Tensione che è prima di tutto avvertibile nella direzione e concertazione musicale, affidate a Michele Mariotti: tempi stringati, quasi che con la precipitazione si potesse più agevolmente raggiungere l’acme drammatico, un ventaglio dinamico piuttosto limitato e con netta prevalenza di forti e fortissimi orchestrali, con tanti saluti al crescendo rossiniano come veicolo di tensione narrativa, e una spiccata propensione a procedere per la propria strada qualunque cosa accada sul palco. Possiamo anche immaginare che le prove si siano svolte in un clima piuttosto difficile, ma che nei concertati, e segnatamente nelle strette, le parti entrino alla bell’e meglio, è un po’ difficile da digerire, soprattutto perché la precisione del meccanismo musicale, più ancora dei raffinati interventi degli strumenti “a solo”, è la caratteristica indispensabile alla corretta esecuzione della partitura rossiniana. Ovviamente con poche prove (penso soprattutto al secondo cast, che delle prove d’assieme è, per consolidata tradizione, la cenerentola) è raro che tutto fili alla perfezione, ma quando a inciampare è una cantante di consolidata esperienza, e che per giunta ha già cantato il ruolo (alludo a Mariola Cantarero e al suo anticipato attacco del couplet nel finale II, con conseguenti svarioni nelle battute successive), forse la responsabilità va attribuita a chi sta sul podio. Poi ci sarebbe da dire della ricerca dei colori, sempre assai laboriosa in un genere per sua natura ibrido come quello semiserio, qui rimpiazzata da una generica brillantezza che, se risuona a dovere nelle prime scene dell’opera, non riesce a venire a capo del clima, decisamente più cupo, del secondo atto. Rilevato che a Mariotti devono piacere molto le percussioni, dato che negli assieme arrivano a coprire non solo i cantanti ma anche gli altri strumenti (finali d’atto), va detto che i momenti più intensi sono quelli affidati in esclusiva o quasi alle voci (largo del finale I e cantabile del duetto Ninetta/Pippo, sezione a cappella del quintetto atto II). Registriamo anche alcuni tagli, che interessano buona parte dei recitativi, la prima sezione dei ballabili che punteggiano il brindisi di Pippo e l’intera aria di Lucia al secondo atto.
Grande attesa per la prova di Mariola Cantarero, che tornava in Italia dopo una controversa edizione di Puritani ad Amsterdam. Lo strumento, rispetto alla Gazza pesarese, suona più magro al centro e ancora più stridulo in acuto, mentre in basso si odono solo suoni aperti o meri parlati. L’interprete si sforza di essere pertinente e le variazioni sono discrete, ma la voce, ormai priva di appoggio, suona larvale e falsettante quando (quasi sempre) si limita al “piano”, mentre al primo accenno di un maggiore volume (confronto con il Podestà nel terzetto atto I, quintetto atto II) compaiono urla intollerabili persino per una Santuzza di provincia. La prestazione del soprano spagnolo risulta comunque superiore a quella della sua omologa nel secondo cast, Paula Almerares, che con voce da soubrettina, nonché di scarsa intonazione nella zona dei primi acuti, posa a soprano centrale, per giunta con variazioni acrobatiche di dubbio gusto e ancor più dubbia esecuzione.
Alex Esposito, giù udito come Fernando a Pesaro, parte male, con un recitativo d’entrata tutto sul forte in cui ogni tentativo di smorzare è preceduto da pause che sembrano interminabili e seguito da suoni a costante rischio di stimbratura. Poi si riprende e, sia pure confermando scarsa dimestichezza con gli acuti e con il canto di agilità, porta a termine dignitosamente il terzetto. Ancora le agilità sono il punto debole della grande aria del secondo atto, peraltro gestita con varietà e pertinenza di accenti, che gli vale l’unico vero applauso della rappresentazione. Purtroppo al quintetto cede alla tentazione di imitare gli accenti veristeggianti della Cantarero e sciupa con qualche urlaccio quella che fino a quel momento era stata una prova decorosa. Tutto sommato ho preferito il Fernando del secondo cast, Ugo Guagliardo, che senza essere un fulmine di guerra ha una voce di notevole impatto, agilità discrete e una presenza scenica assai più controllata rispetto all’irruente Esposito. Peccato per gli acuti, intonati ma affetti da qualche durezza.
Il Podestà era in primo cast Simone Alberghini. Nell’aria di sortita la voce non ha l’ampiezza del basso profondo che sarebbe richiesta dal ruolo, e in più punti suona fioca, scarsamente proiettata, con buono sfogo solo in acuto. C’è un’impressione generale di cautela e un’esecuzione non sempre precisa del canto di agilità. Le cose vanno meglio nel terzetto e soprattutto nel finale del primo atto, anche se nei concertati, specie quando è chiamato in causa il registro grave, la voce scompare. L’interprete è comunque molto musicale e ne dà prova al secondo atto, con una buona esecuzione della grande aria che almeno in parte compensa l’attutito volume. Resta il fatto che il disinvolto alternare parti da baritono e da basso profondo provoca più di un dubbio sulle capacità di autovalutazione del signor Alberghini, dubbi che al momento dell'ascolto si rafforzano e anzi si estendono alla condotta professionale del medesimo. Il componente del secondo cast, Luca Tittoto, ha gestito con maggiore disinvoltura – sia pure con un’intonazione a tratti un po’ al limite – una parte che neppure a lui sembrava convenire del tutto.
Per la breve ma non banale parte di Giannetto il primo cast schierava Lawrence Brownlee, che ha una voce di bel colore, purtroppo afflitta da quel fastidioso vibratino che oggi sembra andare tanto di moda fra i tenori contraltini nel repertorio rossiniano. Preciso il canto di agilità e spavalde le puntature, ma quella del passaggio è una zona minata in cui compaiono suoni schiacciati e a rischio intonazione (aria, finale I). Rose e fiori, comunque, di fronte ai suoni stimbrati e gracchianti sfoggiati da Filippo Adami, che pure sarebbe, per natura vocale e intenzioni esecutive, interprete plausibile del personaggio.
Scarsi motivi di soddisfazione hanno offerto le due interpreti di Pippo, personaggio decorativo che proprio per questo ha più di altri bisogno di un canto morbido ed elegante, tanto nello spavaldo brindisi come nel commovente duetto al secondo atto. Silvia Tro Santafé, di cui apprezziamo la simpatia scenica, ci ha fatto l’effetto di una minuscola Barbieri, con suoni di petto francamente comici, la coloratura vorticosa che tanto di moda va nel Barocco e acuti rari e faticosi. Almeno lei era udibile in assieme, il che non si può dire di José Maria Lo Monaco, praticamente il prototipo del mezzosoprano oggi à la page, inesistente nel registro grave (che la parte sollecita non poco), striminzita al centro e schiettamente sopranile in acuto.
Paolo Bordogna e Vincenzo Taormina si alternavano come Fabrizio, senza meriti o demeriti peculiari (la voce di Taormina risulta un po’ più timbrata di quella, assai tenorile, di Bordogna), mentre Lucia era Kleopatra Nasiou, alias Kleopatra Papatheologou, già udita in Pesaro. Il mutato nominativo non ha prodotti cambiamenti nella vocalità, e il taglio dell’aria appare quindi più che giustificato.
Fra i comprimari una segnalazione per Mattia Olivieri, che al secondo atto sfodera, nella frasetta di Giorgio (“Ti compiango amico mio”), un materiale vocale di discreto interesse.
Per lo spettacolo di Damiano Michieletto valgono le considerazioni di due anni fa: fantasioso, divertente, “nella” musica e non “contro” la musica, se si eccettua la richiesta, cui sono sottoposti i cantanti, di passare in pratica tutto il secondo atto con i piedi immersi nell’acqua. Questo è l’unico appunto che possiamo muovere a una regia di rara vivacità e impatto spettacolare, complice ancora una volta la deliziosa Gazza di Sandhya Nagaraja.
In appendice, e in luogo dei soliti ascolti comparati che hanno suscitato le rampogne di alcuni illuminati lettori, un brano di musica "leggera" con cui vogliamo rendere omaggio al ritorno di Mariolita Cantarero sui nostri palcoscenici.
Gli ascolti
Bixio/Cherubini: Macariolita - Ernesto Bonino (1940)