lunedì 31 maggio 2010

Il soprano prima della Callas, tredicesima puntata: Maria Müller

Fra il 1930 ed il 1943 Maria Müller fu il soprano lirico di punta delle edizioni del Festival, interpretando Eva, Elsa, Elisabeth sino a Senta e Sieglinde. Quando, però, divenne il soprano lirico ufficiale del Festival Frau Müller era già un soprano famosissimo e non solo nei teatri di area mitteleuropea.

Era, in realtà, boema, era nata nel 1898 (ho il sospetto che, come molte signore, si autopraticasse qualche sconto sull'anagrafica), aveva debuttato a Linz con la Elsa del Lohengrin nel 1919 dopo avere studiato con Erik Schmedes e Anna Bahr-Mildenburg, che faccio, attese le documentazioni fonografiche, molta fatica ad immaginare maestri capaci di dare un solido impianto tecnico ad una principiante, perché di un inossidabile sostegno tecnico tutte le registrazioni della Müller offrono indiscutibile prova. Fra il 1920 ed il 1921 aveva cantato a Brno per passare, sino al 1923, a Praga al Deutsches Theater, ove venne contattata dalla dirigenza del Met. Il debutto nel massimo teatro americano avvenne solo nel 1925, dopo che, nel biennio 1923-'25, la Müller aveva cantato a Monaco.
Al Met la Müller rimase per un decennio ed a quel periodo è ascrivibile il suo repertorio più esteso. Cantava, infatti, Verdi (Aida e nel 1932 fu protagonista della prima edizione locale del Simone), Mimì e Butterfly, Mozart (è pervenuta pur dal suono problematico una ampia selezione del don Giovanni del 1934), Agathe del Franco cacciatore, i ruoli protagonistici della Sposa venduta e della Fiera di Sorocinsky. Affrontò, inoltre, alcune prime locali come il Giovanni Gallurese di Montemezzi con Lauri Volpi e il Fra' Gherardo di Pizzetti.
Parsimonioso e non solo al Met, a differenza di tutti gli altri soprani della sua generazione, il rapporto con Strauss limitato ad Oktavian al Met, a qualche recita di Ariadne oltre che alla prima berlinese dell'Elena Egiziaca nel 1928.
Nello stesso periodo fu una presenza costante nei maggiori teatri di lingua tedesca come Berlino (sotto la guida di Bruno Walter), Monaco, Dresda e Vienna, e si presentò alla Scala, al Covent Garden, a La Monnaie di Bruxelles ed all'Opéra di Parigi.
Insomma una grande carriera internazionale come quella delle primedonne dell'epoca attuale, che dal 1933 in poi si concentrò nei teatri tedeschi, su Wagner e sopratutto sulla Collina. L'affezione ai luoghi wagneriani fu tale che a Bayreuth la Müller vivesse negli anni del secondo conflitto mondiale e dalla collina "ascendesse il Wahlalla" nel 1958.
Dei tre grandi soprani lirico-spinto di area tedesca, che ebbero identico repertorio, ossia Elisabeth Rethberg (1894), Tiana Lemnitz (1897) e la Müller, appunto, quest'ultima vantò, sopratutto nella prima fase della carriera, la voce più calda e mediterranea, non aveva la dolcezza e l'astratta purezza della Lemnitz o il timbro peculiare,a nche se piuttosto nordico della Rethberg. E' interessante rilevare come tutte e tre (e non solo loro, agggiungo) cantassero ed interpretassero allo stesso modo, ossia con un assoluto controllo della voce, con una dinamica varia e sfumata e una castigatezza di accento, che nei paesi latini faceva storcere il naso e appioppare la taccia di cantanti fredde. Sono, invece, tutte e tre cantanti attuali e modernissime nel gusto.
Con riferimento alle qualità timbriche della Müller ho ritenuto doveroso far riferimento alla prima fase della carriera. Ascoltate in sequenza le registrazioni del 1930 quale Elisabeth e del 1943 quale Elsa l'ascoltatore potrà percepire che la zona acuta della voce indurita ed appesantita, particolarmente nelle frasi più scabrose e spinte del duetto con Franz Volker, anche lui splendido, ma non più all'apice della forma. Era, credo, il risultato di venti e più anni di carriera dedicate ad un autore e ad una vocalità, che non erano quelle iniziali della Müller. Chi volesse rendersi conto della qualità timbrica, dell'eleganza e misura dell'interprete deve sentire la Mimì -splendida- del 1927. Certo nel sogno di Elsa, complice la scrittura centrale e l'esigenza di una linea di canto elegante e raccolta la cantante continua ad essere sfumata ed elegante e, forse, meno solenne della Flagstad o della Rethberg delle quali, però, non aveva l'eccezionale qualità vocale.

La preghiera di Elisabeth, tratta dall'integrale del 1930, mostra esemplari il legato e la purezza del suono, paradigmatici per la fanciulla, strumento di redenzione e oggi impensabili perchè introvabili.
In occasione del recente Tannhauser scaligero abbiamo rilevato come la preghiera del terzo atto, passo assolutamente centrale, che non supera un sol bem, possa essere assunta quale distinguo fra la grande cantante e la dilettante. Quest'ultima, attesa la tessitura, può anche cantare la pagina, priva, però, di legato, senza dinamica, perchè non controlla la distribuzione del fiato nelle lunghe frasi e, quindi, trasforma la pagina in una insopportabile lamentela. Per contro la voce di Maria Müller è sempre "a fuoco" sul fiato e proprio per la corretta ubicazione nella maschera non ci rendiamo conto del continuo impercettible cambio di intensità e sonorità. Poi come non possiamo non esaltarci per lo splendore e lo slancio della zona acuta della sortita di Elisabeth (fra l'altro gli acuti della Müller sono sempre vibranti e mai fissi alla tedesca), alternato al ripiegamento ed alla sicurezza del legato della sezione centrale.
La stessa sensazione si verifica puntuale all'ascolto dell'aria di Agathe del Franco cacciatore che presenta, ad eguali caratteristiche psicologiche del personaggio, egual scrittura vocale. Anche qui si può fare il confronto con l'esecuzione live viennese della Rethberg. Uguale tecnica, uguale gusto e scelte interpretative, ma la Agathe della Müller è più spontanea e semplice, quella di Elisabeth più nobile ed aulica.
Maria Müller , come le coetanee, è un eloquente esempio dei mala tempora currentes, ormai da cinquant'anni, nel canto mozartiano. Nonostante la presa di suono fortunosa è una donna Elvira in primo luogo dalla voce ampia e corposa (oggi canterebbe donna Anna o, peggio ancora i baroccari la giudicherebbero fuori stile), che interpreta con slancio il furore del personaggio e dalla linea di canto precisa ed accurata anche nell'esecuzione dei passi di agilità a smentire, la vulgata che in quegli anni i soprani non sapessero eseguire i passi di agilità. Invito ad un polemico confronto fra questa dama de Burgos e quella celebrata di Elisabeth Legge Schwarzkopf. Registrazioni alla mano, le sole e solite Steber ed Jurinac, fra i soprani spinti, hanno fatto meglio di Maria Müller!


Gli ascolti

Maria Müller


Mozart - Don Giovanni

Atto I

Ah, chi mi dice mai (con Ezio Pinza & Virgilio Lazzari - 1934)

Atto II

Ah taci, ingiusto core (con Ezio Pinza & Virgilio Lazzari - 1934)

Weber - Der Freischütz

Atto II

Wie nahte mir der Schlummer... Leise, leise, fromme Weise (1943)

Wagner - Tannhäuser

Atto II

Dich, teure Halle (1930)

Atto III

Allmächt'ge Jungfrau, hör mein Flehen! (1930)

Wagner - Lohengrin

Atto I

Einsam in trüben Tagen (con Ludwig Hofmann & Jaro Prohaska - 1943)

Atto III

Das süsse Lied verhallt (con Franz Völker - 1943)

Puccini - La Bohème

Atto I

Sì. Mi chiamano Mimì (1927)

O soave fanciulla (con Tino Pattiera - 1927)

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sabato 29 maggio 2010

Le recensioni di Semolino: Patricia Petibon in "Rosso" e i ciarlatani della vocalità.

L'ultimo CD registrato dal soprano Patricia Petibon comprende arie tratte da opere del periodo detto "barocco", si tratta del repertorio per il quale questa cantante è considerata dalla critica ufficiale, in particolar modo da quella francese, come una fra le più eminenti specialiste. Sono tutti brani che esprimono il sangue e la passione, da cui il titolo "Rosso".

Patricia Petibon dopo aver studiato al Conservatorio di Parigi si è specializzata con William Christie, in quello che oggi definiscono il "canto barocco", come se si trattasse di un canto a parte, come se provenisse da un altro pianeta.

Ci tengo a raccontare un aneddoto: qualche anno fa telefonai personalmente ad un direttore d'orchestra allievo di William Christie, gli chiesi su quali ricerche musicologiche serie Christie basasse le scelte in materia di canto "barocco", visto e considerato che costui aveva la pretesa di formare vere e proprie schiere di cantanti specializzatissimi. Mi informai per sapere in quali trattati di canto avrebbe trovato che l'emissione fosse “a suono fisso”. Mi rispose che tutti i trattati per strumento dell'epoca invitano ad imitare la voce umana e il vibrato negli strumenti era utilizzato solo come un parco abbellimento, quindi se ne deduce logicamente che l'emissione nel canto dal Medioevo sino al Garcia era poco o punto vibrata. Io feci notare che i cantanti specializzati nel barocco tolgono il vibrato stringendo la gola ed irrigidendo la muscolatura, mentre tutti i trattati di canto dell'epoca sconsigliano di contrarla.
Mi rispose che probabilmente i trattati di canto sconsigliavano di contrarre la gola per altri motivi che non fossero quello di togliere il vibrato. Alla luce di tali "argomenti" penso che ci sia molto da riflettere sulla serietà filologica dei baroccari e se ne deduce (come se ce ne fosse bisogno!) che il loro barocco è più uno stile inventato, frutto del loro cattivo gusto personale, che uno stile esecutivo realmente desunto dal serio studio dei trattati.
Anche perché, in realtà, i trattati non hanno mai insegnato a suonare e a cantare a nessuno: l'insegnamento, e con esso lo stile esecutivo, veniva trasmesso direttamente dal maestro all'allievo.
Nel movimento baroccaro l'urgenza di cambiare il modo di cantare in rapporto alla tradizione vide la luce perchè si era già operata una "rivoluzione" nel campo dell'esecuzione strumentale e la conseguenza logica era che dovevano, per forza, applicarlo anche a quella vocale.

Ritorniamo alla registrazione in questione: la Petibon è già sottodotata in natura perché possiede una vocina scarna e monocroma, veramente una vociuzza di poco interesse: se a questo si aggiunge l'aggravante di una tecnica strampalata basata sulla fantasia di metodi di canto senza fondamento storico, vi lascio immaginare, anzi ascoltare, il disastro che ne risulta.
L'emissione è spoggiatissima e lo stile raccapricciante. Volendo basare tutta l'interpretazione su quello che i baroccari chiamano “l'eloquenza espressiva dello stile rappresentativo”, che in realtà è solo una concitazione esteriore e becera, la dizione risulta tutta artefatta e confusa, la linea musicale ne esce completamente frantumata.
Parecchi sono i passaggi in cui, invece di eseguire la nota, la Petibon esegue una specie di verso strano, un suono stonato preso dal sotto e spinto all'insù, che assomiglia più al parlato che al canto, respira ogni tre note con affanno. Numerosissimi sono gli attacchi con un filo di voce fissa e consunta, stonata e ingolata. Ogni brano è eseguito tutto senza legato a causa del sopracitato stile concitato-scomposto, e con una emissione che oscilla fra il tremolante-periclitante e varie fissità dure di gola; il che poi è normale, perché se si stringe la gola e si irrigidiscono i muscoli per bloccare il vibrato naturale della voce poi, quando si rilascia la tensione, la voce, per il contraccolpo, scatta in una emissione senza controllo ed esce mettendosi a ballare spaventosamente. Per dare un esempio prosaico si può dire che il meccanismo funziona un po' come il sistema della pentola a pressione: più si tiene il coperchio chiuso e più forte sarà lo sbotto incontrollato dell'uscita del vapore.
Nelle arie lente la Petibon falsetteggia tutti i passaggi vocalizzati, diventa leziosa e manierata nella dizione.
Alcuni esempi:

"Tornami a vagheggiar" dall' Alcina: le agilità sono imprecise perché eseguite alternando l'esecuzione aspirata a quella slegata, non c'è nessuna arcata vocale degna di questo nome perchè niente è sul fiato, tutto in stile declamato, trasformando così l'aria di Haendel in un recitativo, con inflessioni parlate e messe di voci fisse, dure e stonate. Tenta alcuni acuti, ma questi suonano aspri e fibrosi, le variazioni non seguono il dettato melodico, e paiono fronzoli posticci, di conseguenza il dacapo è infarcito con picchettati insulsi e fuori stile, per giunta vetrosi e striduli, quasi una bambola Olympia impazzita, catapultata in un opera a cui è estranea. La cadenza è una serie di rantoli a singhiozzi che terminata con una specie di tremolìo che dovrebbe fungere da trillo. E questi sono i "cantanti" prodotti da quella "scuola" che osa dire che la Sutherland in Haendel è fuori posto!!!!!!!!

“Lascia ch'io pianga” è la stessa cosa. Voce non impostata, senza legato, suono tendenzialmente fisso e scarno, stile piagnucoloso per esprime una malinconia tutta esteriore e becera, che a tratti diventa addirittura caricaturale, le modulazioni sono tutti falsetti smunti e slabbrati. Manca proprio quello che è una cavata, una arcata che dia pienezza e senso alla linea di canto, il da capo è realizzato con variazioni che sono musicalmente e stilisticamente, per dirla con un termine francese che rende bene l'idea, “vraiment n'importe quoi!”.

“Volate amori” dall'Ariodante è tutta asprigna e stretta di gola, le agilità sfarfalleggiate in bocca senza espressione, e senza espressione l'agilità non ha senso, gli accenti nascosti non sono solo tipici di Rossini, sono nella natura stessa di tutto il canto figurato, ne sono la sua essenza. Senza arte ne parte la Petibon sbrodola i melismi in modo impreciso pasticciandoli privandoli così di senso. La sezione centrale è tutta piena d'aria e sospiri inutili. Se costei avesse saputo eseguire correttamente le agilità potendo così renderle espressive non sarebbe stato necessario rantolare tanto per esprimere l'affanno. Questo prova che i cosiddetti specialisti odierni del barocco tradiscono e travisano il canto dell'epoca barocca proprio in quello che è la sua essenza. L'aria termina con un passaggio a piena voce forzato e duro, stonatissimo, mentre il da capo è la solita tiritera che invece di andare nel senso di quello che è già scritto arricchendolo e potenziandolo espressivamente e musicalmente, ne è la storpiatura, con svolazzi inutili (fra l'altro imprecisi nell'esecuzione e striduli nel suono) e posticci, aggiungendo, a mo' di variazioni, ancor più inflessioni parlate e sguaiate, una quantità sovrabbondante di suoni sbraccati.

"Ah mio cor schernito sei" è attaccato con una messa di voce che è la più perfetta imitazione del fischio di una caffettiera impazzita, un suono che non corrisponde assolutamente ad una nota, è un U.F.O. o meglio un U.S.O., oggetto suonante non identificato. Quanto segue procede, come nel resto, tutto a strappi e senza legato, storpiando così la linea melodica. La bellezza e la purezza della linea musicale sono sacrificate sull'altare di una retorica espressiva da pollaio che purtroppo i baroccari pensano sia la tanto celebre ed autentica "espressione degli affetti".

"Morte amara" incomincia con una messa di voce: altro fischio della caffettiera, altro oggetto suonante non identificato che termina con un trillo che è un farfuglio. Per assenza di legato e volontà di dare concitazione ad ogni singola parola trasforma il cantabile in recitativo, facendo così assomigliare una aria di Porpora ad una brutta coppia, anzi ad una caricatura, del declamato della tragédie lyrique alla Rameau.

"Siam navi all'onde algenti" è basata sul canto di sbalzo, quindi mette fin dall'inizio in evidenza la mancanza di omogeneità della voce della Petibon, con un registro grave gonfio e tubatissimo sino al grottesco per poi ripartire in zona medio acuta con un suono smunto e scarno. Oggi si sostiene che l'emissione all'epoca non fosse omogenea ma basata sul contrasto accentuato dei registri petto-testa, il che è pura invenzione baroccara, di fatto tutti i trattati e gli scritti in cui si parla di canto, da Montaverdi a Mancini e Tosi passando per De Bacilly e Rameau, parlano proprio della fusione perfetta dei registri e della voce omogenea su tutta l'estensione. Il che lascia proprio da capire che dei trattati i baroccari non sanno che farsene.

"Come mai puoi vedermi piangere" e "Caldo sangue" sono della stessa risma, non c'è bisogno di dettagliare tutti gli spropositi vocali e stilistici che costellano le rispettive esecuzioni, si devono realmente ascoltare per rendersene conto, poichè certi strafalcioni d'emissione e di stile sono indescrivibili a parole.
La Petibon riesce persino ad essere incomprensibile tanto la dizione è artefatta e confusa per la troppa preoccupazioni di sbracare i suoni. Se poi si pensa che sono proprio i baroccari a dire che nel barocco l’elemento più importante è il testo, a cui andrebbe, sempre secondo loro, sacrificata la linea vocale, cosa che fra l'altro non trova riscontro in nessun trattato, si capirà che non solo codesti ciarlatani dicono falsità storiche ma, per di più, vengono meno ai dogmi da loro inventati.

Allego lo sproloquio da cui si capisce che Patricia Petibon confonde il canto barocco col canto espressionista, buon ascolto!



Semolino


Gli ascolti

Haendel


Alcina

Atto I

Tornami a vagheggiar - Mariella Devia (1991)

Atto II

Ah, mio cor! schernito sei - Joan Sutherland (1959)

Ariodante

Atto I

Volate, amori - Margherita Rinaldi (1971)

Giulio Cesare in Egitto

Atto III

Piangerò la sorte mia - Renata Tebaldi (1950)

Rinaldo

Atto II

Lascia ch'io pianga - Claudia Muzio (1922)

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giovedì 27 maggio 2010

La mancata Bohème radiofonica dal Regio di Torino

Ieri sera Radio3 avrebbe dovuto trasmettere Bohème dal Regio di Torino. Protagonisti Marcelo Alvarez e Barbara Frittoli, sul podio Gianandrea Noseda.

La trasmissione, pur annunciata dal Teatro sul proprio sito Internet, non ha avuto luogo.
Ignoriamo le cause della mancata diretta. Non fatichiamo a immaginarle partendo dall'analogo episodio verificatosi,sempre con riferimento alla stagione torinese, l'anno passato con Adriana Lecouvreur dove il titolare di Maurizio di Sassonia era il previsto Rodolfo della diretta radiofonica.
A compensazione, offriamo un po' di ascolti.
Con le seguenti necessarie premesse:
a) per le arie di "presentazione" dei due protagonisti vi è solo l'imbarazzo della scelta. Ha presieduto al criterio di scelta il fatto che i due innamorati possano essere affrontati ora da voci leggere ora da voci cosiddette spinte. Con egual risultato di aderenza interpretativa, gusto ed anche, se può essere compresa e servire, lezione di canto;
b) abbiamo voluto cavarci lo sfizi di offrire l'esecuzione, non entusiasmante, aggiungo, della prima esecutrice del ruolo. E, però una testimonanza del gusto e dell'epoca e forse anche del fatto che nella mente dei primi esecutori Mimì dovesse essere semplice e lineare
c) altro sfizio l'unica esecuzione live di una certa misura di Giuseppe de Luca. Il grande baritono romano non fu il primo Marcello (fu per la cronaca il primo Schicchi), ma anche lui rende il senso della frase e de dire, semplice, che connotava i primi esecutori di questa meravigliosa tragedia delle piccole cose, ovvero del nostro vivere quotidiano.


Gli ascolti

Puccini - La Bohème


Atto I

Che gelida manina - Aureliano Pertile (1925), Miguel Fleta (1926), Joseph Schmidt (1932), Alessandro Ziliani (1935), Richard Tucker (1970)

Sì. Mi chiamano Mimì - Cesira Ferrani (1903), Lucrezia Bori (1922), Elisabeth Rethberg (1924), Mafalda Favero (1928), Renata Tebaldi (1956)

Atto II

Quando men vo - Conchita Supervía (1927)

Atto III

Sa dirmi, scusi - Elisabeth Rethberg & Giuseppe De Luca (1935)

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martedì 25 maggio 2010

Waltraud Meier in concerto alla Scala

Waltraud Meier ritorna alla Scala con un concerto di canto dal bellissimo programma, brani celeberrimi di Schubert e Strauss. E il pubblico è accorso numeroso per una delle dive più amate dai milanesi negli ultimi 20 anni. Bel successo di canto, ma, anche e soprattutto, di affetto per una diva che non ha potuto nascondere uno stato di declino ormai evidente. Forse con un programma diverso…..


Premetto ciò che da sempre penso di questa cantante.
A mio modo di vedere, incarna il prototipo della cantante attrice di stampo tedesco: una carriera costruita su una grande presenza scenica, bellezza ed eleganza di donna nel portamento come nel look, intelligenza drammaturgica (perché sa sempre ciò che canta), carisma, preparazione musicale. Sul piano meramente vocale, cantante mediocre, per tecnica e timbro: voce dura, fibrosa, collocata in zona centro grave nella gola, ed in zona acuta all’attacco del naso. Suona ora gutturale e “chiusa”, ora nasale e fibrosa. Capacità di fraseggio limitata da oggettive difficoltà di manovra del mezzo, legato di scadente qualità, e natura della voce mai di fatto risolta, senza una vera zona centro grave da mezzosoprano, né capacità di canto in acuto per essere un soprano. Di qui le brutte prove nell’opera italiana a fianco delle eccellenti prestazioni quali Kundry e Venus, la ieratica (anche se urlacchiata) Ortrud, la bella, ma dura Isolde. Donna intelligentissima, perchè riesce sempre ad anteporre le qualità ai difetti, almeno ad un ascolto non…vociomane.

Ieri sera la signora Meier ha mostrato, senza alcun cerotto, lo stato vocale in cui versa, scegliendosi un programma stupendo che, però, richiede altra voce, altra tecnica, altra…. età.
Le intenzioni musicali ed interpretative erano chiarissime, esposte al pubblico in piena evidenza, ma senza modo di realizzarle pienamente, convincendo. Della sua vocalità abbiamo sentito l’amplificazione di ogni difetto, in un volume di voce in parte ridotto o forse solo in parte utilizzato, una zona acuta sempre indietro, fuori fuoco e frequentemente stonata, un centro tutto a scalini, le note sempre rotte e scollegate una dall’altra, qualche grave addirittura di petto aperto (esibito addirittura in Beim Schlafengehen se ben ricordo..!!). Avere dei colori in queste condizioni non è possibile.
Con Schubert il pubblico ha impattato con la durezza del suo canto, ove le stonature hanno cominciato a comparire in “Gretchen am Spinnrade”; poi la difficoltà nel canto morbido e legato a rendere l’atmosfera di “Nachtstück”, mentre in “Erlkönig” si è rifugiata in toni esageratamente spaventosi per trovare contrapposizioni sensibili al fraseggio che il brano impone, perchè le mezze tinte non erano realizzabili in quelle condizioni.
Con Strauss, poi, i guai vocali sono arrivati a pioggia, in particolare con un “Winterweihe” disastroso, dal canto sfumato in zona acuta sempre tutti sfuocato e stonato ed una esecuzione suicida di “Morgen”, lentissimo, quasi fermo, in cui le note arrivavano una alla volta, mai legate e spesso rotte, quasi a strappi, tanto da temere che non concludesse il pezzo.
Meglio, anche se non convincente, il secondo tempo con i “Vier”, dove ha abbandonato ogni intento di cantare piano o a fior di labbro, percorrendo numerose frasi anche in mezzoforte, a tempo sostenuto, come in Frühling. I difetti vocali si sono sentiti meno, ma la magia di queste straordinarie pagine va resa con altra voce, altro timbro ed altro modo di cantare: i “Vier” al pianoforte sono lussi concessi a mostri sacri di qualità timbrica e canto legato come la Flagstad, non voci di emissione dura e fibrosa, senza legato come questa.
Discreto il primo bis, “Urlich” di Mahler, come il primo di Wolf, “Gesans Weilas”, assai meno “Abschuss” sempre di Wolf e terribile la Ninna nanna di Brahms.

Devo ammettere che ieri sera non mi ha stupito tanto il canto, che è stato poi quello di sempre consumato dall’età, quanto la scelta di un programma poco oculato, che ha messo alla corda continuamente la protagonista, in alcuni momenti visibilmente incerta. Altre sceltel’avrebbero fatta meglio figurare. Nemmeno l’abito, bruttino e di cattiva fattura, mi è parso in stile con la Meier diva, notoriamente elegante ed aristocratica nel gusto.

Davvero stupendo, invece, il pianista che l’ha accompagnata, Joseph Breinl, per tocco, gusto, capacità espressive: ha “cantato”in parecchi momenti più e meglio della diva. Bravissimo.

Programma

Pianoforte Joseph Breinl

Franz Schubert
Wehmut D 772
Die Forelle D 550
Gretchen am Spinnrade D 118
Nachtstück D 672
Erlkönig D 328

Richard Strauss
Cäcilie op. 27 n. 2
Winterweihe op. 48 n. 4
Wie sollten wir geheim sie halten op. 19 n. 4
Morgen op. 27 n. 4
Die Nacht op. 10 n. 3
Befreit op. 39 n. 4
Zueignung op. 10 n. 1

Vier letzte Lieder
Frühling
September
Beim Schlafengehen
Im Abendrot

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domenica 23 maggio 2010

73° Maggio Musicale Fiorentino: Il coccodrillo mangiò il “Ratto”

Confesso che dopo la bella produzione de “Die Frau ohne Schatten” erano alte le aspettative sulla qualità della seconda opera prevista in cartellone nell’ambito del Maggio Musicale Fiorentino: Mehta è sempre un musicista attento nella scelta delle opere e “Die Entführung aus dem Serail” è una partitura che il Direttore conosce a menadito, la cui frequentazione parte dagli anni ‘60.

Contavo molto sulle voci dei cinque ruoli principali, che almeno sulla carta potevano suscitare interesse.
Avrei voluto scrivere di un successo pari a quello della “Frau”; di quanto il cast assemblato fosse il meglio che la scena odierna possa offrire (non c’è riuscito recentemente nemmeno il Liceu di Barcellona); di quanto le voci suonassero belle e timbrate; di quanto ognuno brillasse nel rispettivo ruolo.
Così non è stato, purtroppo.
Davanti a voci quasi tutte dello stesso fragile spessore, con i medesimi diffusi problemi tecnici, con le stesse caratteristiche in materia di fraseggio e di interpretazione vien voglia scrivere un’unica recensione cumulativa, ma non sarebbe giusto; basti pensare che gli applausi maggiori, quelli più convinti, sono stati indirizzati verso Selim (ruolo recitante) ed il “Coccodrillo”!

La direzione di Zubin Mehta, prima di tutto, creava un contrasto sorprendente con quanto avveniva in scena: se la spumeggiante (ma anche un po’ statica nelle introduzioni alle arie) regia di Eike Gramss si concentrava sui toni comici e farseschi, sbilanciando, così, l’equilibrio drammatico del libretto, Mehta ribaltava la finzione scenica leggendo la partitura con un piglio serioso e meditativo, già presente nell’incisione ufficiale del ’65 e nel DVD del medesimo allestimento, che non vuol dire mancanza di tensione e lentezza agogica, poiché tutti i tempi sono rispettati, tranne nel quartetto finale del II atto, che si trascina stancamente, ed una certa velocità nel finale del III.
E’ una questione di interpretazione, che non sacrifica mai la compattezza del suono e la morbidezza frizzante dei momenti buffi e l’orchestra risponde con un bel gioco di fraseggi e bellezza timbrica.
Nella lettura di Mehta c’è, dunque, la giovinezza malinconica e soave di Belmonte e Konstanze, c’è quella più vitale di Pedrillo e Blondchen, c’è la superficialità di Belmonte e la monolitica e sospetta virtù di Konstanze, c’è l’idea di possesso, violenta e goffa, di Osmin e l’intelligenza amara e ironica di Selim. “Die Entführung aus dem Serail” in fondo è una elegante e avventurosa commedia, dolce-amara certo, in cui un mondo giovane e acerbo si contrappone all’ambiguità della dimensione adulta da cui riceve, però, una dura lezione di vita nel finale; ed è questo il coerente punto di partenza della regia di Gramss.
Le scene di Christoph Wagenknecht, nate in realtà per il palcoscenico del Teatro della Pergola di Firenze, si costituiscono di coloratissimi pannelli mobili e trasparenti, decorati alla maniera turca, in cui prevalgono toni sgargianti e sapientemente accostati che fusi all’abile e intenso gioco di luci ocra, rosate e azzurre di Jacques Battocletti, scompongono e ricompongono continuamente gli ambienti della vicenda creando un vortice scenografico irresistibile ed un po’ ingenuo.
I costumi di Catherine Voeffray possiedono un loro sfarzo ed una loro bellezza, ma anche un accenno “carnevalesco”, soprattutto nei riguardi di Osmin e Blondchen, che sa di posticcio.

Ora, Konstanze è un ruolo estremamente complicato: esige un registro centrale compatto e sonoro; deve scendere con facilità e fare udire note sotto al rigo; deve salire vocalizzando sul passaggio; deve emettere sovracuti; quindi occorre un soprano agile, duttile, con la voce da lirico spinto e dalla buona estensione. Ingrid Kaiserfeld è più un soprano lirico dai bei centri, dal timbro genericamente gradevole, ma dal retrogusto acidulo e dall’emissione molto ingolata. Possiede un buon controllo del fiato, che le permette di sostenere le note e variarle, ma gli attacchi sono fissi e poi vibrati, i gravi sono sbuffi di aria, gli acuti sono secchi, sfibrati, sgradevoli. Poi l’interprete purtroppo è inesistente, così a parte la compitazione delle note c’è ben poco, e cioè: un po’ di grinta nel “Martern aller Arten”, ma per il resto, I aria “Ach ich liebte”, la celebre “Traurigkeit”, i duetti con Belmonte, a parte una certa musicalità, il fraseggio è piatto, senza palpito con il sospetto che il soprano si canti addosso.

La Blondchen di Chen Reiss si distingue per la voce piccolina e aguzza da soubrette che con fatica supera l’orchestra. Negli acuti è affetta da vibrato stretto, mentre i sovracuti risultano fissi e mediamente calanti. Completamente inudibile, invece, nei gravi (la micidiale discesa al La nel duetto con Osmin), si disimpegna passabilmente nei vocalizzi delle due arie “Durch Zärtlichkeit und Schmeicheln” e “Welche Wonne, welche Lust”, però almeno riesce a giocare, al contrario della sua collega, con un fraseggio spigliato e volutamente caricaturale a cui si aggiunge una buona abilità di attrice.

Belmonte, come la sua innamorata, ha il pregio di essere un ruolo la cui scrittura dovrebbe spingere il cantante a essere ovunque malioso e soave; valori che soprattutto nel cantabile delle arie e dei duetti può mettere in luce l’abilità di fraseggiatore e la robustezza tecnica della voce; eppure possiede anche il difetto di far risultare il tenore eccessivamente riservato se non addirittura gelido nella caratterizzazione del personaggio se i colori non vengono gestiti con perizia. Jörg Schneider, già visto e sentito a Firenze come gustoso David nei “Meistersinger” di qualche anno fa, fa purtroppo parte del secondo gruppo: possiede oggi voce piccola, genericamente gradevole nel timbro, afflitta, però, da emissione tutta di gola, la quale non lascia scampo alcuno all’intonazione, soprattutto del registro acuto, delle agilità e dei vocalizzi tutti rigorosamente imprecisi se non proprio pasticciati. L’accento poi è circoscritto ad un’ altrettanta generica mestizia, dal colore uniforme e terribilmente noioso, così il suo Belmonte, che ha bisogno di un canto che esprima l’ansia per il destino dell’amata, l’innamoramento spontaneo e giovanile, l’esaltazione di morire con l’oggetto del proprio amore, ma anche quel filo sospeso tra superficialità ed eroismo, si tramuta in una figura solo ridanciana.

Kevin Conners, Pedrillo, è un tenore caratterista dalla voce chiara, ovviamente piccola e ingolata come i suoi colleghi, con “a” ed “e” aperte in maniera sgradevole alla vana ricerca di maggior volume, dall’emissione fragile e vibrata, ma almeno possiede, più per sola virtù di attore che di cantante, il fraseggio e l’accento giusto per interpretare i momenti più frizzanti come l’aria “Frisch zum Kampfe! Frisch zum Streite!”, il bellissimo duetto con Osmin “Vivat Bacchus! Bacchus lebe!” e la canzone notturna del III atto.

Maurizio Muraro, Osmin, in questo contesto di vocine e vocette, può facilmente fare la parte del leone: voce scura da vero basso, ma dal timbro un po’ impastato, tuttavia che “corre” bene e si espande con facilità soprattutto nei centri. Il registro grave, molto sollecitato, è sonoro, ma il Re è una nota quasi inudibile; gli acuti sono a rischio di intonazione, a volte ruvidi, anche se timbrati ed emessi con cautela, e discorso non dissimile per le agilità previste, come i trilli ed i vocalizzi, omaggio mozartiano alle fenomenali doti di Karl Ludwig Fischer. L’interprete convince di più grazie al carisma naturale ed al fraseggio volutamente violento e caricaturale riuscendo tranquillamente a ritagliarsi uno spazio di spicco in tutti i momenti che lo vedono in scena, come nell’arietta che lo presenta al I atto “Wer ein Liebchen hat gefunden” che poi darà l’avvio al gustoso duetto con Belmonte, oppure la successiva “Erst geköpt” tutta cantata tra i denti ed il duetto del vino con Pedrillo. L’inserimento anche di brevi e divertenti battute in italiano, crea una immediata complicità con il teatro; il pubblico apprezza e ride di gusto!

Ottima prestazione quella dell’attore Karl-Heinz Macek nei panni del Pascià Selim; una recitazione vibrante e rabbiosa nei confronti di Konstanze, che sapeva aprirsi a inedite tenerezze paterne prosciugate da intellettualismi. Ironico e pacato nel III atto, riceve un meritato successo personale al termine della recita.

Trionfatore assoluto della serata, il Coccodrillo!
Figura creata dal regista con l’ausilio del bravissimo attore Tiziano Goli, ha la funzione di “cane da guardia” del serraglio del Pascià, ma anche di amico (in)fedele di Osmin il quale lo coccola con carne fresca e lo vezzeggia allo scopo di scatenarne fauci e artigli contro Belmonte e Pedrillo. Sarà il Coccodrillo stesso apparendo comicamente sulla barca dei quattro protagonisti ad impedirne la fuga, ma nel finale si unirà al coro nei saluti ritmati agli amorosi e a tessere le lodi di Selim.
Andranno a lui, a Macek, a Muraro e a Mehta con la sua orchestra schierata al proscenio gli applausi più fragorosi della serata… e questo la dice lunga!

(recita del 16 Maggio)


Gli ascolti

Mozart - Die Entführung aus dem Serail


Atto I

Hier soll ich dich denn sehen - Helge Rosvaenge (1937)

Wer ein Liebchen hat gefunden - Alexander Kipnis (1931)

Ach ich liebte, war so glücklich - Margherita Perras (1934)

Atto II

Durch Zärtlichkeit und Schmeicheln - Adele Kern (1929)

Martern aller Arten - Maria Ivogün (1919)

Welche Wonne, welche Lust - Elisabeth Schumann (1917)

Atto III

Ich baue ganz auf deine Stärke - Hermann Jadlowker (1909)

Im Mohrenland gefangen war - Peter Anders (1935)

Oh, wie will ich triumphieren - Wilhelm Hesch (1906)



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sabato 22 maggio 2010

45 anni dopo... l'Inter conquista la Champions!!!

Bravi, bene, bis!!!

E alla squadra milanese, il soprano milanese per eccellenza, Amelita Galli Curci!

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venerdì 21 maggio 2010

Teatro alla Scala di Milano: pubblicazione stagione 2010-2011

Respirano i milanesi alla vista del cartellone oggi pubblicato dal Teatro alla Scala per la stagione 2010-2011. Potranno abbonarsi senza sentirsi in “terra estranea”, per dirla con Radames, dato che ritorna ad essere presente il cosiddetto “repertorio”, unitamente a titoli attraenti meno frequenti e, naturalmente, qualche sprazzo di colonialismo culturale esterofilo Lissner-style.
Molte new productions e scelte vocali variabili, dal razionale all’assurdo, di certo condizionate dall’assoluta carestia di voci e talenti, che rende ormai impossibile un progetto di stagioni liriche indenne da mende e buchi. Siamo nel deserto e tirare sù il sipario è sempre più dura, anzi durissima. A fianco di certa qualità indiscutibile vi è ancora ancora troppa tedescaggine, di cui far piazza pulita, a favore del canto sanamente all'italiana.
Ma diamo un‘occhiata veloce, riflettendo sui dati salienti.


1) Ridotta al minimo la presenza del maestro Baremboim nella stagione lirica, di fatto la sola Walkiria del recente inaugurato Ring. Lui si dà al balletto e noi tiriamo un sospiro di sollievo nel non vedergli affidato il repertorio italiano, anche se non possiamo fare a meno di rilevare la permanenza del suo cospicuo indotto berlinese sia in fatto di cantanti che di direttori. Ben due dei pupilli del maestro alzeranno la loro bacchetta al Piemarini, Omer Meir Wellber al posto del dimissionario Gatti in Tosca, e Philippe Jordan, figlio di Armin, nonché “Principal Guest Conductor at the Staatsoper unter den Linden”: vedremo come se la caveranno. In compenso il Maestro suonerà in stagione concertistica quale solista. Walkiria ha un cast di lusso sulla carta, ma che lascia perplessi sia per la senescenza anagrafica e vocale di Fricka, Wotan e Hunding, che per l’inadeguatezza del soprano drammatico protagonista, che ha recentemente stentato ad avere il mezzo idoneo per il solo primo atto quale Sieglinde. Inoltre Cassier non è Cheréau, e questo cast della scena non può fare a meno.
2) Vedremo il bravo Harding alle prese con Cavalleria e Pagliacci, ed un cast di solisti acciaccati assai, per un verso o per un altro. Sarà in compagnia di Martone, che ha tutto per fare un bello spettacolo. Misureremo finalmente il polso melodrammatico e l’attitudine per l’opera italiana del giovane direttore alle prese con il paradigma del verismo rusticano di Mascagni e Leoncavallo, come pure la sua capacità di “portare a casa” una truppa vocalmente male in arnese. Le signore D’Intino e Cornetti forse potranno metterci un utile quid di esperienza ed intelligenza ad incerottarsi qua e là, e non posso fare a meno di rammaricarmi per il tardivo debutto di quest'ultima, perché cantante che meritava di essere chiamata nel pieno delle sue notevoli capacità vocali. Quanto agli uomini….chissà che accadrà….ma, Caravaggio è ancora un gran santuario! E non è il solo nell'area cittadina e circumvicina Milano.
3) Nella dispendiosa politica di nuovi allestimenti ( 10 ne annuncia orgogliosamente il programma ) spiccano l’oscena Tosca newyorkese di Bondy e lo spreco per i nuovi allestimenti di Turandot ed Attila, pure un nuovo Flauto e una novella Morte a Venezia, che difficilmente vedranno riprese a breve. Bastava la vicenda dell’Idomeneo per infilare Bondy in una navicella e lanciarlo nello spazio assieme al suo pattume, ed invece no. La nostra Soprintendenza lo ama al punto da coprodurre con il Met quello che è stato uno degli aborti più clamorosi e contestati degli ultimi anni e di cui anche Milano dovrà proprio fregiarsi. Speriamo almeno che Franco Zeffirelli sia ancora in condizione di rilasciare qualcuna delle sue fantasmagoriche interviste su Bondy anche in occasione delle recite milanesi! Chissà se bisseremo poi le solite atmosfere rarefatte in blu oltremarino di Wilson in Monteverdi, che invece di occuparsi di esprimere gradimenti sui cantanti, farebbe bene a metter qualche elemento nuovo e magari anche dinamico nei suoi allestimenti seriali…. Cipressetti di Carducciana o cimiteriale memoria!
4) Le scelte di cast sono variabili. La Scala dà il meglio in un parco divi, alcuni realmente i migliori su piazza nei ruoli loro affidati, anche se l’esito sarà poi tutto da verificare. Oltre alle donne di Walkiria, spiccano i protagonisti de La Donna del Lago, che certo bisserà nel successo di pubblico quella di Muti anche se non l’esito musicale ed artistico; la presenza di Marcelo Alvarez, lussuoso Tenore italiano assieme a Francesco Meli nel Rosenkavalier, nonchè sprecato Foresto nella produzione “low profile” di Attila (avrebbe avuto maggior senso collocarlo sul Romeo di Romeo et Juliette, affidato invece alla operettistica voce e presenza di Vittorio Grigolo); Joyce Di Donato anche su Octavian, sempre che a furia di sfarfalleggiare bartolescamente Rossini, non si sia “mangiata” la sua piena voce di soprano lirico che la natura le ha dato. Al contrario, dà il peggio di sé quando progetta una produzione di Attila senza alcun senso, assente un vero grande basso, affidandosi ad un cantante senescente di cui, ormai, sta abusando da qualche anno in qua. La recente flagellazione di Furlanetto in Fiesco, nonché la presa d’atto di quanto la parte richieda in fatto di acuti, agilità e baldanzosa presenza scenica, per giunta di qui ad un anno, avrebbero consigliato di desistere anche all’ultimo minuto. Ricordiamo di una promessa e propagandata Norma, poi , prudenzialmente ritirata. Fu saggezza....indotta dl buco clamoroso di Macbeth. Si poteva presentare a milanesi il solo buon Ildar Adbrazakov, che al Met non ha svettato per oggettivi limiti del mezzo vocale, ma che ha, comunque, saputo reggere il ruolo. La produzione, poi, si perfeziona con la presenza di un baritono che l’eleganza non pare conoscerla affatto e di Micaela Carosi. Quest'ultima unitamente a Martina Serafin e Maria Guleghina concorre a formare il trio dei soprani spinti ,collocati rispettivamente su Tosca e Turandot, paragonabili, usando una metafora borsistica, ai bond argentini. La scelta della prima non trova giustificazioni di sorta, perché, stando alle sue condizioni vocali attuali, sarebbe già rischioso esibirla qui in Adriana o in Cheniér. La seconda è un “titolo” tuttora sopravvalutato, destinato a scendere a breve, stando a quanto ci ha fatto sentire in Manon a Venezia: avrà anche una grande voce, ma tra le durezze nell’emissione, gli acuti gridati ed il canto poco legato, la scelta mi pare poco felice ( si sentano i “Vissi d’arte” su Youtube). La terza, poi, è il prototipo della cantante di agenzia ormai alla fine, vista e stravista a Milano in condizioni vocali assai diverse, sebbene le ultime prove milanesi (Ballo e Tosca), abbiano lasciato un ricordo negativo e della cui riproposta non si sentiva affatto la necessità. Per stima ed affezione avremmo preferito che la Scala ci consentisse di omaggiare la signora Giovanna Casolla, cantate amatissima dal pubblico e a vero credito con questo teatro.
Non si può poi tacere l'ulteriore bond argentino, di recentissima emissione, della signora Oksana Dyka, che compare addirittura in due produzioni, Pagliacci in primo cast e secondo cast in Tosca ( ascoltare i miagolii del "Vissi d'arte" areniano su Youtube per credere!!!!) e la seconda Turandot dell'urlatrice Lise Lindstrom.
Sempre nelle proposte che portano la targa della grandi agenzie, spicca il Romeo et Juliette di Gounod, con il duo Machaidze - Grigolo. Il secondo sarebbe adatto al ruolo di tenore secondo in questo titolo, che vive della presenza di un grande protagonista maschile. La prima quale star pompatissima finalmente in un ruolo vero, se eseguito integralmente, e non da mezzo servizio come l'Adina di Elisir di questa stagione. Sulla stessa scia dei prodotti di agenzia, la presenza di Marco Berti quale Calaf, già criticato Don Josè areniano ma evidentemente irrinunciabile in questa produzione scaligera dal cast discutibile.
Numerose presenze assai poco conosciute, dai due soprani dell'Est scelti per Liù, alla Regina della Notte, al Sarastro e ad alcune parti secondarie del Flauto Magico, che come ha già commentato un nostro fido lettore nella chat, è degno della provincia tedesca...ma quella bruta. Per non parlare del pacchetto d'importazione dell'Arabella da Staatsoper Wien, sulla carta poco interessante.
5) Ultima nota sulle bacchette: grande interesse per Gergiev su Turandot, dal quale ci si aspetta moltissimo, e positivo il ritorno di Alessandrini su Monteverdi perchè bacchetta filologa poco baroccara e molto godibile.
6)I concerti di canto. Davvero una stagioncina! La Scala và sul “sicuramente attraente” laddove ci ripropone a distanza di tempo, davvero troppo breve, Florez e la Damrau, l’anziano Hampson e la novità Harteros. Di poco interesse la Kurzak, scelta a mio avviso inspiegabile, e la Kirchschlager ( vedremo se riusciranno a riempire metà teatro …), mentre serata “culturale” quella affidata al baritono Goerne. Insomma, poca cosa.

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giovedì 20 maggio 2010

Stagioni 2010-11. Parigi

A seguito del dettagliato excursus di Duprez sulla stagione londinese, con lente a fuoco in principal modo sulle bacchette, cercherò ora di illustrare ciò che andrà in scena sulla Rive droite, con particolare attenzione questa volta alle ugole schierate e senza rinunciare a qualche solita previsione di massima sulla resa (e quindi sul senso) degli spettacoli in cartellone. Previsioni, lo ripetiamo, che nulla hanno a che vedere con quelle visioni sciamaniche che i puntuali detrattori – che ci salutano, non senza una punta d’irosa ironia, come blandi epigoni di Nostradamus – sfruttano, a mo’ di capo d’accusa, per farci reprobi impenitenti. E magari un po’ “schizzati”.
Dunque, va subito all’occhio la rigogliosa offerta operistica della capitale francese, forse senza eguali in Europa, per la presenza di tre teatri “dedicati” – Opéra Garnier/Opéra Bastille, il Théâtre des Champs-Elysées e l’Opéra-Comique – e un quarto – Théâtre du Châtelet – di vari(opint)a miscellanea che arrivano a definire un cartellone d’insieme davvero di notevole portata. Almeno per quanto riguarda i numeri…

Tra gli allestimenti dello Champs-Elysées, sempre attento al repertorio barocc(ar)o, compaiono l’Orlando furioso di Vivaldi e l’Orlando di Haendel, che vedono nel primo la presenza del divo falsettista Philippe Jaroussky nel ruolo di Ruggiero e nel secondo la veterana haendeliana, per quanto giovane, Sonia Prina, già rodato Orlando, title role che interpreterà pochi giorni dopo anche a Lille e a Dijon.
Farà seguito un involontario omaggio alla sottoscritta e alla mia cara suora Barbara, la splendida Petite messe solennelle che Rossini ci dedicò nel lontano 1863. Purtroppo di petite ci sarà anche la voce di una tra le più operose dive (di Facebook), Desirée Rancatore. Sarebbe curioso verificare in che modo il soprano cercherà di districarsi col canto semi-sillabico che la parte prevede, per altro tutta di tessitura centrale e spianata. Mi perdoneranno poi i “facefan”, ma l’eleganza e la presenza scenica della signora stanno a una messa solenne come la Marini a una prima ambrosiana. Taccio invece su gli altri tre cantanti: Antonino Siragusa, Michele Pertusi e Anna Bonitatibus. Dirige Andrea Lucchesini.
Ancora allo Champs-Elysées, l’affannato Foresto di ritorno dal Met, Ramon Vargas, sarà alle prese con il figlio del doge veneziano nella ripresa di I due Foscari, diretto da Daniele Callegari, al fianco di Marco Spotti e Anthony Michaels-Moore, baritono che da un ventennio si aggira nei teatri europei come feroce saccheggiatore di Enrichi, Simoni e Rodrighi.
La stagione prosegue con una miriade di proposte che sarebbe impensabile commentare in questa sede, tutti in una volta. Va tuttavia sottolineato che se sulla carta le sorprese, con buona probabilità, latiteranno, dobbiamo almeno riconoscere al teatro francese credo e voglia di allestire titoli che sarebbe oramai impensabile (sperare di) ritrovare nei maggiori templi della lirica italiani.

Il tandem Garnier/Bastille.
L’inaugurazione settembrina della prima istituzione operistica verrà affidata all’Olandese volante, che lo sciovinismo d’Oltralpe preferisce chiamare Le Vaisseau fantôme, con il classico cast da casa di riposo. Il title role sarà affidato al buon wagneriano James Morris, già monocorde Fiesco a fianco di Domingo nel recente Boccanegra d’esportazione americana. Ma il basso-baritono statunitense non è il solo reduce di quella dubbia produzione. Perché se il senescente Matti Salminen vestirà i panni del marinaio norvegese, la di lui figlia sarà Adrianne Pieczonka – la Maria Boccanegra d’oltreoceano – che vanta un repertorio a cui manca forse La zingara guerriera della coppia Paolo Limiti-Luigi Nicolini. Gli altri interpreti sono Klaus Florian Vogt (Erik) e Marie-Ange Todorovitch (Mary), mentre la bacchetta è di Peter Schneider.
Ancora Wagner per la chiusura della Tetralogia wagneriana, con le ultime due giornate nibelungiche, diretta da Philippe Jordan – direttore musicale d’ufficio della Bastille – e messe in scena, in una nuova produzione francese, da Günter Krämer. Sempre sotto la direzione di Jourdan avremo un Trittico, di assoluta prevedibilità, con un Juan Pons (Michele e Gianni Schicchi) che continua a macinare primi ruoli nonostante l’inevitabile affaticamento e l’usura di un mezzo vocale non proprio fresco; una Giorgetta portata in scena dal soprano ucraino Oksana Dyka, sentita poco meno di un anno fa a Bologna come Cio-cio-san nella “speciale” stagione estiva del Comunale (non nascondo che l’impressione è quella di una cantante dai gravi vuoti, che non fan certo sperare miracoli nel repertorio più spinto); un Juan Francisco Gatell che ritroverà il perduto Rinuccio, uno dei personaggi degli esordi; e la belcantista Ekaterina Siurina, alla sua prima incursione novecentesca nella parte di Lauretta. Sulla soglia del monastero troveremo invece la zia principessa Luciana D’Intino, recentemente ascoltata come stonacchiante, benché sonora, Eboli parigina; la reclusa nipote Angelica sarà la georgiana Tamar Iveri, soprano dall’emissione fortunosa diventata oramai di casa alla Bastille, non disdegnando comunque qualche azzardata escursione in terra italiana (Maria Boccanegra al Regio di Parma).
Jordan dirige ancora Ekaterina Siurina nelle Nozze di Figaro di Strehler (è aperto il totoscommesse su quanto resterà di quella splendida produzione). Il soprano russo affiancherà quale contessa d’Almaviva la nostrana Barbara Frittoli, che indosserà a sua volta le vesti della facile Susanna (in senso musicale, ça va sans dire), e il divo nazionale Ludovic Tézier (sarà anche Evgenij Onieghin nel dramma omonimo di Čajkovskij), buon Albert nel Werther “di” Kaufmann e pessimo Posa, ancora nel recente Don Carlo. A riprova, fosse ancora necessario, che non basta possedere la corda baritonale per alternare di settimana in settimana Mozart, Verdi e Puccini perché, sappiamo bene, una cosa è interpretare Marcello, un’altra cantare Rodrigo e Figaro.
Ultime due opere sotto la direzione del maitre della Bastille: una stuzzicante Ariadne auf Naxos con Diana Damrau nell’impervio ruolo di Zerbinetta, personaggio che ben conosce e su cui forse varrebbe la pena scommettere, data la maggior tranquillità, diciamo così, della signora col repertorio tedesco (peregrino invece è stato il tentativo di approccio all’opera verdiana). E un anonimo Così fan tutte, dal cast internazionale (Elza Van Den Heever, Karine Deshayes, Mattew Polenzani, Paulo Szot, Anne-Catherine Gillet), su cui spicca la presenza del nostro solito Ildebrando D’Arcangelo.
Avventuroso, per non dire altro, il debutto di Natalie Dessay come Cleopatra nel Giulio Cesare di Haendel, con la direzione della clavicembalista Emmanuelle Haïm. Sarei curiosa di vedere (ma soprattutto sentire) in che modo la tessitura centrale della regina d’Egitto verrà risolta dal soprano francese, da qualche tempo segno rappresentativo di una voce svigorita e dall’emissione piena d’aria (cfr. Amina a New York e Parigi).
Non può non aver rappresentanza, in un cartellone europeo che si rispetti, qualche titolo di provenienza slava, così di moda oggigiorno. Ecco dunque, dopo La piccola volpe astuta (2008 e 2010!), sempre per il progetto in fieri e mai ufficializzato “Uno Janáček all’anno tempra i sensi e non fa danno”, Kat'a Kabanova, con Angela Denoke, consacrata con un recentissimo recital alla Scala quale nuova stella di certo repertorio europeo novecentesco. Di maggior curiosità sarà invece il giovane Jeník portato in scena dal bravo Piotr Beczala nella Sposa venduta di Smetana, al fianco di una non più fresca Inva Mula. Due nomi dello star system che dichiarano, per quanto discutibile, il sincero proposito dei piani alti della Bastille di reintrodurre l’opera ceca nei corridoi della tradizione.
Veniamo ora alle proposte italiane! Si parte a settembre con una più che interlocutoria Italiana in Algeri. L’immancabile Marco Vinco sarà Mustafà, mentre come Elvira avremo Jael Azzaretti. E se il discreto Lawrence Brownlee riprenderà Lindoro, personaggio con cui ha avuto più volte a che fare, il di noi veterano Corbelli tornerà a calzare i panni di Taddeo.
Da “cura Ludovico” invece la ripresa di Madama Butterfly, che manca da ben un anno dal teatro parigino. Tutti e tre gli interpreti principali vantano una cospicua frequentazione con i rispettivi personaggi. Oltre al già menzionato Anthony Michaels-Moore nel ruolo di Sharpless, avremo la Cio-Cio San di Micaela Carosi, paradigma del “belcanto” italiano nell’era di Facebook, e James Valenti, un tenente Pinkerton in salsa “Vogue” per orecchie forti: siamo certe, noi signore di una certa età, che faremo fatica a resistere… all’otite!
Ancora Puccini e ancora Tosca (del 2009 l’ultima ripresa). Questa volta Cavaradossi sarà Massimo Giordano, giovane tenore già sdoganato a New York e attivo nei principali (e remunerativi) ruoli di repertorio. L’emissione però non è mai sul fiato e aperta, l’intonazione spesso periclitante e gli acuti tirati, seppur stabili. Iano Tamar (Tosca) invece è un soprano che frequenta la coloratura estrema ma non disdegna qualche capatina nelle tessiture più spinte. Ma è stonata e spoggiata da Rossini a Puccini. Prevediamo poi raschiamenti di gola per lo Scarpia di Franck Ferrari, noto Oltralpe per un manciata di apparizioni televisive.
Non potrei però non salutare come pregevole il tentativo da parte della direzione della Bastille – che trova nel presidente Bernard Stirn un sincero appassionato di quel sommerso verismo nostrano così spesso sbertucciato in patria – di inserire nel cartellone un titolo come la Francesca da Rimini di Zandonai, in Italia opera dimenticata e sepolta insieme alla memoria dei sovrintendenti dei tempi andati, eccetto qualche sporadica, quasi unica, eccezione (il teatro Verdi di Salerno, per esempio). Due desaparecidos – almeno al di qua dei confini nazionali – nei due ruoli principali: Svetla Vassileva, dopo l’anno sabbatico a Parma (e non solo) sarà la giovane Francesca, parte piuttosto pesante, da soprano drammatico, fuori portata per un’interprete cui va più che larga una Butterfly. Stessa solfa per Roberto Alagna, che tenterà di debuttare Paolo Malatesta. Scommesse aperte anche per Daniel Oren sul mancato superamento dell’ora di gioco…
Per finire, la rappresentanza verdiana. Due soli titoli: un Otello diretto dal più che buono Marco Armiliato (notevole una sua recente Bohème a New York), che dirigerà la solita Desdemona di Renée Fleming, colei che oltreoceano viene celebrata quale “nuova Callas del Met” da qualche critico in vena di bassa goliardia. Il moro consorte sarà il giovane Aleksandrs Antonenko, fuoriclasse del canto di gola e dello strozzamento sul passaggio superiore. Guasterà la festa lo Jago di Sergei Murzaev, recente Gérard nell’Andrea Chénier genovese. Ancora il pessimo Oren sul podio, ancora Franck Ferrari nel ruolo del padre soldato nella Luisa Miller allestita da Gilbert Deflo. Da considerare la presenza di Krassimira Stoyanova come Luisa, mentre pare in via d’ossidazione la voce d’oro di Marcelo Alvarez (Rodolfo), che ha recentemente dichiarato di voler cantare a sua discrezione infischiandosi di ciò che insegna(va) la vecchia scuola dei cantanti del passato. Lascio a voi tirare le somme sulla consequenzialità delle due proposizioni, tant’è che vien quasi voglia di replicare prendendo a prestito le parole di Domenico Mustafà, uno degli ultimi grandi castrati e maestri di canto della Cappella Sistina, che così gelò un commento poco oxfordiano di una collega: «Signora, i cantanti ritengono sbagliato tutto ciò che non sanno fare o che non hanno mai fatto».

Carlotta Marchisio




Gli ascolti

Handel - Giulio Cesare


Atto III - E pur così in un giorno...Piangerò la sorte mia - Marjorie Lawrence (1939)

Handel - Orlando

Atto II - Ah, stigie larve...Vaghe pupille - Ewa Podles (1995)

Vivaldi - Orlando furioso

Atto I - Nel profondo, cieco mondo - Marilyn Horne (1980)

Atto II - Ah, sleale, ah, spergiura - Marilyn Horne (1980)

Puccini - Madama Butterfly

Atto I - Bimba, bimba non piangere...Vogliatemi bene - Gabriella Tucci & Carlo Bergonzi (1962)

Verdi - Otello

Atto IV - Era più calmo?...Piangea cantando...Ave Maria - Eleanor Steber (con Martha Litpon - 1952)

Zandonai - Francesca da Rimini

Atto III - Benvenuto, signore mio cognato - Leyla Gencer & Renato Cioni (1961)

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martedì 18 maggio 2010

Monteverdi: Vespro della Beata Vergine 1610-2010

Avvenimento principale dell’edizione 2010 del Festival Monteverdi di Cremona, lo scorso 15 di maggio è stato eseguito nella suggestiva cornice della Chiesa di San Marcellino, il Vespro della Beata Vergine. Nell’occasione sono stati celebrati i 400 anni della partitura, pubblicata nel 1610 e composta mentre l’autore risiedeva a Mantova, alla corte dei Gonzaga. Allo stesso anno risale l’altro capolavoro sacro di Monteverdi: la Missa in illo tempore che verrà eseguita, sempre nell’ambito del Festival cremonese, il prossimo 25 maggio. Il Vespro è uno dei grandi capolavori della musica sacra e rappresenta, nell’intenzione dell’autore, una vera e propria summa del genere. Basato essenzialmente sul cantus firmus di matrice gregoriana – mentre la Missa a 6 voci è una raffinatissima rielaborazione della polifonia di scuola palestriniana – è una partitura estremamente complessa e dalle proporzioni monumentali. Sia la libertà di struttura con cui Monteverdi tratta i salmi biblici, inframezzati da inni e concerti (di chiara origine profana), sia il previsto accompagnamento strumentale, tradiscono la natura extra liturgica della composizione.

Un lavoro concertante, cioè, destinato all’ascolto: una sorta di idealizzazione della musica sacra, una sperimentazione delle ampie possibilità espressive connesse a quel genere musicale (trattato con estrema libertà dal virtuosismo compositivo monteverdiano) svincolata dall’occasione liturgica e destinata ad una ristretta cerchia di intellettuali, artisti, cultori della musica. Operazione, dunque, analoga all’esperimento dell’Orfeo (a cui lo stesso Vespro rende omaggio, esplicitandone il collegamento ideale, con la citazione della Toccata con cui si apre il pezzo): anche questo, infatti, è un lavoro che solo formalmente ha natura teatrale, ma si sa che fu piuttosto un esperimento teorico, un’opera ideale, che non aveva, sia per struttura che per forma, alcun legame con la coeva pratica teatrale (si pensi a quanto differisca anche dai lavori dello stesso autore, quelli veramente destinati alla scena e non ad un’accademia o ad un circolo culturale).
Il Festival cremonese affida l’esecuzione della partitura a Ton Koopman e ai suoi prestigiosi complessi (Amsterdam Baroque Orchestra e Amsterdam Baroque Choir). Koopman è una delle personalità di primo piano della prassi esecutiva “autentica”. Allievo di Gustav Lehonardt (uno dei pionieri della filologia barocchista), è esponente di spicco della cosiddetta scuola olandese, e coerentemente ai suoi assunti teorici, ha una visione scarna e minimalista della prassi e del modus di eseguire la musica barocca. L’orchestra è ridotta all’osso, il suono è asciutto e trasparente (di chiarezza quasi cameristica: l’Amsterdam Baroque Orchestra, difatti, è composta essenzialmente da solisti), il coro è formato da pochi elementi (che eseguono anche le parti soliste). Al contrario di altri suoi colleghi, Koopman ha limitato il suo repertorio alla musica propriamente barocca, spingendosi solo in rare occasioni a Mozart, e concentrando il suo interesse su Bach in particolare (di cui ha realizzato una monumentale incisione di tutte le cantate sacre e profane) e Buxtheude (di cui è in corso la registrazione dell’Opera Omnia). Al contrario di altri suoi colleghi, dunque, Koopman non ha mai ridiscusso i suoi modelli teorici e interpretativi, ancorati ad un rigore quasi calvinista e ad una estrema rigidità esecutiva. Proprio a causa di questo autoisolamento, tuttavia, risulta del tutto impermeabile (a differenza dei più recenti sviluppi degli ensemble specialistici, finalmente preoccupati anche del bel suono) ad influenze esterne al ristretto ambito della prassi barocchista e alla rigida osservanza dei dogmi baroccari: orchestra di proporzioni cameristiche, riduzione del coro quasi alle sole parti reali (prassi suggerita come autentica da alcuni specialisti del settore, i più estremisti, e che applicano arbitrariamente anche alle passioni di Bach, trasformando, di fatto, i grandi corali in quartetti per solisti), un suono secco ed arido (dovuto anche alla mancanza di varietà strumentale dell’ensemble), dinamiche esasperate e tendenzialmente risolte nel forte e mezzo forte (impoverendo così la qualità timbrica dell’esecuzione che risulta poverissima di sfumature ed espressione), tempi non troppo spediti, ma monotoni e meccanici, assenza totale di cenni di vibrato e mancanza completa di colore e calore. Non fa eccezione l’esecuzione di questo Vespro: non molto convincente. Due i tipi di rilievo che muovo a Koopman: la realizzazione musicale e le forzature musicologiche. Il Vespro della Beata Vergine è un lavoro di ampie proporzioni: ben sette solisti (con effetti di eco) e un coro che in taluni punti è chiamato a cantare a 10 voci o a dividersi in due blocchi, oltra all’orchestra (Monteverdi stese solo le parti del violino e dei cornetti, oltre alle linee del basso, ma – secondo la prassi dell’epoca e dell’autore – non significa che l’orchestrazione si debba limitare a ciò che è scritto: come sempre spetta all’esecutore arricchire il ripieno, elaborare il basso, costruire l’accompagnamento strumentale, secondo lo stile adeguato all’epoca, agli intenti del musicista e all’occasione; senza dimenticare che ai tempi di Monteverdi la scelta degli strumentisti e la conseguente elaborazione strumentale dipendevano da circostanze contingenti). Mentre Jacobs, Gardiner e Savall (per citare i più esuberanti esecutori del Vespro) optano, nelle loro incisioni, per orchestre ricche e sontuose, nell’intento di creare sonorità varie e lussureggianti (finalizzate a mostrare la monumentalità dell’impianto monteverdiano e la meraviglia che tendeva a suscitare nell’ascoltatore: e non la devozione del fedele, attesa la natura concertante del lavoro), Koopman schiera un violino solista (più un secondo di ripieno), tre tromboni e tre cornetti (creando così un grave squilibrio tra strumenti a fiato e archi, che rimangono sopraffatti), oltre al continuo affidato all’organo, a un contrabbasso e ad una dulciana (una specie di fagotto che ha suscitato diversi interrogativi nei mie vicini di posto, circa l’individuazione dello strumento), infine un cembalo, utilizzato solo saltuariamente da Koopman nell’accompagnare i brani solistici. Il coro era appena sufficiente a coprire i brani a 10 voci e lo sdoppiamento previsto in taluni pezzi non era per nulla percepibile. I brani solistici, affidati a membri della stessa compagine corale, suscitava più di una perplessità: ben diverse, infatti, sono le difficoltà per il coro e quelle per i solisti. Salvo il primo tenore e il primo soprano, nessuno degli altri cantanti è riuscito ad eseguire in modo decente la sua parte (pessimo il secondo tenore, che faceva l’eco al primo in alcuni pezzi, e i bassi; appena mediocre il secondo soprano). Peraltro l’esiguità degli interpreti ha ingenerato alcuni momenti di imbarazzo: tra un brano e l’altro si assisteva alla corsa di uno dei corsiti da una parte all’altra del palco (passando per il retro), per raggiungere l’altro gruppo. Nel contempo, durante le antifone gregoriane, Koopman lasciava il cembalo e si dirigeva lentamente verso l’organo, prendendo il posto della musicista e accompagnando con accordi elementari il quartetto salmodiante. Questa inutile operazione (non si comprende il senso per cui Koopman in persona dovesse suonare l’organo in quei brani, molto piani e semplici, laddove ben avrebbe potuto farlo la sua brava collaboratrice) creava imbarazzanti minuti di silenzio e rumori assortiti (sedie spostate, leggii, scarpe che battevano sulle assi). Una soluzione macchinosa che smaschera certe pretese baroccare e certe oggettive difficoltà, confermando come il Vespro sia partitura che richiede un certo numero di esecutori, non essendo evidentemente sufficienti quelli proposti dal filologo olandese. Si aggiunga che queste continue e frequenti interruzioni compromettevano, non di poco, la tensione e l’atmosfera creati dalla musica di Monteverdi! Allo stesso risultato (anzi, ad un risultato ben peggiore) ha portato la lunga pausa resasi necessaria per riaccordare tutti gli strumenti appena prima dell’Ave maris stella e del Magnificat finale (eseguito nella versione a sette voci e strumenti): un calo di attenzione e di tensione che ha di fatto compromesso la parte finale (la più grandiosa ed emozionante) della costruzione monteverdiana!
Il secondo rilievo riguarda i presupposti musicologici: il Vespro è lavoro extra liturgico e, per la stessa struttura, non può essere assimilato ad alcuna funzione religiosa. Che senso ha aggiungere tra un salmo e l’altro delle antifone tratte dal messale gregoriano? A parte l’arbitrio della scelta delle medesime, è l’intento ad essere scorretto: cercare di trovare agganci alla liturgia tradisce le finalità dell’autore! Purtroppo oggi è prassi comune l’inserimento di brani gregoriani scelti dall’esecutore. E’ certamente un peccato veniale e, seppur scelta musicologicamente scorretta, non è priva di un certo fascino estetico, se ben fatta: qui è fatta molto male, con un corista che corre dietro al palco per raggiungere gli altri (all’estremo opposto) e cantare l’antifona, e senza nessuna continuità con la struttura musicale (le lunghe pause che ne inframezzano l’esecuzione sono mortifere). Infine trovo di cattivo gusto concludere il Vespro non con l’Amen di Monteverdi, ma dopo la fine dello stesso, con un’ultima antifona salmodiata dal solito gruppetto con corista corridore!
Alla fine successo trionfale, tributato da un pubblico disattento e poco consapevole di quel che stava ascoltando (taluno si “stupiva” del fatto che venisse eseguita la “versione in latino”…). Evidentemente soddisfatto per i tanti applausi (francamente eccessivi) il simpatico Koopman, tra plateali strette di mano a tutti i suoi collaboratori e sorrisi che avrebbero fatto invidia all’attuale presidente del consiglio, ha concesso un bis! Serata tutto sommato piacevole (grazie a Monteverdi e alla splendida chiesa di San Marcellino), ma priva di quel trasporto che una musica di questo genere dovrebbe suscitare! Continuo a suggerire le belle incisioni di Gardiner, Garrido o Savall.

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lunedì 17 maggio 2010

Das Rheingold alla Scala: Barenboim non fa buu, ma non trionfa.

Milano è sempre più vicina a Berlino. Costo del viaggio: 1 Euro, prezzo del biglietto del tram che porta in piazza Scala. Si entra al Piermarini ed è come essere alla Staatsoper Unter den Linden. Ieri sera, infatti, si è alzato il sipario sul prologo dell’Anello wagneriano, affidato al duo Cassiers-Barenboim. Composizione del cast: un variegato assortimento di professionisti cosiddetti “stabili”, provenienti dai teatri di mezza Germania, da Berlino, appunto, ad Amburgo, Düsseldorf, Monaco, Francoforte.
Spettacolo accolto da un buon successo, per il maestro Barenboim in particolare ( ma senza esagerazioni o trionfi, stile Tristano..), ma che ha convinto poco e pochi. Contestazioni di media intensità al regista, per una serata all’insegna del senza infamia e senza lode.

Così è cominciata l’onerosa impresa della co-produzione da parte del Teatro alla Scala con la Staaatsoper Unter den Linden ed il Toneehuils di Antwerpen, di un nuovo “Ring”. A dire il vero è iniziata con una manifestazione discreta, allo spegnersi delle luci, da parte dei lavoratori della Scala, che hanno letto un breve testo contro il decreto Bondi.
Operazione onerosissima quello dell’allestimento di un nuovo Ring, sia sul piano economico e culturale, che richiede, da sempre, chiarezza di obbiettivi e convinzioni artistiche precise da parte dei timonieri, direttore e regista, soprattutto perché ormai il Ring non è evento corrente ma eccezionale.

E’ assodato che, alle prese con Wagner, Barenboim si trasformi, ma, lo dirò subito, la sua direzione di Rheingold non mi è parsa convincente come quella del Tristan. La cosiddetta “liricizzazione” di questo compositore è ormai un dato acquisito per tutte le bacchette contemporanee, ma ieri sera mi è parso che siano mancati, pur nell’abito di una bella e piacevole direzione, quei colori, quelle sfaccettature e nuances che caratterizzano notoriamente la sua edizione video-discografica del Ring. A momenti effettivamente poetici e di bella suggestione come la scena iniziale delle figlie del Reno, i grandiosi cambi di fronte tra una scena e l’altra, o l’apparizione di Erda, tanto per esemplificare, hanno fatto da contraltare grandi momenti di vuoto ed assenza di tensione ( per non dire noia ) come l’intera scena seconda, dall’ingresso di Wotan e Fricka a tutta la sezione con i Giganti. Lì Barenboim è parso assente, incapace di trovare colori adatti e sottolineature drammatiche che andassero oltre il clima del bisticcio famigliare e la scena popolaresca. Talvolta non mi pareva nemmeno di essere davanti ad un opera di Wagner, ma di qualche autore francese o italiano. Tra l’altro, questi dèi del Wagner modernamente “liricizzato”, se affidati a cantanti di assoluta mediocrità per non dire infimi, finiscono per sfuggire con facilità dalle mani delle bacchette, per trasformarsi in guitti, in caricature talora grottesche e felliniane, che, per forza di cose, non reggono la scena né l’azione drammatica. Complici un regista poco regista, un costumista senza idee ed il gusto da provincia tedesca di alcuni cantanti, i personaggi divini ne sono usciti sviliti e troppo caricaturali per via dell’abuso del parlato oltre che del bercio e del cachinno, depauperati proprio di quella “umanità” e sfaccettatura psicologica che la moderna concezione di Wagner vorrebbe, al contrario, mettere primo piano.
Il magico finale dell’ingresso al Walhalla sintetizza bene l’essenza di questo Rheingold. L’orchestra suona bene, ma non benissimo ( nemmeno da paragonare alla brutta prova offerta nel Boccanegra..), ma è senza speciali colori ed adeguata pienezza di cavata; il suono ha una certa intensità ma gli archi sono sempre poco brillanti e slentati rispetto ai fiati; mancano l’epica e la retorica che sono comunque la cifra del brano che chiude la serata, che è culminato prevedibilmente nei F e FF degli accordi finali, ascesa banale e senza spessore di alcun genere, insomma una “cosina” tra l’altro piuttosto malinconica e triste, in cui un gruppetto di figure si allontana di spalle, scontento, perchè pareva rientrare da un’agra riunione di famiglia o di condominio piuttosto che dei ascendenti alla celestiale dimora. Ho visto più vitalità e forza nel codazzo che insegue il protagonista del Cappello di Paglia di Firenze di Rota che in questo ascesa di déi al Walhalla!
Non credo che nessuno abbia mai scritto o prescritto che Wagner oggi debba essere, per non sembrare mastodontico o retorico, orrendamente cantato come ieri sera hanno fatto i protagonisti di questo surreale quadretto famigliare all’incipit della grandiosa scena; da Donner, di voce legnosa, fissa e stonata; a Froh, di voce eunucoide ed ingolata; a Wotan, di timbro morchioso, vuoto in basso ed in alto, costantemente proteso a spingere per avere un volume di voce degno dell’augusto personaggio; a Fricka, di timbro senescente da caratterista, fissa e ripetutamente stonacchiata. Una comitiva più da film di Almodovar che da opera di Wagner!

La liricizzazione di Wagner, oggi come oggi, confligge intimamente con compagnie di canto modeste ed inadeguate, fatte di voci sgangherate, di timbri sgradevoli, ed ineducati all’espressione di buon gusto, che agiscono sotto l’egida di bacchette che di canto e voce nulla sanno, né capiscono né si curano. Perché queste bacchette i cantanti né li governano né li istruiscono né li censurano o li arginano nei difetti. Il paradigma? La signora Anna Larsson, che dava voce alla straordinaria apparizione di Erda, da affidarsi al vellutato e caldo timbro della voce di mezzosoprano. Al clima rarefatto e sospeso creato da Barenboim, la signora ha risposto con un canto tutto di fibra e calante, con voce di soprano al capolinea, dura e sgradevole, senza legato. In cosa la signor Larsson abbia coadiuvato ed incarnato la poetica di Barenboim non mi è dato capirlo, perché mi è parso abbia distrutto ciò che la bacchetta voleva raggiungere. E mi sono domandata che mai le sia stato detto in sala prove, se dalla sala prove ci sono passati insieme, lei ed il maestro. Del resto è cantante solita a lavorare con bacchette come Abbado, Metha etc….che continuano evidentemente ad ignorare i paradigmi della tecnica di canto professionale perché sordi di fronte alle voci. Ormai è chiaro: o i cantanti fanno da sé, oppure ..nada.Dalle bacchette, soprattutto se di blasone, non giunge l’upgrade doveroso per andare in scena come si deve.

Torniamo al cast.
Il migliore di tutti è stato senza ombra di dubbio Kwangchoul Youn, Fasolt. La voce suona indietro, perché non è certo un mostro di tecnica, ma canta sempre con correttezza, non vocia mai, si sforza di interpretare e lo fa con pertinenza. E’ l’unico che meriti di essere ascoltato e che non causi il mal d’orecchie.
Deludente, se c’è ancora bisogno di ripeterlo, il blasonato René Pape. Alle prese con il canto magniloquente, dolente e lirico di Wotan ha mostrato carenze oggettive di volume, tanto che, come detto, è stato costretto a sforzare la voce e a sfibrarla oltre misura nei momenti chiave della parte. Legato scadente, poco e nessun fascino timbrico, zona grave vuota, zona medio acuto gestita con dei portamentoni telefonati e senza suono da far paura, scenicamente inesistente perché sempre apatico e lento nei movimenti, non ha avuto presenza né vocale né scenica per Wotan. E’ un signor Niente che passa casualmente per di lì….un mistero.
Sgradevole l’Alberich di J.M. Kraenzle. Abusa del parlato a sfavore del canto. Se poi canta, apre il suono al centro, fatto che gli sganghera l’emissione oltre misura rendendo il suo canto poco piacevole, senza legato. In basso la voce ha poca sostanza. Troppo volgare per i miei gusti.
La Fricka di Doris Soffel, con buona pace della carriera prestigiosa della cantante, meritava i fischi. E sonori. Vi ho già detto della voce sgradevole e delle condizioni vocali senescenti. Ogni tentativo di lirismo, sfumatura e smorzatura, ha avuto esiti dal nefasto al terribile. Che lirismo facciamo in queste condizioni? Andiamo via sul mezzoforte e buonasera, almeno a noi non cascano le orecchie per le stecche e gli stridori!
La Freia di Anna Samuil è stata un filo meglio ( ma dico ..un filo! ) solo perchè l’anagrafe è dalla sua rispetto alla Soffel. Voce chioccia, senza legato, acida appena sale. Da domandarsi seriamente, con le parole di F. Tosca, che avviene in quel teatro a Berlino ove la signora tanto spesso si esibisce in parti di soprano spinto, anche di opera italiana…..non oso immaginare che possa mai combinare!
Meramente caricaturale il Mime di W. Ablinger Sperrhache. Ha parlato sempre, con voce chioccia e nasale. Di canto nemmeno l’ombra, dunque n.p.
Del Froh di M. Jentzch vi ho già detto in precedenza, come del Donner di J. Buchwald, entrambi con una restituzione scenica voluta dalla regia da cui dissento profondamente, perchè non si tratta comunque di personaggi vili o deformi.
Pessimo il Fafner di T. Riihonen, del tutto privo di legato, ha abusato di suoni nasali, portamenti spaventosi e ciò nonostante pure stonatissimo.
Peccato per il finale stonato del Loge di S. Rugamer, che sin lì era andato via abbastanza bene, senza sgradevolezze eccessive. Al momento di cantare “Ihr da Ihn Wasser” si è unito alla truppa stonata del Wahlalla e ci ha lasciti lì con un palmo di naso, ma insomma… si sa che “chi va col lupo allupa”… dunque, nessuna meraviglia.
Alterne le signorine Figlie del Reno, che si sono esibite pure loro in una bella antologia di versetti, urletti e stonature assortite in chiusa alla prima scena. Mi sono parse soprattutto poco amalgamate tra loro, in difetto di sincronia ed affiatamento.

Non so, alla fine, quali siano gli specialismi in fatto di Wagner di cui questo cast si possa fregiare, perché buona parte dei componenti non è nemmeno di madrelingua tedesca. Del resto voi lo sapete, questo è un blog reazionario e così come non crede alla favoletta del Wagner liricizzato, che a noi pare solo mal cantato da voci sgonfie e scadenti, al pari crede che l’arte del comprimariato come quella delle seconde parti i nostri teatri dovrebbero seriamente iniziare a riaffidarla o a rifondarla su cantati nostrani, giovani soprattutto, anche in titoli di lingua straniera. Altrove l’opera italiana è eseguita da cantanti stranieri ( che la massacrano bellamente in molti lidi..), perciò non vedo quale motivo vi sia perché noi non si riprenda a cantare la loro, soprattutto nella generale situazione di depressione dei teatri italiani e carestia di occasioni per i giovani. Lo trovate demagogico?

Detto ciò, due note sulla regia. Alle contraddizioni in cui versava la direzione d’orchestra ha fatto da contraltare la messa in scena di Cassiers, contestato all’uscita, per uno spettacolo quantomeno alterno, di poca presa, molte contaminazioni e dejà vue, freddo perché troppo high tech negli elementi fondanti. Ha cercato di creare atmosfere sfruttando retroproiezioni di vario tipo, naturalistiche, materiche, ombre etc…su un fondale in grado di trasformarsi in un setto murario tagliato attraverso cui filtravano i riverberi della fucina del Nibelheim della scena terza. Le proiezioni mobili di dirupi ed alture si alternavano ad altre di vapori, di fondali forse in metallo acidato, le ombre dei Giganti e perfino un orribile insieme di corpi a bassorilievo nel finale ( davvero deprecabile ed estraneo alla cifra della serata ..). Al preludio, ben governato da giochi di luci nel buio della scena, la solita vasca d’acqua quale metafora del Reno in cui si aggirano le Figlie e Alberich e….i mimi. Mimi danzanti, che recitano, danzano e variamente interagiscono con i protagonisti durante la serata, a perfezionare, a dire del regista stesso, la Gesamtkunstwerk di Wagner. Idea banale ed inutile, che ha infastidito non poco molti del pubblico, perché, di fatto, priva di efficacia e senso. Il gusto per l’high tech ci è stato poi propinato, senza troppa efficacia, nella piattaforma mobile adorna di fari da studio televisivo nella scena del Nibelheim ( una sorta di trono di Alberich…!), nel pagamento del riscatto da parte dei Nani mediante lastre retroilluminate al neon giallo stile Star Wars ( scena peraltro non priva di una certa suggestione anche grazie all’orchestra.. ) come nelle proiezioni stesse, ma senza che ne uscisse una cifra chiara ed unitaria per lo spettacolo. Poca regia, déi con abiti sdruciti o polverosi visti mille volte, i Loge o i Donner vestiti e pettinati come caricature e via di seguito. Un mix poco convincente perché evidentemente di poche idee. Insomma, aver poco o nulla da dire di nuovo, come invece dovrebbe essere per una new production di tale portata.

Serata di successo moderato, in cui parecchi hanno voluto consolare il maestro per la strapazzata del recente Boccanegra, ma del resto avanti così non si può andare. Il colonialismo culturale di questa direzione scaligera non fa troppo per noi.


La locandina

Direttore Daniel Barenboim

Regia Guy Cassiers

Scene Guy Cassiers e Enrico Bagnoli

Costumi Tim Van Steenbergen

Luci Enrico Bagnoli

Video Arjen Klerkx e Kurt d'Haeseleer

Coreografia Sidi Larbi Cherkaoui

Personaggi - Interpreti

Wotan René Pape

Donner Jan Buchwald

Froh Marco Jentzsch

Loge Stephan Rügamer

Alberich Johannes Martin Kränzle

Mime Wolfgang Ablinger-Sperrhacke

Fasolt Kwangchul Youn (13, 16, 22, 26 maggio)- Tigran Martirossian (19, 29 maggio)

Fafner Timo Riihonen

Fricka Doris Soffel

Freia Anna Samuil

Erda Anna Larsson

Woglinde Aga Mikolaj

Wellgunde Maria Gortsevskaya

Flosshilde Marina Prudenskaya


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domenica 16 maggio 2010

Carmen a Bologna: “Hai buon maestro che ti fa la scuola!”

È da poco calato il sipario sulla matinée di Carmen al Comunale di Bologna. La recita, che avrebbe dovuto essere la quinta del ciclo, è stata in realtà la seconda, le prime tre date essendo saltate a causa degli scioperi di protesta contro i tagli previsti dal decreto Bondi. La rappresentazione si è conclusa con un buon successo di pubblico e l’orchestra e le maestranze del Teatro schierate al proscenio, mentre un cartello calato dall’alto citava l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”

A dispetto delle lodevoli intenzioni e dei buoni propositi, la recita è stato molto carente, e in alcuni punti davvero mediocre.
Lo spettacolo, importato dall’Opera Nazionale della Lettonia e firmato da Andreys Zagars, trasporta la vicenda dalla Siviglia del 1820 alla Cuba del presente o di un passato assai prossimo. Fin qui nulla di strano, anzi. Ci saremmo stupiti nel vedere il cambio della guardia, le sigaraie intente a fumare sigarette, la sfilata dei toreri, tutte cose che il moderno teatro di regia ci ha doverosamente insegnato a disprezzare e dileggiare in quanto superati ammennicoli. Però una trasposizione cubana dovrebbe produrre come minimo una rappresentazione incandescente, viva, traboccante di energia e sensualità. Nulla di tutto questo, a meno che qualche passo di lambada ovvero lapdance, goffamente accennato dalla protagonista, basti a colmare la lacuna. Ugualmente carente la gestione dei cori, spesso e volentieri affidata al caso o all’iniziativa dei singoli. Di una povertà quasi imbarazzante, da questo punto di vista, l’incipit del quarto atto, in cui la folla festante si raduna, a quel che sembra, per assistere a un matrimonio di borgata e partecipare poi, verosimilmente, al banchetto. Dulcamara docet!
A differenza dell’Elisir ultimo scorso, in cui peraltro la sola Adina proveniva dai ranghi della Scuola dell’Opera, questa Carmen ha relegato i cadetti del Comunale, almeno in primo cast, ai ruoli di fianco. Soffermarsi sui difetti di questo o di quello sarebbe assolutamente sterile, perché le prime parti, affidate a cantanti in piena carriera, sono risultate ben più carenti dei comprimari. I quali, sia chiaro, non si sono coperti di gloria, ma hanno almeno l’attenuante della giovane età e della scarsa esperienza.
Deyan Vatchkov (Escamillo), subentrato agli annunciati Simone Alberghini e Alexander Vinogradov, ha bella presenza scenica e un certo garbo nel porgere, ma l’emissione tendenzialmente “bulgara” blocca la voce in gola e ne ostacola la naturale espansione nella sala. Peccato, perché la dote sarebbe di qualità. Canta discretamente la canzone del toréador (che la regia trasforma in boxeur) e il duettino con Carmen all’ultimo atto, mentre nella scena con il tenore sceglie di gonfiare le gote, con il risultato di stentare sugli acuti.
Nei panni di Micaela Alessandra Marianelli, vocina di soprano leggero ideale per Cherubino o il paggio Oscar in un teatro di modeste dimensioni. Fin dalla sortita la voce è prossima all’inesistente in prima ottava - il duetto con José è gestito con pianini in odor di accenno -, dal fa in su acquista un poco di volume ma risulta spinta e acidula, e quando nell’aria del terzo atto deve salire al si bemolle e poi al si naturale i suoni si fanno più penetranti, ma tutt’altro che piacevoli a udirsi. Ne consegue un personaggio petulante e tedioso, patetico nell’accezione più deteriore del termine.
Nino Surguladze ha una piacevole figura e un certo talento d’attrice. Purtroppo ha anche parecchi dei difetti delle cantanti dell’Est europeo, a partire dell’emissione tutta di gola, che non solo limita le possibilità della voce, ma la frantuma in tre sezioni: i gravi pompati e aperti, il centro in difetto di appoggio e gli acuti falsettati o (specie nei momenti di maggiore concitazione) urlati. Esegue senza impressionare, ma correttamente, l’habanera, nella seguédille è in debito di ossigeno, canta una pallida chanson bohème e se si risolleva nel duetto con José, soccombe nella scena delle carte (di scrittura piuttosto centrale), mentre nel quarto atto (pure gestito con belle intenzioni, tutt’altro che banali: questa Carmen, a dispetto dell’ostentata sicurezza, è terrorizzata dalla furia dell’ex amante) sembra stravolta dalla fatica e si limita ad accennare. Vocalmente la sua protagonista ha ben poco della maliarda e ancora meno dell’eroina tragica. Peccato che i due aspetti non siano trascurabili, volendo mettere in scena l’opera in questione.
E veniamo all’autentica delusione della recita, il Don José di Andrew Richards. La voce è la più potente fra le quattro prime parti, ma il modo in cui è gestita risulta carente sotto il profilo tecnico, in particolare per quanto concerne l’esecuzione del passaggio di registro superiore. Prova ne siano i suoni larvati e di precaria intonazione nella prima parte della romanza del fiore, che nella zona del passaggio insiste. Problemi ancora più gravi, e suoni ancora più duri e faticosi, si verificano quando si presenta un acuto, sia pure un semplice si bemolle. Per un tenore che canta regolarmente Tosca e Don Carlo, la cosa è sorprendente. Ancora più censurabile è, però, l’interprete, perché le lacune tecniche si riflettono, come di norma accade, sulla definizione del personaggio. Il terzo e il quarto atto, quelli in cui la scrittura si fa più tesa e drammatica, eseguiti a Bologna senza intervallo (come è ormai consuetudine), vedono il cantante, verosimilmente prossimo ad esaurire la riserva di fiato – generosamente impiegata nella prima parte dello spettacolo –, enfatizzare le nevrosi del malcapitato ex brigadiere, risolvendo il tremendo finale terzo e il duetto finale con Carmen a suon di singhiozzi, gemiti e inserti parlati. L’effetto è prossimo non tanto ai vituperati Don José veristi (i quali rispondevano, a titolo di esempio, ai nomi di Giovanni Zenatello e Galliano Masini), quanto a certi giustamente sbeffeggiati José da ima provincia, che oggi si è costretti, piaccia o meno, a rivalutare e riconsiderare. Vedasi l’allegato estratto video.
Sul podio Michele Mariotti, che ha diretto con mano sicura gli entr’acte, ha accompagnato discretamente, seppur con scarso nerbo, i primi due atti (qualche problema di collegamento fra buca e palco, ad esempio nella scena della rivolta delle sigaraie, nel quintetto e nella stretta del finale secondo: rose e fiori, ad ogni modo, rispetto all’Idomeneo), nel terzo ha rinunciato a tratteggiare il clima fosco del rifugio dei contrabbandieri (staccando fra l’altro un tempo troppo lento, per le possibilità della Surguladze, nella scena delle carte) e, nel quarto, nulla ha fatto per contenere e moderare gli eccessi di Richards. In un direttore che proviene da un humus familiare e culturale non estraneo alla filologia e che ha in più di un’intervista espresso vivo interesse per questi temi, il travisamento dell’estetica dell’opéra-comique, e del canto lirico in generale, lascia francamente di sale.
E a questo punto si potrà forse capire come mai, malgrado le tre recite saltate a causa dello sciopero, il teatro fosse sold out solo sulla carta. E soprattutto come mai brani della fama e del calibro dell’habanera e della scena delle carte siano passati sotto silenzio (la canzone del toréador è stata applaudita dai coristi e dalle comparse a ciò deputati).
Il teatro non muore solo per scarsità di fondi, ma per scarsità di idee e competenze. Nonché di rispetto per la musica e per il pubblico. Forse è il caso di ricordare la presenza di quest’ultimo, visto che, proprio in questa stagione che sta volgendo al termine, i prezzi dei biglietti e degli abbonamenti sono aumentati e non poco, a fronte di una programmazione che appare invece sempre meno attraente per i frequentatori storici del teatro, anche per quelli maggiormente disposti ad accettare una programmazione formato mignon, quanto a titoli e interpreti coinvolti. E la soluzione non sta nei video promozionali e nelle iniziative concepite per ammaliare il c.d. popolo di Facebook. Ma evidentemente la sovrintendenza felsinea è di opposto avviso. Auguri molti.




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