Simone Boccanegra è, nella produzione di Verdi uno strano lavoro.
Nato, ultima fra le opere del Verdi “a cabaletta” nel 1857 subì, dopo Aida e Don Carlos, ampia revisione, che l’ha fatta ritenere presagio, piuttosto consistente, di Otello.
Ossia del dramma musicale .
Possiamo esagerare dicendo che passiamo dal Verdi “a cabaletta” al dramma musicale, attraverso una sovrabbondante dose di grand-opéra?.
Credo di no per la storia compositiva dell’opera, e soprattutto per quello che Verdi pratica fra la prima e la seconda del Boccanegra. Seconda versione nella quale l’opera viene abitualmente rappresentata..
E senza essere opera popolare nel senso di una Traviata o di un Trovatore è stata sempre rappresentata nei teatri, conoscendo spesso esecuzioni esemplari come le coeve del Met (1932) Tibbett, Pinza, Martinelli, Müller (Elisabeth Rethberg nelle riprese) e della Scala (1933) Galeffi, De Angelis, Caniglia .
Opera di difficile collocazione, opera di difficile esecuzione. Naturalmente.
Ha attirato, specie negli ultimi cinquat’anni, per la parentela con il dramma musicale grandi direttori d’orchestra. Notissimi i nomi Abbado, Solti, Chailly.
Purtroppo come per tutte le opere, Wagner e Strauss compresi, il grande direttore non basta. E non può bastare per un’opera come questa , anche se il compito di direzione e concertazione è gravoso.
Il colore e clima più forte, che si percepisce nel Boccanegra è quello del grand-opéra. Le atmosfere della Genova del prologo o della Genova dell’inizio del terzo atto, le congiure, che secondo al visione ottocentesca della storia si snodano dal prologo alla fine, tradendo la verità storica per creare il componimento misto di invenzione e storia, la grande scena del palazzo degli Abati, con la lezione di storia contenuta sono tutti ingredienti tipici del grand-opéra.
Ovvero di un tipo di melodramma, assolutamente sconosciuto ed ignoto ai direttori di orchestra ed anche ai cantanti oggi in carriera.
I richiami alle vie di Parigi della strage degli Ugonotti, piuttosto che l’atmosfera delle congiure occulte nel palazzo saint Bris o del ritrovo della religione bandita nella bottega dell’orefice ebreo, le apparizioni, quasi infernali, degli anabattisti sono speculari alle immagini di questo Verdi.
Il compito essenziale del direttore del grand-opéra d’orchestra è quello di creare l’atmosfera nella quale i personaggi agiscono.
In genere è già problematico gestire cori in scena ed interni, campane, banda, orchestre interne sono di difficile gestione che sono la grammatica di base, poi arrivano sintassi ossia l’essenziale problema di creare il colore e l’atmosfera, preparare la serie di colpi di scena che in Simone sovrabbondano.
Senza sostegno contorno non avremo mai il sapore della storia che di Simone è la più autentica caratteristica.
In questo senso la direzione di Mitropoulos al Met 1960 è esemplare. Esemplare perché rende l’atmosfera delle congiure della lotta per il potere, ed anche, altra e concorrente componente, del grand-opéra, la vicenda d’amore che, poi, nel Boccanegra è anche quella dell'amore paterno, sofferto osteggiato e tormentato del doge.
La resa di Mitropoulos è superiore a quella di altri direttori perché si rende perfettamente conto delle forze in alcuni casi esauste (una cinquantacinquenne Milanov) limitate per tecnica (Guerrera e Tozzi) ovvero eccezionali (Bergonzi).
Allora in primo luogo il grande affresco storico con ben evidenziati i presagi del dopo ossia Otello, l’accompagnamento sinistro ad ogni apparizione di Fiesco sia nel prologo, che nel primo atto con Gabriele Adorno che nel finale con Simone, le esplosioni ad ogni colpo di scena (Simone che scopre Maria cadavere), la concitazione del finale primo, la misura, direi essenzialità nei rallentando e nella dinamica sfumata allorchè è in scena la Milanov (o quel che ne resta) e un’aria di Gabriele che, complice un tenore che può fare tutto o quasi a tutte le dinamiche ed a tutte le altezze è dimostrazione di che risultato possa sortire la collaborazione fra un grande direttore ed un cantante nel pieno possesso di mezzi tecnici e vocali.
Va detto che non ci sono le raffinetezze e la potenza vocale ed espressiva che, al tempo stesso, si intuiscono dagli acetati del Met 1935 ed anche 1939 ad opera di Tibbet e Pinza e per molti versi anche da Elisabeth Rethberg , neppure le esibizioni vocali assolute in Fiesco di De Angelis e di Alexander Kipnis. Non c’è neppure la difficile coesione fra palcoscenico e buca che connota tutte le edizioni di Simone successive. Ed osannate aggiungo, anzi storiche.
Spiace dirlo, ma e soprattutto con riferimento alle reiterate esecuzioni scaligere che il rapporto Mitropoulos cantanti appare esemplare, a differenza di quello di Claudio Abbado. Tozzi e Guerrara non avevano le qualità vocali di Cappuccilli e Ghiaurov, ma erano tecnicamente più ortodossi rispetto alla tradizione, non esibivano i suoni bitumosi e le difficoltà nelle note medio-alte di Cappuccili o i suoni indietro e nello stomaco, che impedivano qualsiasi possibilità di dinamica con cui Ghiaurov ha connotato il nobile genovese. Che di nobile nulla aveva e poteva avere.
Anche se, premesso che mala tempora currunt, almeno aveva la vera voce da basso qualcuno potrebbe obiettare. Però la registrazione 1935 e 1939 del Met ci ricorda per voce di Ezio Pinza che Fiesco può anche essere chiaro come basso con un vago sapore baritonale, ma assolutamente deve essere elegante, stilizzato e nobile, come consono al personaggio da grand-opéra.
Gli ascolti
Prologo
A te l'estremo addio...Il lacerato spirito - Alexander Kipnis, Ezio Pinza, Nicolai Ghiaurov
Atto I
Favella il Doge ad Amelia Grimaldi? - Mirella Freni & Piero Cappuccilli
Messeri, il Re di Tartaria - Tibbett-Rethberg/Panizza, Cappuccilli-Freni/Abbado, Bruson-Dimitrova/Guingal
Atto II
O inferno...Pieotos cielo - Carlo Bergonzi, Richard Tucker
Atto III
M'ardon le tempie - Lawrence Tibbett & Ezio Pinza, Piero Cappuccilli & Nicolai Ghiaurov
venerdì 31 ottobre 2008
Simone Boccanegra, "empio corsaro incoronato".
Pubblicato da Domenico Donzelli alle 21:19 0 commenti
Etichette: Abbado, Bergonzi, Cappuccilli, Cigna, De Angelis, Galeffi, Ghiaurov, Kipnis, Martinelli, Milanov, Mitropoulos, Müller, Pinza, Rethberg, Simon Boccanegra, Tibbett, Tozzi, Verdi
Halloween. Festeggiamo con qualche.........strega???!!!!
E in certe serate operistiche da horror anche noi ci domandiamo: Ma canta o grida? Intona o parla? Scherza o fa sul serio???
Ecco qui per l'occasione, un po' di ascolti misti in clima Halloween : celebri dame dell'opera ( non ce ne vogliano! ) in qualche speciale nonchè divertente serata della loro carriera.
A voi il divertimento di riconoscerle!!!
Bellini: Il pirata - Atto II: Qual suon ferale!...O sole, ti vela di tenebre oscure
Bellini: Norma - Atto II: Taci? Ne ascolti appena?...Deh, non volerli vittime
Donizetti: Anna Bolena - Atto II: Per questa fiamma indomita...Ah! pensate che rivolti
Donizetti: Lucia di Lammermoor - Atto III: S'avanza Enrico...Spargi d'amaro pianto
Haendel: Giulio Cesare in Egitto - Atto I: Empio dirò tu sei
Meyerbeer: Le prophète - Atto V: O prêtres de Baal
Rossini: Bianca e Falliero - Atto II: Tu non sai qual colpo atroce
Verdi: Macbeth - Atto I: Ambizioso spirto...Vieni t'affretta...Or tutti sorgete
Verdi: Don Carlo - Atto IV: O don fatale
Wagner: Götterdämmerung - Atto III: Grane, meine Ross
Pubblicato da Giulia Grisi alle 21:00 16 commenti
mercoledì 29 ottobre 2008
Don Carlo: sei personaggi in cerca di cantanti. Seconda puntata: la principessa d'Eboli
Così pensata e scritta Eboli ha, di conseguenza, il pregio di colpire subito l'attenzione del pubblico, in maniera forse più esteriore, ma anche più diretta rispetto agli altri personaggi. A lei spesso può andare il successo della serata, a condizione che la titolare disponga un minimo di cognizione dei ferri del mestiere.
Sotto il profilo psicologico Verdi riserva l’introspezione all’infelice coppia reale, allo psichicamente labile protagonista, personaggi tipicizzati e costanti nel comportamento e nel carattere per l'intero corso del dramma. Ad Eboli, invece, spettano le situazioni topiche del Grand-opéra, anche sotto il profilo caratteriale, senza troppo indulgere alla introspezione. Dal languore del Velo e della seguente scena con Posa, all’esplosione, prima erotica e, poi, di furore, della scena del giardino, sino al quarto atto, dove la nostra maitresse (non dimentichiamo che è l’amante di Filippo) è già pronta e disposta allo spettacolare e spagnolesco pentimento.
Insomma a tanta varietà di situazioni drammatiche corrisponde una minima introspezione del carattere, come, appunto, si conviene al personaggio del grand-opéra.
Ed anche la versione italiana, con l’ovvio alleggerimento dell’apparato melismatico, lascia intatte le caratteristiche del personaggio.
A tanta varietà di situazioni si associa pari varietà di difficoltà e caratteristiche vocali. La storia interpretativa di Eboli ci insegna che la cantante di provenienza rossiniana e belcantista, anche quando si chiami Horne o Valentini-Terrani, è destinata a soccombere, mancando dell’ampiezza della cosiddetta voce verdiana. La voce verdiana, anche se si chiama Fiorenza Cossotto o Fedora Barbieri, facilmente inciampa, se non in difetti di emissione, in esecuzioni poco raffinate nei passi che tale caratteristica impongono; peggio ancora se la titolare guarda come tecnica e come gusto al Verismo. Avremo, come accadde con la Obratzova e, più ancora, con la Baltsa, una Eboli tipo Santuzza.
Insomma da un lato tecnica raffinata, voce sontuosa, capacità attoriali o istrioniche da sole non bastano per essere una Eboli di rilievo e di levatura storica.
Vocalmente il ruolo è impervio, come detto, ad Eboli, rarità nel tardo Verdi, è richiesto l'uso del canto d'agilità (oltre che nella Canzone del Velo nella scena del giardino precedente il terzetto, e di affrontare una tessitura che sollecita con insistenza il registro basso (passi come “Io son la tigre dal cor ferita” nel terzetto, dove Eboli fa il “pedale”) come quello acuto (la sezione finale dell'O don fatale in tessitura da soprano)
Che Eboli richieda il lessico vocale ed interpretativo del Grand-opéra, lo provano esemplarmente le registrazioni a 78 giri.
E l'interprete ideale del ruolo, più ancora che nel fraseggio, deve ricercare nello splendore della linea vocale la chiave del personaggio. Si badi bene, questo non significa che Eboli necessiti di una compassata esecutrice dal mezzo straordinario e non di una fraseggiatrice, ma di quella che si definisce una attrice vocale. L’opposto dell’attrice vocale ossia la cantante attrice, che, salvo casi eccezionali, è una cantante poco ferrata sotto il profilo tecnico cui supplisce con il cosiddetto temperamento e l’estroversione, esce male dalle cospicue difficoltà vocali del personaggio.
A onor del vero molte conclamate interpreti odierne hanno ritenuto che questa fosse la via più giusta per rendere il personaggio di Eboli, con sicuro plauso di certo pubblico.
Con questi problemi è facile capire perché Eboli non trovò né subito né facilmente un’esecutrice di indiscussa rilevanza.
Prima interprete a Parigi, nel 1867, fu Pauline Gueymard-Lauters, già creatrice, nel 1857, di Leonore ne Le trouvére. E' interessante scorgere alcune opere del suo repertorio: Donna Anna in Don Giovanni, Leonore nel Fidelio, Alceste di Gluck e Valentine ne Les Huguenots. Ma la Gueymard-Lauters fu anche interprete di Fidés ne Le prophéte e destinataria del ruolo di Gertrude nell'Hamlet di Thomas. Una voce che è facile percepire come di soprano Falcon, dalle grandi capacità al centro e in basso, ma con un registro acuto saldo. Originariamente Verdi aveva pensato la parte per Rosine Bloch, celebre mezzo-soprano francese, e aveva predisposto la Canzone del Velo in tonalità di Sol maggiore, per poi portarla invece al La maggiore su richiesta della Gueymard-Lauters, richiesta che non vide il compositore affatto contrario, che mantenne anzi il cambiamento anche nelle seguenti versioni dell'opera. Esistono inoltre diverse cadenze che la Gueymard-Lauters esibiva proprio nella Canzone del Velo, e come d'altronde sarebbe giusto in ogni Grand-opéra. E' curioso notare che anche la prima interprete della versione in IV atti alla Scala nel 1884, Giuseppina Pasqua, condivideva all'incirca la stessa categoria vocale della collega francese. Giuseppina Pasqua, prima di passare ad Eboli (e prima di essere la prima Quickly) fu interprete di Marguerite di Valois negli Ugonotti e di altre parti da soprano.
La storia intepretativa di Eboli è molto varia, ma per prima cosa bisogna rilevare che le cantanti che di Eboli han fatto un vero e proprio cavallo di battaglia sono poche: la prima fu, nella seconda metà dell'800, Antonietta Fricci (nella prima bolognese in V atti in italiano, soprano limitato) e Giulia Novelli (a Messina, Roma, Ravenna, Padova, Napoli), oltre che Maria Walmann, passata però alla storia come Amneris e primo mezzo della Messa. Nei primi anni del '900 Eboli fu un ruolo importante per Luisa Garibaldi (nel 1910 a Palermo e nel 1913 al Costanzi di Roma) e per Nini Frascani (a Torino nel 1913 e a Napoli nel 1920).
Documentate dai 78 giri sia Sigrid Onegin sia l’altra grande esecutrice del ruolo, Margarethe Matzenauer, Eboli nel 1920 al Met per la prima esecuzione dell’opera di Verdi. Peccato che entrambe abbiamo registrato solo la grande aria e non il Velo, atteso che altre registrazioni (Profeta e Borgia) documentato rilevanti qualità nel canto di agilità.
L'esecuzione di Sigrid Onegin appare paradigmatica, per la facilità del canto e la tecnica pressoché perfetta unita ad una natura vocale senz'altro privilegiata. L'espressione forse risulta sacrificata, risolta quasi sempre nella linea vocale. Come già notato nel caso della sua Fidés il canto della Onegin è costantemente morbido, vi è completa assenza di suoni duri o non a fuoco e la tessitura dell'O don fatale, che spinge la voce a cantare prima nella parte bassa del pentagramma (il cantabile O mia regina io t'immolai, che spinge la voce sotto al rigo) per poi gradualmente salire ad una tessitura sopranile (dalla salita "Ah, sola in un chiostro al mondo omai" fino alla stretta "Sia benedetto il ciel") non pone problemi alla Onegin che riesce a mantenere omogenea la voce in tutto l'arco del brano e che riesce a salire ai vari si bemolle finali con facilità, soprattutto quello di "Sola in un chiostro" dove non ha problemi ad eseguire il "largamente" prescritto da Verdi su una frase in genere facile da gridare.
Ben presto il Novecento trovò la più straordonaria delle Eboli, Ebe Stignani, che debuttò il ruolo nel 1926 alla Scala di Milano e che ne detenne il monopolio per ben 30 anni, sino alla sua ultima performance, nel 1956 a Catania, alle soglie del ritiro dalle scene.
Ascolti provenienti da una recita del 1950, dopo ben 24 anni di Eboli e ancor più di carriera, attestano ancora una straordinaria saldezza vocale, facile dominio della tessitura, che in nessun punto sapeva crearle problemi e la bellezza e la sontuosità della voce. Né l'interprete può essere accusata di essere gelida o matronale, trovando anche modo di risultare espressiva in numeri come il terzetto, il recitativo con Elisabetta e lo stesso O don fatale non solo in virtù della splendida voce e della saldezza vocale, ma anche in virtù di un gusto sovrano cui non tutte le Eboli hanno tenuto conto.
E’ famoso fra i loggionisti scaligeri l'aneddoto di Maria Callas, che uscendo di scena dopo la restituzione della croce, si girò di scatto stupefatta davanti allo slancio ed alla rotonda pienezza di suono della Stignani, che attaccava “ Ah più mai non vedrò….”
Bisogna ricordare che nella parte conclusiva del monopolio Stignani affrontarono il ruolo Fedora Barbieri (per circa 10 anni e presto giungendo a patti con la tessitura, specie in O don fatale, riaggiustato già nel 1956 onde limitare le incursioni nella tessitura acuta), Elena Nicolai, vera alternativa alla Stignani negli anni ‘50, ed Oralia Dominguez.
Giulietta Simionato, invece, arriva a debuttare Eboli solo nel 1958, due anni dopo l'ultima performance della Stignani. Appunto il monopolio della Stignani e la presenza di colleghe come Elena Nicolai e Oralia Dominguez, provviste di voci più naturalmente sontuose, hanno forse intimidito la Simionato nel tentare l'approccio al ruolo che risulta a conti fatti un pò tardivo. La sua Eboli convince di più nei momenti in cui viene sollecitato il registro acuto e in cui viene richiesto slancio piuttosto che nei momenti in cui è chiamata ad essere seducente o languida (vedi l'incipit del terzetto V'è ignoto forse) o lasciarsi andare al cantabile come nella sezione centrale dell'O don fatale in cui la voce non risulta perfettamente omogenea nel passare dal registro grave al registro centrale, che risulta anche timbricamente depauperato.
E già nel 1963 proprio alla Scala Eboli passò presto alla giovane Fiorenza Cossotto, che lasciò il ruolo già attorno al 1976. L'Eboli della Cossotto presa in disamina, da un'esecuzione alla Rai di Roma sotto la direzione di Thomas Schippers del 1969 presenta sostanzialmente tutti i pregi e i difetti della Cossotto sia come Eboli che come cantante. La voce è importante, sontuosa per timbro ed estensione (soprattutto in acuto, i la accentati della canzone del velo, per esempio, risultano molto belli, così come è facile la sezione acuta nell'O don fatale) e presente anche come personaggio, più nella sua componente di slancio del Terzetto e dell'O don fatale che negli accenti seduttivi della Canzone del velo, dove, nonostante un registro acuto facilissimo, la dinamica non è molto varia e la voce manca della morbidezza al centro e in basso della Onegin e della Stignani (ma anche della Bumbry) risentendone così anche le terzine e le quartine che perdono in fluidità. Il Recitativo che precede l'O don fatale è molto bello, la Cossotto trova bellissimi accenti, forse anche aiutata dal direttore, per poi lanciarsi con slancio nell'aria, suo cavallo di battaglia, dove però si percepisce come la Cossotto non riesca sempre a mantenere sempre omogenei il registro acuto e il registro centro-grave indulgendo più volte nel registro di petto (sempre di petto vengono affrontate note come il do sotto al rigo e il re nella sezione centrale dell'aria).
Attorno alla metà degli anni 60 approda al personaggio anche Irina Arkhipova, che lascia del ruolo una registrazione discografica in russo. L'esecuzione di Eboli della Arkhipova la annovera fra le grandi esecutrici del ruolo, benchè non sappiamo con quanta frequenza questo venne affrontato in teatro. Nell'incisione del 1965 troviamo una Arkhipova in stato di grazia, per il mezzo vocale veramente sontuoso e la tecnica di alta qualità. La Arkhipova è molto attenta alle indicazioni di dinamica prescritte da Verdi, e se ne ha un esempio nella Canzone del Velo, dove a discapito di un tempo che toglie brillantezza al brano, la Arkhipova trova innumerevoli colori seguendo le indicazioni di Verdi, alternando il mezzo forte al pianissimo e al forte e perciò rendendo benissimo il tono seducente che la Canzone volutamente deve richiamare. Questa Eboli, impegnata anche nella Scena del Giardino, è attenta anche alla componente del canto d'agilità del personaggio, eseguendo con precisione le terzine e quartine della citata Canzone del Velo come le figure ornamentali della Scena del Giardino.
Non certo paradigmatico il rapporto di Marylin Horne, e non perché nella prima parte della carriera la Horne, in origine soprano, avesse difficoltà a reggere la scrittura vocale,ma per la mancanza della grandeur che connota l’esecutore del grand-opéra.
Molto più duraturo il rapporto col ruolo di Grace Bumbry, altra grande monopolizzatrice del ruolo e, probabilmente, l'interprete più attendibile insieme alla Stignani, che debutta il ruolo nel 1963 per non abbandonarlo fino alla metà degli anni ‘80. Interprete più che mai completa la Bumbry in Eboli riesce a trovare uno dei suoi ruoli d'elezione che giustamente le han valso tributi in tutti i teatri del mondo (Covent Garden, Metropolitan, Scala), non solo per la linea di canto, praticamente perfetta in Eboli, nella cui tessitura la Bumbry non incontra problemi, ma anche per la creazione di un vero grande personaggio documentata da numerosi video, che testimoniano la vera tigre dal cor ferita, come Eboli si autodefinisce.
Riflettendo sulle due esecutrice e con la carenza della rappresentazione scenica della Stignani è evidente che Grace Bumbry, donna bellissima, abbia sempre ritenuto Eboli femme fatale e maitresse du roi, contrapposta alla dimessa Elisabetta, mentre la Stignani privilegia l'idea della dama di rango. Idea quest’ultima, forse più consona alla poetica del grand-opéra.
Più sporadici furono, invece, gli approdi al ruolo di Shirley Verrett (soprattutto sul finire degli anni 60 e l'inizio dei 70 ed una ripresa al Met nel 1986) che del ruolo ha saputo dare una grande intepretazione per temperamento e bellezza vocale, nonostante la parte centro-bassa della voce non avesse la qualità del registro acuto e pur lasciandosi andare qualche volta ad un'espressione più consona a Carmen che non ad Eboli (come nell'esecuzione del terzetto a Vienna nel 1970, dove l'accento risulta caricato, mentre a Barcellona nel 1971 la Verrett appare in questo senso più calibrata). Si arriva così all'epoca moderna dove vera detentrice del ruolo è stata Giovanna Casolla che dal 1977 al 2006 lo ha intepretato con assiduità impressionante. La Casolla non brilla per raffinatezza e levigatezza nella parte “cortigiana” del personaggio, trascende un poco da Capodimonte a Sanità nelle scene di furore, ma in fondo Anna de Mendoza era feudataria di Eboli, oggi in provincia di Salerno. E poi la straordinaria qualità vocale e la tenuta non si discutono. Sopratutto nel raffrnto di molte Eboli a lei coeve, che sono soprani lirici spacciati per mezzi acutissimi. Almeno la Casolla, come Giuseppina Cobelli, affronta il ruolo da soprano senza camuffamenti.
Fra le altre interpreti moderne per longevità vocale si segnala Dolora Zajick, prossima ad inaugurare la stagione scaligera come titolare del ruolo di Eboli, ed interprete del ruolo da almeno 20 anni. La Zajick è lodevole per il professionismo vocale, anche se non risulta certo un'interprete raffinata, lasciandosi andare magari a qualche effettaccio soprattutto nel registro di petto. E, vista la natura, più da soprano Falcon che da vero mezzosoprano, trova i momenti migliori laddove la tessitura di Eboli chiama in causa il registro acuto, come la stretta del Terzetto e dell'O don fatale. Prima di passare alla corda sopranile e di interpretare Elisabetta di Valois, anche Violeta Urmana è stata una acclamata Eboli anche se l'ascolto di alcune sue perfomances nel ruolo denotano i difetti che nel passare alla corda sopranile si sarebbero poi accentuati, ossia una voce quasi sempre indietro con gravi tubati, centri di carta vetrata e un registro acuto costantemente spinto e urlato, difetti che oltre a rendere decisamente brutta una voce non certo dotata timbricamente in natura pregiudicano il personaggio rendendolo una concitata megera.
Dell'anno scorso è, invece, il debutto di Sonia Ganassi, neanche lei uscita indenne dal confronto con il personaggio. La voce naturalmente priva della necessaria ampiezza e i difetti tecnici, i gravi parlati oppure esageratamente di petto (e senza la natura di una Obraztsova si è doppiamente ridicoli in simili casi), i centri vuoti e difficoltosi per la Ganassi (il cantabile è esemplare sotto questo punto di vista), e il registro acuto ormai gridato impediscono alla Ganassi di essere credibile anche come personaggio, risultandole impossibile essere seducente e cortigiana nel II atto, oppure di avere lo slancio nella scena del pentimento.
Eboli, anche nella versione in quattro atti rappresenta un personaggio da Grand-opéra, con la sua tradizione interpretativa, e richiama perentoriamente all’attenzione dell’ascoltatore moderno che le teorie interpretative, spesso citate a sproposito, della cosiddetta superiorità dell'interpretazione e della "personalità" interpretativa possono tenere, forse, per Bartok o per Weill, ma naufragano miseramente in altri climi e gusti culturali, essendo sovrano mezzo d'espressione della intrigante principessa il Canto. Regola aurea nell'Opera tutta.
Gli ascolti
Verdi - Don Carlos
Atto II
Nel giardin del bello - Grace Bumbry (1964), Irina Arkhipova (1965), Marilyn Horne (1968), Fiorenza Cossotto (1969)
Atto III
Que des fleurs...Pour une nuit me voilà Reine - Irina Arkhipova & Tamara Milshkina (1965), Fiorenza Cossotto & Katia Ricciarelli (1973)
A mezzanotte...Al mio furor sfuggite invano...Trema per te - Ebe Stignani, Mirto Picchi & Tito Gobbi (1950), Shirley Verrett, Bruno Prevedi & Vicente Sardinero (1971), Grace Bumbry, Franco Corelli & Sherrill Milnes (1972), Christa Ludwig, Placido Domingo & Piero Cappuccilli (1975), Elena Obraztsova, José Carreras & Piero Cappuccilli (1978)
Atto IV
Pitiè! Pardon pour la femme coupable...J'ai tout compris - Fiorenza Cossotto & Katia Ricciarelli
Pietà! Perdon per la rea che si pente...O don fatale - Sigrid Onegin, Ebe Stignani (1940), Ebe Stignani (con Maria Pedrini - 1950), Fiorenza Cossotto (con Teresa Zylis-Gara - 1969), Grace Bumbry (con Montserrat Caballè - 1972), Giovanna Casolla (con Aprile Millo - 1988), Violeta Urmana (con Barbara Frittoli - 2004)
Pubblicato da Adolphe Nourrit alle 17:00 8 commenti
Etichette: Bumbry, Casolla, cossotto, Don Carlos, Simionato, stignani, Verdi, verrett
martedì 28 ottobre 2008
I Vespri Siciliani in Genova
Decisamente plumbei i Vespri Siciliani che hanno aperto la stagione genovese (serata inaugurale trasmessa in diretta dal terzo canale di Radio Rai e in differita ieri sera dalla radio norvegese). Opera di non facile allestimento, il primo cimento verdiano (se si esclude il rifacimento Jérusalem) nella magniloquenza di gusto francese rischia, se affidato a interpreti inadeguati, il naufragio tra la noia e lo sconforto del pubblico. Il che è per l'appunto avvenuto.
Una partitura come quella dei Vespri non può essere affrontata con la monocorde "brillantezza" (più adatta a un Don Pasquale che a un grand-opéra) adottata fin dalla Sinfonia da un Renato Palumbo persino più pasticcione di quanto udito in Pesaro l'estate passata: colori smunti, tempi inutilmente pimpanti (la comica rivolta finale) e quel che è peggio attacchi sbavati e frequenti scollature buca-palco. Si vede che la grande direzione d'orchestra percepita dai critici dei quotidiani, per radio, non passa! Ugualmente misteriosa resta la scelta di tagliare un po' ovunque la partitura verdiana (con l'omissione totale della siciliana del tenore al quinto atto), segnatamente in epoca in cui il rispetto dell'integralità del testo musicale pare totemica necessità (vedi maratone barocche, con la significativa eccezione proprio del Carlo Felice, teatro in cui la Cleopatra haendeliana può perdere la sua grande aria finale senza che gli astanti facciano una piega... viva il buon cuore del pubblico genovese). Ma è sul palco che si sono manifestati i veri problemi, a partire dal tenore Casanova, che la perizia critica di Andrea Merli ci ha additato come novello Bergonzi, tutto un urlo e un impiccamento fin dal recitativo d'entrata, miagolante quando vorrebbe farsi morbido, tragicamente indietro, privo di squillo e d'incisività nel fraseggio. Degno padre di tanto figliolo un Franco Vassallo più intonato e meno fibroso del solito, ma tendenzialmente muggente e col fiato corto specie nella celeberrima pagina In braccio alle dovizie. Il timbro cavernoso, l'accento esageratamente torvo, la dizione improbabile di Orlin Anastassov ne fanno un Procida senescente ai confini del comico, mentre la Duchessa Elena della Radvanovsky, dall'acuto agro e gutturale al grave, affronta i primi due atti in modo non più che discreto (ma la voce, più che alla nobildonna austriaca, fa pensare a un'allegra comare di Windsor in trasferta sicula), per crollare al terzo e offrire nel quarto un Arrigo ah! parli a un core strillacchiante e a tratti ululato. Problemi che si ripetono al quinto atto, con un Bolero a tempo di requiem e nondimeno affannoso (mercè diletto Palumbo) chiuso da un acutino al di là del bene e del male. Insomma la cantante americana non manca totalmente di musicalità e il vibrato caprino (vedi Borgia di Las Palmas) appare meglio sorvegliato del solito, ma il ruolo verdiano è per lei troppo arduo cimento, ché la signora, a onta della voce sicuramente importante, non può dirsi soprano drammatico. Ma che importa, del resto? Il pubblico sembra aver gradito. Clap... clap... clap!
Pubblicato da Antonio Tamburini alle 09:09 0 commenti
Etichette: Anastassov, Casanova, Palumbo, Radvanovsky, Vassallo, Verdi, Vespri Siciliani
lunedì 27 ottobre 2008
La musica romantica e l'opera gotica: Weber, Marschner e Wagner
Molto diverso appare – ad esempio – l’approccio romantico italiano rispetto a quello del nord e centro Europa (Germania e Inghilterra soprattutto). Pur conservando i caratteri di reazione al razionalismo settecentesco, attraverso un recupero di aspetti prima ignorati o sottovalutati e tramite le suggestioni di una natura misteriosa ed evocativa (parallelamente allo sviluppo di una coscienza storica che “scopre” i secoli bui e su cui fonda le proprie fantasie), le differenze culturali e sociali legate all’ambiente hanno determinato un’incidenza particolare del romanticismo sulle esperienze nostrane. In Italia, il mancato sviluppo di un autentico spirito nazionale, l’influenza politica e culturale dello Stato Vaticano, la persistenza di una forte tradizione “classica”, e la stessa armonia di un paesaggio assai più rassicurante e “morbido” rispetto alle asperità di certi scenari nord europei, hanno necessariamente influito sullo sviluppo (rectius sul mancato sviluppo) di una vera estetica romantica (ricollegabile, cioè, a quanto Schiller, o Byron, o Shelly, esemplificavano per la loro cultura nazionale). Limitandoci alla musica, si può dire che il grande romanticismo e pre romanticismo europeo, penetra in Italia per via indiretta: non attraverso un’esplicita adesione d’intenti, ma attraverso compromessi ed adattamenti dei modelli originali. Riferendoci all’opera lirica si può rilevare che esso è più presente nei soggetti letterari dei libretti, piuttosto che nella realizzazione musicale dell’opera. I titoli di molti lavori del primo ottocento italiano derivano da opere letterarie di grandi scrittori “romantici” europei: Schiller, su tutti, poi Lord Byron e Scott. Tuttavia, una volta affidati ai librettisti, essi venivano “normalizzati” perdendo molti dei loro tratti caratteristici e spesso erano ricondotti ad un intreccio di rassicurante compostezza. Al contrario, nelle esperienze europee, veniva esaltato ciò che in Italia si tendeva a eliminare o smussare: l’irrompere di una natura selvaggia e misteriosa, quasi pagana, le passioni contrastanti, la presenza dell’irrazionale e del demoniaco, si traducevano in musica attraverso un uso evocativo dell’orchestra e delle voci. Contemporaneamente si assisteva ad un recupero della tradizione popolare che attraverso il lied, la ballata, il racconto, scardinava le strutture formali dell’opera, pur restando nell’ambito del numero chiuso.
Capostipite del genere è riconosciuto in Carl Maria von Weber, il quale con il suo Freischutz si pone a modello di tutti gli sviluppi successivi, e che verrà legittimamente indicato come il fondatore dell’opera tedesca. Già nei suoi lavori sono presenti e ben compiuti tutti gli elementi che caratterizzeranno il genere , almeno fino al Wagner di Tannhauser (e per certi aspetti fino al Tristan). Innanzitutto l’irrompere della natura che compare come forza oscura, misteriosa, spirituale (fin dall’Ouverture si percepisce l’intento dell’autore di tradurre in note il senso di timore dell’uomo nei confronti di una forza così grande, sconosciuta e, potenzialmente terribile) poi i rimandi alla tradizione popolare (il lied di Kilian, il valzer, il coro dei cacciatori, la ballata di Agathe), infine la presenza costante del sovrannaturale (che traspare sovente in orchestra, attraverso un tema ricorrente, o un accordo, o un particolare colore strumentale), sino all'apparizione notturna del demonio, in un ambientazione quasi infernale in cui la natura stessa scatena i suoi elementi in una visione apocalittica e violenta. Tutto questo riverbera nel tessuto orchestrale e nelle voci, attraverso l’uso sapiente di una ricchissima strumentazione (già sinfonica) e dei temi popolari che colorano le già variopinte melodie. A ben guardare il Freischutz, apre la strada dell’opera romantica ad un indirizzo più propriamente gotico: ambientazione cupa e notturna, personaggi malvagi o vittima di maledizioni, amori perduti, conflitti interiori, presenze diaboliche e sovrannaturali, suscitando un senso di terrore e di sublime. Mentre Weber, però, dopo aver sfiorato il genere tornerà con Euryanthe e Oberon ad un romanticismo meno macabro e più cavalleresco, fatto di un medioevo sognato e reinventato come luogo di idealità, avventura e purezza (in letteratura si può trovare un paragone in Scott), la fortuna dell’opera gotica continuerà attraverso Marschner prima e il Wagner dell’Olandese Volante poi sino alla metà del secolo.
Nato nel 1795 e morto nel 1861, Heinrich Marschner si forma musicalmente nell’ambito della temperie romantica del primo ‘800: fin da subito indicato come l’unico degno rivale (e poi erede) di Weber, strinse amicizia con Beethoven e Mendelssohn, l’eco dei quali – in particolare del secondo – si avverte chiaramente nella sua opera, sia per l’elaborata costruzione sinfonica sia per la fantasiosa ispirazione melodica. L’attenzione di Marschner, dicevo, si concentra in quel particolare aspetto del romanticismo che può identificarsi con la corrente gotica. Si ritrova nei suoi lavori quel gusto per i soggetti sovrannaturali, paganeggianti e macabri (il dilettevole orrore caro ai romantici), che tanta fortuna fecero al genere. Il suo capolavoro (e anche l’unica opera dell’autore in qualche modo sopravvissuta all’ingiusto oblio, peraltro favorito dall’ingombrante presenza wagneriana – e dei suoi osannanti accoliti – che ha fagocitato tutta la tradizione romantica precedente, ridotta a mero schizzo preparatorio della sua parabola artistica) testimonia l’attenzione di Marschner per i soggetti gotici: con Der Vampyr (1828) infatti si ha la prima raffigurazione – ispirata al folklore balcanico – del “non morto” che per continuare a vivere è costretto a nutrirsi del sangue di giovani fanciulle. Tanta fortuna avrà poi il tema sino al romanzo di Bram Stocker, che ne consacrerà il mito e lo porterà poi ad essere usato ed abusato nelle successive trasposizioni anche cinematografiche. L’opera, che conserva la struttura del singspiel (presentando i numeri musicali alternati a dialoghi recitati), si mantiene saldamente nel solco tracciato da Weber, anche se sono percepibili gli intenti dell’autore di forzare le convenzioni creando episodi omogenei e di grande tensione in cui si succedono senza soluzione di continuità ariosi, recitativi, cantabili, interventi corali. Sulla stessa linea il più tardo Hans Heiling, una cupa vicenda ambientata tra il popolo degli gnomi e il regno degli spiriti, il cui principe si innamorerà non ricambiato di una fanciulla mortale – la cui rappresentazione musicale servirà da ispirazione alla Senta di Wagner (ma tutta l'opera influenzerà L'Olandese Volante, sia dal punto di vista narrativo, sia per i dettagli musicali e per il trattamento vocale del protagonista baritono). Un ritorno al romanticismo più cavalleresco si avverte in Der Templer und die Jüdin, ispirata all’Ivanhoe di Walter Scott, e già tesa al superamento del numero chiuso verso un unico e continuo flusso narrativo musicale affidato all’orchestra (echi della partitura si avvertono persino in Lohengrin). Wagner, infatti, al di là della facile vulgata che lo vede come un lampo improvviso capace da solo di creare la “musica dell’avvenire” e totalmente svincolato dalle tradizioni operistiche precedenti, ha molti debiti nei confronti dell’opera romantica (e non solo). Già ne ho parlato nell’intervento dedicato a Die Feen, ma conviene qui ribadirlo: almeno fino a Tannhauser la musica wagneriana è fortemente influenzata, tra gli altri, da Weber, Mendelssohn e Marschner appunto (le cui opere gli erano ben note quando, in gioventù, come direttore dei teatri di Magdeburgo, Konigsberg e Riga, ne allestì diverse rappresentazioni). E in fondo che cos’è L’Olandese Volante se non una vera e propria opera gotica? Ne possiede, infatti, tutti i caratteri distintivi: l’ambientazione tenebrosa e notturna, l’amore perduto di Senta, l’apparizione demoniaca, la natura paganeggiante, la inseriscono a pieno titolo nello stesso filone del Vampiro. Stesse considerazioni per quanto concerne gli aspetti strutturali e musicali, i richiami al folklore, alla ballata e al Lied.
Una volta identificato l’ambito estetico e le radici culturali di queste opere, grave errore sarebbe – in una eventuale rappresentazione – farne dei drammi musicali ante litteram (come peraltro è accaduto e accade tuttora con Weber). La tentazione è favorita dall’errata valutazione dell’opera wagneriana, letta sempre alla luce degli sviluppi nibelungici successivi e mai inquadrata nel più corretto orizzonte romantico. Così come sarebbe un errore fare di Lohengrin, Tannhauser o, soprattutto, Olandese Volante, dei pesanti macigni consacrati a ipertrofiche orchestre e a volumi sonori e vocali tanto ampi quanto poveri di colore, ugualmente sarebbe sbagliato (anzi sarebbe ancora più sbagliato) riservare il medesimo trattamento a Marschner e al suo Vampiro, nell’erronea convinzione che la sua opera tendesse (o preparasse il terreno) agli esiti wagneriani. Lo stesso approccio vocale e la scelta degli interpreti dovrebbe tenerne conto: così come in Weber, in Fidelio e nello stesso primo Wagner, le voci istruite (o distrutte?) dai dogmi di Cosima, producono risultati inaccettabili, pure in Marschner ne sortirebbero effetti grotteschi. Al contrario, e se si riflette – come sarebbe doveroso – sui primi interpreti, su quelli, cioè, per cui l’opera è stata composta, si scoprirà che l’orizzonte stilistico del primo ottocento tedesco è completamente diverso, legato cioè alla tradizione immediatamente precedente, ancora belcantista nell’impianto e che, al di là delle differenze e delle varie forme che il romanticismo musicale assumeva nelle diverse culture, erano le stesse che cantavano Bellini, Mozart e Donizetti.
Pubblicato da Gilbert-Louis Duprez alle 21:05 1 commenti
Etichette: Beethoven, Marschner, Mendelssohn, Opera Gotica, Opera Romantica, Vampiro, wagner, Weber
domenica 26 ottobre 2008
Concerto della von Otter questa sera alla Scala
Pubblicato da Antonio Tamburini alle 19:45 5 commenti
venerdì 24 ottobre 2008
Impressioni sull'ascolto radiofonico dei Capuleti genovesi
Un'orchestra pesante non può ambire a simulare i Berliner.
In estrema sintesi l'inaugurazione del Carlo Felice.
Atto primo
Aria Tebaldo
Un baritono il preposto tenore, con la voce ben chiusa nella testa appena arrivano i primi acuti (quasi acuti ) e senza proiezione. Sarò forse ancora condizionato da quella penosa Stuarda scaligera.
Cabaletta lenta e soporifera, con una modestissima variazione (strozzata) nel da capo.
Una esecuzione pesante e priva di baldanza. Qualche variazione, puntatura aiuterebbero a delineare il personaggio. In compenso Renzetti non gli taglia la coda, prolissa ed inutile eseguita in questo modo. L’accompagnamento alla cabaletta va ricordato come esempio di vera “bandaccia”.
Entrata Romeo
Recitativo con voce indietro, ingolata e di petto.
Nessuna sfumatura in zona ala o balla o emette falsetti. Tempo bello veloce, sennò non regge.
Non fa la puntatura di tradizione alla ripetizione di “troverai nel mio signor”. Un bel e “tal sarà “ da sopranaccio verista. Gusto da Obraztsova e ne avesse la voce. Al centro il famoso”scalino”. La velleità delle varianti di Rossini è patetica. Meglio evitare.
Cavatina di Giulietta
La voce della Devia dimostra i suoi anni. La cantante però, è misurata e non cade in alcun eccesso di gusto verista, è sorvegliatissima, anche troppo. L’abbandono era poco nel 1989, figurarsi adesso.
Duetto
Siccome è acuto la Ganassi gira un po’ meglio e sembra un po’ meno la Barbieri sfasciata. Ma se sale “ ah noi luogo amor terra “ o sono falsetti o sono i cosiddetti pianini. Nessuna vocalizzazione di forza.
La Devia emette suoni brutti nel primo passaggio e in alto a piena voce balla. Peccati veniali rispetto alla Ganassi.
Nella sezione centrale la Ganassi appena arriva un acuto o lo ghermisce o lo falsetta, quando replica la Devia sarà anche alla frutta, ma che frutta. La cadenza che introduce la sezione a due voci vede una Ganassi più verista che mai.
La sezione conclusiva la Ganassi attacca con voce esausta, scomposta e bercia gli acuti e dopo il bercio di “ritornerà”, il falsettino.
Il tempo poi è da marcia funebre salvo ravvivarsi un poco alla fine. Caro maestro i tempi lenti come insegnavano la Sutherland e la Horne alla fine sono un suicidio!!!! E sì che Lei con una ha ripetutamente lavorato.
Finale primo
Il famoso finale in cui le due voci femminili cantano all’unisono.
Il buco della voce della Ganassi è sempre più evidente in un passo che impone l’esibizione di un saldo registro basso.Qui Romeo è un contralto rossiniano psicologicamente e localmente.
Quando arriva il la di “giurata fè” siamo allo strillo più puro.
Le cose migliorano nell’andante dove Mariella Devia canta con eleganza e timbro ancora saldissimo, poi chiederle di essere romantica e poetica, beh insomma non lo era nel 1994. Non possiamo pretenderlo ora.
Atto secondo
Aria di Giulietta
Al recitativo la difficoltà a legare della Devia è evidente. Il timbro sarà anche provato e qualche volta non usciranno suoni immacolati, ma nell’andante è ancora notevole per virtù tecnica. E sul “dubbio crudel” esegue un passaggio di registro inferiore da manuale. Ulivieri è becero appena sale o si stimbra o ulula. Quando entra Capellio nelle battute di conducimento l’orchestra è pesantissima. Nella sezione conclusiva la Devia è ancora all’altezza della propria meritatissima fama anche se non tutti i suoni sono torniti e perfetti come un tempo. Ma nella zona alta fa ancora impressione per la saldezza e sicurezza. La Devia è una grande cantante d’opera, gli altri sono principianti. Da andare sino a Genova solo per tributarle l’omaggio al professionismo.
Renzetti chiude il finale con un’orchestra che sembra la famosa banda “rumpe e streppa” di Finale Ligure, tanto per rimanere in zona.
Duetto Romeo – Tebaldo
La Ganassi entra facendosi raggiustini agli acuti del recitativo e si sforza di essere eloquente, ma il “m’abbandona a me solo” la costringe a forzare.
Accento verista per simulare la foga della sfida. E quando scende il solito immascherabile scalino.
E vai con il verismo alla invocazione di Romeo sulla morta Giulietta. La Ganassi declama malamente il dolore di Romeo. E’ l’emissione poco immascherata al centro che rende plebeo, da sempre, il canto della Ganassi, privandolo dell’astrazione tipica del canto di scuola. L’acuto finale è il grido del cappone sgozzato.
Finale
Il coro e l’orchestra non hanno il colore della disperazione di Romeo e la voce poco stilizzata di Romeo non evoca il dolore quintessenziato dell’eroe romantico. In alto sono falsettini, al centro suoni vuoti ed in basso cavernosi e di petto. Esemplare il recitativo di entrata dello sventurato Romeo. Il gridolino di Romeo allo scoprimento del cadavere non evoca dolore, ma l’urlo di chi abbia paura e terrore nel vedere un cadavere.
Suoni aciduli sul do e mi centrali ossia dove Romeo canta sono la negazione del Belcanto stesso. Poi si può anche dire che esegue piani e pianissimi.
Nel recitativo del risveglio la Ganassi indulge a sospiri e suoni di petto. Meglio la Devia anche se la scrittura non è acuta e, quindi, non è suo agio.
Nelle ultime battute la Ganassi sembra per peso specifico e volume un soprano leggero, sembra più voluminosa la voce della Devia.
Pubblicato da Domenico Donzelli alle 23:20 6 commenti
Etichette: capuleti e montecchi, devia, Ganassi, renzetti, Schmunck, ulivieri
L'arte della primadonna: Romeo Montecchi di Bellini
Felice Romani
Così spiegava Felice Romani in testa al libretto dei Capuleti e Montecchi di Vincenzo Bellini, opera nata reimpiegando le parole già scritte per il Giulietta e Romeo di Vaccaj.
L’incipit del grande librettista tradisce ancor oggi l’ottocentesca vicarianza di testi e poi di musiche tra le due opere, una vicarianza legata alle consuete prassi di intervento sugli spartiti per mano dei grandi artisti ma, in questo caso, anche da veri e propri giudizi di valore sull’opera belliniana.
Distillato della poetica romantica, Romeo incarna l’amore giovanile, irrazionale ed incosciente, nobilmente eroico ed appassionato. Le rappresentazioni ideali ed idealiste tipiche della poetica rossiniana lasciano spazio in Romeo ad un personaggio meno aulico ma pienamente…romantico. Il lato guerriero è smorzato, perché in primo piano vi è sempre la passione per Giulietta. Il melomane del belcanto è oggi appagato dalla sequenza di numeri di cui consta la parte, che passa dal canto lirico della sortita Se Romeo t’uccise un figlio seguito dalla marziale Tremenda ultrice spada, dove l’eroe da subito sfida i nemici Capuleti; il grande duetto d’amore, ove si alternano un canto di slancio nel recitativo di incontro e quello amoroso della sezione centrale, connotato dal contrasto tra progetto di fuga e dovere filiale; di nuovo l’ardimento e la sfida di Romeo prima del concertato di chiusura d’atto; il desolato e malinconico recitativo accompagnato dal clarinetto che precede la sfida con Tebaldo; lo struggente e patetico finale della morte, luogo di elezione della primadonna fraseggiatrice. Il brevissimo tempo a disposizione per la composizione ( dal 19 gennaio a 5 marzo 1830 ) costrinse Felice Romani al remake del libretto scritto per Vaccaj e Bellini al riuso di parecchi numeri della sua Zaira, oltre che l’aria di Nelly dall’Adelson e Salvini. Condizioni difficili, dunque, per lavorare ad un’opera che, grazie al soggetto celeberrimo, li metteva direttamente in confronto con il Giulietta e Romeo di Zingarelli, ( opera del 1796 per la coppia Grassini – Crescentini, poi riportato in auge da Velluti e dalla Pasta ) e con quello di Vaccaj.
La storia delle rappresentazioni ottocentesche dei Capuleti di fatto coincide con la storia delle trasformazioni operate sul testo originario, in primissima battuta da Bellini, ma e soprattutto dalle primedonne celebri, interpreti di Romeo. Alla prima rappresentazione l’opera ebbe un grandissimo successo di pubblico e critica: alcuni da subito non mancarono di sottolineare l’evidenza del modello belliniano per il finale, ispirato a quello di Zingarelli ed impostato sull’alternanza recitativo – cantabile – recitativo – cantabile. Del tutto unica, ma anticipatrice del destino futuro dell’opera, una critica che sottolineava la freddezza del finale di Bellini rispetto sia a Zingarelli che al finale di Vaccaj, a sua volta strutturato diversamente in due numeri chiusi e separati ( il primo di Romeo e l’ultimo di Giulietta ) secondo tradizione. Quello di Bellini venne giudicato toccante ma meno commovente, e questo nonostante la grande interpretazione fornita dalla primadonna, Giuditta Grisi. E sempre con la Grisi ebbe luogo la prima ripresa dell’opera fuori da Venezia, a Senigallia, con grande successo, tanto che poi l’impresario Crivelli organizzò la ripresa dell’opera in Scala. Nonostante la Grisi avesse già domandato un rifacimento di parole e musica per la cavatina di sortita, che riteneva inadatta al suo peso vocale, a Milano andò in scena una revisione per due mezzosoprani, con la trasposizione della parte di Giulietta. E non è un caso che le variazioni di Rossini per La tremenda ultrice spada, siano datate proprio al 1830 e, dunque, riconducibili per datazione alle pretese della Grisi. Per la Scala Bellini non fece alcun mutamento per la parte di Romeo, a meno dell’abbassamento di mezzo tono del duetto del primo atto, pur non gradendo i cambiamenti imposti dall’impresario: il successo fu grande ma non convincente come a Venezia. E lo spettro dell’opera di Vaccaj si delineò in quell’occasione con tutta evidenza anche nella critica, che iniziò ad indicarne chiaramente la superiorità dell’intera opera rispetto a quella di Bellini. La filolologia moderna ha ampliamente dimostrato come la sostituzione del finale di Bellini con quello di Vaccaj, prassi inaugurata dalla Ferlotti nel 1831 alla Pergola di Firenze e poi ripresa l’anno dopo,dalla Malibran a Bologna ( Romeo anche nel ’33 a Napoli, poi nel ’34 e nel ’36 alla Scala di Milano ), sia stata effettiva risposta al gusto del pubblico, forse ancora molto legato ai modelli rossiniani. La prassi divenne talmente solida che anche altre parti dell’opera di Vaccaj vennero innestate in quella belliniana. Le inserzioni si ampliarono anche ad altre partiture con la stessa Maria Malibran, notoriamente liberissima nell’adattamento degli spartiti, che vi inserì un duetto di Mercadante ed un brano del Celli. Il cambiamento del finale operato da una diva celeberrima di certo contribuì a dare autorevolezza all’operazione, ripetuta numerose volte da altre cantanti più o meno famose, tanto che il brano venne addirittura inserito nelle edizioni a stampa dello spartito al posto di quello di Bellini. Così accadde di nuovo al Théatre des Italiens a Parigi nel 1833, artefice ancora Giuditta Grisi, dove l’opera non aveva riscosso un pieno successo, e di nuovo a Torino 3 anni dopo, sempre con la stessa cantante. A Parigi gli inserti importarono mutamenti robusti operati da un altro musicista, Antonio Marliani, che scrisse una sinfonia e una nuova cavatina per Giulietta ( in quell’occasione interpretata per la prima volta da Giulia Grisi ), e la sostituzione del duetto d’amore del primo atto con un duetto di Marc’Antonio Viviani. Le critiche, ciò nonostante, continuarono anche in terra francese, come pure in Inghilterra ed Germania. Romeo Montecchi trovò grandi e rinomate interpreti in Wilhemine Schroeder Devrient a Dresda, poi a Francoforte, Kassel, Weimar, Lipsia...; a Londra nel ‘33 con Giuditta Pasta e nel ’48, con Pauline Viardot. Anche Caroline Unger fu un celebrato Romeo.
Controcorrente rispetto alla prassi della manomissione del testo autografo, nel '34 andò, forse per prima, la Ronzi, al teatro alla Pergola di Firenze, ripristinando il finale di Bellini. La Ronzi fu Romeo numerose volte, solo al San Carlo di Napoli nel 31, ’32, ’34, ’37. Sostenne la fedeltà a Bellini che addirittura Romani propugnò apertamente sulla stampa, nel ’36 a Torino, contro la Grisi, rea di perseverare in una ”amputazione” che, a dire della primadonna, derivava dallo scarso apprezzamento del pubblico per il brano. Soltanto la critica tedesca, sebbene giudicasse l’opera piuttosto povera di invenzione musicale e di originalità, dimostrò una aperta preferenza per il finale di Bellini, ritenendo quello di Vaccaj uno stile ormai superato ed arcaico, mentre quella inglese, ad onta del successo di pubblico, continuò a manifestare riserve per Bellini, e per i Capuleti, ritenuti “persino” peggiori di Norma!!
Le alterne fortune di questa opera, che si eclissò chiaramente dai cartelloni della seconda metà del XIX secolo ( nemmeno Barbara Marchisio, ultima praticante del belcanto protoromantico, risulta interprete del titolo …, solo la Borghi Mamo e la Biancolini, ma sporadicamente ) provano l’eterogeneità del gusto che caratterizzava il teatro d’opera italiano alle prese con le produzioni post rossiniane. Tradizione di modello rossiniano ed innovazione si confrontarono e scontrarono tra pubblico come tra i solisti e nella critica. Alla ricerca del successo la primadonna ben sapeva che questo era legato alle qualità esecutive ed interpretative, ma anche a quelle musicali dello spartito, alle cui carenze era lecito che una grande artista supplisse operando su di esso in prima persona….ad libitum. Il Romeo dei Capuleti belliniani, sebbene sempre al centro di discussioni e critiche, restò comunque un ruolo di moda, ambito per almeno 15-20 anni dai grandi contralti en travestì. Era evidentemente la poetica del personaggio che spingeva le primedonne a superare ogni riserva di altro genere: spada, mantello, canto amoroso, duello e scena di tomba erano un mix comunque vincente ed attraente per l’interprete in pantaloni.
Dopo un silenzio di mezzo secolo, rotto da episodiche riprese legate ad una cantante di repertorio belcantista ma ormai contaminata, nel gusto, dal verismo, cioè Guerrina Fabbri ( quasi certamente interprete del finale Vaccaj... ), Romeo è rientrato nel repertorio mezzosopranile solo con la belcanto renaissance. Dapprima la Simionato e la Cossotto, poi le virtuose pure come la Horne e soprattutto la celebratissima Dupuy interpretarono il ruolo. A riprova del fascino esercitato nei tempi moderni come nell’Ottocento a questo personaggio, anche cantanti di diversa estrazione, come Tatiana Troyanos, e persino belcantiste improvvisate quanto improbabili come Agnes Baltsa lo hanno interpretato.
La cronologia delle principali rappresentazioni moderne dell'opera annovera riprese in teatri americani ed italiani. Alla Carnegie Hall, con Giulietta Simionato e Laurel Hurley nel 1958, quindi nel 1964 con Mary Costa; nel 1971 con Marilyn Horne e Patricia Brooks; a Dallas nel 1977 sempre con la Horne che in quella occasione eseguì il finale di Vaccaj. In Italia, nel 1958, alla RAI di Milano con la giovanissima Fiorenza Cossotto, quindi a Catania, nel 1959, con Rosanna Carteri ed Irene Companeez .
Per la prima volta alla Scala di Milano, nel 1968, sotto la direzione di Claudio Abbado l'opera venne antistoricamente riproposta con Romeo in versione tenorile, protagonista Jaime Aragall, in compagnia di Renata Scotto e Luciano Pavarotti. Si instaurò in quella circostanza una sorta di piccola tradizione, perchè altre produzioni con il tenore protagonista si ebbe anche per una successiva tournée della Scala a Montreal, nelle produzioni di L'Aja, nel 1970 a Catania (Renzo Casellato) e alla Fenice di Venezia nel 1973 (Luchetti in compagnia di Katia Ricciarelli come Giulietta). Nel 1975 l'opera viene incisa da Janet Baker con Beverly Sills, che aveva debuttato Giulietta lo stesso anno a Boston, in compagnia di Tatiana Troyanos. Nel 1977 viene rappresentata anche alla Wiener Staatsoper con Agnes Baltsa e Sona Ghazarian. Numerose le riprese italiane: a Palermo nel 1976 con Maria Luisa Nave e Maria Chiara, a Catania nel 1978 con Salvatore Fisichella e Margherita Guglielmi e nel 1986 con Helga Mueller-Molinari e Nelly Miricioiu. Altra interprete non proprio aderente ai principi e ai modelli ideali del Belcanto fu Anna Caterina Antonacci.
Fu Martine Dupuy il Romeo più acclamato della Belcanto renaissance, che ne vestì i panni in numerosissime occasioni tra cui Verona 1978, Roma e Napoli 1979, Martina Franca 1980, Reggio Emilia 1981, Palermo 1982, Verona e Brescia 1983, Bologna 1989, Torino 1994 e all'estero Caracas 1982, Marseille 1985, Utrecht e Bruxelles 1986, Londra 1986-88, Ginevra 1990, Amsterdam 1994.
Oggi Romeo Montecchi è intepretato sui principali palcoscenici da Sonia Ganassi, Daniela Barcellona, Vesselina Kasarova, Joyce Di Donato ed Elina Garanca, sebbene con un tasso vocale e stilistico non pienamente aderente agli stilemi del belcanto.
Un suggerimento per gli ascolti, volutamente provocatorio da parte mia, è quello di confrontare l'esecuzione della Tremenda ultrice spada, interpreti una contestatissima, in quanto verista, Agnes Baltsa scaligera ed una trionfante Joyce Di Donato, nella recente esecuzione parigina. A riprova che gli ultimi vent'anni hanno di fatto sdoganato, presso il pubblico, un gusto retrò per il canto sguaiato, inammissibile sino alla fine degli anni '80, e che talora suona come unareminiscenza del canto paraverista della Fabbri.
Vi proponiamo anche il finale Vaccaj, che ben si capisce perchè fosse preferito a quello belliniano da talune grandi primedonne del tempo. L'omaggio è anche alla "filologia pratica e applicata" della Horne, cui và tutto il nostro plauso.
Gli ascolti
Bellini - I Capuleti e i Montecchi
Atto I
Se Romeo t'uccise un figlio...La tremenda, ultrice spada - Guerrina Fabbri, Marilyn Horne, Martine Dupuy, Agnes Baltsa, Joyce Di Donato (solo la cabaletta)
Sì fuggire, a noi non resta - Tatiana Troyanos & Beverly Sills, Martine Dupuy & Lella Cuberli
Atto II
Deserto è il loco...Stolto! A un sol mio grido - Fiorenza Cossotto & Renato Gavarini, Veriano Luchetti & Giorgio Merighi, Martine Dupuy & Vincenzo La Scola
Ecco la tomba...Deh, tu bell'anima - Giulietta Simionato, Jaime Aragall, Tatiana Troyanos, Martine Dupuy
Finale alternativo di Nicola Vaccai - Marilyn Horne & Linda Zoghby
Pubblicato da Giulia Grisi alle 18:45 0 commenti
Etichette: Baltsa, Bellini, capuleti e montecchi, di donato, Dupuy, grisi giuditta, horne, malibran, pasta, romani, romeo montecchi, troyanos
giovedì 23 ottobre 2008
Qualcosa di nuovo nel Belcanto: Jessica Pratt
Il Belcanto oggi soffre. Soffre l’imperversare di interpreti inadeguate, imposte da teatri, case discografiche, organi di stampa, critici compiacenti e pubblici disposti a sorbirsi qualsiasi cosa venga loro concessa. Ogni tanto tuttavia sembra vi sia qualche eccezione. Ho assistito alla prima cremonese della Lucia di Lammermoor. E come dice la Sutherland, oggi, se sei fortunato, vai a teatro e senti una sola voce decente.. stavolta evidentemente, siamo stati fortunati ed una l'abbiamo trovata!
In uno spettacolo funestato da un tenore improponibile, un baritono non all’altezza ed un direttore assolutamente non in grado di affrontare la partitura, con sbavature di ogni tipo, attacchi sporchi - soprattutto gli ottoni: i corni in particolare – tempi velocissimi e sbrigativi (mai sentito un "Verranno a te sull'aure" così veloce) e lettura assai approssimativa e superficiale (per non parlare degli innumerevoli tagli inferti senza pietà e rispetto al testo, degni della peggior routine anni ’60), ecco apparire qualcosa di assolutamente rilevante. Jessica Pratt: Lucia. Chi è? Confesso di non averla mai ascoltata prima. Apprendo dalle sue note biografiche che ha 28 anni, è australiana, ha vinto una serie di concorsi in patria e si è piazzata ai vertici di importanti premi internazionali, ha partecipato a varie master class con Joan Dornemann, Yvonne Minton, Jonathan Summers, Sir Donald McIntyre e, soprattutto, Dame Joan Sutherland, ed è – credo tutt’ora – allieva di Renata Scotto. Un curriculm interessante dunque. Ma torniamo alla sua Lucia e alla sua voce. Innanzitutto colpisce lo spessore, il corpo: pieno, robusto, saldo. Gli acuti sono sicuri e svettanti, disinvolti e facili. I centri non sono sempre impeccabili, ma comunque notevoli (e ha tempo per correggersi, è da pochissimo sulle scene). La coloratura è perfetta e le agilità sono eseguite con estrema precisione e spavalderia, sono fluide e mai sbiadite, mai confuse. A ciò si aggiunga un ottimo gusto nelle variazioni. Il respiro e i fiati sono ampi e distesi. La dinamica e la tavolozza espressiva è estremamente estesa e varia. Splendidi i piani - delicati e morbidi - e pieni e sonori sono i forti. Dà la sensazione di poter mettere la voce dove vuole. Ciò che impressiona maggiormente, tuttavia, è l’estrema sicurezza del canto. Sicurezza che è data da una corretta emissione ed una perfetta tecnica (sempre questo è il punto dolente, il punto che i seguaci di una sorta di “pensiero debole” del canto tendono a relativizzare, sostenendo che non esiste una tecnica corretta, ma che tutto deve essere lasciato alla soggettiva impressione del fruitore). Credo che solo con una tecnica corretta si possa affrontare il Belcanto (e anche tutti gli altri generi, per la verità..) con risultati convincenti. L’emissione della Pratt era perfetta (si sentiva ovunque in teatro – e la scenografia non aiutava di certo, essendo uno spazio vuoto privo di quinte - al contrario del tenore, che non si sentiva mai), e lo era perchè utilizzava una certa tecnica. E la differenza si sente. No ha avuto bisogno di urlare, di sbiancare la voce, di emettere grugniti, di agitarsi come una tarantolata (come è usa la Sig.ra Dessay) per essere convincente, ha semplicemente espresso con il canto e seguendo le indicazioni espressive segnate da Donizetti, ciò che la musica vuole comunicare, dall’ansia dell’attesa all’illusione di un amore impossibile, dal dolore astratto al delirio della pazzia, senza mai sbracare, senza mai esagerare e senza mai annoiare (alla faccia di chi sostiene che solo esagitandosi in scena, con abluzioni personali e lavacri o bagni di sangue o strip-tease schizofrenici, si rende drammaticamente la vicenda di Lucia e il suo personaggio). Ma voglio analizzare i momenti salienti di quello spettacolo. Ovviamente la prima aria, dopo lo struggente solo di arpa, la Pratt disegna un “Regnava nel silenzio” con fiati molto lunghi e fraseggio morbidissimo, in modo da esaltare l’ampiezza della melodia, e dare un senso di estrema tensione e unitarietà all’episodio, in una perfetta via di mezzo tra passione e astrattezza notturna. Segue la cabaletta “Quando rapito in estasi” affrontato con estrema sicurezza nelle agilità impeccabili e fluenti: il da capo è variato con ottimo gusto e spavalderia. Il tutto senza mai perdere la concentrazione drammatica, senza nessuna sbavatura. Salto il duetto con Edgardo perchè il tenore era inascoltabile! Splendido il duetto col baritono così come la scena col basso e il sestetto. Voglio correre però alla scena della pazzia, momento topico dell’opera, risolto egregiamente dalla Pratt, con pathos sempre controllato, cercando di esprimere con la voce e la coloratura, il delirio, senza scorciatoie sceniche ed esteriori. E’ una pazzia interna, segno esterno di un dolore esploso di dentro, mai sguaiato e mai sgangherato (come invece lo è quello della Dessay, che arricchisce il brano con urla e pianti assolutamente fuori luogo). La cadenza è quella classica, col flauto, con il quale la Pratt dialoga fino a non riuscire a distinguere le due voci, tale è la perfetta sintonia, la perfetta sovrapposizione. Emozionante. Ed era tanto che non mi succedeva a teatro! Un nome, quello di Jessica Pratt, da tenere d’occhio dunque. In un panorama sterile e desolato, in cui sopranini dalla voce chioccia, piccola, poco estesa, stridula e scorretta, affrontano ruoli per loro proibitivi, forse sta nascendo qualcosa di veramente nuovo e interessante. E sta nascendo grazie al ritorno ad una tecnica corretta, che ha come modello cantanti come la Sutherland, e che riporta il Belcanto a quella notturna astrattezza che è necessaria ad esaltare la potenza e la bellezza della musica (dopo l’attuale predominio di baccanti urlatrici, di strillone sguaiate che hanno scambiato Lucia o Amina per Santuzza o di bamboline con voce querula), rifuggendo da certi superficiali e volgarissimi effettacci interpretativi. Concludo con una speranza, quella cioè di non vedere tra pochi anni la Pratt trasformata in declamatrice e alle prese con Elektra o giù di lì: tale è, infatti, la disabitudine a sentire una voce con corpo e potenza nel belcanto, ora appannaggio di sopranini lirici, che a qualcuno potrebbe venire in mente di utilizzarla per cantare certo Verdi o di massacrarle la voce con Strauss. Spero invece che venga restituito al Belcanto ciò che è suo.
Post Scriptum: sulla sua pagina web si possono trovare due bellissimi ascolti: “Der Holle Rache” e “Qui la voce sua soave”.
Pubblicato da Gilbert-Louis Duprez alle 20:37 3 commenti
Etichette: donizetti, lucia di lammermoor, pratt, Scotto, sutherland
"Ah non credea mirarti sì presto estinto, o fiore" - La nuova Sonnambula, edizione Decca.
Partirei proprio da quest’ultimo aspetto: l’elegante cofanetto Oiseau-Lyre (il dipartimento della DECCA specializzato in musica antica…), dichiara fin dal retro della copertina di seguire la nuova edizione critica dell’opera a cura di Alessandro Roccatagliati e Luca Zoppelli e risalente al 2004 (circa la storia di codesta edizione si rinvia ad altro intervento che si occupava del medesimo argomento, all’indomani dell’uscita della Sonnambula per la coppia Dessay/Meli che pure dichiarava l’utilizzo della medesima fonte). In realtà, leggendo le note che accompagnano il cd si scopre che nonostante venga seguita la lezione dell’autografo secondo le chiavi originali, in tre casi soltanto, si è proceduto a degli abbassamenti di tonalità. I tre brani sono: la Cavatina di Elvino “Prendi, l’anel ti dono” e successiva “Ah vorrei trovar parola”; il duetto Elvino/Amina “Son geloso del Zefiro errante” e successiva stretta; l’aria e cabaletta di Elvino “Tutto è sciolto” e “Ah perché non posso odiarti”. Ossia i tre brani che risultano abbassati nella tradizionale partitura Ricordi. Come a dire che i punti salienti che differenzierebbero l’autografo dalle successive edizioni a stampa – e cioè le tonalità originali (oltre naturalmente alcuni, pochi, dettagli relativi alla strumentazione) – seguono la secolare e consueta tradizione esecutiva dell’opera! Poco rilievo quindi, assume l’utilizzo dell’edizione critica, se proprio i brani che subirono i maggiori rimaneggiamenti, subiscono i soliti e tradizionali trasporti tonali. Poco male e nessuno scandalo: la parte di Elvino è di altezza tale che forse la voce di Rubini solamente era in grado di affrontarla secondo la redazione originaria. Tuttavia fa sorridere il fatto che, mentre si fa pompa di eseguire la Sonnambula “così come scritta”, nella realtà si deve scendere a quei compromessi a cui una saggia tradizione era giunta già a metà ‘800 (e che i veri direttori/filologi, come Bonynge, continuarono senza farsi troppi problemi, ben sapendo la necessità e la legittimità di tali “aggiustamenti” in funzione dei cantanti impiegati e delle supreme esigenze di riuscita artistica). Oltre alla questione relativa alle chiavi e alle tonalità, altra attesa per l’uscita discografica era dovuta al dichiarato utilizzo di una fantomatica “versione Malibran” dell’opera, tanto che codesta Sonnambula veniva indicata sul sito della Bartoli come ultimo tassello dell’omaggio della diva alla divina, nell’ambito dei festeggiamenti per il bicentenario della nascita. Ora in realtà non esiste nessuna “versione Malibran” edita o inedita: semplicemente vi sono alcune cadenze predisposte per la grande cantante a partire dal suo debutto nel ruolo, a Napoli nel 1833. Tutto qui: e infatti la stessa produzione ha dovuto correggere il tiro, dando atto dell’inesistenza di una tale versione in un trafiletto tra le note d’accompagnamento (peraltro accomunando in modo bislacco la vocalità della Pasta a quella della Malibran, confondendo la prima interprete dell’opera e lasciando intendere che Bellini l’avesse in realtà scritta per mezzo soprano, nonostante le spurie e apocrife aggiunte di acuti e sovracuti). Ma questo è solo marketing, specchietto per le allodole. Più importanti questioni riguardano le scelte esecutive e musicali. Si apprende, infatti, che l’orchestra suona secondo un diapason pari a 430 Hz, ossia – per i non addetti ai lavori – di quasi 1/3 di tono sotto rispetto al consueto (cioè 440 Hz). La circostanza fa dire agli estensori del libretto che, proprio per questo si tratterebbe di “incisione storica”. Il diapason abbassato è conseguenza, ovviamente, della scelta di utilizzare orchestra con strumenti d’epoca (o meglio, copie degli stessi) ed è pallino fisso di tutti i cosiddetti specialisti del modo antiquo. L’assunto per cui il La del 1831 fosse più basso di quello attuale è certamente appurato, tuttavia è tuttora controverso (e comunque aperta alla discussione e alla contestazione) il relativo quantum. In realtà, nel secolo XIX l’intonazione variava da città a città, da teatro a teatro. In alto e in basso. Si sa, ad esempio che a Parigi nel 1859 il parlamento votò una legge per riportare il La a 435 Hz (segno che prima era più alto), a Dresda nel 1820 era a 420 Hz, ma appena 10 anni dopo era salito a 435 Hz, alla Scala arrivò oltre i 450 Hz. Non parliamo poi dei secoli precedenti, dove vigeva anarchia assoluta: alcuni diapason riconducibili a Haendel erano accordati a 422 Hz, ma ve ne sono alcuni di 40 anni successivi a 408 Hz, mentre l’organo su cui suonava Bach a Lipsia o a Weimar era calibrato a 480 Hz. L’argomento appare dunque molto aperto. Ma non è il luogo per approfondire la questione (e forse poco importa). Resta il fatto che, a causa dell’abbassamento di diapason, i trasporti di tradizione (già più bassi rispetto all’autografo) appaiono un po' più bassi (si consideri che un Sol diesis o La bemolle ha convenzionalmente frequenza pari a 416 Hz, non molto distante dal diapason scelto): con l’effetto di perdita di brillantezza in molti brani. Quella che dunque dovrebbe essere secondo gli intenti, una Sonnambula autentica, appare falsificata. Ci si può chiedere, stante l’abbassamento di diapason (e la relativa comodità) non sarebbe stato più interessante seguire anche per i brani “incriminati” la partitura autografa? Non credo fosse un grosso problema per l’interprete – che nel registro acuto ha o aveva le sue armi più vincenti – arrivare, con la tranquillità che dà lo studio di registrazione, ad un Do diesis o a un Re o anche a un Re diesis. Nello specifico gli abbassamenti:
1) la Cavatina di Elvino passa dal Si bemolle maggiore originale, ad un La bemolle maggiore solo nominale, poichè in realtà, causa diapason abbassato si percepisce un Re bemolle maggiore molto crescente;
2) il duetto Elvino/Amina, scritto in un limpido Sol maggiore è trasposto un tono sotto, in Fa, che pare un Si bemolle maggiore scordato;
3) l’aria e cabaletta di Elvino che nell’autografo sono rispettivamente in Si minore e in un solare Re maggiore, diventano, in ossequio ai tradizionali abbassamenti della partitura Ricordi, La minore e Si bemolle maggiore, che “grazie” al diapason suonano come un Re minore e un Mi bemolle maggiore entrambi molto crescenti.
Questo è quanto si sente. Non siamo alla “versione da baritenore” approntata da Pidò per Meli, ma comunque risulta la più bassa dell’intera storia discografica dell’opera (con eccezione di quella della VIRGIN), da Valletti a Bros.
Veniamo ora all’orchestra e alla direzione, per poi concentrarsi sul cast.
L’Orchestra La Scintilla è diretta da Alessandro De Marchi. Fin dalle prime note dell’introduzione è chiaro l’orizzonte estetico e interpretativo. De Marchi si segnala per una generale pesantezza di tocco: ritmi marzialmente scanditi, avarizia di colori, contrasti sottolineati. La mancanza più grave è, però, l’assenza di quell’abbandono lirico, di quella morbidezza, di quella delicatezza necessari a disegnare l’ambientazione larmoyante dell’opera. Gli archi, ad esempio (spesso sovrastati dall’ingombro di fiati troppo sottolineati) invece di “dipingere un acquerello” dalle tonalità sfumate e sognanti (che è il mondo di Sonnambula, volenti o nolenti) scarabocchiano un pasticcio dai colori sgargianti e mal accostati. Suonano duri, secchi, freddi. Così pure i fiati che mancano di ogni morbidezza (e talvolta “spernacchiano”). I tempi generalmente affrettati, diventano slentati e trascinati ad uso e consumo delle cantilene sussurrate dalla protagonista. Anche la cabaletta di Elvino è penalizzata dai tempi letargici e pesanti staccati da De Marchi, che non accelera neppure nella stretta. Insomma, il direttore conferma la pessima impressione già suscitata in Rossini: greve, grossolano, privo di lirismo e incapace di far “cantare” l’orchestra (virtù – e fatica – necessaria a ben rendere il melodramma italiano tra Bellini e Donizetti). Ma è ovviamente sui cantanti che si sofferma l’attenzione. Il Rodolfo di Ildebrando D’Arcangelo, che dipinge un Conte abbastanza nobile e contenuto, scevro da orribili e facili forzature (come purtroppo è uso invalso) è reso con voce ben impostata, pulita, calda, forse il migliore del cast. Juan Diego Florez, come Elvino, è irriconoscibile! Appare stanco e in difficoltà, soprattutto nel registro acuto. La voce non gira, l’emissione non è facile. Certo le note ci sono (quasi tutte), ma manca quella leggerezza a cui, nei suoi personaggi più azzeccati (ed Elvino era uno di essi), ci aveva abituati: un Elvino magari privo di abbandoni romantici o venature malinconiche, ma limpido e svettante. Questo sì! E questo qui manca! Gran parte della colpa è da attribuire alla lettura imposta dal direttore, dalla sua secchezza ed aridità, dall’abbassamento ulteriore grazie alle scelte di diapason (che porta a tonalità che all’orecchio suonano “atipiche”, sporche) e dalla scelta di eliminare le puntature al termine dei brani solistici. In nome di una malintesa filologia. L’esibizione vocale infatti (e l’acuto è un’esibizione vocale) è elemento intrinseco – pur se non scritto – dell’opera italiana del primo Ottocento. Non è mera esposizione muscolare, ma è esempio di virtuosismo. Molto meglio chiudere la cabaletta dell’atto II con un acuto svettante e luminoso – che appaghi l’orecchio del pubblico e che è legittimato da decenni di tradizione (fin dalla prima) – piuttosto che variare in stile rossiniano il da capo (con esiti di dubbio gusto). Ma anche Florez si è dovuto adattare. Cecilia Bartoli è Amina. Cecilia Bartoli ormai non canta più l’opera: fa crossover. Canta sì, ma come lo potrebbe fare Madonna. Conferma dell’assunto è il circo Barnum che ha portato in giro per mezzo mondo (a suo modo spettacolo geniale, ma che con l’opera non ha più nulla a che fare). La Bartoli qui appare (per dirla con Tarantino) sé stessa all’apice del proprio masochismo! Fa tutto quello che dalla Bartoli ti aspetteresti: una serie di sospiri, rantoli, sussurri, grida, sgomenti, soffi, tra cui si percepisce, talvolta, una linea di canto appena accennata, soffusa, sottovoce (nei momenti lirici). Oppure un gorgoglio di agilità a suon di colpi di gola che (dopo averne constatata la velocità e la rapidità d’esecuzione – cosa in sé notevole, ma inutile) oltre ad affogare la linea musicale, appaiono fuori stile (tutt’altra cosa quelle agilità, ugualmente funamboliche, ma rese con astrattezza languida e vellutata dalla Sutherland). Giusto/sbagliato, corretto/scorretto…non importa: è la Bartoli. Certo non è Bellini. E non è sicuramente La Sonnambula. Si tralasci poi la considerazione per cui ci si chiede come questo profluvio di effetti possa essere percepito in una vera e propria recita teatrale. Qui il microfono è a pochi cm dalla bocca e si sente tutto, ma si capisce anche che non si può cantare così davanti ad un pubblico vero. Cos’è questa Sonnambula allora? Un esperimento di rielaborazione discografica costruito in laboratorio grazie alla sensibilità dei moderni strumenti d’incisione? O vuole essere un “disco storico” che segni le prossime generazioni nell’interpretazione del titolo? Cos’è dunque? Beh, come tradisce la stessa copertina (che ammicca alle pose di sexy popstar – con tanto di fotoritocchi e set patinato), si può dire che questa Sonnambula altro non è che l’ultimo album della Bartoli (così come si citerebbe l’ultimo album di Sting), ossia un puro oggetto di consumo pronto a scalare la top ten magari, campione d’incassi forse, da inserire in qualche tournè (salvo amplificazioni e mixer audio), da vendere nei megastore. Ma siamo al prodotto puramente discografico, senza più velleità artistiche: il passo successivo è la campionatura di voci e orchestra ed il confezionamento di prodotti virtuali ed artificiali, magari assemblati sul pc di casa. Corretti, puliti. Ma mortalmente gelidi. Ma sarebbe discorso lungo. Concludo con una sintetica analisi dei numeri:
N° 1: INTRODUZIONE – La direzione appare fin da subito rozza e grossolana, scandita con l’accetta: pare ignorare a bella posta i segni espressivi di p e pp. Va bene che si tratta di “festa di paese”, ma non per questo deve essere tutto sguaiato e triviale! La Cavatina di Lisa è sospirosa e piena d’aria (non si stenta a immaginare a chi si ispiri Gemma Bertagnolli, che interpreta il ruolo) e il da capo viene fiorito come se fosse Haendel.
N° 2: RECITATIVO E CAVATINA – De Marchi stacca un tempo assolutamente letargico (la partitura, invece, indica “cantabile assai sostenuto”), che tuttavia non suggerisce nulla di poetico: lo stacco degli archi che accompagna il “Compagne, tenere amiche” di Amina, che in altre incisioni appare come un raggio di sole e di serena felicità, qui passa inosservato tanto è malamente suonato. La Bartoli canta la sua “nenia” (scombinata così dall’orchestra) non risparmiandosi in sospiri, affanni, colpetti di gola. In tutto ciò non lega nemmeno due note: è tutto staccato e spezzato. La melodia lunga lunga belliniana va a farsi benedire, affogata nel lento annaspare della protagonista che termina l’aria senza alcuna cadenza (eppure ci sarebbe una bella corona a suggerirla – ma nessuna corona verrà rispettata nell’intera esecuzione!). Segue cabaletta in un profluvio di sospiri e sussurri, rallentamenti incomprensibili, rantoli e parlati, pause e respiri presi a casaccio. Il da capo è così variato da sembrare una riscrittura!
N° 3: RECITATIVO E DUETTO – attacca il clarinetto, vistosamente calante e poi entra Elvino: corretto, ma come sforzato. Gli acuti ci sono, ma non sono facili. Un Florez decisamente fuori forma in una parte che prima dominava con sicurezza ben maggiore. Nella stretta manca del necessario abbandono. I Do acuti (abbassati, causa diapason) ci sono, ma sono come estrapolati dal contesto, isolati, soli. Il da capo è variato ancora in modo creativo.
N° 4: RECITATIVO E CAVATINA – la Cavatina di Rodolfo è staccata ad un tempo forsennato, rovinando così una delle più straordinarie melodie scritte da Bellini. Il fraseggio è monotono (ma D’Arcangelo è scusato dalla dozzinalità dell’accompagnamento, davvero volgare). Cabaletta a ritmo di galop, ma, curiosamente, senza nessuna variazione nelle ripresa.
N° 5: RECITATIVO E CORO – totalmente assente il clima notturno e l’aura di mistero che anche il più misconosciuto concertatore “di provincia” riuscirebbe a rendere. Oltretutto De Marchi imprime un ritmo troppo veloce e un’aria da sagra paesana (con tanto di sottolineato ZUM-PA-PA).
N° 6: RECITATIVO E DUETTO – la Bartoli sospira, si affanna, rantola, parla e non lega un suono! Florez comincia a farsi riconoscere: tenta di dare un senso alla frase, all’arcata melodica, ma l’orchestra e la partner “remano contro”. Nella discesa al Do nella cadenza prima della stretta, Amina pasticcia alquanto (mentre Elvino finalmente sale al suo Do con facilità).
N° 7: SCENA E FINALE I – si apre con gli accordi stridenti e sforzati degli archi d’epoca, che stonicchiano subito. E siamo al “capolavoro”: entra la Bartoli simulando la voce di una persona che parla nel sonno, sbadigliando e cantando con bocca semi-chiusa e mandibola fissa. Pronuncia male le consonanti a bella posta e canta sovente nel naso (per realismo immagino: avrà fatto alcune ricerche sul fenomeno del sonnambulismo – filologia d'accatto!). Per fortuna la “sceneggiata” termina presto, con l’inizio del duetto. Entra il coro mentre gli archi sembra intonino l’Inverno dalle Quattro Stagioni di Vivaldi. Poi il quintetto in cui la Bartoli ancora mostra completa assenza di legato. Nella stretta conclusiva, infine, i tecnici DECCA mettono in evidenza la voce della loro diva di punta (nonostante dovrebbe essere Elvino a “tirare”) col risultato di avere i piani sonori totalmente sballati. Passiamo all’atto II.
N° 8: CORO D’INTRODUZIONE – la consueta grossolanità di De Marchi compromette il clima pastorale dell’apertura d’atto.
N° 9: SCENA ED ARIA – seguendo la lezione dell’autografo viene ripristinato il preludio per le due trombe prima dell’ingresso di Amina (brano molto suggestivo che qui si ha l’occasione di ascoltare per la prima volta – giacchè l’altra incisione che vanta di seguire l’edizione critica, lo omette – ma meriterebbe un suono più rotondo e morbido). “Tutto è sciolto” manca del languore e della malinconia che la musica di Bellini suggerirebbe. L’abbassamento tonale è marcato (e aggravato dal diapason), l’accompagnamento grossolano. La cabaletta “Ah perchè non posso odiarti” viene staccata a tempo lentissimo perdendo di mordente e trascinandosi verso i parchi acuti (nessuna puntatura è concessa alla fine). Nessuna cadenza viene interpolata, tutto è come scritto in partitura (Gavazzeni scrisse che “l'assoluta fedeltà al testo è un'idea gretta che va contro i valori estetici della musica e va contro la storia”).
N° 10: SCENA ED ARIA – ancora Lisa interpola variazioni haendeliane.
N° 11: QUARTETTO – ben eseguito dai cantanti, ma l’accompagnamento è da banda.
N° 12: SCENA ED ARIA FINALE – siamo alla parodia! Per fortuna non viene replicato “l’effetto” del sonnambulismo all’atto I, tuttavia il recitativo è sempre piagnucoloso e sospirato, senza l’ombra di legato. L’aria è grottesca. “Ah non credea mirarti” staccato a tempo lentissimo, letargico, soporifero. Come si poteva immaginare qui la Bartoli dà libero sfogo alla sua “arte”: sospiri, lamenti, rantoli, affanni. Ricorda più un crooner degli anni’50 alla Tony Bennett, che una cantante d’opera che pratichi il canto professionale. La linea vocale (o quel che ne rimane) è di continuo spezzata dal pianto e dai sospiri – si fatica a percepire l’arcata melodica belliniana! “Io più non reggo”, canta Elvino...e non solo lui! La voce (priva di impostazione e immascheramento) è malferma, indugia in continui rallentamenti e pause non scritte, pasticcia col solfeggio e non lega una nota che è una! Una scena del sonnambulismo ridotta a mera canzonetta pop, manca solo il videoclip. Siamo alla fine: “Ah non giunge uman pensiero” è un delirio di colorature di gola, velocissime e serrate che gorgogliando annegano ogni spunto musicale. De Marchi scandisce l’introduzione con veemenza da corteo (e il risultato è di un’imbarazzante somiglianza con l’incipit di “Bandiera Rossa”). Gridolini, borbottii, sospiri e poi da capo, con variazioni alla Rossini. Sulla puntatura finale (l’unica concessa da De Marchi) cala il sipario su una delle peggiori incisioni di Sonnambula che offra il mercato. Ultima annotazione: la qualità audio è ben inferiore ai consueti standard DECCA. Le voci dei solisti sono costantemente in evidenza e tendono a stridere nella gamma alta (che va spesso in saturazione). Il volume d'incisione è troppo alto e il mixaggio è dozzinale. Si percepiscono chiaramente i rattoppi delle varie sessioni di registrazione. Un disco rivolto ad un pubblico dai gusti...particolari.
Gli ascolti
Bellini - La sonnambula
Atto I
Son geloso del zefiro errante - Luigi Alva & Margherita Rinaldi - Nino Sanzogno (1972)
Atto II
Oh, se una volta sola...Ah! non credea mirarti...Ah! non giunge - Frederica Von Stade - Nicola Rescigno (1986)
Pubblicato da Gilbert-Louis Duprez alle 15:00 5 commenti
Etichette: bartoli, Bellini, d'arcangelo, De marchi, edizione critica, florez, La Sonnambula