mercoledì 28 ottobre 2009

Mese verdiano XII - L'accento verdiano, parte terza: "Ma dall'arido stelo divulsa"

La grande scena di Amelia, che apre il secondo atto del Ballo in maschera, è una delle più impegnative del repertorio sopranile. A differenza della romanza del terzo atto, in cui alla sposa penitente si richiede soprattutto purezza di suono e accento castigato, “l’orrido campo” esige, fin dal recitativo, grande varietà drammatica e assoluta precisione nello scandire quella che l’autore avrebbe in seguito definito “la parola scenica”, oltre naturalmente a un’attenta lettura dei segni dinamici e delle indicazioni espressive. Anzi, la cantante dovrebbe, ove possibile, aggiungerne di propria iniziativa.

La scena si apre con il recitativo “Ecco l’orrido campo”, in Allegro agitato, cui succede il cantabile in fa minore “Ma dall’arido stelo divulsa” (Andante). L’aria, introdotta e accompagnata dal corno inglese, si sviluppa in modo strofico: dopo i primi sei versi, che enunciano il tema, il passaggio alla seconda parte (“Oh! Chi piange?”) è sottolineato da una variazione nell’accompagnamento orchestrale, che si fa più ossessivo e nervoso (terzine di semicrome dei violini primi), mentre il corno inglese riprende il tema e la voce procede per brevi incisi, ritrovando l’espansione melodica (sottolineata dall’indicazione di “cantabile”) solo al verso “non tradirmi, dal pianto ristà”. Il rintocco di una campana dà il via all’Allegro “Ah, che veggio?”, in cui la voce deve confrontarsi con il “fortissimo” dell’orchestra in tumulto. Si torna all’Andante per la coda del brano, che ripropone, variandola in fa maggiore, la melodia che concludeva le due strofe precedenti.
La scrittura eminentemente centrale non esclude incursioni nelle zone estreme della voce, dal la sotto il rigo (previsto in “oppure” sull’ultima ripetizione di “e terribile sta") ai numerosi la bemolle acuti (fin dal recitativo: “s’adempia”), ad un la naturale, un si bemolle e un si naturale su “e terribile sta”, alla salita al do di “miserere d’un povero cor”, fino alla cadenza, che inizia con un si bemolle acuto attaccato scoperto e discende al do grave per concludere sul fa centrale. Per inciso, e legittimamente, molte delle interpreti che proponiamo optano per cadenze alternative, capaci di valorizzare al meglio le loro caratteristiche vocali. Con tanti saluti ai fautori della filologia da quattro soldi così di moda nel recente passato, e anche oggi. Ricordiamo che Verdi giudicava esemplare la Traviata di Adelina Patti anche sotto il profilo di cadenze e riscritture.

Precisiamo, a titolo preliminare, che le interpreti da noi scelte non esauriscono di certo il panorama interpretativo del brano. Abbiamo privilegiato, oltre ovviamente alla qualità vocale, il differente calibro delle voci, l’appartenenza a diverse scuole di canto e i repertori frequentati, in modo da avere un quadro pressoché completo dei possibili approcci al personaggio. In fondo l’accento verdiano, chimera cui abbiamo dedicato questo mese di ottobre, non conosce frontiere, se non quelle dettate dalla tecnica, dal gusto e dalla musicalità, e nulla impedisce a insigni wagneriane e sperimentate primedonne veriste di essere, per quanto è possibile udire dai dischi, grandi interpreti di questa e altre pagine del Cigno di Busseto.

Inauguriamo la nostra galleria proprio con “le tedesche”, vale a dire con il canto di tre grandi primedonne d'area germanica, frequenti esecutrici tanto di Verdi quanto di Mozart e Wagner: Melanie Kurt, Elisabeth Rethberg e Gertrude Grob-Prandl. Tutte e tre interpreti di lungo corso del Ballo, si segnalano in prima istanza per l’accento nobilissimo e l’assoluta compostezza con cui attaccano e gestiscono la cantilena “Ma dall’arido stelo divulsa”, e in secondo luogo per l’attenzione alla dinamica, sempre varia e sfumata, senza per questo ridurre il canto a una serie di manierismi. Nessuna delle tre è immune da difetti, quasi tutti legati al versante dell’espressività: così, ad esempio, le indicazioni “con passione” e “con spavento” trovano un poco carenti la Grob-Prandl e, più ancora, la Rethberg, che dal luogo spettrale e dall’ora notturna non sembra trarre non dico autentici brividi, ma neppure un occasionale diversivo alla propria imperturbabilità. Mentre la Rethberg risulta assolutamente inappuntabile sotto il profilo dell’intonazione, della musicalità e del legato (e non ce ne stupiamo, perché il broadcast parziale del secondo atto del Ballo, San Francisco 1940, quindi solo un anno e mezzo prima dell’addio alle scene della signora, resta ancora impietosa pietra di paragone per le suddette caratteristiche), la Grob-Prandl attacca il recitativo con un'intonazione non perfetta e presenta, in basso, suoni un poco fiochi e occasionalmente gonfi (il la grave di “e terribile sta”), mentre la Kurt accusa occasionali fissità sul sol acuto e ripiega sul la centrale prima dell’invocazione conclusiva al Signore. Detto questo, va sottolineata la salute vocale quasi insultante della Grob-Prandl (propiziata, occorre ribadirlo, da una tecnica di altissima scuola) e la clamorosa espansione in acuto, che le permette di infondere accenti nibelungici all’Allegro “Ah che veggio?” e di esibire, in chiusa, la bellezza e pienezza della fascia medio-acuta, chiudendo la cadenza un’ottava sopra rispetto a quanto previsto dall’autore. Melanie Kurt, oltre a un legato di prim’ordine, caratteristica propria delle più autentiche dive wagneriane, sfoggia, al pari della collega, grande facilità in alto, arrivando a una vera e propria prodezza, vale a dire la smorzatura sul la bemolle acuto di “che ti resta, mio povero cor?”. Fra l’altro, pur cantando l’aria in traduzione tedesca, la Kurt risulta, all’ascolto, assai meno “teutonica” e più “italiana” rispetto alla Grob-Prandl, anche per l’accento, quasi sbigottito ma carico di passione, davvero ideale per il personaggio e la situazione drammatica.

Tutt’altro clima si respira nelle incisioni di due grandi cantanti veriste, fra le più celebrate della loro epoca, e a ragione: parliamo di Eugenia Burzio ed Ernestina (ossia Tina) Poli Randaccio. Purtroppo della seconda esiste solo il frammento “Mezzanotte!”, ma è sufficiente ad avere un’idea di quello che doveva essere il resto dell’aria. La Burzio si segnala, in primo luogo, per l’eccezionale varietà agogica e dinamica (certo propiziata dall’accompagnamento di pianoforte solo), che le consente di sottolineare ogni parola del testo, senza che questo vada a intaccare il senso del discorso musicale o la precisione dell’esecuzione. È vero che alcuni suoni risultano un poco aperti, ma non sono affatto sgangherati, e a ogni modo le corone, i rubati e gli “stringendo” disseminati generosamente (vedi a titolo di esempio l’indugiare su “quell’eterea”, “non tradirmi”, “battere”, “t’annienta”, e ancora, il tempo improvvisamente più rapido alle parole “che ti resta, perduto l’amor”) dipingono con grande efficacia l’ansia e l’angoscia che attanagliano l’infelice mancata adultera. L’unico rimprovero che si può muovere alla Burzio è quello di restituire quell’ansia e quell’angoscia ricorrendo ai mezzi e alle risorse espressive della Giovane Scuola, piuttosto che a quelli di Verdi, ma è peccato veniale, alla luce della monotonia, sovente condita da imbarazzanti problemi vocali, che oggi molti propagandano quale assoluta aderenza al dettato musicale. E se gli acuti della parte finale non sono proprio esaltanti (quasi un urlo il si naturale, assai fisso il do), il la grave di “e terribile sta” ha una pienezza da vero soprano drammatico, mentre la cadenza, conclusa sul fa acuto, prova che il registro medio-acuto non è meno imponente di quello basso.
Di Tina Poli Randaccio, come detto, possediamo solo la sezione finale dell’aria. La signora è, fra le esaminate, quella che meglio risolve l’indicazione “con voce soffocata” alla ripetizione di “e m’affisa, e terribile sta”. Scontata l’imperiosità del la grave di “sta”, in un autentico soprano drammatico, avvezzo a ruoli ben più pesanti e orchestrali anche più densi, tanto che appare legittimo credere che il Ballo fosse, per la cantante, prendendo a prestito le parole di un’altra solidissima collega, “riposo per la voce”. Qualche problema si riscontra nel legato in fascia acuta, ad esempio nel passaggio fra si bemolle e do acuto, mentre per cogliere la forza espressiva dell’interprete, oltre alla forza tellurica del suo strumento, bastano la corona aggiunta su “m’aita o Signor” e la cadenza, rimpolpata di un mi grave in cui la potenza del registro di petto rifulge come meglio non potrebbe.

Ascoltata dopo quelle di due grandi soprani drammatici, la delicata, squisita voce di Claudia Muzio potrebbe risultare insufficiente, per ampiezza e colore, di fronte alle più dotate colleghe. In realtà l’ascolto si rivela deludente soprattutto per una caratteristica contingente, vale a dire il taglio, verosimilmente propiziato da limiti di tempo legati alla tecnologia di registrazione, della seconda parte dell’Andante (dalle parole “Oh! chi piange?” a “t’annienta, mio povero cor”). La cantante, pur evitando il si naturale acuto alla fine del primo “e terribile sta” ed esibendo in seguito un do acuto marcatamente fisso, è impareggiabile per condotta vocale e continenza espressiva. Il timbro è di grande dolcezza, il fraseggio sapientissimo nella sua apparente semplicità, la carica di malinconia pari a quella infusa dalla Kurt, ma la Muzio, o meglio “la divina Claudia”, come giustamente la chiamavano i suoi ammiratori, vi aggiunge una nota di morbida sensualità che, lungi dal tradire il personaggio, ne esalta la frustrazione erotica e rende vivo e palpitante il personaggio, come nessun’altra interprete (se non la Cerquetti, assistita da un mezzo vocale ben più imponente) sa fare. Va anche sottolineata l’abilità della cantante nell’adattare alle proprie esigenze la scrittura verdiana, senza travisarne il dettato, vedi la trasposizione all’ottava alta della ripetizione “o Signor, m’aita o Signor”, che consente all’interprete di fraseggiare e sfumare nella zona più brillante della voce.

Con Anita Cerquetti abbiamo invece la declinazione perfetta della vera voce verdiana. Una voce giustamente definita d’oro, ampia, timbricamente opulenta, sempre sul fiato e perciò capace di piani e pianissimi morbidi e al tempo stesso sonori, disseminati con grande accortezza (ad esempio nel recitativo, alle parole “s’inoltri”); un legato di prima qualità; un’espressione sobria, maestosa (qualcuno la definirebbe forse un poco matronale), velatamente malinconica e un niente sussiegosa, adattissima a una dama di rango, seppure sconvolta dall’amore e poi dal terrore. Invano si cercherà nella Cerquetti la sicurezza sugli acuti (il la suona alquanto tirato, il si gridacchiato, meglio invece il do, che la cantante sottolinea con una corona), ma la saldezza della voce negli altri registri (si ascolti, per quanto concerne quello grave, l’autorevolezza del la sotto il rigo), la dinamica non varia ma accortamente amministrata, l’accento dolente e la dizione perfetta contribuiscono a creare un’Amelia che giustifica i rumorosi entusiasmi del pubblico fiorentino. Oggi avvezzo ad Amelie di tutt’altra pasta.

Altra voce d’oro, o meglio di bronzo, quella di Leontyne Price, il cui fascino strumentale, secondo forse solo a quello della Cerquetti, contribuì non poco a fare della cantante americana una delle interpreti di riferimento del Ballo. Il timbro davvero malioso è intaccato solo in minima parte da alcuni effetti prossimi al parlato disseminati nel recitativo (“Ah mi si gela il cor”) e da suoni alquanto duri sul fa e sol acuti (“quell’eterea sembianza”). La Price lega bene nella salita “che ti resta perduto l’amor”, ma non riesce a saldare a dovere il do centrale e il la bemolle acuto di “che ti resta”, mentre la dinamica è varia, ma non sufficientemente sfumata, con una netta prevalenza del “forte”. L’apparizione della larva notturna ispira nuove scivolate nel parlato (“Una testa”), ma nella salita conclusiva agli acuti la cantante è di nuovo gloriosa, a dispetto di un do alquanto tirato, preso forse più con il favore delle stelle che con quello dell’ugola.

Concludiamo la nostra breve rassegna con Maria Callas, più volte interprete del ruolo in teatro. Si tratta di un nastro, alquanto fortunoso, del 1951, in cui la cantante greca suona sensibilmente più in forma rispetto alle registrazioni integrali del titolo, di pochi anni successive. L’ascolto è interessante, se non altro perché dimostra che non sempre una grande cantante, e in taluni casi una grande interprete, riesce a rendere giustizia a un grande autore. La Callas, le cui interpretazioni di Abigaille e Lady Macbeth sono di assoluto riferimento, si accosta al Ballo guardando più a quelle volitive signore, che non alla trepida e sventurata moglie di Renato. Il recitativo è accentato a dovere, ma la celebre “voce grigia” di Medea non rende giustizia al personaggio. Dov’è la paura, dove il raccapriccio? Viene quasi da pensare che la stessa Ulrica abbia preso il posto della sua assistita. Il registro acuto non è sfolgorante, fin dal la bemolle, assai duro, di “s’adempia”, mentre in prima ottava (segnatamente in zona do-sol) compaiono suoni fin troppo marcatamente di petto. Le note acute (dal sol in su) “ballano”, specie se attaccate scoperte, e si riscontrano problemi di legato, ad esempio alle parole “t’annienta”. Nella sezione finale la cantante tenta giustamente di alleggerire e sfumare, finendo però con l’esibire la voce, drammaticamente assai poco consona, di Gilda. Poco felice anche la cadenza, risolta, come nel caso di altre colleghe, sul fa acuto. Il fraseggio e la dizione sono al solito curati a dovere, la registrazione assai precaria sicuramente non rende appieno giustizia alla cantante, ciò detto la prova non appare delle più felici. Tutt'altro.



Gli ascolti

Verdi - Un ballo in maschera


Atto II

Ecco l'orrido campo...Ma dall'arido stelo divulsa...Mezzanotte!

1906 - Eugenia Burzio (link alternativo)

1916 - Melanie Kurt (link alternativo)

1918 - Claudia Muzio (link alternativo)

1919 - Tina Poli Randaccio (link alternativo)

1929 - Elisabeth Rethberg (link alternativo)

1951 - Maria Callas (link alternativo)

1953 - Gertrude Grob-Prandl (link alternativo)

1957 - Anita Cerquetti (link alternativo)

1966 - Leontyne Price (link alternativo)


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4 commenti:

germont ha detto...

post veramente interessante e illuminante sull'accento verdiano, di cui mi sto facendo un'idea sempre più chiara, grazie. nonostante sia un grande fan della Callas, non si può non dire serenamente che il repertorio del secondo verdi era fuori portata per la greca (buono fino ai vespri, forse si può ragionare su aida), posto che invece è stata interprete di riferimento (non unica!) per traviata e trovatore.
per quanto riguarda la price, il suo lavoro è impressionante, ma mi ha sempre fatto una certa impressione per l'impeto con cui viene affrontato, e in questo personaggio ho sempre preferito la price anglosassone (margaret), che tesse un personaggio secondo me molto valido e sfumato. ma è, evidentemente, una questione di gusto personale...

silvio ha detto...

avrei più di qualche dubbio sull'Aida della Callas... però concordo per ciò che riguarda Traviata. Mi riservo di ragionare su questo post con la dovuta calma e con gli ascolti bene a fuoco. Nel frattempo ringrazio Tamburini e il COrriere per i contenuti sempre molto interessanti e le modalità davvero proprie di trattarli...

scattare ha detto...

Interessanti tutti gli ascolti.
Ho sempre ammirato questa romanza cantata in questa edizione dalla Cerquetti dal primo momento in cui l'ascoltai, anni or sono.
Della L Price posso dire in sua "difesa" che c'è stato un periodo, 61 - 63, dopo aver cantato "Fanciulla" al Met, che smise per un pò e al suo rientro, dopo aver ripreso lo studio tecnico del canto, c'è voluto un pò di tempo prima di ritrovarsi vocalmente. Poi, sappiamo che può sempre capitare qualche "incidente di percorso" dal vivo.
Di tutte, ripeto quanto detto in un altro momento. La padronanza tecnica era di rigore. La serietà del approcio in tutti i casi è più che evidente.
Oggi si spendono tante parole nel cercare di farci capire come sono bravi i nostri cantanti contemporanei e come studiano seriamente. Io, personalmente, sono stufo di vedere sempre il dietro le quinte ( o come dicono loro, come se non avessimo noi le parole esatte, "il backstage") di qua e di là con tutto quello spreco di parole e tempo. Non m'interessano! Voglio vedere il risultato finale!!!!
Finchè il TG regionale faceva un servizio per publicizzare si poteva accettare ma sappiamo che le prove fanno parte della vita quotidiana dell'artista e del lavoro creativo. Il vero lavoro dell'artista è provare per poi arrivare alla recita tranquillo/a. Non è un momento "speciale" dell'artista. Anzi... Non sono da sbattere in prima pagina come se stessimo assistendo a chissà quale spettacolo "segreto". Non m'interessano! Voglio vedere il risultato finale!!!!
Il problema è che spesso il risultato finale assomiglia più ad una sorte di prova - tipo: "Proviamo questo. Vediamo se funziona..."
Ovvio, un parere tutto mio.
Della Callas... Doveva ancora ripassare lo spartito con il M° Serafin.

justsmile ha detto...

Sono riuscito ascoltarle tutte!
Il "caso" Callas ripropone il problema che forse assilava la cantante enigmatica all'inizio carriera. Quali ruoli interpretare? Che voce usare? Soprano leggero? Drammatico? Un via di mezzo?
Forse se ascoltava meno chi le era intorno dando suggerimenti e faceva più quello che voleva lei o quello che si sentiva di fare, l'avremmo avuta in giro e in forma più a lungo. Rimane sempre il "mistero" ed il "dubbio".
E' bello sentire le tedesche che non sembra vadano "contro" le italiane. Anzi. Pensare che anche Rysanek e Nilsson (...e Crespin) affrontarono questo ruolo nei grandi teatri.
Ammetto, anche, che c'è qualcosa in più della Rethberg che mi prende dentro. Un suono che ha qualcosa di estremamente femminile e dolce e struggente. Non so. E' solo una sensazione.
Certo che il suono della Cerquetti sembra proprio nato per cantare Verdi e in questa romanza supera persino la verdiana Price, anch'essa difendendosi con tanto onore.
Grazie!