, lei si, compeltamente inadeguata), non balla (cosa che fa la Milanov... Ma è la Milanov!), canta con espressione (splendide la sortita e la scena dello svelamento del rapimento), e con acuti di tutto rispetto (basti sentire il Live). Certo la voce è quella che è, ovvero di un soprano lirico (ma che meraviglia, però, il suo trillo su "Pace!" alla fine del concertato) per cui può mancare spesso (troppe volte) di spessore e di ampiezza nelle arcate e nei gravi. Cappuccilli è rozzo ma efficace, in molti punti a mio avviso raggiunge livelli eccellenti ("E tu! Ripeti il giuro!"; in fondo Simone era un corsaro diventato doge suo malgrado, non certo un nobile compassato!). Ma i cast vocali delle incisioni del Simone sono tutt'altro che ineceppibili GLOBALMENTE (vogliamo parlare della Milanov, della Gencer, di Gobbi, tutti esempi preclari di cantanti tutt'altro che sopraffini tecnicamente). Perchè su di loro non si spara a zero? Solo perchè non hanno successo (effettivamente sarebbe come sparare sulla crocerossa!)... Ma sul caso Abbado sento profumo di "Bastian contrario"!

mozart2006 ha detto...

Caro Duprez, te lo spiego ben volentieri. Quando andavo a sentire Gavazzeni, e quando ora riascolto le sue registrazioni, di raffinatezza ne ho sentita e ne sento poca o punta. Un suono orchestrale sempre greve, sempre bloccato su tinte scure, una tendenza in Verdi a far baccano scambiandolo per effetto, infine la fastidiosissima tendenza a massacrare di tagli le partiture che gli fece meritare, credo da Mila, l´appellativo di "tagliator cortese". Ascoltatevi per esempio il Trovatore live della Scala 1962 e confrontatelo con Karajan: quella sarebbe raffinatezza?
Per me, e col massimo rispetto per le tue opinioni, Gavazzeni rimane un acuto scrittore e critico che ha fatto anche il direttore d´orchestra. Rileggetevi ad esempio come Celletti recensiva il suo Rigoletto.

Ciao!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Perfettamente d'accordo con Justsmile: il grave difetto di Abbado è quello di far parlare Verdi con un linguaggio che il direttore gli costruisce per puro arbitrio, nell'intento - maldestro - di "nobilitarlo", agganciandolo alle coeve e successive esperienze europee e germaniche in particolare. Ma Verdi è GIA' nobile, non c'è bisogno di mahlerizzarlo per renderlo accettabile anche in certi salotti e circoli chic (evidentemente culla del mito abbadiano).

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Caro Mozart..riservandomi tempo per una risposta più articolata, ribadisco il mio disaccordo: soprattutto per i tagli, dipendenti da una tradizione e prassi d'epoca, non certo dalla volontà di tagliare per il gusto di farlo!

mozart2006 ha detto...

Come dice Magda ne La Rondine: "Ho una sola risposta:non cambio d´opinione!"

Con immutata simpatia e stima.

Velluti ha detto...

Che fine ha fatto il mio commento?

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Scusa Velluti...mia distrazione! Il tempo di riordinare le idee e ti rispondo...

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Caro Velluti, forse è meglio intendersi su alcuni punti:
1) Simon Boccanegra è opera splendida, dal punto di vista orchestrale: nessuno lo nega, a patto di considerare la versione finale, non quella del '57. Ma c'è un "ma": e risiede nell'equilibrio. Il Simone rivisto, pur nell'intrinseca bellezza di certe soluzioni e nella scrittura più matura, tradisce le origini. Il secondo atto è una zeppa e certe suture sono evidenti. Nulla tolgo al capolavoro che è nell'evidenziarlo. Ma un problema di coerenza è innegabile.
2) Abbado non mi piace, lo ammetto tranquillamente: in particolar modo in Verdi (tolto il Don Carlo). Trovo che più che valorizzare la scrittura verdiana, cerchi di nasconderla, giuustificarla, mascherarla, quasi a vergognarsi di certi elementi (Levine, ad esempio, è ben altra cosa). Ma qui si entra nel gusto privato e personale.
3) Il Simone di Abbado: ormnai è un mito. Intoccabile pare. Per me non è proprio così. Ovviamente è una bella edizione dell'opera (e chi lo nega), ma qualche problema c'è eccome: sulla concertazione abbiamo idee differenti, concentriamoci sul cast. Cappuccilli è baritono verista, spacciato per verdiano (o pure, follia, per belcantista: i suoi Puritani e la sua Lucia restano esempi orrendi). Spesso sguaiato e eccessivo. Certo la voce è bella, ma la tecnica che la sorregge no! La Freni, confesso, ritengo sia insopportabile in Verdi, poco aristocratica e tendente all'eccesso. Carreras ha voce con splendido timbro, ma caricata e aperta (ben diverso il caso delle incisioni con Karajan, dove la sapienza della concertazione nasconde gli evidenti difetti). GHiaurov ha un bel vocione, ma spesso sgraziato. Mia opinione ovviamente.

scattare ha detto...

Mi ricordo bene, avendo visto quello scaligero con la regia di Strehler, uscendo dal teatro NON soddisfatto.
Ho trovato di recente degli appunti miei pesonali proprio su quella serata e sarebbe meglio non dire i miei sentimenti "immediati" della serata ma vi assicuro che il tenore Raimondi sembrava l'unico che ne uscì con uno straccio di dignità!
La concertazione sinfonica di Abbado mi lasciò perplesso come anche gli accenti poco verdiani di Freni insieme alla sua inspiegabile immobilità scenica, i verismi di Cappuccilli e un Ghiaurov orso. Mi chiedevo dove fossero finite le raffinatezze verdiane...
Il problema con tanti di questi direttori o/o registi è che nessuno parte volendo "fare onore" al compositore. Devono tutti fare la loro "versione" sia musicale che drammatica e trovano cantanti che ne fanno onore non al compositore ma alla versione direttoriale in atto e che si adattano a tutto.
Sarà per quello che la vera voce "verdiana" , per citarne un esempio, con i suoi accenti con i suoli colori, forse non esiste più. Tutto è fatto in base alla visione del direttore d'orchestra, il regista, ecc., ecc. Ma il compositore? Il librettista?
La lirica non è nata negli anni '70 ma ben prima. Prima di von Karajan, Abbado, Strehler e Zeffirelli (e allistimenti miliardari) c'erano "Bohéme", "Otello", "Aida", "Simone" ecc. che giravano con gande successo e con grande rispetto, NON della tradizione in senso negativo, come la interpretano oggigiorno certi fanatici, ma con la grande voglia e passione di interpretare i desideri dei vari compositori studiando e ristudiando la musica insieme alla parola - perché trattasi di un connubio di musica e parola l'opera lirica e non un veicolo per mettersi in mostra incubi personali, capelli svolazzanti, e altre distrazioni fastidiose - proponendo l'arte dell'intepretare qualcosa che esiste già (se solo sulla carta) e non di dovere, a tutti i costi, creare qualcosa di nuovo perchè si è incapaci di provare a trovare con umiltà il semplice sentimento del compositore.

Velluti ha detto...

Caro scattare,
apprezzo la buona volontà delle tue affermazioni. Ma vi leggo una certa ingenuità di fondo, ingenuità che ravviso spesso anche in certe incisioni di direttori cosiddetti "di mestiere" (Marinuzzi, De Fabritiis, Capuana... Grandi per carità, ma un po' "macchine per portare avanti la serata"). Ma ritrovare i semplici sentimenti del compositore è operazione impossibile, oltre che assurda e ingiusta... La musica sulla carta è MORTA. Serve qualcuno che sia in grado di farla rivivere. E questo non può che avvenire attraverso un filtro, che è quello dell'esecutore. Pensare che egli sia solo un medium, una sorta di mezzo funzionale, è assurdo oltre che ingiusto. Abbado potrà non piacere, potrà anche essere "radical chic" (ma cosa ci sia di male in questo non lo so... Perchè il nazional popolare dovrebbe essere meglio del radical chic? Il populismo italiano è difficile da estirpare...!!!), sarà anche uno che cerca di "nobilitare" (ma che la musica di Verdi avesse bisogno di una certa "spinta" in certi ambienti musicali snob è cosa arcinota! In questo va dato grande merito ad Abbado, di aver spogliato la musica verdiana di una certa cifra "nazional-popolare", che pure c'è ma non è onnicomprensiva; proprio il Simone, ad esempio, è opera difficile e complessa), ma resta un grasndissimo direttore. Collegare Verdi alla musica mitteleuropea - nella fase del Simone - non è così assurdo. Ma ricordo anche che Abbado è stato un grande direttore rossiniano, per cui non credo che i sottili fili che legano ancora Verdi a Rossini non vengano valorizzati. C'è uno studio, poi, di un mio allievo, in prossima uscita in una rivista specializzata, in cui vengono analizzate le riprese della strumentazione beethoveniana nel Verdi post-anni di galera.

Antonio Tamburini ha detto...

Scusa Velluti, ma che Abbado "nobiliti" Verdi, mentre Mitropoulos non ne darebbe che una lettura robusta, mi sembra un'affermazione un po' forte. Anche perché, se a una interpretazione si rifà Abbado, è proprio a quella di Mitropoulos. E non solo nel Simone.

Quanto ad Abbado grande rossiniano, questo può forse valere per le ouvertures, più volte registrate in studio (anche se personalmente gli preferisco quel poco che c'è di Celibidache e Reiner), e le opere della c.d. trilogia buffa (anche per merito di cast che presentavano elementi insuperati o quasi nella discografia), ma con il Rossini tragico il maestro milanese non ha mai avuto contatti. Non dico Bonynge o Schippers, ma lo stesso Zedda o il tanto deprecato (a volte giustamente) Muti mi sembrano molto più importanti e interessanti in questo repertorio.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Beh, Velluti, che Abbado sia un grandissimo direttore d'orchestra nessuno lo mette in dubbio. Al di là di certi atteggiamenti personali (fastidiosi, per me), al di là di certo protagonismo, al di là di quella specie di "culto della personalità che (in)consapevolmente lo accompagna ovunque vada a dirigere, non nego certo la grandezza di certe sue interpretazioni (Schubert e Mendelssohn, ad esempio, che trovo il suo repertorio più congeniale, ma anche certo Beethoven, Brahms o Mahler). Nell'opera lo trovo più convincente in Mussorgsky, Debussy, Bizet, Mozart (ma con riserva) che nell'opera italiana (togliendo il Rossini buffo, per me eccellente). Con Verdi invece, non ci siamo - almeno per me! Innanzitutto per la scarsa fiducia nell'autore (percepibile costantemente): a che serve "nobilitare" una scrittura che è già nobile? E magari mascherarla e tradirla? Si percepisce il fare schizzinoso del direttore che sembra dire "sentite come vi rifaccio Verdi?" (per sdoganarlo in certi ambienti??? E chi se frega..di quegli ambienti). Completamente diverso il Verdi di Karajan ed immensamente più grande (immagino cosa sarebbe stato il Simone nelle sue mani). Tornando ad Abbado: cercare agganci con la cultura musicale mitteleuropea, con sinfonismo tedesco o on la scuola russa, potrà anche essere un esercizio molto appagante per il divo Claudio, ma resta abbastanza arbitrario.

Giulia Grisi ha detto...

Caro scattare,
è evidente da quello che scrivi che hai visto molti spettacoli e tanti grandi artisti del passato. Sarebbe bello che tu potessi raccontarli ai nostri lettori, in una forma un po' meno sintetica di quella permessa dai commenti.

Ti prego di contattarmi all'indirizzo giuliagrisi@libero.it

ciao e grazie

GG