martedì 29 giugno 2010

Stagioni 2010-11: Regio di Torino e Verdi Festival

Modello di efficienza teatrale italiana, il Teatro Regio di Torino ha già pubblicato la sua stagione 2010-11 in anticipo sugli altri teatri di pari livello. Il Regio di Parma, da parte sua, ha reso nota da qualche giorno, con una conferenza stampa romana, i titoli del Verdi festival autunnale. Commentiamo insieme le due stagioni perché quella sabauda contempla, di fatto, una sorta di mini festival Verdi al proprio interno, annoverando ben tre titoli del maestro di Busseto su sette produzioni in cartellone.

Come ben sapete, non siamo soliti indagare i perché alla base delle scelte dei titoli, ragioni artistiche e culturali ispirate da celebrazioni, progetti di scambio, disponibilità di cantanti etc. Fautori dell’antico principio che le scelte dei titoli debbano maturare attorno alle personalità dei cantanti disponibili ed alle loro caratteristiche vocali, riteniamo comunque degno qualunque principio muova una direzione artistica, a patto che dìa luogo a spettacoli in grado di funzionare.
Quello dell’allestimento di opere verdiane è problema senza soluzione, legato alla carenza di cantanti, di alcune corde in particolare, che ormai paiono estinte. Si va in scena consapevolmente zoppi nei cast, perché Verdi è un must del repertorio e non se ne potrebbe accettare la dismissione come accadde, tra la fine del XIX e gli inizi XX secolo, per certi autori o certi titoli fondamentali del repertorio belcantista e del Grand-Opéra.

Colpisce la presenza da entrambe le parti un titolo raro e difficilissimo da allestire, come i Vespri Siciliani, di fianco ai più comuni Rigoletto e Traviata Torino, Trovatore ed Attila a Parma.
Sempre di target popolare gli altri titoli torinesi, dal Boris inaugurale nella versione senza l’atto polacco, Butterfly, Parsifal e la Lucia di chiusura.
Nelle corde di basso osserviamo la dura realtà del mercato delle voci: o buoni cantanti delle generazioni recenti, come il bravo signor Adbrazakov, Procida torinese, ma di scarso peso ed ampiezza per forza di natura vocale, come pure il meno quotato signor Anastassov su Boris, oppure anziani cantanti blasonati ma senescenti, come Kurt Rydl Titurel/ Gurnemanz. Idem dicasi per i baritoni, dove forse la qualità media espressa è ulteriormente inferiore a quella dei bassi, con il senescente Nucci sul Monforte di Parma, oppure giovani di scarsa ampiezza vocale, come il signor Vassallo sul Rigoletto ed il Monforte torinesi, o il signor Capitanucci su Germont, se non addirittura inadeguati per ragioni stilistiche, come il signor Sgura sul Conte di Luna. Si canta in modo sempre più ingolato, ci si è adattati alle voci gravi maschili fibrose, spesse ed indietro, direi che si addirittura maturato un moderno gusto per questo tipo di canto e così, pian piano, si è arrivati a non avere più sul mercato cantanti dotati della necessaria ampiezza, oltre che morbidezza e capacità di sfumare, idonee al repertorio verdiano e non solo. Comunque si scelga, non si riesce più ad essere all’altezza dei requisiti della parte.

Con le voci acute maschili và forse un fio meglio, ma la razionalità non pare governare tutte le scelte, in Verdi soprattutto. Il signor Alvarez torna a Parma per la terza volta nel volgere di pochi anni come Manrico. Ha sempre mancato di squillo e di vera eleganza nel fraseggio, ma, sebbene un po’usurato dalle scelte di repertorio degli ultimi anni, non sarà certo di molto al di sotto delle sue performances passate. Diversi, invece, i casi del signor Kunde e del signor Armiliato sull’Arrigo dei Vespri, il primo perché in debito di smalto, di intonazione in zona di passaggio, oltre che di vero accento verdiano ( ma se la ricorda la figuraccia di Chris Merritt a Milano??); il secondo perché manifestamente usurato nelle prove recenti di Genova ( la facile Tosca ) e di Wien ( la centrale ma pesante Forza ). Follia dei cantanti o disperazione delle direzioni artistiche? Scelte confortate più dall’esito del pubblico che da vera idoneità ai ruoli o vera qualità artistica, invece, quelle di tenori come il signor Secco o il signor Terranova in Verdi, piuttosto che del sign. Meli quale Edgardo: assenza di fantasia e di capacità propositiva, piuttosto una tendenza a fare della ruotine che garantisca il teatro da incidenti.

Ci son però corde, come quella dei soprani, ove sarebbe ancora possibile, al contrario, maturare scelte oculate ed appropriate, e non errori marchiani.
La sig Radvanovsky, con buona pace del suo nome d’agenzia, sta sulla Elena torinese in virtù dell’ormai antica performance parigina e non per le sue attuali virtù vocali, delle quali peraltro ha dato prova ( stonata e fissa )in quel di Genova un paio di stagioni or sono. Si alterna poi con una improbabile signora Iveri, dalla voce piccola, priva dei gravi come degli acuti, di capacità acrobatiche ignote e che al massimo potrà sfarfalleggiare leggiadra per lo spartito. In quel di Parma, peraltro, si aggirerà per la scena, quale Elena, l’ombra di una grande cantante al capolinea ( non me ne voglia la signora Dessì, che molto stimo ma…), dalla voce ormai compromessa oltre misura, pergiunta in una parte che richiede estensione, capacità di fraseggio e virtuosismo. Questo è caso assai diverso dal precedente, perché di diversa caratura è la cantante in questione, ma l’età vocale è qualcosa che non si può vincere o nascondere in eterno. E quello di mettere il pubblico davanti a grandi cantanti del passato, chiedendo l’applauso di stima e di affetto, e non per merito artistico ( vero Leitmotiv del cast del Vespri parmigiani ), non è ricetta poi così onesta... verso Verdi in primis.
La suggestione del nome come della fama mediatica influenza evidentemente le direzioni artistiche in misura palpabile. La signora Fantini, oggi senza dubbio la migliore Aida, Leonora di Vargas ed Elisabetta di Valois in circolazione ( e metto nel conto pure le star di agenzia signore Urmana e Stemme ) viene con poca avvedutezza collocata sulla Leonora del Trovatore, parte di vocalità assai diversa da quelle che la signora è solita praticare, tutta incentrata sul canto aereo e strumentale in acuto e fiorettature ostiche in punta di forchetta ( e che la signora, dal canto suo, ha accettato per rientrare su un mercato in cui le spetterebbe un suo spazio dati i soprani "spinti", soprattutto quelli che non ho nominato, che lo animano.. ), perché sulle future Forza e Aida invernali pare proprio già stiano la medesime e meno qualificate signore Dessì e Carosi. Scelte che non si possono certo mettere all’insegna dell’aver opzionato il meglio disponibile in commercio, ma solo della mancanza di riflessione sulle effettive performances vocali delle cantanti in questione. Per giunta su ruoli verdiani, in quel di Parma, laddove tutto è incentrato sulla conservazione della tradizione del canto verdiano e la valorizzazione degli artisti più capaci e specializzati in questo repertorio.
Della stessa suggestione del nome, in questo caso di quelli cosiddetti “d’agenzia”, soffre anche la stagione torinese. Oltre alla suddetta sign. Iveri, si propone la Violetta della sig Kurzak, soprano leggero di nessuna speciale attrattiva tecnica, timbrica e dpersonalità. Si esibisce nei più grandi teatri del mondo, certo, ma non è che nell’universo dei soprano leggeri sia cantante tale da dispensare l’impeccabile e gelida arte di una Devia o la straordinaria emotività ed espressività di una Sills…Idem dicasi per la signora Hui He, che della sua grande voce di qualche anno fa non ha poi saputo farsene gran chè, alla luce del tempo che passa, e per la quale forse non valeva la pena allestire questo titolo che della protagonista vive. Alla solida routìne che potranno offrire in coppia la signora Mosuc ed il signor Meli inLucia, tale da garantire il certo successo della produzione al pari della Traviata u.s., non mi pare che i due cast di Rigoletto e Traviata annoverino nomi in grado di assumere su di sé l’onere della serata e traghettarla in porto felicemente. Il signor Armiliato è bacchetta brava e saggia, ma, si sa, la bacchetta da sola non può nulla in quei titoli. La sola piccola curiosità sarà vedere cosa combinerà la signora Lungu alle prese con i graziosi picchettati e staccati di Gilda.
Quanto al Parsifal ed al Boris, la cui versione monca ci ha francamente un po’ stancato per i motivi che vi abbiamo altrove illustrato, osserviamo la presenza della signora Marianelli, nel piccolo ruolo di Ksenjia, dopo i dimenticati “fasti” delle Fiorille di qualche anno fa: le carriere da “gambero” non ci piacciono, nonostante noi si passi per cattivi. Noi lo scrivemmo ma…nessuno ci ascoltò.
Tra le bacchette, incuriosiscono il signor De Billy alle prese con Parsifal, il signor Noseda alle prese, oltre che con il suo amato Boris, con la gestione dei problemi vocali e drammaturgici del cast del Vespri; il signor Temirkanov nel Trovatore parmigiano…se apparirà in teatro.
Circa gli allestimenti, non dirò nulla. Come sapete, poco ci interessano, e non parlarne sarà la nostra forma di rimostranza contro lo strapotere degli allestitori ed i loro insostenibili costi.

http://www.teatroregio.torino.it/stagione/2010-2011

http://www.beniculturali.it/mibac/opencms/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html?id=75435&pagename=129





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domenica 27 giugno 2010

Aida dal Covent Garden alla BBC.

Contrariamente a quanto decantato dalle maggiori riviste italiane, la recente produzione di Aida al Covent Garden è stata quello che si suol dire un "flop". E mica solo per il gusto pacchiano di Mc Vicar, ma e soprattutto per un cast che non ha retto in nulla o solo in parte le aspettative della vigilia.
Attesissimo il debutto di Marcelo Alvarez, ma anche la prova di Micaela Carosi.
Essendo che l'estate avanza e con essa la calura, nessuno ha avuto l'ardire di accollarsi l'ascolto integrale della serata: un atto per ciascuno ci è parso la sola cosa fattibile con la temperatura di oggi. E per maggior obiettività e pluralismo di giudizio.


Atto I
Onere ed onere dell’atto primo quello che, soprattutto, presenta gli amori ed il direttore. Quest’ultimo, Nicola Luisotti, è elegante nel preludio e dalla ripresa radiofonica il suono sembra essere anche di qualità. Poi il terzetto Aida-Radames-Amneris è bolso ed il finale d’atto nel tempio di Vulcano, piuttosto lento, ma privo di quel tono aulico e misterioso che si addice alla consacrazione pagana. E per iniziare a parlare dei solisti taccio della sacerdotessa baroccara di Elisabeth Meister.
Il debuttante Marcelo Alvarez si è convertito al repertorio tardo ottocentesco ed al Verismo, lui, nato per Donizetti, il primo Verdi e magari Meyerbeer . Non è il primo a farlo. Anzi è l’ultimo. Ultimo in ogni senso, ma per non tirare in ballo i soliti Lauri-Volpi e Fleta anche Mario Filippeschi disponeva in zona medio-alta di penetrazione e squillo. Taccio poi degli acuti. Qui, invece, abbiamo un ex tenore contraltino che stenta sul salto do3-fa3 di “Aida” alla sortita, che non rispetta neanche in maniera generica le indicazioni di dinamica e di espressione, sguaiato e plebeo nell’accento quasi che nutra risentimento e non amore per la protagonista. Fatica e fiato corto connotano il si bem che chiude la sortita. Nella scena del tempio di Vulcano la fatica su frasi come “proteggi d’Egitto il sacro suol” di tessitura acuta, che sarebbe quella consona ad Alvarez danno la certezza che Radames sia il tipico passo più lungo della gamba, per giunta senza adeguata tecnica e neppure congrua dote naturale.
Micaela Carosi, i cui fans si sono tanto prodigati persino nell’insulto a difendere, spacciando per attacco personale alla predetta quello che era uno spunto di riflessione sull’operare della critica, è assolutamente impari al compito. E per voce e per tecnica di canto. Non scandalizza una Aida con timbro da Mimì, ma la presenza costante di difetti ossia suoni aperti, sguaiati di marca verista sul primo passaggio, tubati ed in gola più sopra, stonati in zona mi3-fa 3, acuti o gherimiti o pigolati. Autentico paradigma di quest’ultima qualità il do del concertato alla scena prima. Questa breve, rapida osservazione non significa far Beckmesser ossia i “cellettiani”, come nella difesa d’ufficio, al pari della patrocinata, steccano i nostri detrattori, ma rilevare che questa Aida non è sognante all’entrata, poderosa e svettante al concertato, lacerata nella sezione iniziale dell’aria e piagata nella conclusiva, tanto è che gli applausi sono da aria del sorbetto del Tancredi.
Quanto a mr Lloyd ho letto in chat il consiglio di affidarlo alle cure di una badante. Dovrebbe, però, condividerla con il proprio sommo sacerdote Giacomo Prestia, che latra non solo il fa di “folgore e morte” ( e sarebbe poi, solo un emulo di Ghiaurov), ma oscilla a partire dal do acuto. Splendida immagine del potere prossimo al crollo!
Domenico Donzelli

Atto II
Il secondo atto di Aida è composto da due grandi blocchi musicali che costituiscono altrettanti motivi di interesse per l’ascoltatore mediamente avvertito: il duetto/duello fra soprano e mezzosoprano e la scena del trionfo, in cui il ruolo principale passa, sia pure temporaneamente, alla bacchetta.
Fin dall’attacco “Ah, vieni amor mio, m’inebria” (sol4) la deputata Amneris, Marianne Cornetti, dimostra di possedere timbro e peso vocale assolutamente analoghi, per non dire identici, a quella che dovrebbe essere la rivale in amore. Dimostra altresì la tendenza a stonare nella zona del passaggio superiore, sulla quale “batte” la frase in questione. L’interprete si sforza di rispettare le indicazioni dinamiche, invero numerose, previste dall’autore e di fraseggiare in modo insinuante, ma la voce suona chioccia al centro e in prima ottava risulta ben poco udibile, costringendo la cantante a ricorrere a suoni artificiosamente pompati, per nulla adatti a una principessa del sangue. Quanto agli acuti, si tratta di suoni duri e fibrosi, anche questi assai poco regali.
L’Aida della Carosi prosegue sul sentiero ben delineato da Donzelli nel suo compendio del primo atto e anzi riesce in un’autentica impresa, quella di mancare l’appuntamento con la sezione del duetto (“Pietà ti prenda del mio dolor”) in cui la cantante potrebbe con maggiore proprietà fare valere le proprie doti di soprano lirico. In queste frasi di grande malinconia, e di scrittura bella centrale, per le quali Verdi prescrive “cantabile espressivo”, la cantante esibisce infatti una vocina stentata, perché poco o nulla appoggiata, qua e là stonacchiante, incapace di reggere le grandi arcate della melodia e quindi costretta a compromettere la tenuta del legato.
Nicola Luisotti, sotto la cui direzione l’esercito al primo atto sembrava in procinto di partire per il fine settimana, e non già per il fronte, concerta un quadro del trionfo di sapore pacchiano, caratterizzato da scelte di metronomo inutilmente frenetiche (specie nei balletti) cui dovrebbero fungere da contrappeso i tempi dilatati allo spasimo del concertato. Ne deriva, per l’appunto, un concertato finale atto secondo in cui solisti, coro e orchestra sembrano procedere ognuno per proprio conto. Rileviamo come l’effetto non si producesse sotto le bacchette, assai meno incensate da certe illustri penne, di un Votto o di un Molinari-Pradelli. Sottolineiamo poi la difficoltà, per il tenore, di eseguire a un tempo così slentato frasi come “Ogni stilla del pianto adorato”, frase che risulta priva di mordente e di squillo, perdendosi nel magma generale, e che nondimeno costa ad Alvarez ogni energia residua, tanto da spingerlo a gridare nel recitativo seguente.
Sempre per quanto riguarda la voci maschili, dobbiamo rilevare come Robert Lloyd, Re ben più che senescente, risulti in dignitoso stato di conservazione se confrontato con le altre voci gravi solistiche. Marco Vratogna, il cui proclamato slancio suicida è sottolineato dall’orchestra con suoni che in altri tempi (neppure così distanti) avrebbero evocato nel pubblico e nella critica immagini di banda di paese, risulta particolarmente a disagio nella perorazione di Amonasro, che Verdi ha avuto la pessima idea di costruire sul passaggio superiore della voce baritonale. Anche per lui, come per la figlia, è bandita ogni regalità, non solo, ma ogni parvenza di canto di scuola.
Antonio Tamburini

Atto III
E’ accaduto di tutto in questa parte dell’opera:il cast non era all'altezza, a meno di qualche momento di Marcelo Alvarez.

Lauri Volpi era solito dire che il III atto uccide il soprano, perché qui l’opera, in effetti, svolta per Aida. E puntualmente la signora Carosi è affondata, inesorabilmente, nel limo del Nilo...ed assieme a lei tutte le sue sbandierate velleità di grande soprano lirico spinto. Sarà una grande cantante su Facebook, ma sul palco, dove il web non la soccorre, si può proprio dire il contrario. Nemmeno il canto professionale!
L’atto richiede ad Aida di cimentarsi in tutte le sfaccettature vocali e psicologiche del personaggio, dai recitativi vigorosi e tragici, alle grandi arcate di suono aereo dell’aria, alla concitazione dolosa del duetto col padre sino alla seduzione e slancio del duetto con l‘amante, nella massima estensione della scrittura della parte. Acuti a voce piena ed in piano, FF e ppp e forcelle sparse dappertutto, discese sotto il rigo...insomma, saper cantare bene al centro, in basso ed in alto. I problemi tecnici della signora sono emersi in tutta la loro gravità, dando luogo ad un canto incerto, frequentemente stonato, a cominciare dal centro e poi agli acuti, il più delle volte fissi o ballanti o calanti. Qualcuno anche urlato. Le discese al grave, poi, dominate anch’esse dall’imperizia tecnica, sono arrivate quasi sempre senza legato, con veri e propri salti verso il basso in pieno registro di petto, per nulla gradevole ed elegante. Siffatto tipo di “canto” si è tradotto, per forza di cose, in una interpretazione esteriore, caratterizzata da frasi artefatte e da accenti anche esagerati. Ma ciò che ha davvero stupefatto è stata la successione continua di incidenti che ha terremotato tutta la linea di canto. Ve le elenco così come le ho rapidamente appuntate sullo spartito mentre la radio trasmetteva. Buono il recitativo di ingresso, seppure con una emissione poco stilizzata. Attacco dei “Cieli azzurri” fisso e stonato; spazzate via le duine di “azzurri” e di “dove sereno”; balla al primo fa sul passaggio all’attacco di “o verdi prati”. Alla ripresa di “Oh patria mia” di nuovo attacca stonata, e procede sempre più fissa, vetrosa e miagolante; dà volume sul la nat in F tenuto di “Oh patria mia…” ma il suono è ballante, poi fisso quando tenta di smorzare la discesa ai pp scritti di “mai più ti rivedrò..”. Emette ancora suoni fissi sui mi di “Oh fresche valli” e di “che un dì promesso”.Il “dolce” di “Or che d’amore il sogno è dileguato” è suono vetrosissimo, perché è ancora un fa sul passaggio superiore. Terrificante l’esecuzione delle frasi finali “Oh patria mia, non ti vedrò mai più”, con le forcelle che portano al do ( ballanti e durissimi il si bem ed il do ); stonata e fissa sulle ultime frasi, sul la da attaccare in pp e la successivo con la doppia forcella; idem i la della chiusa da smorzare; una mezza stecca sul la finale, nota presa da “sottissimo”.
All’incipit del duetto con Amonasro canta di petto i gravi di ”i nostri templi d’or”; spinge fortissimo il la bem di “un’ora sola di si dolci incanti”; azzecca il lat sull’ “ah” che segue il “dei faraoni tu sei la schiava”, perché in effetti Verdi scrive “con un grido”: almeno il grido è eseguito correttamente! Suona prima fissa e poi ballante sul la bem di “Oh patria, patria quanto mi costi”, ma soprattutto esegue la frase con il centro tutto stonato. Al duetto con Radames la voce è sorda sotto il passaggio basso, mentre i segni di accento li grida ancora; esteriore e viperina, per via della voce vetrosa, anche nelle frasi che precedono “Odimi Aida” di Radames; al “Nel fiero anelito “ di lui, replica con voce sorda, perché la scrittura è grave, poi apre il suono su si nat e do centrali. Parla il “Fuggiam gli ardori inospiti”, ché in effetti Verdi prescrive “parlante”; poi accade di tutto: i “dolcissimo” di “là tra foreste vergini” sono fissi e miagolati, il legato scarso, i pp di “ in estasi beata” gettati al vento, come il “beata” preso fisso e con un portamentone pauroso, da sotto; idem il “dolcissimo senza affrettare” di “ la terra scorderem”, emesso alla speraindio perché batte il passaggio superiore ed i primi acuti. Si passa al “la tra foreste vergini”, ove falsetta e stona, come stona di nuovo “Sotto il mio ciel più libero”; un capolavoro dell’orrore il si bem in piano che chiude il passo, dove il ” morendo dolce” di Verdi viene trasformato in un “falsettato fisso e calante”. Finalmente arriva il finale, “Si fuggiam da queste mura “: dopo aver urlato malamente le frasi che lo precedono, si schianta in “Nella terra avventurata”, che batte sulla zona del passaggio superiore. L’attacco è fisso e aperto, e, facendosi un baffo dei ppp scritti da Verdi, prosegue nel grido dei la bem coronati, per poi gridare anche le note marcate, ballare sulla corona del la bem di “talamo”, gridare e stonare la successiva salita al si bem che ultima la forcella su “gli astri brilleranno”. Un disastro!

Marcelo Alvarez è sopravvissuto aggrappato alla sua ugola d’oro, ma è stato sempre impari al compito, perennemente in debito di volume, squillo ed accento.
Spesso apre i suoni centrali, forse alla ricerca di una voce di maggiore ampiezza, come sui si bem - do centrali di “Nel fiero anelito di nuova guerra”. Lo sforzo di accentare lo porta poi a strozzarsi su “Vivrem beati di eterno amore”, dove invece Verdi prescrive un “dolce”. I segni di espressione sono spesso sacrificati da un modo di cantare fondato sulla dote più che sulla tecnica: su “ teco fuggir dovrei abbandonar la patria”elide la doppia forcella prescritta e il ”con slancio” voluto da Verdi. Il la di “il ciel dei nostri amori” arriva tirato col cavatappi, e sposta l’esecuzione del “dolce” ivi prescritto sul passaggio successivo re-do centrale di “scordar potrem “ . Ne esce un effetto, però che ha il sapore da canto “confidenziale” più che da amoroso eroico verdiano.La natura è generosa con il signor Alvarez che, anche se sottodimensionato, riesce a disimpegnarsi con la consueta generosità nell’allegro assai vivo finale, “Si fuggiam da queste mura”, anche se si tratta di un canto non facile e spinto. Esteriore anche lui nell’interpretazione di certe frasi come “le gole di Napata” mentre completamente affidato alla forza della gola e prive di squillo le frasi pesantissime “Io son disonorato”, “Per te tradì la patria “ ( ci resta pure dentro nella ripresa ), “Sacerdote io resto a te” ( quest’ultima addirittura con la lacrima, che non serve perché occorre, al contrario, lo squillo! ). Insomma, una meravigliosa voce da Faust strapazzata col Verdi pesante.

Marco Vratogna canta in modo ordinario, alla Guelfi jr. per intenderci, rimasticando tutto tra i denti. Ghermisce ogni frase: in “Pensa che un popolo straziato” non riesce a prendere l’attacco, non lega i suoni, non ha morbidezza ed la voce gli resta tutto nella gola. Perde così anche in qualità timbrica, tanto che suona sempre senescente ed affaticato.Alla prescrizione verdiana “sottovoce e cupo” su “per te la patria muore” Vratogna canta forte e sgraziato; taccio il solito “dei faraoni tu sei la schiava”, eseguito a pieni polmoni tutto rigorosamente indietro. Quando poi il canto di Amonasro deve aprirsi sull’ emozionante “Pensa che un popolo vinto straziato”, la voce suona chiusa e tubata, senza sfogo e lirismo alcuni.
Giulia Grisi

Atto IV
Senza particolari sorprese, e a onta di una forma vocale non certo esemplare (si ascolti invece la discreta Azucena di Bregenz), è Marianne Cornetti a risaltare meglio nel trio protagonista del quarto atto. Vuoi qualche anno (forse troppo…) d’esperienza, vuoi una linea vocale che sa rimanere composta e quasi mai sopra le righe, l’assolo di apertura di Amneris diventa qui paradigma di un canto che se da una parte non riesce a brillare per robustezza d’emissione, almeno dall’altra dimostra onestà verso lo spartito e quindi, per rispettiva coerenza, verso il pubblico. E per i tempi che corrono, valla a trovare una figlia del Re… onesta!
Diciamo subito che lo splendido personaggio di Amneris viene fuori bene. E’ evidente che trattandosi di un ascolto radiofonico siamo impossibilitati a rendicontare la resa drammaturgica e le qualità interpretative del mezzosoprano americano. Va però detto che a parte qualche forcella spianata («Oh s’ei potesse amarmi!») i segni d’espressione vengono rispettati, il che rappresenta un buon punto di partenza per fraseggiare con garbo e pertinenza d’accento. E’ senza dubbio intenso quel «Si tenti!» in coda al recitativo d’entrata, “risoluto” come prescrive il compositore, così come il mi4 marcato di «Guardie!», con cui si decide a far chiamare l’amato Radamès. Le va altresì accreditata una buona capacità a legare il registro centro-grave con quello centro-acuto (bello il passaggio fa3-mi4 su «insano è questo amor», ancora nel recitativo) nonostante la zona centrale e le salite in alto in particolare risultino spesso sporcate da eccessivo oscillamento della voce (traballa già un la4: valga su tutti la seconda ripetizione di «a morte!») e inficiate da qualche suono scomposto (volgare la stimbratura su «e nunzia di perdono», e ancor peggio quella in attacco al “cantabile “Ah! Tu dei vivere”). Di nuovo un vibrato larghissimo sul si4 di «CIEL, dal ciel si compirà». Ma una voce che tradisce così evidenti sintomi di senescenza, è già un miracolo che in chiusura d’acuto non si slabbri in un grido.
Le discese in basso tradiscono un registro di petto un po’ troppo esibito (il do3# e il successivo do3 su «di vita a TE SArò»), che può ancora risultare efficace in certi passaggi solisti o duetti, ma rischia poi di finire mangiato da un’orchestra che deve accompagnare un concertato o qualsivoglia pezzo d’insieme. Il recitativo d’introduzione alla scena del giuramento, completamente fuori fuoco e addirittura pacchiano in alcuni passaggi (ridicolo il tentativo di personalizzazione, con quella marcatura arbitraria e fuori luogo dei do gravi su «atroce gelosia»), rimane il momento peggiore di questo quart’atto a firma Cornetti. Inevitabile a questo punto ritornare con la memoria non soltanto alle due Amneris, ineguagliabili e ineguagliate, di Ebe Stignani e Irina Arkhipova, ma anche al’impeto passionale di una Fedora Barbieri e all’impenetrabile ardore di una Minghini-Cattaneo, che proprio in questo passaggio accentava «quelle bianche larve» con una forza implosiva mai più udita. Funziona molto meglio invece la ripetizione tripartita della fragile richiesta di intercessione («Ah pietà! Ah, o salvate, Numi, pietà!») alle domande accusatorie del sacerdote Ramfis: viene fuori tutta la vulnerabilità del personaggio attraverso una linea vocale discendente stabile e ben timbrata. Peccato per il la4 che chiude la scena, traballante all’inverosimile e risolto con un suono simile a un singulto.

Alvarez ha dimostrato invece di voler ancora una volta esibire le solite inflessioni paraveriste e gli oramai rodati vezzi di una mediterraneità – come dire – sanguigna. Questo per quanto riguarda interpretazione e fraseggio. Sul versante tecnico abbiamo sentito troppe nasalità, alcune calate di intonazione, un portamento ascendente non pulitissimo e la sostituzione in partitura delle note accentate con versacci aspirati (ma pure espirati con forza, in un paio di passaggi) a cui siamo oramai purtroppo avvezzi.
Già dall’entrata in scena, alle richieste di discolpa di Amneris, Radames risponde con una certa durezza nel portare per esempio un mi4 al la4 («ma puro il mio pensiero»), oppure impiega qualche logoro stratagemma per approcciare i versi senza rischi e ansie (tra gli infiniti esempi, si noti quella E aspiratissima in corrispondenza di «e l’onor mio tradia»), trucchetti che solo se messi lì con avvedutezza possono passare per tentativi di colorare la frase. Quando invece, ed è questo il caso di Alvarez, vengono impiegati come “pronto intervento”, allora finiscono per annoiare per eccesso d’affettazione. Da segnalare, poiché appartenenti allo stesso ceppo genealogico, il ruggito informe e sgraziato, che fino a qualche lustro fa si chiamava forcella, sul mi4 di «E IN dono offri la vita», con una marcatura strabordante su «vita», per altro non presente in partitura, tale da rimandare più al “surdato ‘nnammurato” di Califano e Cannio che alla passione di un condottiero egizio. Tralasciamo poi quell’«Ed ella?» quasi parlato, che magari per altri recensori fa tanto strazio del cuore e accento arroventato.

Il duetto finale all’interno del tempio di Vulcano coincide con il ritorno in scena di Aida, e quindi di Micaela Carosi. Inutile ribadire che la signora non ha davvero nulla nel suo bagaglio vocale che possa rimandare in qualche modo al canto professionale. Non ha mai emesso (non solo in questa Aida, ma in carriera!) una nota pulita o comunque scevra da un’emissione un tanto al chilo da far quasi rimpiangere una Ricciarelli post Fattoria. E’ generosa di stonature, frutto di attacchi presi con inaudite fissità e poi fatti scivolare giù calanti cinque versi su sei (in queste condizioni diventa quasi ridicolo parlare di forcelle e di messa di voce…); già un la oscilla in maniera preoccupante e ogni incursione in acuto è un grido disperato. Al centro, come altrove, non esiste la seppur minima parvenza di sostegno e controllo del fiato, tanto che ogni nota emessa è l’ennesimo versaccio malconcio che inficia la stabilità della linea vocale. Di conseguenza, se il fraseggio diventa un’entità astrale, la stessa dizione tradisce farfugliamenti di grana grossa che rendono incomprensibili i versi.
Parte discretamente Alvarez con «La fatal pietra». Rispetta l’indicazione di “dolcissimo” prescritta da Verdi su «Non rivedrò più AIda», risolta bene con una buona smorzatura. Procede poi con qualche fissità fino all’esclamazione esagitata (“in parlando”?) «Ciel! Aida!». Attacca la Carosi «Presago il core», ovviamente con suono fisso e calante. Stona ancora tutto il verso «da ogni umano sguardo», per altro completamente stimbrato e sbracato, e attacca con durezza il sol4 di «nelle tue braccia» che, pensate un po’, andrebbe pronunciato “dolce” (ma sappiamo bene che lo spartito è accessorio nello studio di un’opera…). Radames aggredisce con un muggito l’amata etiope («MORIR! Sì pura e bella»), smorza bene la ripetizione di «morir», saccheggia la miriade di segni in partitura e confonde “espressione” con “concitazione violenta”. Oscene le note staccate di Aida su «Vedi? Di morte», con attacco sul la4 di «MOrte» ancora stonato e fisso (ancora peggio, quasi d’inudibile scompostezza la ripresa degli staccati su «ne adduce eterni gaudii»), mentre il si4 in corrispondenza di «dischiuderSI» è un grido di pura gola. Accenta bene Alvarez il momento conclusivo “O terra, addio”. La Carosi, invece, stessa solfa: fissità, stonature, urla, vibrato largo.
Carlotta Marchisio

Questa prova in Aida della signora Carosi stigmatizza, negli esiti vocali ed artistici come in quelli pubblicitari, il modello che il sistema si è dato per costruire carriere, roboanti ma precarie, realmente infondate perché ……galleggianti nell’effimero spazio di internet, come una voce gonfia e priva del necessario appoggio sul diaframma. Nessuno più della signora Carosi incarna questo modello: si vive nel web per radunare i fans, si rilasciano dotte interviste sulla tecnica di canto, si batte in ogni modo il tam tam della pubblicità gratuita ed ordinaria ( l’importante non è ciò che si dice ma che se ne parli ) per poi esibirsi sulle scene in condizioni vocali deplorevoli per l’assenza di presupposti tecnici e stilistici alla propria professione. La sicurezza mediatica svanisce penosamente nei luoghi deputati a dimostrare la realtà del proprio valore artistico, e tutti ne escono sviliti e sminuiti, cantante, produzione e direzioni artistiche prone all’effimero vento della fama mediatica.
Per fortuna il web ha anche un altro lato: porta anche la verità degli audio e le recensioni, professionali e non, maturate lontano dai complici entourage locali.



Gli ascolti

Verdi - Aida

Atto I


Se quel guerrier io fossi...Celeste Aida - Beniamino Gigli (1939), Flaviano Labò (1967), Luciano Pavarotti (1984)

Ritorna vincitor - Gabriella Tucci (1967)

Atto II

Silenzio...Fu la sorte dell'armi - Ebe Stignani & Anna Maria Rovere (1956)

Atto III

Qui Radames verrà...O patria mia - Stella Roman (1942)

Atto IV

La fatal pietra...O terra addio - Flaviano Labò & Liljana Molnar-Talajic (1971)

Rassegna stampa

http://www.independent.co.uk/arts-entertainment/classical/reviews/aida-royal-opera-house-londonbrelegy-for-young-lovers-young-vic-londonbri-went-to-the-house-but-did-not-enter-barbican-hall-london-1960128.html

http://dickieandbutch.com/2010/05/18/dickie-review-aida/

http://intermezzo.typepad.com/intermezzo/micaela-carosi/

http://www.guardian.co.uk/music/2010/apr/28/aida-review

http://www.theartsdesk.com/index.php?option=com_k2&view=item&id=1402:aida-royal-opera-review&Itemid=14

http://www.opera-britannia.com/index.php?option=com_content&view=article&id=289:aida-the-royal-opera-27th-april-2010&catid=8&Itemid=16

http://www.independent.co.uk/service/shortcut/verdi-aida-royal-opera-house-london-1956770.html

http://www.thestage.co.uk/reviews/review.php/28027/aida

http://www.concertonet.com/scripts/review.php?ID_review=6520

http://www.dailymail.co.uk/tvshowbiz/reviews/article-1269886/Aida-A-cut-price-tour-Egypt-offers-Nile-style.html

http://markronan.wordpress.com/2010/04/28/aida-royal-opera-covent-garden-april-2010/

http://www.express.co.uk/posts/view/171985/Aida-Royal-Opera-House-Covent-Garden

http://www.whatsonstage.com/reviews/theatre/london/E8831272461471/Aida.html

http://www.allvoices.com/news/5697572/s/53609125-aida-opera-review

http://classical-iconoclast.blogspot.com/2010/04/no-elephants-aida-at-royal-opera-house.html

http://www.thisislondon.co.uk/music/review-23828825-blood-sweat-and-sacrifice-in-aida.do

http://www.musicalcriticism.com/opera/roh-aida-0410.shtml

http://www.ft.com/cms/s/2/b1ae95da-532d-11df-813e-00144feab49a.html

http://www.whatsonstage.com/reviews/theatre/london/E8831272461471/Aida.html

http://www.operatoday.com/content/2010/04/micaela_carosi_.php

http://online.wsj.com/article/SB127318248494187779.html

Sito ufficiale della BBC, dal quale è possibile ascoltare, ancora per qualche giorno, la trasmissione dell'opera

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venerdì 25 giugno 2010

Faust: il terzetto finale

Cari amici ,
lo sciopero continua ed il Faust a Milano è ancora sospeso.
Poco male: eccovi una consolazione per voi che siete rimasti fuori dal teatro col biglietto in mano. E per noi che lo abbiamo visto! Una Antologia di straordinari terzetti finali, esecutori leggendari in prove maestre.

Apprezzerete qui i grandi bassi della tradizione francese, Plancon e Journet in particolare, come pure quelli russi, Reizen e Kipnis, quindi la nostra tradizione italiana, con Pinza e Siepi.
Grandi Margherite, sia liriche, lirico- spinte sino ai drammatici, che leggere, dalla Melba alla Taschemacher, dalla Kurz alla Eames, alla stupenda Heldy, alla Destinn sino alle più recenti Steber, Kirsten o Albanese. Quindi una sfilata di tenori che ben illustra la tradizione interpretativa di Faust, dai tenori lirici e lirici leggeri alla McCormack e Kozlowsky, ai tenori drammatici di scuola tedesca alla Jorn e Urlus o di scuola francese alla Dalmorès.
Esecuzioni più o meno affini a quelle moderne, alcune di un tasso drammatico cui non siamo certo più abituati, come i monumentali Teschemacher Rosvaenge e Hann, o il trio Jorn, Destinn e Knupfer, o gli intensissimi Ansseau, Heldy, Journet.
A voi il successivo confronto con la modernità più o meno recente.
Buona consolazione!

Gli ascolti

Charles Gounod

Faust

Atto V - Scena II

Alerte, alerte...Anges purs, anges radieux

1906 - John McCormack, Nellie Melba & Mario Sammarco
1907 - Charles Dalmores, Emma Eames & Pol Plançon
1908 - Karl Jorn, Emmy Destinn & Paul Knupfer
1910 - Enrico Caruso, Geraldine Farrar & Marcel Journet
1912 - Jacques Urlus, Melanie Kurt & Paul Knupfer
1930 - Cesar Vézzani, Mireille Berthon & Marcel Journet
1931 - Fernand Ansseau, Fanny Heldy & Marcel Journet
1937 - Jussi Bjorling, Esther Rethy & Alexander Kipnis
1937 - Helge Rosvaenge, Margarethe Teschemacher & Georg Hann
1943 - Raoul Jobin, Licia Albanese & Ezio Pinza
1948 - Ivan Kozlovsky, Elizaveta Shumskaya & Mark Reizen
1949 - Giuseppe Di Stefano, Dorothy Kirsten & Italo Tajo
1951 - Eugene Conley, Eleanor Steber & Cesare Siepi
1953 - Richard Tucker, Victoria de los Angeles & Nicola Moscona
1965 - John Alexander, Montserrat Caballè & Justino Diaz
1968 - Michele Molese, Beverly Sills & Norman Treigle
1973 - Alfredo Kraus, Renata Scotto & Nicolai Ghiaurov
1977 - Alfredo Kraus, Mirella Freni & Nicolai Ghiaurov
1996 - Marcello Giordani, Renée Fleming & Willard White
1996 - Giuseppe Sabbatini, Cristina Gallardo-Domas & Samuel Ramey
2003 - Giuseppe Filianoti, Darina Takova & Roberto Scandiuzzi

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mercoledì 23 giugno 2010

Le recensioni di Semolino: La Donna del Lago a Parigi

Cari amici,
eccovi il fedele resoconto del nostro Semolino sulla recita di Donna del Lago del Parigi di venerdì ultimo scorso.Spettacolo di punta della stagione parigina e non solo, cui non potevamo mancare per soddsfare la vostra curiosità.


Molto attesa qui a Parigi questa nuova produzione di Donna del lago, una sorta di agitazione intorno a questo spettacolo, sia per il titolo, molto raro, che per i cantanti, in primis Joyce DiDonato e Juan Diego Florez, beniamini del pubblico francese. Dico subito che a me lo spettacolo proprio non è piaciuto. Scene, regia e costumi sono stati contestati alla prima, e con ragione a mio parere. Una produzione in forma di concerto sarebbe stata addirittura più opportuna: i protagonisti vestiti sempre allo stesso modo; ridicola la trovata di fare uscire il coro dall'armadio a muro; oggetti che scendono dal soffitto, dal cielo o che sorgono da sottoterra per illustrare ogni scena, per non parlare di quei ballerini che si danno un gran da fare per mimare quello che i quattro cantanti non sanno realizzare, peraltro buati anche alla recita di venerdi cui ho assistito. L'architettura di fondo era pesante e pacchiana, l'atmosfera romantica della Scozia di Scott completamente assente: non dico che la si debba riprodurre in maniera descrittiva od olegrafica, ma almeno rievocarla simbolicamente, o con atmosfere variamente costruite. Al contrario, una proiezione luminosa tutta blu quasi di tipo psichedelico, allusione al colore del lago, distruggeva ogni pathos: la medesima scena era al contempo un palazzo, un prato, un lago, una rocca e non so che altro. Ho avuto l'impressione che nessuno, nè regista, nè scenografo, nè costumista, nè coreografo, insomma nessuno, avesse una concezione precisa ed esatta di questa opera: assenza di un obbiettivo unitario, tanto che ognuno ha buttato lì a caso la propria idea e ne è risultato un guazzabuglio che non portava a niente.

Mi aspettavo, ed avrei voluto, che almeno il direttore riuscisse a mettere in rilievo i fremiti romantici che percorrono quest'opera. Roberto Abbado, invece, è stato completamente inoperante: se avessero messo al suo posto un metronomo sul leggio sono convinto che il risultato sarebbe stato lo stesso. Fin dall'introduzione l'orchestra è apparsa svogliata, con un suono arido e tendenzialmente fisso negli archi, gli accompagnamenti meccanici, i concertati alquanto grezzi. Non appena il coro ha attaccato "Del dì la messaggera" ci è poi resi conto di quanto il livello del canto sia caduto in basso anche nelle sezioni corali: mancavano compattezza, omogeneità e pienezza di cavata,imprescindibili ad un coro degno di questo nome. Le voci suonavano fibrose, stimbracchiate ed ingolate un po' in tutti i reparti.
Sul libretto, peraltro, è scritto che questo composto da pastori e pastorelle, ed i versi recitano "ai nostri riedasi lavori usati.........così a' sudori del buon pastore". In scena, al contrario,v’era gente vestita come ad un ricevimento di gala, con tanto di coppe di spumante in mano! Mi spiace ma gradirei che ci fosse una coerenza fra quello che è il libretto e quello che viene allestito in scena, altrimenti non ha senso. "Già un raggio forier" è per me una delle più belle pagine non solo di quest'opera ma di tutta la storia dell'opera in generale. A causa di questa compagine e dell'inerzia di Roberto Abbado, il brano è passato via inosservato, come si fosse trattato di una lagna qualunque.

Mi chiedo se qualcuno abbia mai detto a Joyce Di Donato che il belcanto è basato sulla soavità dell'emissione e sull'omogeneità della voce. Sin dalla cavatina di ingresso, "Oh mattutini albori", la voce era già spoggiata e vuota, sintomo di una disorganizzazione vocale che è andata sempre più accentuandosi nel corso della serata. Il registro grave è senza sostegno, grottescamente pompato e pochissimo sonoro, quindi senza autentica proiezione: quando non si è dotati in natura si deve supplire con la tecnica per proiettare la voce; diversamente occorre essere dei superdotati, come la signora Barcellona.
Anche nel centro la voce della signora Di Donato suona vuota, aspramente rimasticata in bocca. La dote vocale emerge nelle salite all'acuto,ma piena voce, perché questo è il registro naturale del soprano lirico e non del mezzosoprano acuto, quale la Di Donato è. Purtroppo la Signora ha la brutta abitudine di ghermire i suoni, risultando così isterica e inutilmente aggressiva, tanto che il fraseggio e la linea di canto perdono le due caratteristiche fondamentali del personaggio, nobiltà e la dolcezza. Ne risulta una Elena becera, volgare, affetta da concitazione esteriore nei momenti più drammatici, lagnosa in quelli più elegiaci, tutta mossette e ammiccamenti. Dopo avere udito tali suonacci da parte della protagonista sentire Uberto commentare "di quegli accenti il dolce suon" viene solo da ridere. Gli acuti, inoltre, sono stati quasi sempre crescenti e fissi, come fisse sono state le rare messe di voce. Le agilità di grazia erano rimasticate in bocca, nè nitide nè precise, una sorta di tartagliamento inintelleggibile; quelle di forza, per utilizzare un termine caro al Mancini, sgallinacciate, sia per l’abuso del colpo di glottide che per via del suo modi di ghermire i suoni in modo sgraziato. Così il personaggio è stato così tradito e sfasato, il canto rossiniano travisato nelle sue caratteristiche più fondamentali. Per completezza di cronaca, Joyce Di Donato ha toccato il fondo nel rondò finale : le variazioni sono state una vera e propria riscrittura della melodia rossiniana, da lei infarcita senza gusto di trilli, peraltro pasticciati nell'esecuzione e aspri nel suono, con picchettati flautati fuori stile. Fossero almeno stati il vero flautato ( che aveva ad esempio una June Anderson o una Aliberti )! Si è trattato invece di suoni ora sbiancati ora smunti, completamente inadatti al canto rossiniano.

La signora Daniela Barcellona può, all’ingresso in scena, destare una certa impressione ed illudere un pubblico sprovveduto, dall'orecchio poco purgato e poco avvezzo al canto autentico, perchè la dote è alquanto cospicua. Non appena comincia a cantare davvero i nodi vengono al pettine: l'aria d'entrata è stata pesante, con un legato molto approssimativo, percorsa da un affanno inutile, non so se causato da una cattiva respirazione o da una concezione interpretativa precisa, mirata ad esprimere l'affanno del personaggio. Il che sarebbe una trovata fuori posto, perchè espediente di stampo naturalista, ed il naturalismo, si sa, con Rossini c'entra ben poco. Nell'interpretazione della signora Barcellona non sono poi emersi nè la nobile fierezza d'animo nè l'eroismo di Malcolm, complice un modo di stare in scena molto goffo e impacciato che la linea di canto troppo affannosa e scomposta.
Gli acuti sono suonati tutti fibrosi e duri nella sala, quello nella ripresa della cabaletta della seconda aria un vero urlo. Il registro grave connotato da gutturalità continue, mentre il centro è parso più compatto ma comunque incravattato, con agilità pesanti e meccaniche. Nelle cabalette, in particolare nelle sezioni variate, quando l'agilità si fa più fitta e minuta, ha fatto ricorso alle aspirate: al canto di gola si è aggiunta l’aria fra una nota e l'altra, con un effetto di meccanicità a tratti addirittura esilarante, non consoni ad una professionista del suo livello. A mio modo di sentire, questo Malcolm non è stato poi di molto superiore a quello dell'Arsace di Barbara di Castri, della famigerata Semiramide al Théâtre des Champs-Elysées qualche annetto fa'.

Simon Orfila ha cantato con una voce compatta e omogenea, ma di una omogeneità dovuta al fatto che tutte le note sono state emesse con un solo ed unico registro, quello di stomaco: dopo quella del muggito eccoci giunti alla scuola del vomito, mai sentita voce tanto dura e aspra! Di legato poi non se ne è parlato per nulla; zero sfumature; tutto ugualmente sbraitato in modo sforzato e meccanico, tanto che il ruolo di Douglas si è trasformato in quello di un basso sgangherato e parlante. Una interpretazione inesistente, perché mancando il canto viene di conseguenza a mancare il personaggio, fatto assai normale dato che il personaggio in Rossini sempre si realizza attraverso il canto. Scenicamente, poi, era sgraziato come se fosse stato preoccupato solo dalla sua vociferazione.

Colin Lee potrebbe anche dare l'impressione di essere un baritenore, ma è una voce emessa a casaccio. Ha improvvisato ogni tre note un metodo di emissione diversa e tutti l'uno più strampalato dell'altro. Così procedendo ha alternato suoni ora opachi ora legnosi, gli estremi acuti aspri e strozzati, le agilità ora aspirate o a colpo di glottide. Quando ha cercato di cantare frasi a mezzavoce, non avendone la tecnica, ha ottenuto solo di mandare la voce indietro, stimbrando paurosamente il suono. Un Rodrigo esageratamente grezzo ed aggressivo, perché l'aggressività risiede nella scrittura vocale, tutta di forza e di sbalzo. Scrittura che occorreva realizzare in modo esemplare, come sapeva fare Chris Merritt, mentre in questo modo Colin Lee ne ha finito, travisando il canto, per realizzarne la caricatura, tutta fondata sulla concitazione.

Juan Diego Florez è stato l'unico della serata a dar prova di un canto, almeno nei grandi parametri, professionale. Certo, per tipologia vocale, è una voce adatta a Lindoro e non al Rossini serio, per il quale occorre una voce più nutrita nei centri, maggiore ampiezza di cavata, più estro interpretativo. Nel signor Florez si percepisce l’assenza di colori, perchè non ha la vera mezza voce; però, almeno lui, non ha cercato di eseguirla stimbrando il suono o strozzandosi. Come al suo solito si è giovato solo di variazioni di intensità, che forse alla fine lo rendono piuttosto monotono, ma almeno non ha emesso suoni brutti. Nelle variazioni e nell'ornamentazione non ha mai usato il trillo, come d'altronde la Barcellona, e questo semplicemente perchè ne l'uno ne l'altra non lo sanno eseguire, mancanza grave da parte di cantanti incensati e dichiarati dal pubblico orecchiante e dalla critica odierna come "rossiniani".
Gli estremi acuti a piena voce di Florez sono suonati timbrati e squillanti ma anche alquanto tesi,mai completamente liberi da sforzo, fatto rilevabile anche scenicamente: il tenore stava in scena tutto teso in avanti, senza la naturalezza e la spontaneità della recitazione scenica e, soprattutto, del canto facile a corpo rilassato. Ciò nonostante il suono non è mai stato veramente sforzato. Il signor Florez, infatti, non canta aperto, non è ingolato, ma non ha nemmeno quella rotondità di suono che deriva dell'immascheramento perfetto. Se questo fosse migliore la sua voce se ne gioverebbe in smalto ed in incisività,e potrebbe conferire al suo fraseggio maggiore autorevolezza. Il suo Giacomo V, infatti, sconta il limite tecnico laddove stenta ad essere credibile nei momenti più concitati come la sfida, dove era davvero alla frusta. Florez ha saputo convincere solo nei momenti dolenti e amorosi, cioè nei duetti con Elena e nell'aria "O fiamma soave".
Comunque,in confronto ai suoi colleghi Florez ha cantato bene perchè ha cantato con buon legato, agilità ben eseguite, nitide e precise, con tutte le note distintamente percepibili ed al contempo legate l'una all'altra (come si suol dire "sul fiato"). Non direi però che abbia rivelato "gli accenti nascosti" del personaggio, conferendo a Giacomo V i colori di un Blake, artefice di una girandola di sfumature realmente espressive.
Di Florez colpisce sempre l'agitarsi con moto ondulatorio del corpo durante la vocalizzazione, soprattutto quelle di forza. E’ certo che il suo canto di agilità sia servito da pietra di paragone per quelle degli altri, gettando su di loro un ombra. In poche parole è sempre la solita storia : Florez sembra un fuoriclasse del canto solo se paragonato al livello generale di cui oggi siamo vittime. Passa per un fuoriclasse solo per mancanza di una vera ed autentica concorrenza.
Semolino





Gli ascolti

Rossini - La donna del lago

Atto II

O fiamma soave - Chris Merritt (1985), Rockwell Blake (1986)

Alla ragion, deh rieda - Lella Cuberli, Rockwell Blake & Chris Merritt (1986)

Tanti affetti - Angeles Gulin (1974), Lucia Aliberti (1990)


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lunedì 21 giugno 2010

Edgar al Comunale di Bologna

Venerdì nel teatro felsineo ha debuttato l'ultimo titolo prima della pausa estiva: Edgar, seconda opera di Puccini, scelta invero poco consona a un weekend di tarda primavera, sia pur umido e uggioso.

Il titolo è stato proposto non nella versione definitiva, in tre atti, ma in quella originale, in quattro, seguendo un malinteso spirito “ultrafilologico” che persino il festival, istituzionalmente preposto alla valorizzazione del catalogo pucciniano, non aveva ritenuto di onorare al momento di allestire l’opera in questione.
Il teatro era semideserto, con molti posti vuoti in platea, consistenti “forni” nei palchi (e questo malgrado la svendita dei biglietti relativi, operata tramite la pagina Facebook del teatro) e un loggione in cui gli sparuti spettatori non arrivavano neppure a colmare la prima fila di posti. Ulteriori defezioni si sono avute in occasione dei due intervalli.
La serata, per la cronaca, si è conclusa a mezzanotte passata, anche perché, prima dell’inizio dell’opera, è stato proiettato un video, realizzato dai lavoratori del Teatro, e volto a sensibilizzare il pubblico sul tema dei tagli allo spettacolo. Sensibilizzazione che è proseguita con l’annuncio di uno sciopero bianco in ragione del quale alcuni artisti di orchestra e coro avrebbero devoluto parte dei loro compensi in beneficenza.
L’iniziativa è senz’altro nobile e meritoria, ma come nel caso della Carmen, a questi annunci dovrebbe seguire uno spettacolo meno zoppicante rispetto a quanto proposto l’altra sera.

L’opera, diciamolo subito, non è un capolavoro: patisce un libretto a dir sconsolante, ma anche il trattamento musicale presenta più di una battuta d’arresto, con svariate lungaggini soprattutto nel secondo e quarto atto. E non per caso proprio su questi si incentrarono le modifiche apportate dall’autore nelle due revisioni successive. Puccini ha ben presente la lezione dell’opera francese e costruisce grandi quadri in cui i numeri chiusi, romanza, duetto o concertato che siano, si succedono senza soluzione di continuità. Con i lunghi passaggi di declamato sugli infelici versi di Ferdinando Fontana, l’autore sembra predisporre le prove generali del canto di conversazione che tanta parte avrà nelle opere successive, e anche la scrittura orchestrale (specie nei preludi al terzo e quarto atto) fornisce ampi saggi del valore del musicista come strumentatore. Il trattamento delle voci, invece, non è sempre felicissimo e sembra, in alcuni punti, al limite delle possibilità umane. Ma questo brillante risultato è in buona parte da ascrivere al plateau riunito per l’occasione.

La parte del protagonista, che ebbe fra i primi interpreti Francesco Tamagno (a Madrid) e Giovanni Zenatello (al Colón di Buenos Aires), trova in José Cura un interprete ridotto ai minimi termini. E non parliamo certo della tecnica, che mai è stata all’altezza del repertorio e dei titoli affrontati, ma proprio dello strumento, che suona opaco, larvale in basso, privo di spessore al centro, fibroso e gridacchiato in acuto. Ogni tentativo di cantare piano e di dare senso alle frasi, soprattutto se in zona centro-acuta, fa sì che la voce vada indietro, con abbondante messe di suoni spoggiati e bianchicci, non di rado stonacchiati (soprattutto nel monologo del secondo atto). In queste condizioni la decenza consiglierebbe il ritiro dalle scene e la prosecuzione della carriera musicale, se del caso, in altri ambiti, ad esempio quello della direzione d’orchestra, in cui l’argentino ha offerto, proprio in Bologna e nel repertorio pucciniano, una prova ben più brillante rispetto a quest’ultimo deludente cimento.

Nei panni di Fedelia Patrizia Orciani, subentrata in corsa alla dileguata Svetla Vassileva, ha esibito i resti di una gradevole voce di soprano leggero, eseguendo scolasticamente il primo atto (sia pure con uno strumento che non ha, specie in prima ottava, l’ampiezza e la capacità di penetrazione richiesta dallo spessore dell’orchestra pucciniana: nel finale primo, in cui il soprano deve “tirare” il concertato, era difficile accorgersi della sua presenza) e soccombendo nel terzo e nel quarto, per l’incapacità di legare al centro e per la tendenza a stonare nella zona del passaggio superiore. Gli acuti, poi, sebbene più ampi rispetto al resto della gamma, erano suoni tutt’altro che piacevoli a udirsi. Clamorosa l’improntitudine del “fan” che ha azzardato uno stentoreo “Brava!” dopo l’imbarazzante esecuzione dell’aria del terzo atto, aria che proponiamo, per ogni opportuno confronto e riflessione, affidata alla voce, e più ancora all’eloquenza, di Raina Kabaivanska.

Tigrana, parte creata alla prima scaligera da Romilda Pantaleoni (prima Desdemona) e poi di fatto condominio di mezzosoprani (Giuseppina Pasqua, a Madrid) e soprani drammatici (Giannina Russ, al Colón), era affidata a Giuseppina Piunti. La signorina Piunti si era esibita a Bologna un paio di stagioni fa, quale Adalgisa. Ci era parsa un soprano lirico di buona voce, ma con molte cose da sistemare in zona centro-acuta. Due anni dopo, i gravi permangono poco udibili (canzone al primo atto) e l’ascesa all’acuto assai impervia (brindisi al secondo, pagina ostica anche in ragione di un minimo di coloratura previsto in spartito). Persino il timbro è drasticamente impoverito rispetto a quanto ricordassimo. La voce è un po’ più sonora nella romanza del terzo atto, ma a prezzo di una notevole fatica nelle grandi frasi legate in zona centrale. Ottima la presenza scenica.

Frank era Marco Vratogna. La parte, meramente decorativa e vocalmente non certo proibitiva (il che non scoraggiò l'approccio di alcuni dei più forbiti baritoni fra Otto e Novecento, capitanati da Antonio Magini-Coletti e Mario Ancona), gli ha consentito di figurare un poco meglio rispetto ad altre occasioni. Il canto, nella romanza al primo atto, è quello di sempre, fibroso e di scarsa qualità nel legato.

Discreta la prova di orchestra e coro, mentre la direzione di Mario De Rose ha trovato i suoi momenti più felici nelle pagine di carattere idilliaco del primo e quarto atto, risultando invece greve e bandistica tanto nel furore orgiastico del secondo quanto nella solennità funerea del terzo. Qualche lieve sfasamento fra buca e palco negli attacchi del coro fuori scena, ma anche a questo siamo ormai avvezzi.

La regia di Lorenzo Mariani, che spostava l’azione dalle Fiandre trecentesche a una sorta di campagna padana risorgimentale (con tanto di corazzieri e bandiere di casa Savoia), era piatta e decorativa al punto da far rimpiangere una bella esecuzione in forma di concerto, che nulla avrebbe sottratto ai meriti della partitura e avrebbe comportato un discreto risparmio per le casse, già molto provate, del Teatro.


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sabato 19 giugno 2010

600.000 contatti! Philine a 78 giri.

Torniamo all’antico per festeggiare i vostri 600.000 ingressi, gli ultimi 100.000 addirittura in tre mesi !!
Completiamo gli ascolti delle nostre Titanie con un gruppetto di grandissime dame della storia dell’opera, scatenate esecutrici di staccati, trilli e sestine. Una vera Scuola dell’Opera.


La guerra del canto mordente ha luogo tra le voci leggere di Maria Barrientos, Toti dal Monte, Amelita Galli Curci, Luisa Tetrazzini e Josephine Antoine e quelle più piene e liriche di scuola tedesca di Margarethe Siems, Irene Abendroth e Frieda Hempel.
Quanto ci divertono ed insegnano queste signore!

Nei cosiddetti leggeri è difficile scegliere tra la Barrientos e la Galli Curci, la prima perfettamente incisiva con una voce mordente, ma sempre cristallina, grande esecutrice di ribattiture e di una sontuosa cadenza; la seconda cede qualcosa al mordente per un languore che la distingue da tutti i coloratura del suo tempo ( e che tanto affascinò la Sutherland ) ed una leggerezza straordinaria nell’esecuzione dei picchettati finali. Poi la Tetrazzini, in una incisione con orchestra, esecutrice di una difficile puntatura alla chiusa prima della cadenza: canta bene anche se sconta l’assenza di un registro grave di qualità ( difficili soprattutto i suoni sul mi in primo rigo ). Il registro acuto è strepitoso, canta con raro slancio e la voce ha grande corpo. In coda la Toti, piuttosto meccanica e meno perfetta, per via dell’esecuzione di certi portamenti nelle salite all’acuto, le agilità piuttosto aspirate, il ricorso continuo agli staccati, spesso con eccesso di pause, ed incapacità di eseguire i trilli.

Strepitose le tedesche, macchine da canto fatte in serie come… i cannoni! Tutte e tre miti di Dame Joan Sutherland , come già la Galli Curci, e non a caso.
Margarethe Siems, che fu anche grande Norma ed Isotta del suo tempo, è assolutamente strepitosa. Un mezzo vocale sontuoso ed omogeneo, piegato in ogni modo e forma possibile, dalle messe di voce trillate agli staccati, unite a grande musicalità e personalità. Per noi ancora modernissima, sfida il tempo e il mutare del gusto.
Irene Abendroth canta con una voce bellissima e piena. Gli acuti, purtroppo, sono fissi, spesso attaccati in piano, difficili per noi: ricorda la Schumann-Heink nel modo di emetterli. In compenso esegue perfettamente la coloratura, con continui cambi di velocità, un megatrillo finale che introduce ad una monumentale cadenza finale che vale da sola tutto il pezzo.
Frieda Hempel, anche lei lirico di coloratura dal timbro bello e pieno. Il gusto è modernissimo, salvo in cadenza, dove suona piuttosto datata per noi. Il canto acrobatico è facilissimo, e si permette anche di non coprire tantissimo il centro, le A in particolare, come altre del suo tempo: il sostegno della voce è tale da consentirle anche questo tipo di emissione.

Josephine Antoine è una curiosità, perché è il primo live dell’aria. Canta con il centro molto aperto, le E le I non sono per niente belle, evidentemente scoperte. La voce suona, però, grande e squillante; ha un certo mordente ma in più punti "sgallina" apertamente le agilità. Un documento d’epoca, del gusto Pons style, tanto per intenderci.
Buon divertimento!


Gli ascolti

Thomas - Mignon


Atto II

Oui, pour ce soir je suis Reine des fées...Je suis Titania la blonde

1902 - Irene Abendroth

1905 - María Barrientos

1908 - Luisa Tetrazzini

1908 - Margarethe Siems

1909 - Frieda Hempel

1919 - Amelita Galli Curci

1929 - Toti dal Monte

1937 - Josephine Antoine

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Faust alla Scala di Milano

Altra serata inFAUSTa alla Scala di Milano: continuiamo a discendere una china, apparentemente senza fondo. Nel calendario lirico ambrosiano giugno è diventato il mese dell’orrore: l’anno passato l’Aida di Baremboim, quest’anno il Faust. Per l’anno prossimo Attila già bene apparecchiato per stare in linea con questi due spettacoli.
Il cast era scadente sulla carta, lo si sapeva: però il signor Nekrosius ha pensato bene di collocare gli interpreti in uno spettacolo fallimentare, e così tutto è stato assolutamente perfetto per dar luogo alle ire del pubblico.
Solo Irina Lungu è andata controcorrente, dispensando un po’ di canto, pertinenza interpretativa e grazia scenica, che le sono valsi i soli consensi unanimi di una serata disastrosa, noiosa, soprattutto e protrattasi sino a tarda ora.
Mandare in scena il Faust senza Faust e Mefistofele è impresa straordinaria per un grande teatro di nome, una vera rarità!

In primo luogo, l’allestimento. Nekrosius ha realizzato uno spettacolo che ad onta di qualche buon momento poetico, nel prologo e nel primo atto in particolare, mi sembra gli sia sfuggito presto dalle mani, vuoi per la lunghezza, vuoi per l’assenza di idee veramente originali. Il suo Medioevo di sapore nordico si è lentamente trasformato in un minestrone incontrollato ed insensato di citazioni, contaminazioni cinematografiche e pittoriche smaccate, gags dejà vùe e simboli, alcuni davvero incomprensibili, che non hanno portato alla costruzione di alcun clima, di alcuna atmosfera consona al gotico romanticismo di Gounod, perché sia ben chiaro in scena andava questo Faust e non quello Goethe, con buona pace di chi oggi dalle pagine del massimo quotidiano milanese ha, per difesa d’ufficio proposto tale assunto. Il regista si è molto concentrato sulle controscene delle comparse, angeli, creature mostruose alla Bosch, saltimbanchi, personaggi incappucciati in nero alla “Settimo sigillo” di Bergmann o alla “Nosferatu” di Kinsky. Ha, però, dimenticato quasi del tutto i movimenti delle masse e, soprattutto, privato di ogni poesia ed intensità espressiva la recitazione dei protagonisti, i due amanti in particolare. Il grottesco ed il surreale hanno caratterizzato, nei movimenti come nei costumi, tutti i protagonisti, Siebel incluso, addirittura zoppo; Faust ridotto ad un personaggio un po’ ridicolo, nel suo costume surreale tipo pigiama americano ; una Margherita anche lei prima surreale e stupida poi un po’ troppo contadina dell’Est; un Mefistofele sempre alle prese con un’asta da atletica, simbolo esagerato e poco convincente di un potere demoniaco che di demoniaco alla fine aveva ben poco, parecchio, invece, di ridicolo, tanto da assimilarlo al dottor Dulcamara, complice la recitazione e la mimica di Roberto Scandiuzzi. Alcuni momenti scenografici belli, come le carpenterie, lignee che organizzano spazi prospettici profondi e suggestivi, lungo cui si muove l’azione, i mille libri aperti a terra al prologo, simbolo del sapere di Faust, potevano anche ben funzionare se non ci fosse stata tutta quella luce “en plein air” che toglieva ogni atmosfera all’azione. Irritante, invece, l’ambientazione domestica del quartetto e del grande duetto d’amore, con tanto di tappeti, attaccapanni, divanetto nero quasi pop e grandi vasi-lanterne surreali (?) lungo il letto d’amore, molto cataletto: ambientazione senza atmosfera, né pathos, che non si significava proprio un bel nulla di nulla. Al pari del frammento del Walpurgis, con quella carrozzetta bianca, che ricorda i servizi delle case di ringhiera milanesi da cui scendono i due protagonisti maschili, e una senescente Margherita su una specie di letto di morte sul fondo, circondata da pie donne che danno gli ultimi ritocchi alla salma appena composta. Una vera antologia di scemenze senza né capo né coda, né significato. Se Nekrosius non si fosse perso per strada, con una riorganizzazione razionale e ponderata delle sue citazioni e banalità forse anche avrebbe sortito qualcosa di meglio. Di fatto è bastata l’apparizione delle comparse al finale per far crollare il teatro dalle urla e dai fischi della gente, tanto che il regista ed i suoi non sono nemmeno usciti alla fine. In difetto di coraggio del proprio operato si dovrebbe anche rinunciare al lauto cachet!
Spettacoli come questo sono un inno ai tagli allo spettacolo, li giustificano, anzi, li rendono bene accetti. E’ anni che si sprecano i denari pubblici per assecondare follie ed assurdità registiche di ogni genere, spettacoli che finiscono presto al macero, senza lasciare ricordo di sé in nessuno del pubblico. Produzioni che dovrebbero essere fermati al momento della realizzazione delle maquettes o dei bozzetti dalle direzioni artistiche.
E’ ora di cambiare. Se non abbiamo nulla di nuovo e di sensato da dire, proseguiamo col vecchio esistente e collaudato. Diversamente, cerchiamo altre modalità dal concorso di idee, all’istituzione di formule contrattuali nuove per i registi, ad esempio vincolando la realizzazione in teatro, dopo la scrittura del regista e dello scenografo, alla presentazioni di simulazioni multimediali o simili. Aggiungo anche, al di fuori dello specifico caso di questo Faust, che è ora di togliere ai registi ogni potere di veto o clausola di gradimento sui cantanti. Ai registi deve essere tolta la moderna dittatura nella concezione degli allestimenti, perché è categoria professionale ormai inadatta ed incapace di gestire l’opera lirica, anzi .
Il tempo degli Strehler, dei Ronconi, dei Visconti, dei grandi uomini di teatro e cultura teatrale, lirica e non, è finito: non c’è più alcun upgrade, nessuna apporto di nuovo al teatro lirico da parte di questa categoria professionale, al più siamo di fronte al dejà vùe, come abbiamo ben visto con le ultime prove di Cheréau. Dunque, il teatro di regia deve diventare ciò che può realisticamente essere oggi come oggi: un caso eccezionale,un evento raro, che può aver luogo solo al cospetto di personalità particolarmente spiccate e capaci. Diversamente, si torni ad una razionalità almeno economica delle produzioni.

Il cast.
Con un cast cosi’ non si va lontani, si canta poco e male, per giunta con uno stile a dir poco discutibile.
Dal maestro Devine abbiamo avuto una buona concertazione e buoni accompagnamenti al canto, ma non certo una prova indimenticabile. Ha accompagnato abbastanza bene i cantanti, senza certe assurdità o idee campate per aria di certe bacchette di oggi, ma non ha nemmeno brillato per personalità. Sono mancati i colori forti dell’opera, ad esempio il clima misterioso e medioevale del prologo nello studio di Faust, come quello infernale della tragica scena della chiesa, o della scena popolaresca e marziale della soldataglia del IV atto. Ha saputo accompagnare le arie ( male il terzetto del IV atto tra Faust, Valentin e Mefistofele, invece, pesante e senza tensione drammatica ) ma mettendoci poco di suo: un po’ più di vigore orchestrale nel “Le veau d’or” di Mefistofele, ad esempio, o di intensità nell’”Il ne revient pas” di Margherita ( troppo lento per la Lungu ) come un po’ di brio nel valzer di Margherita non avrebbero guastato. C’era tutto, ma niente di specialmente emozionante o coinvolgente, in un’opera ricchissima di suggestioni, atmosfere, colori e climi diversi. Più volte invece ha pestato, e forte, soprattutto negli ensemble, come nella scena con Mefistofele Valentin e coro che segue il “Le veau d’or”, il valzer in chiusa del I atto. Di qui la bella sbuacchiata ad inizio V atto ed alla singola.
Sempre bravi coro ed orchestra, in sciopero col “vestiaire” per le note vicende dei tagli alla cultura. Una vera panzana giornalistica quella della contestazione al coro da parte del pubblico,come riportato da Corsera e Repubblica di oggi.

Il Faust di Marcello Giordani, contestato sonoramente alle singole e destinatario di un applauso men che di cortesia alla grande aria, è stato un’antologia di malcanto ed inadeguatezza stilistica.
Il signor Giordani pratica da anni anche il repertorio del belcanto, cimentandosi in ruoli monstre come Gualtiero del Pirata di Bellini, con una improprietà stilistica e tecnica davvero rare ed anacronistiche per l’era post belcanto renaissance. Grida, spinge, non lega, forza ogni suono con spavalderia ed arroganza vocale, grazie ad una dote eccellente ma brada, ed un gusto spesso estraneo al canto lirico di ogni epoca e scuola. Si finisce per rimpiangere non dico la grossolanità del belcanto praticato dai supereroi alla Corelli, ma addirittura quella dei Bonisolli.
Oggi le stagioni alle spalle del signor Giordani sono diventate molte, la carriera è lunga, e di spavalderia vocale manco se ne parla. La voce è diseguale, tubata, spesso rotta nel legato, spinta nelle salite all’acuto, insomma, un repertorio di problemi ed acciacchi dell’età che confliggono profondamente con i requisiti tecnici e stilistici della parte. Requisiti a cui la bacchetta non mi pare lo abbia minimamente richiamato, rammentandogli che il canto di Faust è ancora legato alla vocalità arcaica del tenore da Grand Opéra, con acuti da eseguire in falsettone e comunque con precisione e buon gusto. Nel caso di Faust il canto è, pur di scrittura centrale, caratterizzato da sfumature, emissione stilizzata, fraseggio ricco e variegato, nuances, insomma, tutto quello che il signor Giordani non ci ha fatto sentire. In un teatro a direzione artistica francese, si affida il titolo must dell’opera francese ad una bacchetta francese, e ci si ritrova davanti a questa esecuzione vocale stravolgente. Il che non è possibile. I momenti bui di questo Faust sono stati parecchi, a cominciare dalla sortita, dove ha mostrato, per via di gravità di tessitura, difficoltà a legare, suoni aperti al centro, sulla “E” in particolare, e nasalità ricorrenti; le frasi in cui si rivolge a Margherita al I atto, dopo la prima sezione del valzer, tutte con la voce indietro ed afonoide; la grande aria del II atto, dove si sono sentiti cali di intonazione evidenti dalla seconda frase, suoni tubati o indietro, acciacchi vari come sulle ripetizioni di “Que de richesse en cette pauvretè”, sino all’indescrivibile do della “presence”, che non ho capito davvero in che modo lo abbia eseguito ( un suono che pareva più un ronzìo stando in loggione..) ; i falsetti dell’incipit al duetto d’amore, “le grattate” su “eternelle..”, l’attacco indietrissimo di “ Divine pureté”..Il V atto è stato di certo la cosa migliore.

Il Mefistofele di Scandiuzzi è stato fortemente contestato dal pubblico per manifesta inferiorità vocale alla parte. Lo sentii a Roma nel 2003: era già provato vocalmente, sebbene bravo in scena. La Scala lo ha scritturato forse prima più di sette anni fa da non sapere le sue condizioni vocali ?
E’ stata prova di resistenza durissima per noi reggere le sue continue stonature, tubature, gutturalità assortite, in un canto senza legato, senza possibilità di fraseggio vero. Non mi piacciono i bassi che cantano alla Scandiuzzi, con la voce molto peciosa, bassa di posizione ed ingolata: amo quelli che cantano senza scurire artificiosamente, con emissioni “libere”, alte e morbide…..insomma, quello che non esiste più da decenni. Però questo cantante in forma era ben altra cosa da ieri sera.
Non gli bastano più la mimica scenica, il mestiere, il mettere cerotti qua e là in una organizzazione vocale tanto compromessa. Siamo oltre ogni limite .
La sua serata si stigmatizza ne “Le veau d’or”, passato sotto un silenzio di ghiaccio. I suoni fissi e calanti sono iniziati al prologo con Faust ( la direzione della scena a due era tra l’altro troppo lenta per i cantanti, ed i difetti suonavano molto amplificati..) e proseguiti all’aria del I atto, eseguita con la voce tutta sorda e “chiusa”e le stonature molto evidenti; nulla di diverso alla scena della chiesa a all’aria del IV atto ed al successivo terzetto. Non ha mai potuto nemmeno dispiegare l’antica ampiezza del suo mezzo, forse per i rischi che la scrittura piuttosto acuta comporta per evitare suoni ballanti e mal fermi tanto è che non è nemmeno riuscito a conferire al personaggio la ieraticità ed il carattere demoniaco che gli sono peculiari. Un vero disastro, che non fa certo onore alla sua lunga carriera.

Valentin era Dalibor Janis, già noto per il Posa dell’ultimo Don Carlo. Non condivido i buu a lui rivolti, perché è cantante …corretto. Nel senso che cerca di non vociferare, non foss’altro perché non ha il mezzo per farlo. Stenta però ad imporsi anche in un mezzo ruolo come questo, per via di una voce che non corre, di scarsa sonorità e morchiosa, tutta retronasale, che deve spingere spesso non appena l’orchestrale si spessisce. Sia alla sortita che all’aria ha esibito un fraseggio piatto e monotono, senza nemmeno rifugiarsi nel timbro. Insomma, un cantante senza infamia ma senza vere qualità, che fa una bella carriera nel deserto di voci baritonali di oggi.

Male Nino Surguladze. Ma male davvero. Aveva fior di voce, oggi apparentemente scomparsa, inacidita ed indurita oltre misura. Che un mezzosoprano che ha rivestito i panni della Faraona nel Moise recentissimo di Salzburg con Riccardo Muti non sia in grado di cantare correttamente l’aria di Siebel, che è passo da studente di conservatorio e da debuttante, è vergognoso. Esemplifica lo stato della lirica odierna, il rapporto tra qualità oggettiva e livello delle carriere. Ieri sera la Surguladze ha mancato dei fondamentali del canto, mostrandosi incapace di legare i suoni centrali a quei due primi acuti che la parte richiede, e senza nemmeno mettere un po’ di musicalità o di qualità di fraseggio al brano. Non pareva nemmeno la voce sentita agli Arcimboldi più volte.

Della Marta di Sylvie Brunet dirò solo che ben meno di dieci anni fa cantava niente po’ po’ di meno che l’Africaine di Meyerbeer, ed oggi eccola qui, a fare la caratterista.

Da ultima la signorina Lungu. E’ certo che questa cantante da il meglio di sé a Milano ed il peggio in trasferta. Ieri sera ha ritrovato le qualità che ci erano piaciute a suo tempo, ossia la musicalità, la capacità di mettere il personaggio nella giusta ottica, di stare in scena con eleganza, di cercare di fraseggiare con garbo risparmiandoci maniera e volgarità che tante sue colleghe coetanee sono solite praticare per farsi notare in scena e fuori. Un più costante sostegno della voce le procurerebbe un suono più alto e, per conseguenza dolcezza e penetrazione che le garantirebbero spazio proprio quale Susanna, Zerlina, Violetta, Adina e certi ruoli dell’opera francese, perché ha il gusto adatto a questo genere di ruoli.
La mancanza di proiezione della voce resta il difetto più eclatante ( il vero limite nella costruzione di un repertorio ), unitamente a certi cali di intonazione, soprattutto sui primi acuti, soprattutto nell’esecuzione delle smorzature.
Superata la scena del Sire di Thulè, di scrittura molto grave ed in cui è stata carente di volume, ma aggraziata, la Lungu si è poi disimpegnata bene, a meno di alcune fissità e note calanti. Ha dovuto spingere nel terzetto finale, il momento di certo per lei più pesante e dove è stata davvero al limite, e su certi acuti, come i si nat della scena della chiesa. Però ha cantato bene quartetto e duetto d’amore, come pure ” Il ne revient pas”. Ha dato senso al proprio fraseggio, disegnando una Margherita composta e dolce. E il crudele pubblico della Scala l’ha applaudita. Paradosso della storia: la signorina Lungu ha un singolare feeeling col loggione scaligero.....da fare invidia a Daniel Barenboim!


Gli ascolti

Charles Gounod

Faust


Atto II

O sainte medaille...Avant de quitter ces lieux - Apollo Granforte

Le veau d'or - José Mardones (1910)

Atto III

Faites lui mes aveux - Eugenia Mantelli, Frederica Von Stade (1971)

Quel trouble inconnu...Salut, demeure chaste et pure - Giuseppe Di Stefano (1949), Franco Bonisolli (1971)

Il était un Roi de Thulé...Ah! Je ris de me voir si belle - Bidù Sayao, Anna Moffo (1964)

Il se fait tard...O nuit d'amour - Eugene Conley & Victoria de los Angeles (1953), Franco Bonisolli & Raina Kabaivanska (1971)

Atto IV

Elles ne sont plus là...Il ne revient pas - Gabriella Tucci (1966)

Seigneur, daignez permettre - Félia Litvinne (1902), Gabriella Tucci & Justino Diaz (1966)

Déposons les armes...Gloire immortelle - Thomas Beecham (1943)

Atto V

Va t'en...Mon coeur est pénétré d'epouvante...Alerte, alerte - John Alexander, Gabriella Tucci & Justino Diaz (1966)

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giovedì 17 giugno 2010

Le cronache di Barbara e Carlotta Marchisio - «Tu ne chanteras plus?»: “Les contes d’Hoffmann” a Parigi

Il cartellone è acqua passata. Con amarezza, ne prendiamo atto. Prevedere l’esito di una serata operistica magari partendo dal cast scritturato è roba d’altri tempi, parte di quella frequentazione attiva dei teatri che risiede oramai nella memoria di nostalgici loggionisti e sinceri appassionati. Ora, per farsene un’idea, bastano gli aneddoti sui discorsi e le frasi rubati nei foyer, in coda ai costosissimi bar, oppure, se si è fortunati, origliando il commento del vicino di posto, durevole vezzo di anziane e giovani signore. Questa volta, al fianco mio e di Barbara, un giovane spettatore chiede alla compagna «Qui va jouer, ce soir?». Lapidario quando innocente interrogativo che la dice lunga sulla predominanza, nel gusto collettivo e general-generalizzato, del coté scenico e interpretativo su quello esecutivo e tecnico, tendenza per altro accentuata quando vengono allestite opere come Les contes d’Hoffmann, che hanno nella stessa partitura una consustanziale dose di “teatro”. Peccato che nell’opera lirica, per quanto possa sembrare accessorio, si debba anche cantare. Ed è qui che l’asino casca. Giù giù, questa volta, laddove poche volte gli è stato dato arrivare…

Gli interpreti… trasversali.
Giuseppe Filianoti ha vestito i panni dello sventurato narratore e poeta romantico E.T.A. Hoffmann, ruolo che riprenderà in autunno anche al Met. La resa drammaturgica del personaggio funziona, complice forse la regia di Carsen, che riesce a non farsi prendere la mano scalfendo da una parte la facile lettura gigionesca e costruendo dall’altra una più interessante variazione amabilmente grottesca, benché ancor più tragicomica rispetto alla vulgata, dello sfaccettato protagonista. Ma se sul versante interpretativo il tenore calabrese riesce appunto a essere credibilissimo nel dosare slancio patetico e leggerezza cameratesca (lo stesso timbro, caldo, penetrante, giovanile, sarebbe paradigma dell’eroe romantico, se non…), il canto, o quel che dovrebbe ancora definirsi tale, è una sequela di berci e suoni buttati lì, quasi fossimo finite a Zola Pedrosa, in piazza mercato, per il teatro dei pupi in espatrio padano.
Già dalla “Chanson de Kleinzach” percepiamo una sorta di declamato spinto che tradisce una preoccupante mancanza di legato in ogni zona del pentagramma. Gira bene, sebbene un po’ fibroso, negli acuti che toccano il la4 sulla corona in corrispondenza di «voilà!» - qualcosa che ci è parso strizzare l’occhio a certo “spirito” avvenente di impronta dominghiana – ma se aggiungiamo un portamento ascendente tiratissimo e l’assenza di sostegno, l’impressione rimane quella di una tecnica talmente brada da lasciare di sasso. Poco cambia nell’intermezzo amoroso, dalla tessitura più spianata. L’accento arroventato, nel tentativo di dare senso ai versi, come detto poco sopra, ben si addice ai moti del cuore del poeta appassionato, ma i problemi a legare i suoni e le rispettive difficoltà di modulazione si accentuano, mentre si fa chimera la speranza di sentire un suono immascherato come dio comanda. Tutti rilievi che, considerato il livello della performance, diventano purtroppo facilmente applicabili in toto al prosieguo della serata. Il peggiore in campo.

Le quattro declinazioni del male, che si incarnano rispettivamente in Lindorf, nelle due parti extratestuali della vicenda, in Coppélius, nel Dottor Miracle e in Dapertutto nei racconti successivi, sono state affidate a Franck Ferrari che, al di là delle evidentissime mende tecniche, si è distinto per la totale inerzia di sfumature interpretative, monocorde nella varietà dei ruoli tanto da far pensare più a un’unica, metafisica presenza demoniaca che a personaggi ben delineati e dalle molteplici potenzialità teatrali. E sarebbe un errore considerare tale mancanza come la conseguenza diretta di un carente senso scenico, perché come sappiamo alla base della povertà di fraseggio sta sempre un deficit tecnico, principale responsabile di tanta noia che serpeggia in buona parte delle serate operistiche cui si presenzia. Valga d’esempio l’aria del prologo, “Dans le rôle d’amoureux”, che dovrebbe introdurre il carattere malefico del consigliere Lindorf, segretamente innamorato della cantante Stella. Ferrari si esprime con foga ma senza peso vocale, le poche salite all’acuto sono tutte “indietro” (soffocatissimo il mi3 su «peur!»), mentre già in zona centro-acuta l’emissione si slabbra e ne vengono fuori suonacci tutti stimbrati. Nulla di nuovo nella ripresa: ancora tanta gola e un vibratino poco elegante e fuori tono rispetto all’austerità del momento. Infine, è pura prosa il “Voilà messieurs, voilà!” che inframmezza il coro degli studenti, ben propensi a baldorie inebrianti dai risvolti bacchici.
Salvo gli acuti, sempre impiccati, vien fuori meglio come Coppélius nel primo atto (“Je me nomme Coppélius”), laddove la scrittura vocale più incalzante gli permette di nascondere con garbo le magagne riguardo l’appoggio della voce e l’assoluta mancanza di legato. Il volume poi è sempre quello (limitato), ma sfideremmo chiunque a produrre suoni risonanti, in special modo in alto, quando il canto s’azzoppa in gola e muore in bocca.
Nel secondo atto Ferrari è un Dr. Miracle ancora ripetitivo, ancora senza ombra di colori, ancora lupesco in acuto. Il centro è a fuoco e rappresenta l’unica zona della tessitura baritonale con un buon tonnellaggio vocale. Però ogni frase viene lasciata orfana di idee, di qualsivoglia personale arabesco, come nell’assolo “Tu ne chanteras plus?”, indimenticabile, seppur breve, momento di autentico tedio.
Stessa solfa il suo Dapertutto nel terzo atto. Da segnalare il ruggito da annali al termine di “Scintille, diamant” sul sol3 in variante di mi3 in corrispondenza di «attire-LA!», con prevedibile forcella spianata.

La Musa e (quindi) il fido amico Nicklausse convergono nel canto della giovane Ekaterina Gubanova, che funziona molto bene nei momenti d’accompagnamento, per esempio in apertura di primo atto, quando suggerisce a Hoffmann di approfondire la conoscenza dell’inorganica pretendente. Ma già nel breve pezzo solista successivo “Voyez-là sous son éventail” inizia a tradire un’evidentissima leggerezza in volume (poco eleganti anche un paio d’attacchi duri e vetrosi).
Nel secondo atto, l’inno all’amore scivola via senza particolari vette, sia positive che negative. C’è il giusto abbandono, si percepisce l’intenzione di porgere con senno la parola e, ancora, di variare il fraseggio in consonanza al contesto. I gravi, in linea con un volume certamente non torrenziale, ci sono e non vengono mai soffocati o abbandonati al caso, attributi innegabili di un mezzosoprano a tutti gli effetti (per una volta, nessun soprano corto). E per tutto ciò siamo grate alla Gubanova. Rimane tuttavia la delusione per qualche acuto un po’ spinto, oltre che non privo di acidità («donne ton COEUR»), e per la perdita di corpo in corrispondenza del passaggio superiore («c’EST l’amour»).
In veste di Musa, nel prologo (“La vérité, dit-on”), ci sembra priva delle grandi arcate di fiato necessarie non solo nell’aria vera e propria ma anche nei recitativi d’entrata e di chiusura, in cui lancia pure un paio di acuti che non hanno altra parvenza se non quella di qualificati urli.

A Parigi...
Come Filianoti con Hoffmann, la stessa Laura Aikin vanta una considerevole frequentazione con il brevissimo ruolo della nota bambola meccanica. La forza scenica legata alla parte è notevole, tant’è che la coreografia di “Les oiseaux dans la charmille” (Olympia si muove con gesti meccanici maliziosi, impugnando un microfono), azzeccatissima nell’economia di senso dello spettacolo, ci ha strappato qualche risata. Un po’ meno l’esecuzione. La voce già non è splendida per natura, poi se a un trillo aggiungete una S come prefisso e se un la4 diventa un suono tutto tirato, quando non gridato, la frittata è fatta. I vocalizzi vengono eseguiti senza pulizia, alla bell’e meglio, sia per carenza di fiato sia per la presenza di troppa aria in bocca. E per non farci mancare nulla, guarniscono il tutto delle notevoli calate di intonazione davvero poco cordiali. Insomma, Lulu è una storia, Olympia un’altra. E tacciamo sul suo prossimo debutto a Montpellier come rossiniana regina di Babilonia…
Si staglia su tutti lo Spalanzani di Rodolphe Briand. Non solo perfetto nel delineare l’isteria del genio scientifico, ma anche bravo sia nel dosare il volume a fini espressivi che nella tenuta dell’emissione, addirittura sul fiato!

A Monaco…
Inva Mula, la vera delusione della serata, è la giovane tubercolotica Antonia. Al soprano albanese non mancano certo peso della parola e pregnanza d’interprete. Dimostra subito di avere l’inflessione giusta già nell’assolo di apertura (“Elle a fui, la tourterelle”), riuscendo a trasmettere quella mestizia d’amorosi sensi che il momento prevede. Peccato però che col canto non riesca a creare una seppur minima sinergia. Certo, se la prima frase viene eseguita senza un solido sostegno del fiato (fa4-do3-r4 stimbratissimi), la zona centro-grave in corrispondenza di «Hélas! A mes genoux» è corposa, e pure liquida è la salita al sol3 nell’immediata ripetizione di verso. Dopo il veloce scambio con Hoffmann, apoteosi del canto sgraziato (in alto) e tendente al parlato (in basso), ecco il duetto vero e proprio (“Tiens, ce doux chant d’amour”), il momento più triste della serata. Non c’è nulla nella perfomance dei due cantanti che rimandi, seppur da lontano, alla sospensione simbolista dei versi, niente che faccia pensare a una sorta di momento astratto che funga da rifugio ai due amanti: Filianoti al solito, ossia raschiamenti di gola, per altro di una violenza inaudita (arriverà sfiatato e logoro al termine della recita), la Mula pure, ossia fissità stemperate su tutto il pentagramma. Le innegabili difficoltà della tessitura (repentini slanci legati tra registro grave e medio-acuto) vengono risolti ancora una volta con orrendi suoni extramusicali, cioè stimbrati e spigolosi, spesso calanti d’intonazione e quindi provanti all’ascolto.
Inudibile il Frantz di Léonard Pezzino nel suo momento solista (“Eh bien! Quoi! Toujours en colère!”). Mai un suono emesso a dovere (in particolare in acuto). Proprio nulla che abbia a che fare con il canto professionale, nemmeno con quello di più modesta fattura. Da “Bagaglino” in serata modesta.

A Venezia…
Dignitosa la Giulietta di Béatrice Uria-Monzon. Tratteggia col giusto trasporto, insieme alla Gubanova, la famosa “Barcarola” in apertura di atto. Al di là di qualche passaggio infelice (intonazione, in particolare), è un buon momento. La scena di Carsen qui è un vero capolavoro, costruita sulla simmetria rovesciata tra palco e platea, che sembra restituire davvero il senso dell’”ivresse”, del godimento scopico che genera a volte la fruizione dell’arte visiva. Sulla scia di questa splendida parentesi, abbiamo sopportato meglio qualche spigolosità e durezza della Uria-Mazon, compensate da un’innegabile compostezza d’esecuzione.

Dal comprimariato emerge soltanto il Nathaniel di Jason Bridges, tenore di consistenza vocale ben superiore alla media cui siamo abituati (a parte qualche problema negli slanci in alto, la voce è a fuoco e ben timbrata, oltre a essere sempre in parte sul versante interpretativo). Il resto...

Tremendo il coro, ma alla Bastille non è certo una novità. Mantiene senza cedimenti una solida base di urla e suoni ingolati, mentre il “Vivat! à la Stella”, nel prologo, è un bercio (nemmeno tanto) all’unisono che rimanda a certe compagnie di allupati molestatori colti in posa laocoontica.

Sarebbe da discreta routine la direzione di Jesús López-Cobos se non fosse per alcune (vedi troppe) pesantezze, in particolare in apertura di ogni atto. Di certo non l’ha aiutato un’orchestra tutt’altro che impeccabile: da denuncia quei piatti, dal suono esangue e maldestro.

Come avrete forse intuito (per chi già non la conoscesse), quella di Robert Carsen è una favolosa messa in scena, strabordante di idee e intelligenza, incentrata sulla metateatralità come elemento guida dello scambio comunicativo tra spettatore ed interprete. Quella a cui abbiamo assistito è stata la 47esima rappresentazione parigina allestita dal regista canadese e l’ultima in questa “tornata” del 2010. Speravamo di poter testimoniare, per una volta, dell’ottimismo evangelico per cui «gli ultimi saranno i primi». Così non è stato.

Carlotta Marchisio


Gli ascolti

Offenbach - Les contes d'Hoffmann


Atto II (Olympia)

C'est moi, Coppélius - Jules Baldous (1928)

Les oiseaux dans la charmille - Frieda Hempel (1913)

Atto III (Antonia)

Elle a fui, la tourterelle - Frances Alda (1912)

Atto IV (Giulietta)

O dieux, de quelle ivresse - Miguel Villabella (1928)

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